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Irma Loredana Galgano

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Archivi Mensili: dicembre 2015

La preparazione degli insegnanti italiani. La verità

30 mercoledì Dic 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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La preparazione degli insegnanti italiani. La verità

Poco si parla e si legge della preparazione degli insegnanti italiani. In verità se ne dovrebbe discorrere molto perché la qualità della formazione scolastica degli alunni di tutte le età dipende direttamente da quella dei loro formatori, ovvero dei docenti.

Con D.M. n. 249/2010 è stato emanato il Regolamento per la formazione degli insegnanti che, secondo ASLI (Associazione per la Storia della Lingua italiana), SIG (Società italiana di Glottologia) e SLI (Società di Linguistica italiana), «propone un percorso complessivamente ben strutturato, ma presenta difetti e vuoti preoccupanti per ciò che concerne la formazione linguistica dei docenti e la loro preparazione per l’insegnamento dell’italiano»; inoltre queste associazioni affermano che «a distanza di ben 4 anni sono state applicate solo le norme transitorie».

Per le associazioni ASLI, SIG e SLI una conoscenza piena e diffusa della lingua madre «non solo è l’unica base possibile per l’apprendimento di altre lingue, ma è soprattutto il pilastro indispensabile per la costruzione di una società democratica e progredita che voglia confrontarsi con il futuro». Avrebbero meritato più attenzione le realtà plurilingui che si vanno creando con lo stabilizzarsi di ampie comunità di immigrati nel nostro Paese ma «lo spazio destinato alla formazione dei docenti per un adeguato insegnamento della lingua italiana e per acquisire gli strumenti necessari ad affrontare nelle classi le sfide delle pluralità idiomatiche è limitato se non del tutto trascurato».

ASLI, SIG e SLI, ritenendo necessario un riesame delle classi di concorso e una revisione del Regolamento per la formazione degli insegnanti, hanno formulato delle proposte in virtù anche del fatto che «si tratta di difetti tanto più gravi quanto più precaria diviene oggi la competenza della lingua nazionale, una situazione più volte denunciata dalle associazioni dei linguisti e da istituzioni come le Accademie della Crusca e deiLincei, che hanno sottolineato i deficit allarmanti degli studenti». Il primo passo da compiere per colmare questi deficit è fuor di dubbio l’accertarsi della corretta preparazione dei docenti.

Dall’indagine PISA dell’OCSE emerge un quadro piuttosto negativo del sistema scolastico italiano, con studenti insoddisfatti e impreparati e docenti concentrati sulle prestazioni e sui voti e totalmente disinteressati al benessere degli studenti. Dati e immagini stridenti rispetto ad esempio all’Indonesia, dove i ragazzi si presentano molto più preparati e molto più contenti. L’OCSE sottolinea come in questo Stato la quasi totalità delle scuole abbia dei presidi che si dichiarano convinti che «il benessere sociale ed emotivo degli studenti sia importante quanto lo sviluppo di competenze specifiche». In Italia, giusto per rendere l’idea, i dirigenti scolastici che sostengono di pensarla allo stesso modo raggiungono a stento il 60% delle scuole, attestandosi agli ultimi posti della graduatoria mondiale. Anche per quanto riguarda la qualità del rapporto tra docenti e alunni il nostro Paese si classifica nelle ultime posizioni, quartultimo. Peggio dell’Italia solo Argentina, Francia e Liechtenstein.

Secondo quanto si legge nel rapporto 2013 Global Teacher Status Index della Varkey Gems Foundation, gli insegnanti italiani hanno poco prestigio, uno stipendio scarso e godono di poco rispetto da parte di studenti e genitori. Occupano basse posizioni anche nella classifica delle retribuzioni, quattordicesimi rispetto ai 21 Paesi considerati nella ricerca. Siamo, insieme alla Finlandia, l’unico Paese dove viene comunque riconosciuta agli insegnanti un’altissima influenza sulla vita scolastica e la formazione in generale. Un’implicita ammissione del ruolo fondamentale che questa categoria professionale ha per la società. È interessante che oltre il 59% degli intervistati abbia affermato che «gli insegnanti debbano essere pagati in base ai risultati ottenuti dai loro studenti».

In un articolo apparso sul «Corriere della Sera» lo scorso 10 settembre, Roger Abravanel racconta della scuola e della riforma dal punto di vista degli alunni e delle famiglie. Roger Abravanel, Luca d’Agnese, Duepuntozero Doxa e il Forum della meritocraziahanno condotto nel mese di agosto 2015 un sondaggio su un campione rappresentativo di 1000 cittadini, studenti e famiglie, indicati come i “clienti” della scuola. Un intervistato su due ha elencato tra i problemi più gravi della scuola italiana l’«adeguatezza degli insegnanti». Per la metà dei docenti invece «i nodi da sciogliere sono precariato e stipendi troppo bassi».

Il 75% degli intervistati chiede più ore scolastiche per dare possibilità di recupero a chi resta indietro, valorizzazione dei più capaci, più sport e arte.Quasi all’unisono viene richiesta più meritocrazia.

  • I voti degli insegnanti rispecchiano poco o nulla la reale preparazione degli studenti (50%).
  • Ogni professore ha il suo metro di giudizio (53%).
  • I professori sono parziali e prevenuti (13%).
  • Valutazione delle scuole in base al progresso educativo e al successo nel mondo del lavoro (50%).

«Dal sondaggio emerge anche una vera sorpresa: con la netta maggioranza di 61 a 39 gli italiani vogliono valutazioni quantitative come i test Invalsi. Secondo loro, il problema è che gli insegnanti non preparano sufficientemente gli studenti per i test e spesso ne falsano gli esiti perché fanno copiare. Di contro, un insegnante su tre li considera “inutili” e uno su quattro addirittura “nocivi”».

La preparazione degli insegnanti italiani. La verità

La Finlandia è uno di quei Paesi che, contrariamente al nostro, figurano spesso nelle prime posizioni delle classifiche internazionali, anche quelle inerenti l’istruzione e la formazione. Un articolo di Maria Raffaella Benvenuto su «Tracciati» può aiutarci a capirne il perché. «Come in altri Paesi europei, anche in Finlandia un insegnante non si improvvisa, ma diventa tale dopo studi approfonditi e un periodo di pratica. In tutto il Paese esistono 12 istituti per la preparazione degli insegnanti di madrelingua finnica e uno per quelli di madrelingua svedese. Tutti questi istituti fanno capo a un’università. Tutti gli istituti per la formazione degli insegnanti sono attivi in programmi di scambio internazionali e nella produzione di materiale per l’insegnamento. In questo momento, grande importanza sta ottenendo il concetto di educazione interculturale e/o multiculturale, e si stanno diffondendo programmi di insegnamento in altre lingue (soprattutto l’inglese)».

In Finlandia non è prevista l’assunzione per concorso bensì quella per competenze, quello che è previsto, invece – e viene fatto – è l’aggiornamento professionale costante degli insegnanti.

Nel rapporto Euridice, la rete di informazione dell’istruzione in Europa pubblicato nel giugno 2008, si legge: «la formazione professionale continua è considerata un obbligo professionale per gli insegnanti in più di 20 Paesi e regioni d’Europa. Ma il concetto di obbligo professionale non implica necessariamente che gli insegnanti siano esplicitamente tenuti a parteciparvi».

In Europa esistono tre ordinamenti riguardo l’aggiornamento professionale degli insegnanti:

  • Obbligatorio.
  • Facoltativo, ma necessario per la promozione.
  • Facoltativo.

In Italia l’aggiornamento professionale per gli insegnanti è facoltativo.

Uno dei punti più criticati del ddl La buona scuola: riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione del governo Renzi, divenuto Legge il 13 Luglio 2015, è stato l’intenzione di voler portare l’orario di lavoro degli insegnanti a 36 ore settimanali. Le obiezioni maggiori hanno riguardato il fatto che venivano in questo modo considerate solo le ore di lezione frontale e non si consideravano quelle spese tra collegi docenti, riunioni e altre attività. Inoltre si recriminava che andavano sommate anche le ore trascorse a casa a preparare le lezioni e correggere i compiti. A questo andrebbe ancora aggiunto il tempo impiegato per la partecipazione ai corsi di aggiornamento professionale e si raggiungerebbe quella che è la soglia media di monte ore lavorative di un qualsiasi professionista.

Nel Working Paper n. 23 della Fondazione Giovanni Agnelli sono riportati gli esiti di una ricerca interregionale condotta da Laura Gianferrari e dall’Ufficio Scolastico Regionale Emilia Romagna atta a valutare il profilo professionale e le competenze dei docenti neoassunti nell’a.s. 2008/09. «La realizzazione di un’indagine rivolta ai docenti neoassunti è stata pensata come uno strumento capace di fornire informazioni sul modo in cui gli insegnanti vivono la professione e percepiscono il loro ruolo, nonché sulle criticità della scuola così come sono avvertite da chi quotidianamente la vive». L’indagine ha interessato 16.000 neoassunti di otto regioni (Piemonte,Emilia-Romagna, Puglia, Lombardia, Veneto, Liguria, Marche, Campania).

Il profilo-tipo del docente neoassunto sembra essere questo: donna, quarantenne e con una decina di anni di precariato alle spalle. «L’insegnamento come professione femminile è un fenomeno che riceve una netta conferma dalla presenza dell’85,7% di donne tra i neoassunti 2009, a fronte dell’esiguo 14,3% di presenze maschili». L’età dei neoassunti si dispiega secondo un ventaglio generazionale molto ampio, che si estende dai 24 ai 66 anni. «Si tratta di un dato particolarmente inquietante, che evidenzia una patologia del sistema, in quanto non può considerarsi “normale” che l’ingresso stabile nella professione avvenga in quella fase della vita in cui solitamente si abbandona il mondo lavorativo per raggiunti limiti di età». L’età media dei neoassunti dell’anno scolastico 2008/09 nelle regioni interessate dalla ricerca e presumibilmente anche nelle altre è 40,25 anni. Solo il 2,5% dei neoassunti ha meno di 30 anni, mentre l’1,2% è già in età pensionabile (oltre i sessant’anni).

