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Come è nata l’Italia e soprattutto perché? Garibaldi è un eroe nazionale o un mito costruito per giustificare una storia pensata a tavolino? Ne abbiamo parlato in un’intervista con Pino Aprile, autore di Carnefici (Piemme, 2016), un libro con il quale prosegue la sua instancabile volontà di ricostruire una storia più vera e aderente ai fatti di quella raccontata dalla storiografia ufficiale al pari di una bella fiaba studiata per rabbonire ed “educare”.
La storiografia ufficiale ha sempre descritto l’azione dell’esercito sabaudo come la liberazione del Sud dalla dominazione spagnola volta all’unificazione dell’Italia, ma questa è la versione ricostruita in seguito. Cosa è accaduto realmente tra il 1860 e il 1861 nell’attuale Sud-Italia?
Tutte le grandi imprese e la nascita dei Paesi hanno bisogno di quelli che vengono chiamati “miti fondanti”, ovvero delle belle favolette, delle fiabe. Non raccontano la verità. Indicano la direzione del racconto.
La Spagna moderna nasce grazie alle imprese del Cid Campeador, ma questi non è mai esistito. La Svizzera moderna origina dalla sfida di Guglielmo Tell che centra la mela con la balestra, ma è scientificamente provata l’esistenza solo della balestra e della mela, lui non è mai esistito. Il più grande impero, per estensione, della storia dell’umanità, quello sovietico, è nato sul mito della conquista del Palazzo d’Inverno a San Pietroburgo. Ma il palazzo era vuoto, ci sarebbe potuto entrare chiunque.
Noi abbiamo il mito dei Mille di Garibaldi. In realtà questi erano 60.000. Con circa 22.000 soldati piemontesi che figuravano come disertori e colpevoli di aver rubato agli arsenali militari del Piemonte cannoni, esplosivo, armi varie… molti combattevano addirittura con le loro divise, altri con delle decorazioni della guerra di Crimea. Normalmente i disertori vengono fucilati, invece loro vennero ripresi nell’esercito e qualcuno fece anche una bella carriera.
Tutto questo per dire intanto che non c’era nessuno da liberare al Sud perché l’Italia da redimere era quella occupata dagli austriaci, ovvero il Triveneto. Ma al Sud non c’erano gli “spagnoli”, c’erano i meridionali, che non erano meridionali di nessuno. I Borbone erano una dinastia napoletana da 127 anni, parlavano napoletano. In Turchia vige un’espressione: «Storia costruita ufficiale». E, in Italia, viene giustificata la costruzione di questa storia “molto educativa”, affermando che il compito della storia non è di raccontare i fatti ma di servire a creare gli italiani, uno spirito nazionale, unitario.
In Carnefici lei afferma che pochi Paesi hanno fatto uso politico della storia come il nostro. Si riferisce a qualcosa in particolare? Ci sono episodi di vera e propria censura?
Non solo veri e propri casi di censura ma un’intera storia costruita a tavolino, calpestando la realtà concreta degli eventi. Quando pubblicai Terroni (Piemme, 2013) raccontavo di massacri, come quelli di Pontelandolfo e Casalduni. La prima reazione fu il silenzio. In seguito mi accusarono di aver inventato tutto. Va da sé che non è così: i documenti sulla strage di Pontelandolfo sono numerosi; grazie al lavoro extra-accademico svolto da ricercatori volontari fuori dall’Università è diventato uno degli eventi più documentato della storia. La terza reazione fu l’affermare: «Noi lo sapevamo». Allora mi è venuto naturale chiedermi: «E perché non ne avete parlato per un secolo e mezzo?». Quello che fecero i nazisti è niente se confrontato con le azioni dei bersaglieri al Sud.
Non è che noi siamo peggiori degli altri. Con la rivoluzione industriale sorgeva l’esigenza di creare gli Stati nazionali. Ovvero le Nazioni dovevano costituirsi in Stati. Questo avvenne ovunque con un bagno di sangue. Basti pensare alla guerra di secessione degli Stati Uniti che loro, più onesti di noi, non hanno mai etichettato “di liberazione”. Si è trattato di una guerra che ha fatto più vittime statunitensi delle due guerre mondiali. In Francia la Vandea è stata letteralmente rasa al suolo perché contraria alla rivoluzione. Un esercito guidato dal generale Westermann, in poco tempo, sterminò tutti. Però oggi, in Francia, c’è un Istituto di Stato con un’immensa biblioteca e un centro studi che finora ha prodotto 850 volumi sul massacro della Vandea. Dov’è in Italia il centro studi sul genocidio dei meridionali? Sta nascendo fuori dallo Stato. Quello che stiamo facendo in tanti. Una costruzione collettiva di una memoria vera che possa unire e non dividere.
