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Irma Loredana Galgano

Irma Loredana Galgano

Archivi Mensili: gennaio 2017

Yemen, la Strage degli Innocenti dimenticati

31 martedì Gen 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Durante la riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, tenutasi a New York lo scorso 27 gennaio, il capo degli affari umanitari Stephen O’Brein lancia l’allarme sulla situazione in Yemen, dove sarebbe in corso la «più grave crisi alimentare nel mondo». O’Brein ha poi precisato che sarebbero «2,2 i milioni di bambini che soffrono la fame» e «10,3 i milioni di yemeniti che necessitano di assistenza medica per sopravvivere». Una situazione catastrofica, conseguenza dell’inasprimento dei conflitti, dei combattimenti e degli attacchi aerei e che rischia di portare «la carestia nel 2017» in considerazione anche del fatto che stime Onu parlano di «18,2 milioni di persone colpite dall’emergenza cibo».

A sottolinearlo è l’inviato speciale dell’Onu in Yemen, Ismail Ould Cheikh Ahmed, lo stesso finito nel mirino del movimento per la resistenza Ansarullah con l’accusa di essersi «schierato con gli invasori tacendo sui crimini sauditi». Parlando alla rete televisiva yemenita Al-Masirah, il portavoce di Ansarullah, Mohammad Abdulsalam, ha dichiarato che Ismail Ould Sheikh Ahmed «non può pronunciare una parola di verità». Aggiungendo inoltre che durante la visita dell’inviato nella capitale Sana’a «la coalizione a guida saudita ha effettuato numerosi attacchi contro lo Yemen, ma l’inviato dell’Onu non ha mostrato alcuna reazione».

Anche Amnesty International ha più volte denunciato la grave situazione in cui versa l’intera nazione, i «terribili abusi dei diritti umani e crimini di guerra» compiuti in tutto il Paese e che causano «ai civili sofferenze insopportabili». Amnesty ha documentato abusi dei diritti umani «perpetrati da tutte le fazioni coinvolte» negli scontri. Secondo i dati raccolti «ognuna delle parti in conflitto ha commesso violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario» portando oltre l’80% della popolazione a dover dipendere dagli aiuti umanitari.

Le parti sono da un lato lo schieramento armato degli houthi, alleati dei sostenitori dell’ex presidente yemenita Ali Abdullah Saleh, e dall’altro le forze anti-houthi alleate del presidente Abd Rabbu Mansour Hadi e della coalizione a guida saudita.

Amnesty International afferma di aver documentato 30 attacchi aerei in sei diversi governatorati (Sana’a, Sa’da, Hajjah, Hodeidah, Ta’iz, Lahj) da parte della coalizione a guida saudita che «risulta abbiano violato il diritto internazionale umanitario». Tra questi attacchi, «alcuni sembrano aver deliberatamente preso di mira i civili e obiettivi civili», come ospedali scuole moschee mercati.  La coalizione a guida saudita «ha usato anche munizioni a grappolo», esplosivi letali banditi dal diritto internazionale. Tutti atti che «potrebbero essere definiti come crimini di guerra». Sono stati inoltre monitorati 30 attacchi di terra (posti in essere sia da parte degli alleati sia dagli oppositori delle milizie houthi) ad Aden e Ta’iz «che non hanno fatto distinzione tra combattenti e civili». Ogni schieramento ha «usato armi imprecise, quali artiglieria e mortai o razzi Grad» in aree civili densamente popolate e residenziali, «lanciando attacchi su abitazioni  scuole, ospedali o nelle loro vicinanze». Ognuno di questi attacchi è «una grave violazione del diritto internazionale umanitario ed è considerabile come crimine di guerra».

È il 18 agosto 2016 quando Medici Senza Frontiere annuncia con una nota pubblicata sul sito di aver deciso di evacuare il proprio staff dagli ospedali che supportava nei governatorati di Saada  e Hajjah, nello Yemen settentrionale, come conseguenza del «bombardamento aereo dell’ospedale di Abs il 15 agosto, che ha provocato 19 morti e 24 feriti». Affermando che quello contro l’ospedale di Abs è stato «il quarto e più letale attacco contro strutture supportate da MSF» ma che ci sono stati «altri innumerevoli attacchi contro altre strutture e servizi sanitari in tutto lo Yemen».

Medici Senza Frontiere dichiara di aver costantemente condiviso con tutte le parti in conflitto le coordinate GPS degli ospedali in cui lavora. I rappresentanti della coalizione dichiarano ripetutamente di onorare il Diritto Internazionale Umanitario, ma «questo attacco mostra che hanno fallito nel controllare l’uso della forza». Inoltre MSF non è rimasta «né soddisfatta né rassicurata dalla dichiarazione della coalizione secondo cui questo attacco è stato un errore» e chiede a gran voce alla coalizione a guida saudita e ai governi che la supportano, «in particolare Stati Uniti Regno Unito e Francia, di garantire l’applicazione immediata di misure volte ad aumentare in modo sostanziale la protezione dei civili». Durissima è la condanna di MSF verso tutti gli attori coinvolti che stanno conducendo questa guerra compiendo «attacchi indiscriminati senza alcun rispetto dei civili». D’altronde il fatto che staff medico e persone malate e ferite vengano uccise all’interno di un ospedale dice tutto «sulla crudeltà e la disumanità di questa guerra».

Alla luce di tutto ciò le parole del capo degli affari umanitari dell’Onu, Stephen O’Brein, non possono essere considerate come una vera e propria denuncia che desta meraviglia bensì come una constatazione non più evitabile di una situazione disastrosa ripetutamente notificata da organizzazioni che operano a vario titolo in ambito internazionale.