La preparazione degli insegnanti italiani. La verità

«In Italia è prevalsa fino ad oggi una sorta di impotenza ad assumere un preciso modello di formazione iniziale degli insegnanti e ad adottare un sistema di reclutamento coerente con esso. Anziché compiere scelte di politica scolastica che individuassero con chiarezza quale insegnante serve per la qualità del nostro sistema d’istruzione e dunque come formarlo e come reclutarlo, si è seguita una logica di sanatorie permanenti, che si è concretizzata in un modello di reclutamento basato per lo più sullo “scorrimento” di graduatorie solo parzialmente aggiornate. Si è così in buona parte vanificato, di fatto, ciò che le norme sulla formazione iniziale dei docenti prevedono: si è continuato ad assumere nella scuola, in un regime transitorio che si è protratto fino a diventare ordinario,personale non in possesso dei requisiti previsti dalle disposizioni generali pure in vigore».

Nonostante le norme di legge prevedano una formazione universitaria per tutti i docenti, il 40,7% dei neoassunti ne è privo. I docenti di sostegno sono il gruppo che maggiormente ha compiuto studi universitari, con una differenza, rispetto ai colleghi su posto comune, di ben 10 punti percentuali. Tale differenza aumenta ulteriormente nel confronto con i docenti di religione, tra cui la preparazione universitaria è ancora meno diffusa. Analizzando la distribuzione delle lauree per ambiti disciplinari, è evidente un forte sbilanciamento verso l’area umanistica: il 42,1% dei neoassunti laureati ha una laurea letterario-storico-filosofica; la laurea in matematica è posseduta dal 4%. Il numero dei neoassunti che insegna matematica è nettamente superiore a quello dei laureati in matematica. «Ovviamente, è il meccanismo delle cattedre e dei requisiti per l’accesso a esse che consente questo fenomeno, ma i risultati degli studenti italiani in matematica, sia in termini di esiti nelle indagini internazionali sia di valutazioni finali della scuola stessa, dovrebbero aver evidenziato che l’insegnamento di questa disciplina è una delle emergenze della nostra scuola, e la preparazione dei docenti di matematica è certamente uno dei fattori che incide sull’insufficiente preparazione degli studenti».

Solo il 31,2% dei neoassunti dichiara un livello di conoscenza della lingua inglese buono/elevato, quasi la metà (46,8%) afferma di averne una conoscenza a livello scolastico o nessuna conoscenza.

Riguardo l’alfabetizzazione informatica invece le competenze variano secondo l’ordine di scuola:

  • Scuola dell’infanzia: oltre il 40% non ha consuetudine con strumenti informatici di base come la posta elettronica o la videoscrittura e un 20% non frequenta abitualmente la navigazione in Internet.
  • Scuola primaria: il 30% non utilizza abitualmente la posta elettronica e oltre il 20% la videoscrittura, mentre la navigazione in Internet è poco praticata dal 13%.
  • Scuola secondaria: i neoassunti a questo livello hanno in genere una conoscenza più alta, pur permanendo una quota del 15% che non ha un utilizzo esperto del mezzo.

«Sono esiti che evidenziano complessivamente una certa carenza nella preparazione generale dei neoassunti, specie nel primo ciclo di istruzione, in quanto la mancata padronanza degli strumenti informatici non è solo un fatto tecnico, ma rimanda a una deficitaria “cultura informatica”, di cui invece un insegnante oggi non può fare a meno, per le implicazioni che essa ha nell’approccio alla cultura odierna e al mondo giovanile».

In generale i neoassunti si dichiarano competenti nella disciplina insegnata ma considerano insufficiente la propria preparazione in tutte le altre competenze richieste a un insegnante. Gli intervistati che hanno conseguito il diploma SSISmostrano una relativa maggiore soddisfazione per la propria preparazione.

La preparazione degli insegnanti italiani. La verità

Ci sono difficoltà dello stare in classe che accomunano i docenti di tutti gli ordini di scuola:

  • Promuovere la motivazione all’apprendere.
  • Mantenere la disciplina in classe.
  • Ottenere dagli studenti risultati soddisfacenti di apprendimento.

«Sono dati pesanti, che non possono lasciare indifferenti, poiché segnalano uno stato di difficile governo delle classi e dell’apprendimento, che sicuramente non facilita la qualità degli esiti scolastici».

Le mutazioni sociali e tecnologiche hanno modificato e ampliato anche le responsabilità dei docenti. La nuova figura dell’insegnante deve essere preparata per:

  • Gestire al meglio i processi di apprendimento anche in classi sempre più disomogenee e multiculturali.
  • Essere in grado di padroneggiare le potenzialità didattiche delle tecnologie digitali.
  • Saper partecipare allo sviluppo della scuola in quanto comunità educativa.
  • Avere capacità di stabilire rapporti di comunicazione e collaborazione efficaci con le famiglie e legami con la collettività locale.

«Il saper insegnare, oggi, richiede dunque competenze plurime: tale consapevolezza non è sufficientemente diffusa tra i neoassunti, specie nella secondaria. Prevale l’idea che un docente sia qualificato quando conosce la propria materia e lo sviluppo cognitivo e relazionale degli alunni. Più sfumata la percezione che altre capacità e altre dimensioni dell’insegnare contribuiscono all’efficacia dell’azione del docente».

Édouard Séguin già nel 1831 aveva dimostrato che «l’idiota non è incapace di imparare ma soltanto incapace di seguire i metodi normali di istruzione». Sono questi, i metodi, che troppo spesso si rivelano inadatti e inefficaci. Quando si leggono statistiche e dati che dimostrano l’impreparazione degli alunni italiani in generale e al confronto con i coetanei stranieri non bisogna additarli come rei ma considerarli vittime. Vittime di un sistema errato che usa metodi sbagliati portati avanti da persone a loro volta impreparate. Questa è la verità sulla preparazione degli insegnanti italiani.

http://www.sulromanzo.it/blog/la-preparazione-degli-insegnanti-italiani-la-verita

© 2015, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La minaccia islamica, tra Isis e Iran. Intervista a Fiamma Nirestein

29 martedì Dic 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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La minaccia islamica, tra Isis e Iran. Intervista a Fiamma Nirenstein

A ottobre è uscito per Mondadori Il Califfo e l’Ayatollah di Fiamma Nirenstein, un libro che osserva «quello che abbiamo di fronte con gli occhiali dell’analisi e non con quelli dell’illusione» per cercare di capire cosa in realtà sia il terrorismo internazionale.

Il terrorismo si presenta agli occhi degli occidentali come un enigma, una sfinge, al punto che siamo stati persino «incapaci di darne una definizione sancita dall’Onu tanto alligna in noi l’incertezza sia sulla sua ragionevolezza sia su come combatterlo». Una situazione, quella medio-orientale, complessa e di difficile interpretazione per cui facilmente si cade nell’inganno del fraintendimento, come nel caso delle rivolte della Primavera araba, le quali mostrarono molti segnali della loro vera natura «che noi abbiamo ignorato del tutto nel nostro infinito egocentrismo».

Eppure sarà proprio da uno scenario tanto tragico quanto lo scontro fra sunniti e sciiti «che può nascere la speranza di una nuova stabilità». È questo il messaggio che vuol lanciare Fiamma Nirenstein con il suo libro, scritto per dimostrare che gli errori occidentali (sfruttamento, opportunismo legato al mercato petrolifero, colonialismo) comunque non legittimano il terrorismo né tantomeno ne sono la causa. Ne abbiamo parlato nell’intervista che, gentilmente, ci ha concesso.

La minaccia islamica, tra Isis e Iran. Intervista a Fiamma Nirenstein

L’immagine che più colpisce all’interno del suo libro è quella dell’Occidente accerchiato da una tenaglia a due ganasce: l’ISIS sunnita e la Repubblica Islamica Iraniana di stampo sciita, entrambe accomunate però da un’aspirazione universalistica in nome dell’Islam. Al di là delle divergenze teologiche, cosa li accomuna?

Li accomuna il progetto di conquista del mondo intero e la volontà di convertirlo alla loro dottrina, l’Islam, anche se uno è sunnita e l’altro sciita.

Li accomuna poi la maniera con cui cercano di portare a compimento il progetto. L’assoluta mancanza di rispetto per i diritti umani che, come descrivo nel libro, si riscontra nelle azioni dell’Isis ma anche nella Repubblica Islamica Iraniana dove vige la shari’a.

Le azioni dell’Isis sono più visibili e più terrificanti ai nostri occhi ma la situazione è da film dell’orrore anche in tutto il mondo iraniano.

Entrambi inoltre hanno ambizioni imperialistiche. L’Iran ormai controlla il Libano, parte della Siria tramite l’assistenza ad al-Assad con l’aiuto degli Hezbollah, lo Yemen, l’Iraq… la sua aspirazione possiamo convenire che sia diventata, almeno in parte, una realtà. Mentre l’Isis ha fondato lo Stato Islamico che comprende una parte della Siria e una dell’Iraq, che tende a espandersi.

L’Isis lo fa in maniera più evidente, dichiarando di voler combattere contro l’Occidente e sottometterlo ai capi e all’ideologia islamista.

È lecito pensare a una futura alleanza tra Isis e Iran o almeno a un accordo, oppure prevarranno la controversia religiosa e l’impossibilità della convivenza tra due universalismi islamici che hanno la loro base in Medio Oriente?

Il terrorismo ha consentito già molte alleanze ai danni dell’Occidente. Basti pensare che si dice che Osama Bin-Laden, sunnita e fondatore di Al-Qaeda, si è nascosto a Teheran per un periodo. Hamas, sunnita, si è appoggiata per molto tempo all’Iran e parte dei suoi capi vivevano a Damasco.

Gli esempi da poter fare sono molti… Ora l’elemento guerra è più forte tra sunniti e sciiti perché c’è il campo di battaglia siriano che spinge in questa direzione. Ma sì, è relativamente realistico pensare a possibili alleanze.