La guerra condotta dall’esercito sabaudo contro l’esercito borbonico durò pochi mesi. Quella combattuta contro i cittadini e i ribelli durò all’incirca dieci anni. Perché di tutto questo non si fa menzione nei testi e nei saggi della storiografia ufficiale?
Ora viene anche detto esplicitamente: la paura che sapere come è stata unita l’Italia potesse distruggere questa costruzione così fragile. L’Italia, a differenza di altri Paesi, è una comunità molto ricca di culture diverse. Può essere relativamente facile dare uno Stato a una Nazione, ma quando devi dare una Nazione a uno Stato dove sono già presenti più Nazioni non hai altra possibilità che eliminarne alcune. È la ragione per cui in Turchia hanno eliminato gli armeni, massacrano i curdi, sono stati eliminati gli assiri di montagna, sterminati i greci dell’Asia Minore. Una sola Nazione si deve prendere lo Stato.
È un’ideologia molto radicata e potente, che ha fatto centinaia di migliaia di morti, nata già sul finire del Settecento ma è l’Ottocento il secolo della sua massima espressione. In Italia, lo Stato più grande dell’epoca, il più solido economicamente, il primo a essersi avviato verso la rivoluzione industriale era il Regno delle due Sicilie. Se i vinti avessero ricordato come al Sud sono state distrutte le fabbriche tra le più grandi d’Italia, il modo in cui sono stati sottratti i depositi d’oro delle banche – che equivarrebbero oggi a un valore nominale pari a 1.500 miliardi di euro –, se qualcuno ricorda tutto questo prende un’arma e protesta. E così è stato fatto per anni, al Sud. Perciò l’unico rimedio era l’amnesia. Sterminare chi voleva ricordare e chiedere di render conto, e far dimenticare agli altri. E questo è stato fatto.
«L’Italia è un Paese nato sulla menzogna e sull’assassinio della verità». Lo diceva Sciascia, non Pino Aprile.
Il Sud è stato annesso o conquistato?
Lo dicevano loro: «Il Sud è stato annesso e conquistato, non unificato». Tant’è che un parlamentare siciliano, Giuseppe Bruno, nel 1861 in Parlamento protesta contro i giornali e gli stessi colleghi parlamentari del Nord e afferma: «Onorevoli colleghi basta parlare di province conquistate, il Paese è stato unito! Siamo italiani!». Quanto riportato si trova negli atti parlamentari, chiunque può andare a leggerli.
Nel 1866 ci fu un dibattito, sempre in Parlamento, generato dall’elezione di Mazzini a Messina, per dispetto ai Savoia. Lui era un condannato ma siccome era nato un nuovo Stato, l’Italia appunto, tutte le giurisprudenze degli Stati precedenti non avevano più valore. Eppure la risposta del capo del Governo in Parlamento fu: «Mazzini resta condannato perché è vero, signor capo dell’opposizione, che le legislazioni di tutti i Paesi preunitari non valgono più, tranne che per il Piemonte, perché noi non abbiamo fatto l’Italia ma abbiamo allargato il Piemonte». E l’impresa partì con l’ordine di Cavour: «Non perdete tempo a fare prigionieri, fucilate».
Perché la Repubblica di San Marino è rimasta esclusa dal processo di unificazione?
La risposta è: «Boh!». Se tutti gli Stati preunitari vennero invasi, annessi e derubati, perché la Repubblica di San Marino no? Ci sono delle ipotesi. Nella Repubblica di San Marino nascevano banche. Crispi e i figli di Garibaldi, ovvero i duci della spedizione in Sicilia, coloro che portarono via l’oro dei depositi del Banco di Sicilia, potrebbero aver pensato a un porto franco dove depositare il “bottino di guerra”. È esagerato sospettare che un paradiso fiscale non lontano da casa facesse comodo?