Amnesty International sottolinea il dato che Regno Unito, Stati Uniti, Francia, Italia, Olanda e Spagna hanno «sostenuto licenze e vendite all’Arabia Saudita per un valore superiore ai 25 miliardi di dollari nel 2015, includendo droni, bombe, siluri, missili e razzi». Va ricordato che parte di detti Stati hanno aderito al Trattato sul commercio delle armi che ha lo scopo di “ridurre la sofferenza umana” e che rende illecito trasferire armi dove vi è un alto rischio che le armi possano essere utilizzate per commettere serie violazioni del diritto internazionale.
«Il mondo non ha soltanto voltato le spalle alla popolazione dello Yemen; molti Stati hanno in realtà contribuito alle sue sofferenze, fornendo armi e bombe che sono state utilizzate per uccidere e ferire illecitamente civili e distruggere case e infrastrutture. Questo ha causato una catastrofe umanitaria.» (cit. Brian Wood, direttore campagna Esportazione di armi e diritti umani di Amnesty International)

Nel report 2016 Yemen’s Children Suffering in Silence Save The Children denuncia la drammatica situazione del Paese, dove quasi il 90% dei bambini necessita di aiuti umanitari d’emergenza. Il direttore generale dell’organizzazione, Edward Santiago, punta il dito sui governi internazionali, i quali «scegliendo di sostenere l’azione militare e ignorando le conseguenze devastanti per i civili, stanno esacerbando la crisi e mettendo a repentaglio la vita dei bambini». È la stessa Onu, per tramite di Jamie McGoldrick, dell’Ufficio per il Coordinamento degli affari umanitari, a stimare in oltre 10mila i civili morti nei soli ultimi due anni e in oltre 40mila i feriti nello stesso lasso di tempo. Stando ai dati del rapporto 2016 Childhood on the Brink. The Impact of Violence and Conflict on Yemen and its Children dell’Unicef, nel solo 2015 oltre 900 bambini sono stati uccisi e oltre 1.300 sono rimasti feriti.

Quasi un anno fa la rappresentante dell’Unicef nello Yemen, Julien Harneis, affermava che «i bambini stanno pagando il prezzo più alto per un conflitto che non hanno voluto. Sono stati uccisi o feriti, e anche quelli sopravvissuti rischiano di perdere la vita. Anche giocare e dormire è diventato pericoloso». Se una guerra che colpisce staff medico e persone ferite può a buon diritto essere etichettata come crudele e disumana non si può fare a meno di chiedersi come bisogna definirne una, la stessa, che sfoga rabbia e potere contro i bambini che rappresentano sempre e ovunque la reale e incondizionata innocenza. E ancora, se ci fosse un modo per cancellare atrocità e dolore facendo scomparire armi e potere siamo davvero certi si scelga di utilizzarlo rinunciando a privilegi interessi e denaro?

Il primo ottobre 2016 è uscito sul New York Times un articolo a firma di Amanda Taub nel quale l’autrice si interrogava su quali potessero essere i motivi per cui alcune guerre fanno notizia, come quella in Siria, e altre meno, come quella in Yemen. Anche le guerre molto violente combattute nel Nord dell’Uganda, nella Repubblica Democratica del Congo, nel Sud del Sudan, nella Repubblica Centrafricana, in Somalia… hanno riscontrato scarsissimo interesse da parte dei media e, di conseguenza, dai cittadini non solo statunitensi. La ragione che fa della Siria un’eccezione può essere innanzitutto la presenza dello Stato Islamico che viene individuato come il nemico numero uno da tutti gli occidentali, almeno dalla uccisione di Osama Bin Laden. Ed è qui che entra in gioco la prima contraddizione. Se il terrorismo di matrice islamica desta così interesse da parte del pubblico occidentale al punto che i media ne parlano quotidianamente, perché così non è per l’operato di Aqap, la divisione yemenita di al-Qaida che ha rivendicato tra l’altro l’attentato al giornale satirico parigino Charlie Hebdo? Se lo Stato Islamico fa notizia in quanto è ritenuto dagli occidentali un pericolo reale perché non è lo stesso per Aqap?

Il motivo potrebbe essere che il flusso migratorio dallo Yemen è pressoché inesistente al contrario di quanto accade in Siria e quindi l’eventuale pericolo viene visto e vissuto come remoto, lontano. Inoltre mentre nel caso siriano è stato fin troppo facile individuare il “cattivo” nello Stato Islamico, nel caso yemenita ciò non è altrettanto semplice. Permangono comunque le certezze che, per gli operatori umanitari, i conflitti come quello combattuto in Yemen rappresentano, per i civili di ogni età, «una corsa contro il tempo», come sottolinea l’Unicef, affinché si riesca a fare tutto il possibile per scongiurare il rischio che Paesi come lo Yemen diventino dei «non-Stato, con conseguenze di vasta portata e su lungo termine per i bambini e per le loro famiglie».