La minaccia islamica, tra Isis e Iran. Intervista a Fiamma Nirenstein

Restiamo un attimo in Medio Oriente. Nell’epigrafe del libro, ringraziando Bernard Lewis, lei afferma che occorrono coraggio e sapienza per comprenderlo. Perché?

È evidente nell’odio irragionevole che caratterizza una parte dell’opinione pubblica, anche occidentale, nei confronti di Israele. Molto spesso si cercano delle scappatoie, la mente rifugge dal vedere le cose come stanno veramente. Inoltre ci vuole molto anticonformismo e tanto buonsenso, come quello che ci ha insegnato il professor Lewis, per non indulgere in fantasie che vedono l’Occidente colpevole e responsabile di chissà cosa nei confronti del Medio Oriente. Ciò non fa che allontanarci dalla comprensione della realtà, la quale è comunque molto complessa e di ardua interpretazione.

Troppe ancora sono le immagini stereotipate. Pensiamo alla figura di Yasser Arafat, da molti visto come un eroe che si è battuto per la libertà del popolo palestinese quando in realtà non è che l’inventore del terrorismo internazionale.

Troppe le cose che in fondo si finge di non capire, come il fraintendimento della Rivoluzione Islamica Iraniana considerata una rivoluzione sociale dovuta alle terribili condizioni in cui era stato ridotto l’Iran. Nessuno era in grado di leggere i testi di Khomeini, in cui si spiegava chiaramente quale era il disegno perseguito, ovvero la creazione di uno Stato Islamico Integralista. Soltanto Bernard Lewis, che conosceva il persiano e che aveva letto quei testi, sapeva con precisione cosa stava accadendo.

Occorrono conoscenza, pazienza, capacità di discernimento, intento e buona volontà per sbrogliare la Storia dai nostri pregiudizi.

«Il Medio Oriente e l’Africa si prendono la loro vendetta per essere stati tanto incompresi». Si tratta solo d’incomprensione o è anche il frutto di politiche occidentali non proprio attente alle conseguenze?

Certamente ci sono state delle politiche occidentali di sfruttamento, di opportunismo legato al mercato petrolifero, di colonialismo… guai a dimenticarsene. Ma ciò di certo non legittima il terrorismo.

L’intento del mio libro è proprio dimostrare questo, cercare di spiegare i motivi di quanto accaduto a Parigi, attentati non legati al fatto che l’Occidente è o è stato colonialista, bensì motivati dall’intento imperialista che il terrorismo nutre a sua volta. E non sono animati né da ragioni sociali né da ragioni storiche, solo da una spinta ideologica. I terroristi sono mossi da una volontà religiosa di dominio.

In Israele accade la stessa cosa. Il terrorismo che c’è nello Stato non ha nulla a che vedere con lo scontro territoriale, altrimenti si sarebbe già giunti a un accordo. Una proposta che prevede due Stati per due popoli fatta decine di volte, a cui io personalmente sono favorevole. Ma gli estremisti hanno un’altra idea, ovvero che Israele deve appartenere solo alla umma musulmana e che gli ebrei se ne devono andare.

Cosa significa oggi per il Medio Oriente trovarsi in balia dell’Isis e della minaccia atomica dell’Iran? Si tratta davvero di un conflitto interno al mondo mediorientale, come ritengono alcuni, oppure l’intervento dell’Occidente è ineludibile e necessario?

L’Occidente non deve combattere solo per intervenire nello scontro tra sunniti e sciiti, ora più evidente che mai, ma deve farlo soprattutto per difendersi.

Siccome il disegno di entrambe le fazioni è imperialista e il mezzo che hanno deciso di impiegare è il terrorismo, è chiaro che noi o restiamo vittime del terrorismo oppure dobbiamo difenderci. Se ciò si tradurrà poi nello andare boots on the ground, come si dice “con gli stivali sul terreno”,o meno è solo una questione tattica non strategica. Una cosa è certa: c’è da combattere e da difendersi.

Si tratta di fare una guerra difensiva, di necessità, senza alcun carattere imperialista. Noi occidentali, siccome abbiamo avuto le terribili esperienze delle guerre mondiali, siamo molto restii a questo, giustamente. Rimane sempre un dubbio, un sospetto sulle intenzioni… la paura del riaffacciarsi delle guerre di conquista. Ma ora non si tratta di questo.

Il mondo è punteggiato, in maniera sempre più virulenta, da attentati terroristici che ormai coprono tutta la carta geografica e l’intenzione viene dichiarata continuamente dall’Isis. Da parte dell’Iran è meno esplicita ma tutti gli studi e tutta l’esperienza confermano la minaccia.

La minaccia islamica, tra Isis e Iran. Intervista a Fiamma Nirenstein

Banche, pozzi petroliferi, finanziatori stranieri, acquisto di armi dall’Occidente, una casa di produzione (Al-Itisaam establishment for the Media Production), una casa cinematografica (Al-Hayat Media Center) e una società di comunicazione (Al-Furqan): più che un gruppo terroristico, l’Isis sembra una holding della guerra santa. Le sembra esagerata una tale lettura?

No, lei dice benissimo. Le cifre di cui l’Isis gode, per finanziare il proprio progetto, sono enormi. Centinaia di migliaia di dollari di budget. Questa è infatti una grande differenza rispetto ad altre organizzazioni, quali Hamas. L’Isis non dipende da donazioni, ha dato vita a un sistema di guadagno che va dalle rapine alle richieste di riscatto, al commercio di opere d’arte, occupa territori dove ci sono pozzi petroliferi importanti e vende petrolio.

In Iran, d’altra parte, proprio mentre noi parliamo cadono le sanzioni, daranno al Paese centinaia di migliaia di dollari e non abbiamo alcuna garanzia che tutto questo denaro non venga poi impiegato per progetti antagonisti innanzitutto a Stati Uniti e Israele, indicati come il grande e il piccolo Satana. Definizione mai smentita, anzi più volte ribadita da Khamenei sia durante che al termine dellaTrattativa 5+1.

Inoltre una Commissione apposita istituita dagli americani, di cui sono stati pubblicati i risultati pochi giorni fa, ci dimostra che tutte le condizioni dell’Accordo ancora non sono state poste in essere. L’Iran doveva mantenere solo 3000 centrifughe di vecchia costruzione e invece ha ancora centrali di ultima generazione che in breve possono produrre uranio arricchito necessario per una bomba, non ha ancora liquidato le sue riverse di uranio, non ha distrutto le fabbriche di plutonio arricchito… e l’elenco è ancora lungo, lo si trova facilmente anche nel mio libro.

Lei sostiene che dobbiamo guardare all’Isis «come all’affacciarsi su di noi di un’apocalisse in senso tecnico», con gli attentati che rispondono a una strategia ben precisa che lega insieme terrorismo e propaganda. Insomma, una guerra vera e propria?

Sì, la si può considerare una guerra non convenzionale vera e propria. C’è un uso spietato dei civili, l’impiego dei mezzi di comunicazione di massa contemporanei, come i social network, sia per diffondere informazioni che per trovare adesioni.

Purtroppo funziona. Basti guardare ai giovani foreign fighter che scelgono di arruolarsi tra le loro fila, non per motivi sociali, molti di loro hanno studiato, hanno famiglie che li amano, hanno un lavoro… sono mobilitati, vittime di malattie ideologiche esattamente come noi occidentali lo siamo stati nel secolo scorso, pensiamo al Nazismo, al Comunismo…

Dobbiamo ammettere di trovarci di fronte a una malattia ideologica e affrontarla come tale, oltre che con le armi, altrimenti non riusciremo a vincere.

Un esempio molto importante è quello palestinese. Si parla sempre della loro volontà di creare un proprio Stato, se ciò fosse vero l’avrebbero fatto da tempo. Tante volte gli è stata offerta questa possibilità. Ciò che li spinge, come si vede anche durante l’ultimaIntifada definita dei coltelli, è un’incredibile macchina della propaganda. Consiglio di visionare il materiale che si trova sul sito Palestinian Media Watch per vedere tutto quello che viene trasmesso dai media palestinesi, altrimenti non si comprende questa macchina dell’odio che spinge tanti giovani ad accoltellare, a investire con le automobili…

La minaccia islamica, tra Isis e Iran. Intervista a Fiamma Nirenstein

Nel suo libro, c’è un’altra immagine che colpisce molto, quando paragona la paura del Vecchio Continente a quella «avvertita quando l’immortale Impero romano ha cominciato a sgretolarsi». Fino a che punto possiamo parlare di sgretolamento del Vecchio Continente?

Possiamo far cominciare lo sgretolamento del Vecchio Continente, ma in realtà di tutto l’Occidente, da quando l’Onu ha cambiato completamente la sua natura.

All’interno delle Organizzazioni Unite si sono formate delle maggioranze legate prima all’Unione Sovietica, quella dei Paesi denominati “non allineati” e dei Paesi arabi e musulmani in generale, che hanno completamente rovesciato l’idea originaria dell’Onu. Nata in seguito agli orrori della seconda guerra mondiale avrebbe dovuto combattere per la difesa della libertà, per la promozione dei deboli e delle donne, per l’uguaglianza dei cittadini e per la diffusione di tutte le idee, indipendentemente da chi appartenessero. È accaduto l’esatto contrario. Tutti i nostri valori sono stati minati da un’organizzazione internazionale che ha cominciato palesemente a combatterli.

Da presenza compatta e morale in difesa della libertà e della democrazia siamo diventati una comunità incerta e impaurita, con un fortissimo senso di colpa legato al continuo fraintendimento e stravolgimento delle proprie idee da parte avversa.

http://www.sulromanzo.it/blog/la-minaccia-islamica-tra-isis-e-iran-intervista-a-fiamma-nirenstein

© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Noi ancora una volta” Intervista a Marie Therese Taylor

22 martedì Dic 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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NONA TAPPA INTERVISTA ALL’AUTRICE

Parlando di  “Un insolito Natale in Australia” avevo accennato a un altro che lo aveva preceduto, “Noi ancora una volta”. Questo libro era stato presentato solo in formato digitale, adesso viene proposto anche in cartaceo.