Se non c’è un’altra spiegazione plausibile, uno è autorizzato a sospettarlo, a maggior ragione in quanto Garibaldi era un evasore fiscale. In una sua lettera manoscritta si legge: «Signor esattore non sono in grado di pagare le imposte». Poi, sempre lui, fa da garante a un enorme prestito chiesto dal figlio al Banco di Napoli, senza garanzie, e non pagano né lui né il figlio. Come ha fatto a costruire a Caprera le case, le strade, la stalla per 500 capi di bestiame, e ancora comprare un’intera flottiglia di imbarcazioni, compreso un panfilo da 42 tonnellate? Si racconta che dopo aver consegnato il Regno a Vittorio Emanuele si sia ritirato a Caprera con un sacco di fagioli. Forse non erano solo fagioli. È documentato che prendesse soldi da Vittorio Emanuele. Nei documenti è pure testimoniato che prese una grossa somma prima di andare a Caprera.
Nel libro lei entra nel merito anche dei rapporti tra Garibaldi, i Sabaudi, Inghilterra e Stati Uniti. Perché inglesi e statunitensi avevano così a cuore il processo di unificazione dell’Italia?
Da una parte per via dell’ideologia degli Stati nazionali. Gran parte del pianeta è stato disegnato a tavolino da inglesi e americani, vedi il Medio Oriente o l’Africa, per esempio. Dall’altra perché questa ideologia ha origine in ambiente massonico. E loro erano i capi della massoneria mondiale. La nascente civiltà industriale aveva bisogno di Stati nazionali incubatori della stessa industria, che la facessero crescere fin quando non fosse stata in grado di competere alla pari con le altre e a quel punto sarebbero cadute le frontiere. Così è nata l’Europa, che si è unita quando i livelli di industrializzazione sono diventati equiparabili. Un’Italia grande faceva comodo, rappresentava un pugnale sotto la Francia, serviva a schiacciarla, con l’Inghilterra che stava sopra. In più in Italia c’era un Paese, come il Piemonte, che aveva un disperato bisogno di rubare i soldi a qualcuno perché, di fatto, era fallito e diventato di proprietà dei Rochelle di Parigi.
Buoni rapporti però Garibaldi sembra averli avuti anche con Cosa Nostra, il cui patriarca Joe Bonanno narra «[…] che il nonno e i suoi picciotti seguirono Garibaldi perché fu loro garantito di poter condurre più liberamente i propri affari». La trattativa Stato-Mafia è nata con la stessa Italia?
Esatto. Quella fu la prima trattativa Stato-Mafia. Grazie anche ai buoni uffici del barone Sant’Anna della Massoneria inglese, che mise al servizio di Garibaldi i suoi picciotti.
A chi come lei cerca un’altra verità viene spesso chiesto quale sia il senso di tanto rivangare. Invece io le domando perché, secondo lei, a tanta gente spaventa poter conoscere una verità diversa da quella ufficiale?
Perché tocca rivedere tutto quello che si sa, che si è. La propria identità. Tocca ricostruire, letteralmente, la propria anima. Le ragioni per stare insieme. Ormai, in un certo senso, un equilibrio, sia pure malato, è stato raggiunto. Io ritengo che gli equilibri malati portino brutte cose, meglio affrontare, come in una cura psicoanalitica, la verità e ripartire da basi più vere e più solide.
Lei dedica un capitolo, in Carnefici, anche all’interpretazione di Matteo Simonetti del Piano di Kalergi, indicato dalla Merkel come «il padre dell’Europa», dove si prospetterebbe, prima della seconda guerra mondiale, «[…] la trasformazione dell’Europa in un continente meticcio, con l’invasione di migranti, specie dal Sud». Era stata prevista o predetta anche l’emigrazione interna italiana verso il Nord?
È stata organizzata. Dopo la seconda guerra mondiale il Sud, contrariamente al Nord, ne uscì devastato. Gli alleati risarcirono l’Italia. L’allora presidente di Confindustria Costa impose che il risarcimento dato per il Sud venisse investito al Nord, per finanziare la ripresa industriale. Peppino di Vittorio protestò e la risposta fu: «Se vogliono mangiare, vengano al Nord».
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