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© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Rosso Parigi” di Maureen Gibbon

30 lunedì Gen 2017

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EdouardManet, Einaudi, Europa, Francia, MaureenGibbon, Parigi, recensione, romanzo, romanzostorico, RossoParigi, VictorineMeurent

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Il rosso è il colore del sangue vivo, della porpora, del rubino, simbolo della passione, della carnalità, dell’amore… elementi tutti che si ritrovano nelle pagine di Rosso Parigi di Maureen Gibbon, edito in Italia da Einaudi nella versione tradotta da Giulia Boringhieri.
Un libro intenso anche se dal ritmo lento, caratterizzato da una narrazione avvolgente e travolgente che accoglie il lettore e lo “rapisce” esattamente come fa un dipinto di Edouard Manet che ha ispirato il protagonista maschile, indicato nel testo semplicemente come E.
Rosso Parigi vuole raccontare la storia della diciassettenne Victorine diventata, quasi per caso, la musa ispiratrice del maestro. Una ragazza la cui vita viene stravolta e trasformata dall’incontro con quest’uomo che lei inizialmente chiama “lo sconosciuto”. Un adulto che la trascina in un vortice di passione e sensualità, facendole provare emozioni sempre nuove, sempre diverse. Sentimenti contrastanti che colpiscono come i colori accesi di una tavolozza.
Leggendo le pagine di Rosso Parigi emerge chiaramente lo sforzo portato avanti dall’autrice nel tentativo di dare maggiore risalto a quella che lei voleva restasse la protagonista, Victorine, e che l’esuberanza di E. non ne oscurasse i tratti. Gibbon è riuscita nel suo intento ma chi legge il libro inevitabilmente pensa a Manet e alle sue tele, a Colazione sull’erba e Olympia, ai colori, alle sfumature, alle impressioni che si delineano come tratti di una tela in lavorazione e fanno in modo che la storia narrata da Maureen Gibbon ne fuoriesca come l’immagine di Victorine Meurent dai dipinti e prenda forma dinanzi agli occhi del lettore.
Una scrittura, quella della Gibbon, che regala a chi la legge quasi sensazioni tridimensionali. Si ha come l’impressione di muoversi insieme ai protagonisti nella Parigi di fine Ottocento, di sentirne i profumi, di “assaporare” la vita dell’epoca. Un libro che da romanzo erotico e di amore sembra acquistare pagina dopo pagina la valenza di un grande romanzo storico.

Maureen Gibbon: vive in Minnesota. Ha pubblicato Swimming Sweet Arrow, Thief e Paris Red.

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I cani salvano il mondo in “Grande Nudo” di Gianni Tetti

30 lunedì Gen 2017

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distopico, fantascientifico, fantasy, GianniTetti, GrandeNudo, NeoEdizioni, recensione, romanzo, TrilogiadelVento

 

I cani salvano il mondo in “Grande Nudo” di Gianni Tetti

Cosa accadrebbe al nostro pianeta se terremoti, incendi, attentati e sortilegi lo devastassero al punto da ridurlo tutto in macerie? Gianni Tetti lo ha immaginato e in Grande Nudo (Neo Edizioni, 2016) racconta la sua versione dell’Apocalisse. Anche se, a onor del vero, va detto che il suo “mondo” è un’isola e i sopravvissuti i suoi abitanti.

Grande Nudo rappresenta il capitolo conclusivo della Trilogia del Vento, incentrato sul racconto di un’umanità allo sbaraglio che vive seguendo i suoi più bassi istinti spaziando dalla libido al desiderio di autoconservazione. La parte iniziale del libro si distanzia molto dalle altre due. Il pericolo che incombe sugli ignari abitanti dell’isola sembra remoto e protagonisti e lettori ne hanno solo un vago sentore. Non per questo il racconto si rivela meno inquietante. Prologo ed epilogo sembrano narrazioni indipendenti: non aiutano il lettore a entrare nel vivo della storia né tantomeno gli mostrano in maniera chiara la conclusione della vicenda.

Tetti mette a nudo la parte peggiore che può celarsi in ogni individuo. I pensieri e le emozioni più recondite, quelle che si fatica ad ammettere anche con se stessi. Devianze, perversioni, istinti razzisti e atteggiamenti omofobi vengono narrati dall’autore attraverso il racconto della mente dei protagonisti i quali, messi alle strette dalla propria coscienza, non possono non riflettersi nello specchio dell’anima, troppo spesso nera, argutamente mistificata nel relazionarsi con gli altri.

I cani salvano il mondo in “Grande Nudo” di Gianni Tetti

In diversi punti sembra che l’idea dell’autore richiami in parte quella narrata da Pirandello nelle sue novelle, quando i protagonisti smettono le maschere indossate per apparire con gli altri e, restando soli con se stessi, mettono in scena il proprio io. Un qualcosa di simile si ritrova nelle pagine di Grande Nudo, anche se il tutto è narrato con uno stile più confusionario di quello del grande drammaturgo.

Il testo si apre al lettore con una citazione di Lucio Dalla, con il passaggio di un suo brano musicale nel quale afferma o metaforicamente si interroga su «come è profondo il mare». Parafrasando la citazione si potrebbe affermare o interrogarsi metaforicamente su «come è profondo il male». Grande Nudo sembra essere stato scritto per questo.

Le oltre seicento pagine che compongono il testo sono racconti di storie in bilico tra realismo e fantasia, tra realtà e credenze popolari, superstizioni e paranoie varie. Un simbolico cammino, quasi un avanzare come una marcia degli umili, degli inetti, dei poveri, dei derelitti… i dimenticati e i rinnegati che guadagnano il loro riscatto grazie anche alla Natura che li aiuta per il tramite di uno stregone (majarzu) e dei cani, da sempre fedeli amici dell’uomo, che svolgono un ruolo determinante per il loro riscatto.