È la storia di cinque amiche che si ritrovano tutti gli anni, lo stesso giorno, alla stazione Termini, al Caffè Trombetta, sino a quando, all’ennesimo appuntamento, se ne presenta una in meno, Margherita, la quale si trova in coma in ospedale. Le altre, cercano di aiutarla a venirne fuori, facendole sentire musica e storie a lei familiari. Un po’ come nel Decameron una delle ex ragazze detta il tema della giornata, tema che le altre dovranno riempire con i loro ricordi e con le musiche che copriranno gli spazi notturni. I ricordi di cinque donne che hanno passato la cinquantina e hanno trascorso i loro anni di fulgore in maniera effervescente. Ognuna di loro allora decide di prendere in mano il proprio destino e di accettarlo o di cambiarlo, con quella caratteristica forza che ogni donna possiede. Raccontando queste storie, le donne fanno anche una riflessione sulla propria vita, su quello che hanno ottenuto e su quello che sono diventate.

Un’occasione per parlarne e per scoprire qualcosa di più della misteriosa autrice, Marie Therese Taylor.

Qual è la genesi dei volumi?

Gli scrittori sono sempre forti lettori, dato l’attuale boom del libro erotico ho deciso di rileggere uno dei più grandi scrittori del genere di tutti i tempi, quel Boccaccio dal cui nome per secoli è derivato il genere boccaccesco. Volendo definire questo genere lo chiamerei erotico ironico, dove è il sorriso a farla da padrone.

Perché proprio il Decameron?

Rileggendo quel testo ho scoperto che ben sette dei dieci narratori erano donne. Donne capaci di affrontare temi pruriginosi ma anche di prendersi gioco con affetto dell’umanità intera. Perciò ho deciso di trasporre ai giorni nostri la vicenda, lì sfuggivano dalla peste qui dal coma. È sempre l’incombere di una morte annunciata che rende più piacevole i momenti che si stanno vivendo.

Sì ma tu parli di tradimenti, di corna non mi sembra molto allegro

Ma c’è sempre una profonda ironia e le donne escono sempre vincenti, anche quando sembra essere tutto perduto loro si salvano, grazie all’amicizia.

Marie Therese Taylor è lo pseudonimo di Alessandra Oddi Baglioni, donna in vista e manager di successo. L’uso di uno pseudonimo, almeno inizialmente, è stato dettato dalla necessità o dalla volontà di celare la sua vera identità?

No per niente. Alessandra Oddi Baglioni scrive romanzi storici dopo accurate ricerche e studi bibliografici, Marie Therese Taylor scrive più di sentimenti e racconta storie di donne come lei. Sono due facce della stessa persona. Diciamo che come Marie Therese mi permetto di svelare maggiori fatti intimi di persone che se sapessero il mio vero nome sarebbero più facilmente riconoscibili.

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Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

10 giovedì Dic 2015

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Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

È innegabile che, dopo la strage al Bataclan, siamo scesi in guerra.

Ma chi è il nostro nemico? Qual è il suo scopo? E quello di chi lo combatte? Come si vince la guerra contro il terrorismo? Quali sono i principali errori commessi dall’Occidente? Domande che è opportuno porsi e risposte che potrebbero anche lasciare increduli o irritare ma che è giusto conoscere.

Terrore e idiozia. Tutti i nostri errori contro il terrorismo islamista esce domani, 11 dicembre, per Mondadori, scritto a quattro mani da Franco Cardini, docente di Storia Medievale alla Scuola Normale di Pisa, saggista e studioso dei rapporti tra il mondo cristiano euromediterraneo e l’Islam, e da Marina Montesano, docente di Storia Medievale all’Università di Messina, studiosa di storia della cultura medievale e dei contatti tra Oriente e Occidente letti attraverso le fonti della storia delle crociate e del pellegrinaggio.

Poche settimane di lavoro sono bastate a Franco Cardini e Marina Montesano per raccogliere e riunire per iscritto tutti gli errori commessi e le idiozie pensate o dette riguardo quanto sta accadendo e rischia di trascinare tutti nell’ennesima carneficina voluta dagli uomini per “salvare il mondo (occidentale) e condurlo alla pace”.

Proprio di tali errori abbiamo parlato con Franco Cardini, in quest’intervista rilasciata in anteprima a Sul Romanzo, pochi giorni prima dell’uscita di Terrore e idiozia. Tutti i nostri errori contro il terrorismo islamista.

Fin dal titolo, una presa di posizione molto netta. Quali sono le idiozie e gli errori più comuni e pericolosi che l’Occidente sta commettendo nei confronti del terrorismo islamista?

Ve ne sono di più tipi. C’è quella dei politici e dei capi di Stato ad esempio, che in linea di massima fingono di non capire, o non capiscono, che siamo davanti a un movimento politico, che è quello jihadista, che non ha nulla di religioso a parte qualche slogan, che vuole l’unione di tutti i musulmani per combattere l’Occidente.

Ci troviamo dinanzi a un postulato ideologico che sembra fatto apposta per attaccare un ambiente che si sta proletarizzando. L’Islam conta un miliardo e seicento milioni di persone, la maggior parte delle quali appartiene a ceti sociali bassi, sia culturalmente sia economicamente, ma che comunque guardano allo sviluppo europeo. Che hanno presente, seppur in modo molto schematico, le ragioni per cui il mondo occidentale è diventato ricco e si è diffuso con la sua potenza, non soltanto per la forza delle sue invenzioni e delle sue scoperte, ma anche per il sistema coloniale, che è stato un sistema di sfruttamento.

Difronte a questa realtà non si può reagire combattendola come fosse uno sbocco di violenza irrazionale, non si riuscirà a vincere con gli aerei, con i droni o con le truppe di terra.

Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

Perché secondo lei si continuano a impiegare questi metodi indicandoli come risolutivi?

Le potenze occidentali e anche il mondo musulmano alleato delle prime, soprattutto le monarchie del golfo Persico e della penisola arabica, non riescono a mettersi d’accordo. Questo sarebbe già un elemento di stupidità se non venisse anche il sospetto, e nel libro si parla pure di questo, che in realtà non si combatte questo nemico perché tutto sommato non è tale ma fa comodo a qualcuno.

Da un lato c’è la difficoltà dei politici, il loro impantanarsi in dichiarazioni di guerra totale al fenomeno jihadista, che appaiono molto ferme ma non lo sono affatto. Ricordiamo che la coalizione contro il cosiddetto Stato Islamico non è invenzione recente, non è nata dopo l’attentato di Parigi del 13 novembre, è in piedi da un anno e mezzo.

Così una coalizione composta dalle principali potenze occidentali, inclusi noi anche se siamo il fanalino di coda, dai Paesi arabi-musulmani (Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Egitto…), compresi Paesi musulmani che non sono arabi, come la Turchia, non ha fatto niente se non impantanarsi in questioni particolari come il caso della Siria.

Cos’è successo in realtà in Siria?

Intorno alla questione siriana è sorta una ferocissima polemica soprattutto in merito al fatto che il presidente Assad resti in carica o si ritiri. Quanto accaduto è dovuto alla grave mancanza di previdenza e intelligenza dei politici… Assad aveva proposto da tempo una riforma costituzionale in Siria che avrebbe portato alle elezioni sulla base di un pluripartitismo. Ebbene la sua proposta non è stata accettata, le potenze occidentali l’hanno ritenuta strumentale e demagogica, quando in realtà sarebbe stato un modo per pacificare, almeno temporaneamente, il Paese e andare a libere elezioni. Ora la Siria è inquinata da forze jihadiste aderenti all’ISIS che hanno in pratica fagocitato tutte le altre formazioni anti-Assad.

Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

Qual è stato il ruolo, se ne hanno avuto uno, dei media internazionali?

I media continuano a non informarci correttamente, parlando un linguaggio per un verso allarmistico e per un altro molto generico. Lasciano intendere che tutto l’Islam è pericoloso, il che non ha il minimo fondamento.

Nel mondo islamico ci sono continue lotte: quelle tra i gruppi religiosi, gli sciiti e i sunniti, e poi tra Stati musulmani, che spesso non si limitano all’aspetto politico diventando veri e propri scontri militari.

I nostri mass media continuano a non informarci di tutto ciò, mostrando invece una sorta di colata lavica che sta avanzando e che può travolgere l’Occidente. Sembra tutto studiato per generare in noi apprensione, disorientamento, per indurci ad azioni inconsulte. E a ben riflettere ciò è proprio quello che vogliono le centrali terroristiche. Se ci lasciamo terrorizzare facciamo il loro gioco. Non capire una cosa così semplice è da idioti.

In quest’ottica, come valuta la reazione del governo francese ai recenti attentati che hanno colpito Parigi?

Lascia senza parole la reazione inconsulta del presidente Hollande. Se ne capisce purtroppo la logica politica ma questa è un’aggravante.

Non si reagisce a una cosa grave come quelle accaduta in territorio francese, fatta da cittadini francesi o belgi che tali restano anche se di fede musulmana, con un’azione unilaterale di bombardamento indiscriminato su un centro urbano, anche se poi hanno sostenuto di aver ucciso solo terroristi, non si capisce bene sulla base di quali fonti o risultanze.

Bombardando un centro urbano non si uccidono solo militari (i terroristi si comportano come tali) ma anche la popolazione civile. Ora noi non siamo in guerra con Raqqa, una città che dipende formalmente dal governo iracheno, un Paese alleato, amico. Noi italiani stiamo addestrando l’esercito e la polizia iracheni. Raqqa è occupata dalle forze dello Stato Islamico, tenuta in ostaggio da una banda di briganti, e non si possono bombardare dei civili che oltretutto sono già delle vittime.

