Luciana Benotto ha voluto fondere le sue passioni per la narrativa e la geo-storia scrivendo un romanzo ambientato nel Rinascimento italiano. In Il Duca e il cortigiano (La Vita Felice, 2015) racconta le gesta non sempre gloriose di Cesare Borgia e riporta, come in un fotogramma, uno spaccato dell’Italia e degli italiani dell’epoca.
L’abbiamo raggiunta per un’intervista proprio a ridosso della sua partecipazione a uno degli incontri organizzati dalla libreria La Tramite di Milano e volti alla valorizzazione della passione per la letteratura, un interesse che la Benotto afferma di avere da… sempre.
fonte: www.lavitafelice.it
Questa sera parteciperà all’iniziativa Dare voce a una passione con un confronto tra autrici sulla passione per la letteratura. Cosa rappresenta per lei la letteratura e da dove nasce la sua passione per essa?
La mia passione per la letteratura, o per lo meno per la narrativa, ha radici molto lontane; risale infatti alla prima infanzia. A quell’epoca mia madre tutte le sere, per farmi addormentare, mi raccontava una fiaba o una favola e già la mia immaginazione correva. E se questa narrazione era orale, in seguito si trasformò nella parola scritta quando iniziai a sfogliare le fiabe illustrate.
Poi vennero le elementari e il prestito bibliotecario del sabato. A me quello pareva un momento magico: poco prima che suonasse la campanella di uscita la maestra apriva le ante di un armadio a muro che conteneva testi per bambini e io pregustavo il piacere della lettura chiedendomi quale libro sarei riuscita ad aggiudicarmi. A nove anni mi è venuta la voglia di provare a scrivere e ho cominciato a tenere un diario. Il primo racconto però, l’ho scritto verso i trent’anni.
Ma indipendentemente dalla mia storia personale, credo che la propensione per la letteratura e la scrittura, intese come qualcosa di irrinunciabile, sia innata: alcune persone sono brave a disegnare, altre a suonare, a cantare, a cucinare. Ognuno di noi ha una dote, bisogna solo farla venire a galla e coltivarla.
Lei è una scrittrice, una giornalista e anche un’insegnante con la passione per la geo-storia. Quanto incide questa passione sulla sua scrittura?
Quando mi laureai in Lettere Moderne, lo feci grazie a una tesi in Geografia umana, ovvero una disciplina che studia la distribuzione, la localizzazione e l’organizzazione spaziale degli uomini, analizzando in quale modo essi percepiscono il territorio e lo interpretano. Insomma, non è una geografia che racconta quanto è alto quel monte o lungo quel fiume, ma come l’uomo modifica lo spazio in cui vive. Ovviamente è una materia che va a braccetto con la storia, perché gli interventi antropici sono fatti nel tempo.
Questo interesse, anche se non insegno tale materia – una volta lo facevo, ma poi l’ordinamento scolastico italiano l’ha ridotta a Cenerentola diminuendo il numero di scuole dove si insegna e il numero di ore, quasi che l’Italia non sia un paese a vocazione turistica – non l’ho certo perduto, esso accompagna le mie storie ambientate spesso nel passato: sono infatti molto attenta alla descrizione dei luoghi dove si devono muovere i personaggi che, a mio avviso, devono essere quanto più possibile vicini alla realtà, perché noi viviamo nella realtà, così come loro vivevano nella loro.
In Il Duca e il Cortigiano (La Vita Felice, 2015) lei narra delle vicende del Rinascimento italiano. Perché ha scelto di ambientare il suo romanzo in questo periodo storico?
Il Rinascimento fu il momento del massimo splendore artistico del nostro paese, c’era la ricerca della bellezza, dell’armonia, dell’equilibrio: la Chiesa e i nobili, ma anche i ricchi mercanti, facevano a gara per avere le loro chiese e le loro dimore progettate e abbellite dai migliori artisti e questo nonostante i problemi politici che vedevano stati, staterelli e repubbliche italiane stringere alleanze e scioglierle a seconda delle convenienze, ossessionati dalla voglia di potere e dalla paura degli eserciti stranieri d’oltralpe che ci vedevano una facile preda per le loro mire espansionistiche, vista la debolezza creata proprio dalla frammentazione politica. Credo traspaia, da ciò che dico, il mio interesse per questo incredibile periodo e per i suoi personaggi.
Lei ha scelto di raccontare la storia di Cesare Borgia, figlio illegittimo di papa Alessandro VI, focalizzando così l’attenzione di chi legge su uno degli aspetti più ipocriti dello Stato della Chiesa: il potere temporale. Cosa è realmente cambiato oggi al riguardo?
Il potere temporale della Chiesa nasce con la cosiddetta Donazione di Costantino, un falso perché in realtà fu Pipino il Breve a regalare il territorio dei Longobardi a papa Stefano II che l’aveva unto re dei Franchi per grazia di Dio; da allora il patrimonio di san Pietro continuò ad allargarsi fino a quando nel 1870 ci fu la presa di Porta Pia voluta dai Savoia che vollero con quel gesto unificare il paese (Cavour aveva sostenuto che la capitale del nuovo regno doveva essere Roma).
Rispetto a quella data, che ha visto lo Stato del Vaticano ridursi a una zona di Roma, il potere temporale non è comunque scomparso. Nonostante questo piccolo stato non abbia territori sotto di sé, esso ha continuato e continua a occuparsi della politica italiana e internazionale. Lo ha fatto nel bene e nel male a seconda dei punti di vista; ultimamente mi pare che papa Francesco, persona che stimo molto per il suo coraggio, si sia preso la briga di sostituirsi a certi politici ignavi, che pensano solo al loro tornaconto e non ai bisogni della gente comune.
Il suo ruolo di insegnante le dà accesso a una posizione privilegiata per valutare l’apprendimento dei ragazzi. Ritiene che la storia, passata e presente, da loro imparata sia sufficiente a far capire i reali meccanismi della politica e del potere?
Dipende da come gliela si spiega. Io uso il metodo di rapportare fatti passati al presente, quando questi collimano e possono essere utili a far comprendere gli errori da non ripetere. La storia solitamente è una materia poco amata perché ritenuta noiosa, ma se agli studenti si presentato fatti e personaggi non come fantasmi di uno sconosciuto passato, ma come persone che come noi amano, soffrono, gioiscono, lottano, allora li si avvicina a questa disciplina e si appassionano. Sì, quello che viene fuori è un interesse per la politica, perché capiscono che è legata al potere, e il potere decide per loro, per noi tutti.
Ritornando ai suoi libri. Quali caratteristiche deve avere un romanzo storico per essere definito un buon libro?
Un romanzo storico deve essere composto da personaggi veramente esistiti e da altri di fantasia, altrimenti sarebbe un saggio. Per quanto riguarda i primi ritengo che non si possa inventare niente sul loro conto: non si può cambiare quello che hanno fatto, tutt’al più se ci sono dei buchi si possono rappezzare creando situazioni verosimili. Importanti sono la ricostruzione degli ambienti, dai paesaggi dell’epoca a quelli degli interni, gli usi e costumi, la mentalità, le credenze, i gusti, la moda.
Per scrivere un romanzo storico bisogna aver studiato tutti questi elementi legati al periodo nel quale si intende ambientare la vicenda. Quando mi capita di vedere dei libri, di solito di genere giallo, che hanno per protagonisti persone della levatura di Dante Alighieri, Niccolò Machiavelli eccetera, nei panni di investigatori e similari, penso che essi, indignati, si rivoltino nella tomba.
fonte: www.factotumagency.it
© 2016, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).