I cani salvano il mondo in “Grande Nudo” di Gianni Tetti

 LEGGI ANCHE – “Shift” di Hugh Howey

Grande Nudo di Gianni Tetti sembra un distopico alla rovescia, nel quale disperazione perversione criminalità e cattiveria non si scatenano come conseguenza di un evento catastrofico ma ne sono solo il preludio. Nella narrazione si mescolano immagini e personaggi del presente e del passato e scene apocalittiche di un presente senza tempo, o meglio fuori da un limite spazio-temporale ben definito, eppure in ogni dove e in ogni quando riconoscibili. Un libro, quello di Tetti, fuori dall’ordinario soprattutto per lo stile della narrazione, confusionario e caotico ma in grado lo stesso di svelare il grande nudo dei pensieri e dei sentimenti degli umani.

http://www.sulromanzo.it/blog/i-cani-salvano-il-mondo-in-grande-nudo-di-gianni-tetti

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Neuromarketing e potere subipnotico dell’era digitale. “Il cervello aumentato l’uomo diminuito” di Miguel Benasayag (Erickson, 2016)

23 lunedì Gen 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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CentroStudiErickson, Comunicazione, filosofia, Ilcervelloaumentatoluomodiminuito, MiguelBenasayag, neuromarketing, recensione, saggio

Siamo certi che l’unica via possibile per una coabitazione e una coevoluzione fra la vita, la cultura e la tecnica sarebbe questa vera e propria «artefattualizzazione del mondo»? Miguel Benasayag dichiara un suo convinto no e afferma di aver scritto Il cervello aumentato l’uomo diminuito proprio per dare il suo “piccolo” contributo alla famosa questione del senso, che «non è niente di più e niente di meno che il mondo della vita e della cultura», allo scopo di non farla annientare dalla «fascinazione infantile e spesso nichilista dei tecnofili irriflessivi».

El cerebro aumentato, el hombre disminuido uscito nel 2015 con Paidós in Argentina, arriva in Italia nel 2016 edito dal Centro Studi Erickson nella versione tradotta da Riccardo Mazzeo che ne ha curato anche la prefazione. Un libro, Il cervello aumentato l’uomo diminuito, che si rivela fin da subito molto interessante, per l’argomento trattato come per le considerazioni personali dell’autore che possono anche non essere condivise dal lettore ma che egualmente lo invogliano a una utile riflessione sull’evoluzione del mondo e dell’uomo contemporaneo. Benasayag comunque cerca di rimanere quanto più neutrale gli riesce e di affidare a studi scientifici i dati su cui riflettere, con riferimenti a conoscenze mediche, chimiche, fisiche, psicologiche, filosofiche e tecnologiche.

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Per Benasayag lo sviluppo tecnologico sovverte la struttura della nostra società con una forza comparabile soltanto «all’emergenza storica del Rinascimento», con tutto il carico di speranze e di paure che ne deriva. Quella attuale è la prima cultura a essere letteralmente «posseduta dalla tecnologia» che ha generato l’idea di vivere un’epoca dove tutto è possibile, e dove ciò che appare impossibile in realtà viene interpretato come non ancora possibile. Questa «tentazione di una potenza illimitata», che si affianca sempre più spesso alla «promessa di una deregolazione totale», si pone in netta antitesi alla «essenza stessa della vita in tutte le sue dimensioni: la fragilità». Che non va intesa come debolezza, bensì come “caducità della vita” di ungarettiana memoria.

 

L’autore non è contrario alla tecnologia e al suo sviluppo, solamente si sofferma su alcuni aspetti “deviati” del suo utilizzo. Tutto ciò che la tecnologia rende possibile si trasforma, nelle nostre società e nelle nostre vite, «rapidamente in qualcosa di obbligatorio» e non perché ci sia una costrizione fisica ma in quanto questi «possibili» che in «linea di principio ci facilitano la vita, scolpiscono il mondo secondo modi e caratteristiche propri». Inoltre va sottolineato che è in atto una vera e propria «rivoluzione della misura» che «punta a migliorare (aumentare?) le capacità del cervello umano a vantaggio della efficacia economica». Le conoscenze e i risultati degli studi sul cervello vengono usati sempre più spesso come «neuromarketing». Dove condurrà tutto questo? L’intento di Benasayag non è giudicare ma conoscere, capire e, potendolo fare, scegliere se proseguire lungo questa che viene indicata come l’unica via percorribile oppure provare almeno a trovarne delle altre.

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Il cervello umano viene di continuo equiparato a una «Macchina di Turing», capace di elaborare una quantità enorme di dati e di “trarre conclusioni” a partire dall’utilizzazione degli algoritmi e del programma incorporato, ovvero il software. Ma il cervello umano è altro. Innanzitutto questo è legato e strutturato al corpo che lo contiene e la «deterritorializzazione imposta dalla digitalizzazione sta creando una vera e propria distanza fra l’uomo e il mondo, e fra l’uomo e se stesso». Una “deterritorializzazione” che si declina in una «alterazione del cervello e del biologico organico in generale».

L’eccesso di informazione codificata priva di esperienza diretta trasforma gradualmente il cervello in una «lastra di gestione di informazioni» ma si tratta di informazioni che non «modellano il cervello perché non passano per il corpo». Tra gli esempi più efficaci addotti dall’autore spiccano quelli relativi alla formazione e alle “conoscenze” dei bambini.

Gli schermi di TV, giochi, tablet, computer dinanzi ai quali grandi e piccoli umani trascorrono sempre più tempo non solo non «aggregano le dimensioni» ma addirittura le annientano, creando una «forza irresistibile che ci affascina» e ci pone in uno «stato subipnotico, né gradevole né spiacevole: assente».

I bambini hanno perso o stanno perdendo il loro diritto ad annoiarsi, non tollerano la «frustrazione ingenerata dall’interruzione della cascata di stimoli» cui sono quotidianamente sottoposti durante i giorni «regolarmente strutturati da un diluvio di immagini». In questi momenti i bambini si sentono come di fronte a «un vuoto angoscioso». Ciò rappresenta un problema reale in quanto «la noia è fondamentale per lo sviluppo delle zone cerebrali associate all’immaginazione e alla creatività».