Hollande è presidente di un Paese, la Francia, che fa parte dell’ONU e dell’Unione europea e non può procedere unilateralmente solo sulla base di un bisogno di fare una rappresaglia che, se proprio la vogliamo chiamare col suo nome, è una vendetta, consumata però ai danni di persone del tutto innocenti rispetto a quello che è successo a Parigi.

Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

Quali saranno le dirette conseguenze di queste azioni?

Regalare simpatie al Califfo. Mettiamoci nei panni di una persona a cui sono stati ammazzati dei famigliari a causa dei bombardamenti fatti dall’aviazione di un Paese che sostiene di essere nemico dello Stato Islamico. Le simpatie dei superstiti penderanno sempre più per il Califfo, e ciò è proprio quello che lui vuole.

Prima ha parlato delle influenze della disinformazione. Queste, unitamente alle azioni dei governi, quanto vanno a incidere sull’opinione pubblica?

Non si può spargere disordine, paura indiscriminata, apprensione. È un’idiozia. Equivale a fare il gioco dei terroristi.

Gli operai musulmani picchiati, le facciate delle moschee sporcate con sangue di maiale, le famiglie che rivendicano la tradizione del presepe in odio ai bambini musulmani… Io sono invecchiato sentendo la storia, che annualmente si ripete, di qualche famiglia che protesta per il presepe nella scuola, ma a ben guardare è sempre stato uno scontro tra italiani, i musulmani non hanno mai detto nulla in proposito.

L’Islam considera Gesù un grande profeta e ha una forte venerazione per la Madonna. I musulmani non hanno alcun preconcetto, sono alcuni italiani che portano avanti campagne per una scuola laica o, per contro, azioni motivate dall’intenzione di ferire l’altro che deve essere un nemico per principio.

Come si combatte il terrorismo?

Senza dubbio c’è un pericolo ma, da che mondo è mondo, il terrorismo non lo si batte con i bombardamenti. Lo si fa con l’intelligence, con l’infiltrazione, individuando i centri terroristici, distruggendo alle radici le ragioni per cui qualcuno potrebbe decidere di andare a fare il terrorista.

Ci sono ragazzi che vanno a fare i soldati col Califfo che sono stati allevati da noi, con i nostri valori… sono drogati, spaesati, marginalizzati, si può dire tutto ma bisogna pur chiedersi perché a un certo punto la nostra società li delude talmente da spingerli a unirsi a una banda di tagliatori di teste.

Il Califfo è un nemico che si riuscirà a sconfiggere?

Si riuscirà a batterlo. Insomma il Califfo ha una cinquantina di migliaia di persone al suo seguito, non di più. Certo sono ben armati, sono ben addestrati e bisogna interrogarsi su chi gli dà i soldi per finanziarsi.

Una delle ragioni per cui i turchi hanno abbattuto l’aereo russo sembra riconducibile al fatto che la Russia fosse sul punto di bombardare un convoglio di petrolio pompato dal Califfo che si stava dirigendo verso la Turchia.

In una situazione internazionale come la nostra, nella quale ogni cosa è costantemente monitorata, tutti i movimenti di conti, anche di importo non particolarmente rilevante, sono controllati, ebbene in questo sistema dovremmo credere al racconto che non si riesce a individuare la fonte finanziaria alla quale attinge il Califfo?

Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

C’è chi teme che nei prossimi decenni vi sarà una lenta e inesorabile islamizzazione del continente europeo. Che cosa ne pensa e cosa direbbe ai sostenitori di questa ipotesi?

Noi cristiani d’Europa, pur non avendo una forte identità religiosa, siamo cinquecento milioni di persone abbastanza ricche nel complesso, o comunque in rapporto alla media islamica. I musulmani che per il momento sono tra noi, considerando quelli che arrivano e quelli che si convertono, ammontano circa a una decina di milioni di persone in tutta Europa. Quelli che paventano queste teorie qualche calcolo lo hanno mai fatto?

Inoltre bisognerebbe chiedersi: con quali strumenti ci convertirebbero? Io vedo le moschee che sono molto modeste, spesso non gliele facciamo neanche aprire. I loro giornali sono altrettanto modesti. Non hanno un’università…

Capirei che qualcuno avesse paura di essere colonizzato dai protestanti, che hanno moltissimi mezzi. Dagli ebrei, che sono pochi ma hanno molti mezzi e sono molto colti. Io non ho mai visto alcun accenno di colonizzazione da parte degli islamici.

Ritornando alla Turchia, lei ritiene possa essere visto come un Paese-ponte fra Occidente e Oriente oppure un tentativo mal riuscito di integrazione di un territorio di pace fra Cristianesimo e Islam?

La Turchia è un Paese che si è fortemente occidentalizzato, anche in maniera autoritaria. Già nell’Ottocento scelte fatte da sultani andavano in questa direzione, poi c’è stata una grande rivoluzione europeizzatrice condotta da Mustafa Kemal Atatürk.

In questo momento c’è una situazione di reflusso e anche di simpatie islamistiche, per un verso di volontà di riforma nei confronti delle tradizioni musulmane e per l’altro proprio di inclinazioni a favore dello Stato Islamico.

Erdogan, che certo non nutre simpatia verso l’IS, è un politico che ha ricevuto vantaggi dal cauto ritorno a una condizione nella quale la fede islamica ha più peso rispetto al passato. In questo momento, non ha più tanto interesse a entrare in Europa come un tempo. Le sue richieste furono bocciate e gli fu addirittura chiesto di condurre delle prove di lealismo verso l’Europa. Noi abbiamo abolito la pena di morte mentre in Turchia ancora c’è, però l’UE si sente parte dell’Occidente e noi sappiamo che Paesi occidentali mantengono la pena di morte, gli Stati Uniti d’America, per esempio, dove viene applicata piuttosto spesso. Per cui si poteva anche venire incontro a questo processo di europeizzazione della Turchia, che era sincero. Non lo è altrettanto adesso, perché il clima è cambiato.

Erdogan ora ha altre possibilità: ha davanti a sé il mondo musulmano in crescita, è diventato, insieme ad altri Stati quali l’Egitto e l’Arabia Saudita, uno dei principali Paesi musulmani sunniti del mondo, ha davanti a sé anche la possibilità di attrarre Paesi musulmani sunniti del centro dell’Asia che hanno una forte componente etnica turca. Azerbaijan, Turkmenistan, Uzbekistan, Kyrgyzstan… grandi produttori di petrolio e di materie prime, verso i quali Erdogan sta facendo una politica di fratellanza etnica volta alla creazione di un potenziale mercato comune. Ovvio poi che ciò lo mette in rotta di collisione con la Russia, ma questi due Paesi sono geo-politicamente destinati a essere nemici.

In questa fase, a Erdogan l’Europa sta stretta, magari è interessato a rimanere nella NATO che attualmente è un’organizzazione paralizzata da una buona dose di ambiguità nei confronti dello Stato Islamico.

La Francia tende a risolvere principalmente la questione siriana eliminando Assad, altri Paesi NATO non sono dello stesso avviso, molti Stati membri ritengono che tra l’IS e alcuni Paesi arabi nostri alleati ci siano dei rapporti. Non si osa dire che c’è un rapporto di amicizia, di collaborazione o di complicità ma questo è nelle cose perché molto probabilmente tra la compagine dello Stato Islamico e quella dell’Arabia Saudita, del Qatar e della stessa Turchia ci sono delle relazioni anche a livello governativo.

Lo stiamo vedendo: se i Paesi occidentali della Nato lo volessero davvero, il Califfo sarebbe spazzato via in pochi giorni.

Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

Cosa andrebbe fatto?

Tanto per cominciare ci vorrebbe una campagna di terra. E proprio su questa gli Stati membri non trovano un accordo.

Erdogan sostiene che sarebbe pronto a farla. Noi sappiamo perché la vuol fare: il suo esercito passerebbe dalla Siria e dal Kurdistan, sistemerebbe secondo gli interessi turchi questi Paesi e poi arriverebbe al Califfo e, a quel punto, chissà cosa farebbe. Naturalmente non possiamo permettere che ciò accada. D’altra parte non si può attaccare il Califfo se non con forze musulmane sunnite, perché questi tiene a presentarsi come il più puro rappresentante dell’Islam sunnita. Attaccandolo con un esercito di soldati musulmani sunniti si dimostra al mondo islamico che non è lui il puro rappresentante dell’Islam sunnita.

Il fatto è che queste forze musulmane noi non le abbiamo e Erdogan non vuole mettercele a disposizione, lo stesso vale per il presidente egiziano. Inoltre sono pochissime. Il Maghreb africano non si vuole impegnare. E allora noi con chi la vogliamo fare questa campagna di terra contro il Califfo? Con gli occidentali che lui chiama crociati? Oppure con gli iraniani? È proprio quello che il Califfo vuole. Essere attaccato dagli occidentali e dagli iraniani per dimostrare all’Islam sunnita che lui è il miglior sunnita del mondo, il più degno di esserne il capo, attaccato dai crociati cristiani e dagli eretici sciiti iraniani.

E le campagne aeree?

Batterlo solo per via aerea non è possibile, in quanto le forze del Califfo non sono tante e per poter attaccare efficacemente un’armata militare piccola in un territorio enorme bisogna prima farla concentrare e per fare ciò occorre un’azione di terra. Altrimenti si uccidono solo dei civili inermi, come è già accaduto e sta ancora accadendo purtroppo in Afghanistan.

Il Califfo, evidentemente, ha forti intelligenze in molti Paesi dell’Occidente e dell’Islam sunnita. Per questo continua a sopravvivere. Costituisce di sicuro un pericolo nel vicino Oriente ma va fatto un discorso diverso, in quanto il Califfo non organizza direttamente attacchi terroristici che invece partono da cellule autonome. Se poi queste forze autonome lavorano nella sua direzione e fanno attacchi terroristici efficaci il Califfo se ne appropria, ci mette il suo marchio, come un franchising, dando così l’idea di avere una forza territoriale nel vicino Oriente compatta e un’altra terroristica diffusa in Europa. Ma si tratta solo di un errore visuale ottico.

Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

Eppure è proprio questo errore ottico a spaventare maggiormente l’Occidente. Perché?

È un altro esempio di idiozia il non capire la trappola mediatica nella quale entriamo quando crediamo che il Califfo sia il grande burattinaio del terrorismo europeo.

Il Califfo semplicemente si serve di un terrorismo europeo che è endemico, spontaneo, indipendente da lui che non ci mette un soldo, non ci mette nemmeno uno dei suoi uomini, non fa progetti, lascia che questo terrorismo generi da solo e chiaramente sta riuscendo nel suo intento.

http://www.sulromanzo.it/blog/gli-errori-occidentali-contro-il-terrorismo-islamista-intervista-a-franco-cardini

© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

«Zoom di Feltrinelli è una collana per scrittori consolidati», intervista a Piersandro Pallavicini

09 mercoledì Dic 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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«Zoom di Feltrinelli è una collana per scrittori consolidati», intervista a Piersandro Pallavicini

La collana Zoom, la sfida editoriale interamente digitale di Feltrinelli Editore, compie quattro anni. Un modo per dare spazio «a libri che finora non si potevano fare» a causa dei costi elevati della carta e della distribuzione.

Ma la si può guardare anche come un ritorno agli anni Settanta e alle riviste che davano molto spazio ai singoli racconti, alle storie brevi, ai romanzi a puntate.

Quali sono le differenze maggiori tra allora e oggi? Ce ne ha parlato Piersandro Pallavicini che è nato come scrittore pubblicando storie brevi sulle riviste di carta alla fine degli anni Ottanta e ha scelto Zoom per pubblicare i suoi racconti oggi.

Pallavicini è uno scrittore italiano e docente universitario, autore di racconti e romanzi nei quali immette flash pseudo-biografici, riflessioni ed emozioni che sono lo specchio della sua anima. Storie intense nella quali si avvicendano personaggi reali che compiono azioni di fantasia e personaggi di fantasia che ripetono azioni vissute, riviste per adattarle alla trama e al contesto ma frutto di esperienze di vita che hanno portato negli anni l’autore a convincersi che l’unico rimedio al mal di vivere è “l’ottimismo a oltranza”.

Sono trascorsi quattro anni da quando Feltrinelli ha lanciato Zoom. Come valuta l’esperimento di un’editoria digitale ed economica per il lettore? Potrebbe essere una strategia per arginare la disaffezione alla lettura?

Temo proprio di no, perché non esiste una strategia per arginare la disaffezione alla lettura. L’unica potenzialmente efficace sarebbe che in capo a qualche mese non esistessero più i telefoni cellulari e internet fosse ad accesso limitato ed estremamente costoso, allora il tempo che dedichiamo a farfugliare in Rete fosse riguadagnato per altre attività. E la lettura tornerebbe a essere popolare quasi quanto prima. La possibilità di fare editoria su supporto non cartaceo con la sua economicità consente di aprire spazi che altrimenti non ci sarebbero in questo momento storico, come la pubblicazione dei racconti singoli. Fino agli anni Settanta, Ottanta, anche Novanta in realtà potevano trovare spazio su delle riviste di carta create apposta per ospitare racconti. Si scriveva con l’idea, con una destinazione, non si scriveva a vuoto sperando che succedesse chissà quale miracolo per veder pubblicato il racconto singolo. Invece con questi nuovi spazi elettronici c’è stato un grande ritorno al racconto singolo, al piacere di scriverlo e questo fa guadagnare in qualità.

«Zoom di Feltrinelli è una collana per scrittori consolidati», intervista a Piersandro Pallavicini

Non è la prima volta che abbraccia progetti editoriali nuovi e alternativi, come nel caso delle edizioni Ediarco. Cosa l’ha spinta a prendere parte alla sfida di Feltrinelli Zoom?

La possibilità di scrivere un racconto. Avevo delle storie che volevo raccontare… una, due, tre… che non potevano diventare un romanzo, che non potevano diventare parte di una raccolta di racconti e, quando ho capito che c’era questa possibilità, le ho scritte e pubblicate.

Io nasco come autore tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta, un periodo in cui gli scrittori crescevano scrivendo racconti che uscivano su riviste, ce n’erano tante ed erano molto belle, erano delle palestre di scrittura.

 Ho ritrovato quel tipo di spazio in collane come Zoom. L’unica diversità è che questa non offre quel rapporto così stretto tra editor o redattore e autore, come invece succedeva per le riviste. Zoom e simili sono spazi più per scrittori che hanno già un passato consolidato e meno per gli esordienti.

«Zoom di Feltrinelli è una collana per scrittori consolidati», intervista a Piersandro Pallavicini

Con Feltrinelli Zoom ha pubblicato tre racconti: London Angel, Racconti per signora e Dalle parti di Arenzano. Soprattutto dal primo sembra si possa evincere uno dei leitmotiv della sua produzione, ovvero il legame che unisce Africa e Italia e i rispettivi scrittori. Ci può spiegare le ragioni del suo ritornare su questa suggestione?

London Angel in particolare è un racconto che parla di Italia e Africa ma soprattutto di amicizia. In esso si parla di come le amicizie vadano curate in modo tale da farle resistere anche alla distanza, com’è il caso dell’io narrante e di Jadelin Mabiala Gangbo.

Su questo poi si innesta, inevitabilmente, il tema della diversità, del colore della pelle, delle origini… anche se poi il racconto tende a entrare proprio nelle profondità di un rapporto di amicizia riuscendo così anche a dimostrare che in fondo queste differenze contano poco o nulla.

Restando sul tema dell’amicizia così come trattato nel racconto London Angel, appare quasi un rapporto di dipendenza quello che il protagonista, Sandro, ha nei confronti di Jadelin e per il quale più volte rischia di rovinare anche il proprio matrimonio. Perché ha voluto rappresentare l’amicizia in questo modo?

È un aspetto dell’amicizia, questo, che mi riguarda personalmente, è quasi una confessione autobiografica. Il mio modo di fare amicizia con persone dello stesso sesso… non dico di aver veramente messo in gioco la mia vita famigliare però ho investito parte del mio tempo, parte degli affetti. E forse in quel momento della mia vita doveva essere così.

A una persona a cui si vuole bene sul serio, a un amico vero va dedicato affetto sincero e profondo. L’amicizia non è uscire insieme qualche volta, chiacchierare di belle cose ma è un sentimento tra due persone che hanno delle affinità, è un amore senza sesso se vogliamo.

«Zoom di Feltrinelli è una collana per scrittori consolidati», intervista a Piersandro Pallavicini

Un’altra caratteristica della sua produzione va ricondotta alla palese volontà di raccontare storie dentro le quali inserisce “cori” autobiografici e pillole pseudo-biografiche di altri autori. Cosa la spinge verso queste soluzioni?

Raccontare se stessi attraverso altri personaggi credo sia una fase inevitabile per qualsiasi scrittore. È un voluto gioco di mascheramento il mio tra quello che ho fatto veramente io e l’agire dei miei personaggi. Anche un po’ “pericoloso” in quanto a volte sono stato preso alla lettera e quindi cose che i mei personaggi hanno fatto e che io non farei mai mi sono state attribuite, e ciò ha comportato anche spiacevoli equivoci. Un modo di giocare e anche di rischiare con la scrittura di cui però non riesco a fare a meno. La scrittura per me è anche questo, non solo un esercizio, un mestiere.

In ogni opera c’è una parte più o meno consistente del suo autore, ma quanto di Piersandro Pallavicini c’è realmente nei suoi racconti?

Qualsiasi scrittore scrive di ciò che conosce, non necessariamente di ciò che ha vissuto.

Dal punto di vista aneddotico c’è pochissimo, sono veramente poche le cose che ho vissuto davvero e sono finite nei miei romanzi. Forse c’è molto del mio carattere, questo sì, soprattutto nei romanzi più recenti, quali Romanzo per signora o Una commedia italiana(Feltrinelli, 2012 – 2014, ndr), fondati su aspetti peculiari del mio carattere.

Una caratteristica che definisco ottimismo a oltranza, ovvero se non proprio ottimismo in senso stretto, almeno la volontà di non prendere troppo sul serio i drammi, incluse la malattia e la morte, proprio come antidoto al male di vivere. Una questione di atteggiamento mentale che più pratico più mi convinco essere salutare.

«Zoom di Feltrinelli è una collana per scrittori consolidati», intervista a Piersandro Pallavicini

Gli autori che ha scelto e inserito nei suoi racconti hanno per lei un significato umano-artistico particolare?

In London Angel c’è Jadelin Mabiala Gangbo che è una persona importantissima per me. In altri racconti o romanzi parlo di scrittori che sono stati a me molto cari.

In Romanzo per signora uno dei protagonisti, Leo Meyer, in realtà è una controfigura di Pier Vittorio Tondelli, di cui si parla anche come personaggio realmente esistente. Nello stesso romanzo si parla di Frederic Prokosch, scrittore realmente esistito. Tondelli e Prokosch sono legati, nel mio immaginario, a doppio filo perché, soprattutto il primo, è lo scrittore grazie al quale ho iniziato a leggere e a scrivere in modo serio. Tondelli scrisse, poco prima della morte, verso la fine degli anni ’80, un bellissimo pezzo uscito su uno dei primi numeri di «Panta»dedicato a un’intervista, che aveva cercato di fare senza riuscirci, a Prokosch il quale, molto anziano, era morto pochi giorni prima dell’appuntamento. Quel magnifico racconto di Tondelli mi ha portato in seguito a scoprire Prokosch, a collezionarlo, a procurarmi le edizioni originali autografate, i libretti che realizzava in proprio e regalava agli amici.

In Una commedia italiana ci sono altri scrittori a me cari, come Marcello Marchesi da cui ho imparato molto di quello humor che sta dietro la commedia all’italiana, della battuta sempre pronta che ti fa sorridere anche difronte al dramma.