 

Scrivere a mano vuol dire «impegnarsi in una pratica che territorializza quel che stiamo pensando» mettendo in movimento reti neuronali e modificando la quantità di neuroni, la loro dimensione, le sinapsi e via discorrendo. La digitalizzazione del mondo, «la sostituzione di qualunque riferimento al mondo, per passare a funzionare con modellazioni di esso» implica un importante mutamento qualitativo. Il ruolo degli umani diventa secondario anche «nella circolazione ultrafluida dell’informazione». L’umano non è che un segmento di tale circolazione, «un segmento ogni volta sempre più destrutturato e fluido».

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Jean-Jacques Rousseau sosteneva che «il problema, con il progresso, è che vediamo quel che guadagniamo ma ignoriamo quello che perdiamo». Tanto più ci avvaliamo di informazioni custodite nella macchina e da questa elaborate, tanto meno il cervello potrà «scolpirsi, svilupparsi». La quantità di «vita intensiva» è differente per ogni cervello e dipende da quel che ciascun cervello «sperimenta». La domanda giusta da porsi è se davvero si vuole “delegare” alle macchine e alla digitalizzazione una quantità via via maggiore di funzionalità che caratterizzano il cervello nella consapevolezza che quello che di questo organo non viene utilizzato o stimolato o sfruttato in breve diventa “perduto”.

 

Nell’interscambio macchina-uomo avviene «un processo in una sorta di playback di trasformazione del cervello in “applicazioni” pratiche». In altre parole: l’interscambio con le macchine “macchinizza” l’uomo. Benasayag evidenzia la necessità di riuscire a «individuare dove si sia posizionata la singolarità in un mondo e in un paesaggio che cambiano giorno dopo giorno». Un mondo dove la tecnologia sembra abbia «colonizzato la cultura e la vita» e dove si può ancora cercare una modalità di «ibridazione umano-biologica-artefatto» che favorisca la «colonizzazione della tecnologia da parte della vita e della cultura».

Un ottimo saggio, Il cervello aumentato l’uomo diminuito di Miguel Benasayag, in grado di accompagnare il lettore in un viaggio nella “fragilità” degli umani in un mondo, quello attuale, in cui tutto sembra orientato verso «l’ideale di emanciparsi dalla natura». L’uomo moderno è colui che «pretende di autocostruirsi», ambisce a essere «il creatore e la creatura» e per raggiungere il suo obiettivo vorrebbe che «nulla di ciò che è innato venga a disturbarlo», incluso il suo corpo. L’uomo moderno però sembra dimenticare o non conoscere che corpo e cervello sono strutturati insieme, che la “potenza tecnologica” in realtà è molto meno complessa del biologico organico, che un “cervello aumentato” non corrisponde necessariamente a conoscenze di “spessore” maggiore… e Benasayag ha fatto benissimo a ricordarlo.

Miguel Benasayag: Filosofo e psicoanalista di origine argentina che vive ed esercita la professione di psicoterapeuta a Parigi. Partecipò alla guerrilla guevarista nel suo Paese dove restò in carcere per anni. È autore anche di L’epoca delle passioni tristi e C’è una vita prima della morte?

Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa del Centro Studi Erickson per la disponibilità e il materiale.

 

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Stragi di Ustica, Bologna e Irpinia, un viaggio nel dolore vero

17 martedì Gen 2017

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FrancescoBennardis, IlBuio, recensione, romanzo, Sensibiliallefoglie

Stragi di Ustica, Bologna e Irpinia, un viaggio nel dolore vero

Romanzo d’esordio di Francesco Bennardis, Il Buio (Sensibili alle Foglie, 2016) accompagna il lettore in un viaggio indietro nel tempo, nell’Italia del 1980 moralmente devastata dalle stragi di Ustica e alla stazione di Bologna, avvenute a poche settimane l’una dall’altra, e dal terremoto in Irpinia nel novembre dello stesso anno. E lo fa partendo da un dramma famigliare intimo personale che colpisce una giovane mamma e un giovane papà proprio nell’isola che da quell’anno in poi sarà ricordata per l’inabissamento del DC9, come macabro teatro della strage.

Irene e Antonio perdono tragicamente il loro unico figlio, Flavio, e sprofondano in un buio talmente fitto da impedire loro finanche di vedersi, di toccarsi…  e convinti che il loro amore sia finito si lasciano. Proprio nel momento in cui Irene pensa di non riuscire a trovare la forza per andare avanti trova la sua luce in quelle stragi, in quei morti senza una ragione. Le ricerche e i tentativi di documentarsi su quanto accaduto a Ustica e a Bologna la impegnano al punto che, quasi senza rendersene conto, si riavvicina ad Antonio e alla vita. Non perché abbia superato il dolore o la perdita bensì perché vuole dare al dolore e alla perdita un senso.

La sera del 23 novembre la terra trema e la scossa si sente anche a Ustica. Ma l’epicentro è lontano. Piccoli paesi arroccati sull’Appennino meridionale interamente rasi al suolo. Migliaia i morti. I feriti. I dispersi. I sepolti ancora vivi. Ed è proprio per loro che Irene ritrova in se stessa una forza e una determinazione che credeva aver perduto per sempre. Perché se per le vittime di Ustica e Bologna non c’era nulla che potesse fare, per i terremotati d’Irpinia determinante poteva essere il suo aiuto, unito a quello dei tanti volontari che hanno fatto scoprire allo Stato Italia il valore di sentirsi una Nazione. Uno schiaffo ben assestato alle istituzioni che si sono mostrate assenti, distanti inefficienti… «Fate Presto!» è stato l’urlo amplificato dai titoli a caratteri cubitali di giornali e telegiornali ma i soli a essere stati celeri e recatisi in tempi brevi sul posto sembrano essere stati solo loro, giornalisti di tv e quotidiani. «Dove sono le ruspe, i mezzi di soccorso, le unità mediche?».