Nei suoi racconti si trovano anche delle piccole “provocazioni”, come ad esempio la volontà dei protagonisti di London Angel di voler essere fotografati mentre consumano un amplesso. A quali riflessioni vuole indurre il lettore attraverso questi escamotage?

Dal mio punto di vista non è una provocazione. Nell’ottica di costruire un parallelo tra io narrante e me stesso, che è molto stretto per quel racconto, questo genere di cose non rappresentano una linea di rottura del comportamento. In London Angel l’episodio aveva anche una valenza diversa e ricollegabile alla coltivazione dell’amicizia tra il protagonista e Jadelin. Farsi fotografare da qualcuno mentre si sta facendo sesso è in realtà un modo per introdurre un grado ulteriore di intimità tra le persone coinvolte. Perché l’amicizia può consentire anche questo senza che nessuno si scandalizzi.

http://www.sulromanzo.it/blog/zoom-di-feltrinelli-e-una-collana-per-scrittori-consolidati-intervista-a-piersandro-pallavicini

© 2015, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Chi sono i foreign fighter? Il radicalismo islamico, l’ultima grande utopia del Novecento

03 giovedì Dic 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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Chi sono i foreign fighter? Il radicalismo islamico, l'ultima grande utopia del Novecento

Gli attentati di Parigi del 13 novembre hanno richiamato, con maggiore forza, l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica sulla questione dei foreign fighter. Cittadini europei o immigrati di seconda generazione che scelgono di abbracciare l’Islam più radicale e combattere per lo jihad, addestrati in campi allestiti in Medio Oriente, spesso ritornano in Europa e il motivo si teme possa essere la realizzazione di attentati kamikaze.

Lo stesso commando responsabile degli assalti di Parigi era composto da nove persone, di cui sei cittadini europei. Allora in molti si chiedono quale sia l’utilità della chiusura delle frontiere auspicata da alcune forze politiche come deterrente all’ingresso in Europa di stranieri considerati potenziali attentatori. Altri invece cercano di focalizzare l’interesse sui foreign fighter perché rappresenterebbero quest’ultimi il reale pericolo da cui difendersi.

Chi sono i foreign fighter? Da dove provengono? A quali ceti sociali appartengono? Perché scelgono di convertirsi all’Islam radicale? Davvero questo rappresenta l’ultima grande utopia del Novecento?

Abbiamo rivolto queste domande a Renzo Guolo, docente di Sociologia della politica e Sociologia della religione presso l’Università degli Studi di Padova e di Sociologia dell’islam nel Master di Studi sull’Islam d’Europa, oltre che autore di L’ultima utopia. Gli jihadisti europei (Guerini e Associati, 2015).

Il dibattito attuale sull’Isis, anche a seguito degli attentati del 13 novembre a Parigi, si sofferma spesso sul fenomeno dei foreign fighter, a cui è dedicato il suo saggio L’ultima utopia. Cos’attrae dell’Islam radicale al punto da decidere di andare a combattere per la sua affermazione? È solo la mancanza di ideologie forti in Occidente?

La dimensione ideologica è un elemento rilevante, conferma il fatto che tra i cosiddetti foreign fighter abbiamo un profilo sociale e culturale molto diversificato. Troviamo giovani che provengono dalle banlieue parigine o da Molenbeek, come nel caso degli attentati di novembre, con situazioni di marginalità sociale alle spalle ma anche giovani che provengono da ceti medi. L’ideologia offre loro una sorta di senso che probabilmente dentro al mare fluttuante della modernità liquida non riescono a trovare. Per cui, in condizioni particolari quali il malcontento per la modernità o per la marginalità, questa ideologia che promette di sovvertire e combattere l’ordine mondiale può apparire un elemento che attrae, che dà una forte identità in situazioni in cui queste persone sembrano averne bisogno.

Nel delineare un identikit dei foreign fighter europei, lei nota una trasversalità di fondo che rende difficile stabilire delle caratteristiche fisse, ma ne individua due comuni: sono in prevalenza giovani e diventano musulmani sunniti. Perché l’integralismo islamico riesce a far presa in modo così forte sui giovani europei?

Parliamo di immigrati di seconda generazione per i quali il bagaglio religioso è considerato o un mero elemento culturale o comunque qualcosa di diverso dall’Islam tradizionale, per cui quando decidono di ritrovarlo come ideologia mobilitante imboccano la via del radicalismo proprio per la sua messa in discussione finanche della religione stessa. Per questo tipo di militanti lo jihad è quasi una sorta di sesto pilastro dell’Islam ma se si va a vedere la dottrina islamica non c’è alcun obbligo del credente rispetto a questa dimensione. È evidente che la religione viene vissuta non più come tradizione ma come sostegno alla mobilitazione politica. Il 90% del mondo islamico è sunnita e il radicalismo islamico si è sviluppato, così come noi lo conosciamo ovvero nella forma dello jihadismo, al suo interno, mentre nel mondo sciita di fatto è diventato Stato con la Rivoluzione iraniana del 1979. Anche nel campo dell’Islam politico-radicale in sostanza sono state riprodotte le fratture confessionali antiche.

Chi sono i foreign fighter? Il radicalismo islamico, l'ultima grande utopia del Novecento

Tra i foreign fighter in Siria e in Iraq spiccano anche immigrati di seconda generazione. A quale loro esigenza, che non trova riscontro in Occidente, potrebbe rispondere l’Isis? Si può parlare di un’integrazione mancata?

Sì, l’integrazione mancata è un elemento chiave. Lo vediamo attraverso i percorsi per gli immigrati di seconda generazione per esempio nei sobborghi metropolitani londinesi oppure nelle banlieue francesi. Un’integrazione mancata è evidente nel grande percorso che è stato fatto nel tempo dai giovani di banlieue se pensiamo al Movimento di rivolta della fine degli anni ’80. Rompevano le vetrine e si appropriavano dei beni e, paradossalmente, chiedevano l’integrazione attraverso il consumo. Oppure ancora nella rivolta nelle periferiedel 2005 contro l’idea francese dei valori universali veicolati del modello assimilazionista. Testimonianze tutte del fatto che il processo di integrazione si era fermato.

L’Isis è riuscito, facendosi Stato, a mostrare l’Islam radicale come ultima ideologia capace di sovvertire lo status quo appena descritto. E questi ragazzi hanno maturato una sorta di nichilismo religioso con l’idea di distruggere tutto, rovesciare un ordine in cui non ci si può più riconoscere per cercare di instaurarne un altro.

Per comprendere gli accadimenti e le scelte compiute dai foreign fighter lei suggerisce di ampliare il raggio di azione degli studi verso l’analisi del concetto di radicalizzazione e non fermarsi ai risultati delle osservazioni sul terrorismo. Quali sono i punti sostanziali su cui bisogna focalizzare l’attenzione per scandagliare al meglio il fenomeno?

Il concetto di radicalizzazione ci consente di capire cosa succede prima che queste persone scelgano di aderire all’Islam radicale e quindi, in qualche modo, di mettere in atto azioni di prevenzione da parte delle istituzioni, delle società. Proprio perché la radicalizzazione è un processo, si tratta di comprendere quali sono i fattori sociali che possono indurre queste persone ad aderire. Oggi ammontano a circa 5000 gli europei tra i foreign fighter in Siria e Iraq o che ci sono stati in questi anni. Il numero è altissimo. Capire i processi che portano alla radicalizzazione permette anche di comprendere quali scelte politiche e sociali compiere per cercare almeno di ridurre il fenomeno.

Lei indica tra i luoghi della radicalizzazione le moschee, il carcere e soprattutto la Rete. Non è la prima volta che a questa viene imputata una responsabilità in tal senso. Quanto ha inciso sullo jihadismo attuale e quanto lo ha condizionato l’essere nell’era della digitalizzazione?

Ha inciso moltissimo perché un tempo per leggere, ad esempio, il testo di un predicatore islamista radicale bisognava conoscere qualcuno che potesse renderlo disponibile, oppure procurarselo… ma diventava difficile. Oggi invece se voglio leggere i teorici radicali o certe interpretazioni specifiche, la Rete offre un’enorme possibilità di accesso. In più questa è interattiva e ciò consente anche di comunicare con ambienti islamisti radicali. La capacità di proliferazione è molto più accentuata. Basti pensare all’attenzione spasmodica che l’Isis assegna alla costruzione non solo del messaggio ma della produzione mediatica dei docu-film fino ai reportage di combattimento e ai videogiochi di guerra in versione islamista radicale.

Chi sono i foreign fighter? Il radicalismo islamico, l'ultima grande utopia del Novecento

Uno dei temi più sentiti dello jihadismo è quello di Shahīd, cioè l’essere testimone della fede attraverso concrete operazioni di testimonianza. Spesso ciò equivale a trasformarsi in veri e propri martiri. Come si inseriscono i foreign fighter in questo? E come interpretano il martirio?

Nell’ideologia radicale il cosiddetto martirio ha un ruolo centrale. Nel momento in cui si aderisce a questi gruppi si dà per scontato che ci sia la consapevolezza a considerare lo jihad come un obbligo personale. Per molti giovani che provengono dalle periferie disagiate questo elemento può diventare un gesto che va a riscattare una vita vissuta come sbagliata, segnata da condotte illecite o poco legate ai principi religiosi. Per altri l’idea di diventare martiri coincide col testimoniare, con la propria scelta, un percorso in cui si dimostra che si è stati coerenti fino in fondo. È evidente che la credenza del martirio deve essere fatta propria in pieno. Non è escluso il ripensamento. Pensiamo al caso, probabilmente, dell’ultimo membro del commando di Parigi che sembra essersi sottratto a questo compito. In fondo si tratta di togliere la vita ad altre persone e a se stessi.

Restando in tema, alcuni giornalisti sostengono che il martirio, ovvero l’immolarsi per la causa, spesso equivalente al diventare un kamikaze, in realtà abbia poche valenze religiose o spirituali ma sia dettato da un bisogno economico estremo. In altre parole i martiri acconsentono a diventare tali perché in cambio hanno ricevuto la promessa di un indennizzo/risarcimento per i familiari. Ritiene che questa si possa effettivamente spiegare solo ricorrendo a tale motivazione? Ed è possibile formulare una tale ipotesi anche per i foreign fighter? 

Ci sono casi molto diversi, può esserci anche l’elemento della compensazione materiale. Ma non è questo l’elemento determinante, che io penso sia legato all’idea di sacrificio di sé per una causa superiore. Lo abbiamo visto anche con i tanti casi di suicidio in Iraq e Siria: molti foreign fighter che si sono fatti saltare in aria lo hanno visto come la logica conclusione di un percorso di rifiuto dell’esistenza precedente ed è come se si cercasse, con questa scelta, di tagliare i ponti con tutto quello che era terreno per porsi in un piano extra-mondano. Il motto che ripetono spesso è: non c’è altra ricompensa più grande del martirio, visto come un qualcosa che regala una forte identità personale e consente di metterla al servizio della causa.

Chi sono i foreign fighter? Il radicalismo islamico, l'ultima grande utopia del Novecento

Il titolo del suo saggio è molto emblematico, ma “ultima” è da intendersi nel senso di “definitiva” o nel senso di “più recente”, l’ultima in ordine cronologico? Cioè, ritiene possibile pensare a un’utopia in grado di fronteggiare quella proposta dall’Isis?

Le utopie si presentano ciclicamente, quando ho scelto il titolo “ultima” l’ho legata sia al fatto che io leggo il radicalismo islamico come l’ultima grande utopia del Novecento, anche se i suoi effetti si vedono nel nuovo millennio, e al contempo è come se fosse l’ultima perché oltre questa sembra non esserci più niente. Questa può essere l’ultima utopia che si realizza anche attraverso la morte, per cui diventa una dimensione in cui la vicenda extra-terrena ha altrettanta e forse maggiore rilevanza di quanto accade nel regno del qui e ora.

http://www.sulromanzo.it/blog/chi-sono-i-foreign-fighter-il-radicalismo-islamico-l-ultima-grande-utopia-del-novecento

© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Tra vecchi e nuovi schiavi, cosa insegna la Storia?

01 martedì Dic 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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Tra vecchi e nuovi schiavi, cosa insegna la storia?

«Nessuno è nato schiavo, né signore, né per vivere in miseria, ma siamo tutti nati per essere fratelli». Con queste parole Nelson Mandela denunciava una delle pratiche più riprovevoli perpetrare ai danni degli indifesi, di persone fisicamente o economicamente più deboli. La limitazione o addirittura la privazione dell’altrui libertà, in tutte le sue forme, è quanto di più disumano possa essere concepito eppure la si ritrova in tutti i periodi della Storia, comprese le pagine che stiamo ancora scrivendo.

L’edizione 2016 del Festival internazionale della Storia, che si terrà a Gorizia tra il 19 e il 22 maggio avrà proprio come tema la schiavitù. “Schiavi” è il titolo scelto per èStoria che sarà, nelle intenzioni degli organizzatori, un’occasione per «riflettere sulla libertà negata, la libertà cercata e la libertà conquistata».

La schiavitù, pur essendo stata abolita, non appartiene al passato e rappresenta ancora una condanna o una minaccia sempre in agguato. Quanto siamo realmente liberi? Le dipendenze, i condizionamenti, i bisogni indotti, le limitazioni di vario genere quanto vanno a intaccare la nostra libertà rendendoci degli schiavi moderni più o meno consapevoli della nostra condizione?

Ne abbiamo parlato con il direttore del Festival Adriano Ossola.

èStoria 2016, il festival internazionale della Storia giunto alla dodicesima edizione, avrà come titolo e come tema “Schiavi”. Perché l’interesse per un tale tema? E come pensate di declinarlo in seno al programma del Festival?

Abbiamo scelto questo tema colpiti da due aspetti: il primo, l’enorme rilevanza delle varie schiavitù nei più diversi contesti storici e geografici, culture e civiltà differenti e distanti sono state accomunate da processi di limitazione o soppressione delle libertà individuali in maniera determinante. Il secondo, la vulgata vorrebbe che con la grande lotta dei movimenti anti-abolizionisti soprattutto dell’Ottocento, e in particolare con la vittoria degli Stati Uniti sulla Confederazione nella guerra civile americana, la schiavitù sia stata debellata e sorpassata. Non è così, o perlomeno non del tutto: vanno affrontate non solo alcune dinamiche successive come il razzismo e la segregazione razziale, ma una sussistenza dello schiavismo tout court in diverse aree del mondo.

Il Festival cercherà quindi di fornire una panoramica sulla schiavitù in diverse epoche, sulle forme di lotta e recupero della libertà, sul dibattito intellettuale che si è occupato di libertà e schiavitù. Non mancherà l’attenzione al mondo contemporaneo: con il contributo di studiosi, giornalisti, artisti e scrittori cercheremo di suggerire alcuni spunti di riflessione.

Privare un essere umano della sua libertà non è certo “naturale” ma storicamente la schiavitù è sempre esistita. È possibile leggere la Storia come storia di schiavitù e di liberazione da questa?

Questa domanda potrebbe essere senz’altro uno dei fili conduttori dei vari incontri del Festival: sarà interessante scoprire le risposte suggerite e, forse più ancora, gli ulteriori interrogativi che si succederanno nel corso dei dibattiti.

Pur essendo stata abolita, la schiavitù non è sparita: sotto quali forme continua a esistere nella società odierna?

Il lavoro coatto in condizioni disumane, gli abusi su bambini (impiegati a seconda delle zone come soldati, manodopera sfruttata o vera e propria merce), gravi forme di discriminazione femminile, la prostituzione forzata, il traffico di esseri umani nei processi di immigrazione: sono le forme più eclatanti della prosecuzione della schiavitù. Nel contesto occidentale, invece, esistono altre forme di limitazione della libertà: oltre all’erosione di alcuni diritti che fino a pochi anni fa si ritenevano definitivamente acquisiti, è interessante pensare alle dipendenze (droghe, alcolici, gioco d’azzardo, per citarne alcune) e ai condizionamenti di cui non sempre siamo consapevoli, ma che possono influenzare pesantemente scelte e comportamenti.

Per quale motivo non si riesce a estirparla?

Alcune aree del mondo vedono fasce troppo ampie di popolazione in condizioni economiche totalmente insufficienti e con poco o nullo accesso all’educazione. La poca attenzione ai diritti umani consente a soggetti pre-potenti di operare abusi gravi nel silenzio della pubblica opinione, dei mass-media e anche delle società di paesi democratici, troppo distanti e disattente.

Tra vecchi e nuovi schiavi, cosa insegna la storia?

Diversi studiosi hanno focalizzato il problema della disinformazione nella diffusione della comunicazione di massa con i massmedia che hanno portato al «genocidio del pluralismo culturale» sosteneva Pasolini. Ritiene che il controllo dell’informazione sia o possa essere stato in qualche modo impiegato per portare avanti una moderna forma di schiavitù mentale?

Senz’altro il maggiore accesso alle informazioni consentito in primo luogo dal web non si è sviluppato sempre di pari passi con il pluralismo. Le capacità critiche e analitiche dell’opinione pubblica possono essere manipolate e condizionate: generare allarmismo e paura, o semplicemente indifferenza, e annacquare il dibattito pubblico, conduce la società civile a essere meno consapevole e più asservibile.

Una delle nuove forme di schiavitù è il lavoro “coatto”, diverso nella forma ma non nella sostanza da quello anticamente chiamato “lavoro forzato”. Costringere qualcuno a lavorare per sopravvivere ricorda molto quanto accadeva nei lager nazisti ma studi confermano che è una prassi, purtroppo, molto diffusa anche oggi. Pure laddove non è presente uno stato sociale tale da vigilare non dovrebbero a parer suo intervenire con maggiore efficacia enti e organismi internazionali?

Certo. Il Festival indagherà per quanto possibile anche su questi aspetti: esiste una legislazione attenta a perseguire queste devianze dal diritto? Se esiste, quali sono i suoi strumenti di vigilanza e intervento? E, soprattutto, chi (e come) cerca di condizionare le autorità competenti?

Libertà negata, libertà cercata e libertà conquistata. Possiamo affiancare queste forme di coercizione, di rivolta o di rivalsa a determinati momenti storici di uno stato o nazione oppure si ritrovano in ogni periodo?

Come molti aspetti determinanti per la condizione umana, il processo della libertà non è assente in nessuna epoca: vi sono però momenti in cui il tema diventa più urgente e emerge via via al centro degli avvenimenti, o all’improvviso esplode con forza inarrestabile. Tutte le rivoluzioni, le restaurazioni, le ideologie o i regimi hanno assunto una posizione a proposito, ciascun grande progetto politico ha implicato una riflessione sulla libertà, appassionando leader delle nazioni e intellettuali di tutte le discipline.

Nel corso di èStoria 2016 «ancora una volta la storia interrogherà la letteratura, il diritto, la fede, l’economia, il giornalismo e numerose altre discipline». Come si relaziona l’analisi storica della schiavitù con gli altri aspetti del sapere e della conoscenza?

Naturalmente le testimonianze del passato, anche quando sono letterarie, artistiche o spirituali, sono oggetto di riflessione e stimolo per il dibattito storiografico. Una sola esposizione degli eventi, lontani o vicini, risulterebbe piuttosto arida se non si accompagnasse ad approcci che chiamino in causa, ad esempio, il mondo del diritto o quello dell’economia, voci necessarie per una comprensione a tutto tondo di ogni fenomeno, e senz’altro della schiavitù. Inoltre, per un Festival, avvicinarsi a un tema in maniera multidisciplinare consente di relazionarsi non solo con un pubblico di addetti ai lavori o appassionati di storia, ma anche con le persone incuriosite proprio dagli aspetti della discussione che si intersecano con altri rami del pensiero.

http://www.sulromanzo.it/blog/tra-vecchi-e-nuovi-schiavi-cosa-insegna-la-storia

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