Stragi di Ustica, Bologna e Irpinia, un viaggio nel dolore vero

Già, “dove sono?”. In tanti se lo sono domandato. Il fotogramma simbolo della tragedia avrebbe dovuto essere non il dipinto di Warhol ma le parole di un sopravvissuto che tenta di estrarre un ferito dalle macerie con mezzi di fortuna e redarguisce il cine-operatore che gli chiede se può rivolgergli qualche domanda. «Perché non lascia la telecamera e viene ad aiutarmi?», la sua risposta. Il cronista non lo fa e restano solo i perché.

«In quell’urlo sento la voce di tutti quei bambini, quella di Flavio, delle piccole vittime dell’aereo che è precipitato, dei bambini uccisi dalla bomba a Bologna. Tutti quei bambini che sono lì; tra loro potrebbe essercene qualcuno come Flavio che aspetta solo d’essere salvato».

Ma l’Italia è così, un Paese strano che «scorda in fretta e sembra più attratto da storie di morti recenti, senza essersi preoccupato d’aver dato prima giustizia e riposo a quelle precedenti». Un Paese che sembra rispecchiare alla perfezione il Mondo. Perché non fanno più “abbastanza notizia” i bambini di Aleppo, quelli della Striscia di Gaza, dello Yemen, di Accumoli, Amatrice, Castel Sant’Angelo… dell’incidente ferroviario in Puglia, quelli africani che ormai hanno smesso di essere “notizia” o “servizio” da telegiornale per diventare solo i protagonisti di spot pubblicitari raccimola-soldi. Quegli stessi bambini che in tanti si sono vantati, per anni, di aver “adottato a distanza” sono i fratelli, le sorelle, i cugini, le cugine o sono proprio gli stessi che tentano disperati i viaggi della speranza a bordo di mezzi di fortuna e, se sopravvivono, diventano improvvisamente ingombranti, fastidiosi e, di recente, anche pericolosi. La pena e la pietà valgono solo a debita distanza?

Francesco Bennardis ha scritto un libro commovente nel tentativo di dimostrare che non è questo il modo corretto di vivere in questo mondo e che solo la solidarietà umana può vincere il dolore, anche quello più profondo. Si piange leggendo Il Buio, si piangono quelle lacrime silenziose che sgorgano come sangue dalle ferite, lacerano il desiderio di ricacciarle indietro e si fanno strada tra la rabbia e il dolore che si provano pensando alle calamità, alle tragedie, agli incidenti, agli attentati ma soprattutto alle ingiustizie. Prime tra le azioni crudeli e criminali a restare impunite o peggio a diventare delle pene scontate tramite risarcimenti monetari e finanziamenti a fondo perduto.

Stragi di Ustica, Bologna e Irpinia, un viaggio nel dolore vero A buon diritto Il Buio di Francesco Bennardis può essere considerato un grande esordio letterario perché egli non ha semplicemente raccontato una storia ma un Paese. Ha inventato una trama per legarla all’ordito della Storia italiana del 1980, alle stragi di Ustica e Bologna, al terremoto in Irpinia. Ha narrato di un dolore per dare la voce a tanti altri rimasti inascoltati o muti. Ha raccontato la morte e l’ingiustizia per lanciare un messaggio di speranza per la vita. Ha ridato al romanzo la funzione educativa auspicata dal Manzoni. E lo ha fatto con una grande umiltà di scrittura e di linguaggio.

http://www.sulromanzo.it/blog/stragi-di-ustica-bologna-e-irpinia-un-viaggio-nel-dolore-vero

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Vuoi davvero ricordare cosa ti è successo? “Non tutto si dimentica” di Wendy Walker (Nord, 2016)

16 lunedì Gen 2017

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EditriceNord, Nontuttosidimentica, recensione, romanzo, WendyWalker

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Non tutto si dimentica dell’avvocato e scrittrice americana Wendy Walker ruota interamente attorno alla domanda: “Vuoi davvero ricordare cosa ti è successo?” Il perché lo si scopre nello struggente finale che induce nel lettore ulteriori interrogativi sugli effetti, a livello psichico, del male, inferto e subito.

Il romanzo, uscito negli Stati Uniti col titolo All is not forgotten e tradotto o in corso di traduzione in oltre venti Paesi, arriva in Italia edito dalla Editrice Nord nella versione tradotta da Barbara Ronca, in prima versione digitale a ottobre 2016.

Il libro ha una trama che non può non far presa sul lettore. Adolescenza violata, disperazione dei genitori, segreti, relazioni extraconiugali, personalità borderline, vecchi misteri e crimini irrisolti che si intrecciano con i nuovi… c’è tutto quello che un lettore può chiedere a un thriller psicologico. Lo stile di scrittura è schietto ma la narrazione subisce dei cali di scorrevolezza dovuti alla volontà ripetuta di creare suspense utilizzando dei “diversivi”. Più volte il racconto di quanto accaduto e dei possibili indizi per arrivare alla risoluzione del mistero viene bruscamente interrotto per essere ripreso solo in seguito, spesso in un differente capitolo del libro, oppure “deviato” dalle informazioni circa le abitudini della cittadina e dei cittadini di Fairview, una piccola comunità che nasconde innumerevoli segreti ma che molti di essi non hanno nulla a che vedere con il delitto oggetto delle indagini.

Un lettore che vuole appassionarsi al libro avendolo scelto perché è un thriller e non “solo” un romanzo a tratti si infastidisce per queste dispersioni narrative volendo egli, come consuetudine per gli amanti del genere, riuscire a entrare fin da subito nel crimine e nelle indagini e realizzando solo all’incirca a metà libro che la sfida per lui può essere ancora più interessante del solito, in quanto deve giocarsela con un “professionista” delle turbe mentali.
L’io narrante è lo psichiatra Alan Forrester che segue “la vittima” Jenny Kramer, i suoi genitori, il suo migliore amico e il suo aggressore.
Lo sviluppo della trama e la sua risoluzione invitano chi legge a riflettere sulla reale necessità della “condivisione” di un crimine o di una violenza, inflitti o subiti.
Studi psicologici ipotizzano un “ambivalente piacere” procurato dalla sofferenza altrui. E se ciò vale per le persone “normali” non si può non chiedersi cosa provoca la “spettacolarizzazione pubblica” di crimini e violenze sempre più diffusa, in nome dell’imperativo che vuole il silenzio un’arma ancor più affilata in mano agli aggressori, in personalità al limite, in bilico o già criminali.
Non tutto si dimentica di Wendy Walker ci dimostra che l’eccessivo bisogno di “condividere” può causare e causa addirittura emulazione, che gli effetti di un grosso trauma non si riescono a cancellare nemmeno con una terapia farmacologica studiata ad uopo, che neanche il tempo ci riesce del tutto, che un buon libro, anche se è un thriller, non deve limitarsi a rispondere a degli interrogativi bensì generarne degli altri.

Wendy Walker: È un avvocato specializzato in diritto famigliare dello Stato del Connecticut. Non tutto si dimentica è il suo romanzo d’esordio.

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© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Dimmi che c’entra la felicità” di De Filpo e Corraro (Edizioni Ensemble, 2016)

10 martedì Gen 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Dimmichecentralafelicita, Ensemble, MargideFilpo, racconto, recensione, VincenzoCorraro

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Dimmi che c’entra la felicità di Margi de Filpo e Vincenzo Corraro è una silloge di 18 racconti, alternati per autore, che in punta di piedi e con un linguaggio pacato e misurato accompagnano il lettore nei mille mondi descritti. Piccoli universi di storie di vita ordinaria. Infiniti microcosmi di una quotidianità a volte struggente altre accompagnata da una profonda leggerezza che comunica, in ogni caso, una vocazione alla parola come narrazione di fatti sentimenti riflessioni e denuncia.
Il libro si apre al lettore con un testo di Corraro. La collina davanti al mare racconta la parabola di un uomo del Sud che le ha provate tutte, compresa l’emigrazione, prima di gettare la spugna e arrendersi. Una resa che nel protagonista equivale a una rinascita, una voglia di riscatto che si concretizza nel desiderio di azzerare tutto e ripartire, cercando di non sprecare di nuovo ciò che la vita offre o che a questa si riesce a strappare.
Una riflessione amara, quella condotta da Corraro, sulle psicosi e nevrosi della vita moderna. Sul desiderio sfrenato di “possedere”: una casa, una famiglia, dei figli, del denaro, una posizione sociale… Sul ruolo che in questa vorticosa giostra viene dato agli affetti e all’amore. Sulla vita che può essere un rettilineo oppure una curva mal progettata dove basta un attimo, un granello di brecciola, un rivolo d’acqua o una piccola distrazione per farti precipitare nel vuoto.
Se Corraro descrive la “periferia” dello Stato nella sua marginalità di luoghi dimenticati, per certi versi, dal progresso e dalla modernità, la De Filpo racconta invece quella di una grande metropoli come Roma dove “combattono” per sopravvivere giovani e meno giovani formatisi in tutti i gradi (lauree, dottorati, master…) e che lottano per un misero posto in qualche anonimo call center sempre in bilico tra il rinnovo del contratto e il licenziamento, spesso dovuto alla “necessità” di una delocalizzazione dell’azienda per ridurre i costi e poter restare sul mercato. Assurdità e contraddizioni di luoghi dove invece il progresso e la modernità sono entrati a gamba tesa e hanno manifestato il loro lato più nero. Questo raccontano i protagonisti di L’ultima chiamata al call center.
Diego de Silva ha sapientemente sintetizzato in poche battute ciò che il lettore trova in Dimmi che c’entra la felicità quando ha descritto gli autori «pazienti e sapientemente incostanti» in grado di comprendere da soli quando è il momento giusto per “affacciarsi” al pubblico, ovvero quando il loro lavoro è abbastanza maturo.
Non si trova alcunché di “acerbo” nei racconti di De Filpo e Corraro. Anzi la narrazione scorre fluida, i personaggi sono ben caratterizzati al punto che nei racconti successivi più volte chi legge spera di rincontrarli.
Il tema centrale del libro è naturalmente la felicità. Questa chimera che ognuno rincorre a proprio modo e che in pochi riescono a intuire che «non è un accidente come la tragedia, che quando la eviti arriva da un’altra parte». La felicità si nasconde «lungo la strada, dietro l’ultima curva prima del mare».

Margi de Filpo: Di origini lucane, vive a Roma. Ha pubblicato i romanzi Nero di lacrime e luoghi comuni e Liza, oltre alla short story Sensation.

Vincenzo Corraro: È nato e vive a Viggianello, in Basilicata. Ha scritto i romanzi Isabella e Sahara. Vincitore del premio “Nati 2 volte” per l’opera prima, i suoi racconti sono apparsi anche in varie antologie e su testate giornalistiche.

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© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Chi sono i padroni del mondo”, il lato oscuro delle potenze democratiche nell’analisi di Noam Chomsky

02 lunedì Gen 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Chisonoipadronidelmondo, NoamChomsky, NWO, ordinemondiale, PontealleGrazie, recensione, saggio

 

“Chi sono i padroni del mondo”, il lato oscuro delle potenze democratiche nell'analisi di Noam Chomsky

Chi sono i padroni dell’universo? Chi governa realmente il mondo? In quale modo e soprattutto perché lo fa?

Domande che tutti si pongono e alle quali Noam Chomsky ha cercato di dare delle risposte in base agli accadimenti, ai fatti, alle azioni e alle reazioni dei singoli Stati ai piccoli e grandi eventi della Storia, passata e presente.

Uscito a ottobre per Ponte alle Grazie nella versione tradotta da Valentina Nicoli, Who rules the world? di Noam Chomsky perde il suo punto di domanda ma non lascia cadere gli interrogativi che cerca di risolvere e soprattutto quelli nuovi che crea nel lettore.

A partire dal secondo conflitto mondiale la bilancia pende «in modo spropositato» dalla parte degli Stati Uniti d’America. Sono loro a «imporre ancora le regole del discorso globale, dalla questione israelo-palestinese all’Iran, all’America Latina, alla “guerra al terrore”, al sistema economico internazionale […]». Ma i «padroni dell’universo» sono tutte le «potenze capitalistiche (i paesi del G7) e le istituzioni da loro controllate (il Fondo monetario internazionale e le varie organizzazioni mondiali del commercio)». Chomsky ne spiega in dettaglio i perché sottolineando come questi poteri in realtà «non rappresentano le popolazioni», neanche negli stati che si definiscono tra i più democratici. I cittadini hanno sempre poca voce in capitolo sulle scelte politiche e si cerca di dargliene sempre meno.

La maggioranza dei cittadini è di fatto esclusa dal sistema politico mentre «l’esigua fascia che si trova al vertice di quella scala esercita un’influenza straordinaria». Inoltre per Chomsky le politiche governative sono ampiamente prevedibili. Basta dare un’occhiata ai finanziamenti destinati alle campagne elettorali per realizzare quale sarà la direzione dei provvedimenti, interni e internazionali. Studi di ricercatori in Usa, i cui dati sono riportati nel testo, sembrerebbero ampiamente confermare queste affermazioni.

Per Noam Chomsky il declino della democrazia in Europa non sembra molto diverso da quello americano. «Il processo decisionale sui temi di maggiore rilevanza si è spostato nelle mani delle burocrazie di Bruxelles e dei poteri finanziari che esse in larga misura rappresentano».

Uno degli esempi più eclatanti è stata, per l’autore, la reazione «furibonda» al referendum in Grecia del luglio 2015: «era inaccettabile l’idea che il popolo greco potesse dire la sua sulle sorti della sua società, fatta a pezzi dalle disumane misure di austerity della troika». Un atteggiamento che ha manifestato tutto lo «sfregio della democrazia» da parte di una classe politica “democratica” che dovrebbe essere al servizio dei cittadini.

“Chi sono i padroni del mondo”, il lato oscuro delle potenze democratiche nell'analisi di Noam Chomsky

In Chi sono i padroni del mondo Chomsky si sofferma a lungo sulla questione del terrorismo, sulla definizione di terrorista, sulle «responsabilità degli intellettuali», sui vari accadimenti, sulle guerre e soprattutto sugli «interventi umanitari» che si rivelano da sempre una «catastrofe per i presunti beneficiari».

Lo stemma della Colonia di Massachusetts Bay raffigurava un indiano con una pergamena che gli fuoriusciva dalla bocca e sulla quale c’era scritto: «Venite ad aiutarci». Nella versione distorta e faziosa della realtà quindi «i coloni britannici erano dei benefattori che hanno risposto all’appello dei poveri nativi per essere salvati dal loro destino amaro e pagano». Uno stemma che sintetizza alla perfezione «l’ideale americano» secondo cui ancora oggi gli “eletti” sono chiamati a intervenire in ogni angolo del pianeta per “salvare” nativi, pagani… secondo una visione del mondo ben diversa da quella reale.

Il “mondo” di cui parlano sempre i «padroni dell’universo» è in realtà cosa differente dal “mondo reale” e sta a indicare «la classe politica di Washington e di Londra (e chiunque sia d’accordo con loro)», in quanto se l’espressione “il mondo” «si applicasse davvero al mondo intero, anche altri potrebbero ambire al premio di criminale più odiato».

Nel maggio del 2011, su volere di Obama, sono stati inviati in Pakistan 69 incursori delle forze speciali, «per portare a termine l’assassinio, palesemente premeditato, dell’indiziato numero uno degli orrori dell’11 settembre, Osama bin Laden». I militari americani hanno colpito un bersaglio disarmato e privo di scorta, senza valutare neanche per un momento l’opzione di catturarlo per poi processarlo, come invece è stato fatto per i criminali di guerra nazisti, e tentare almeno di farlo “parlare”. Un’uccisione, per cui non è stato ritenuto necessario effettuare l’autopsia, definita dalla stampa, da quella parte almeno che Chomsky definisce “intellettuali responsabili”, «azione giusta e necessaria».

Ciò su cui l’autore invita a riflettere è il nome attribuito all’operazione: Geronimo, e si chiede perché Obama abbia voluto, consciamente o inconsciamente, «identificare Bin Laden con il capo apache che aveva guidato la coraggiosa resistenza del suo popolo contro gli invasori».

Quella scelta ricorda molto la superficialità e la leggerezza con cui «battezziamo le nostre armi letali con i nomi delle vittime dei nostri crimini: Apache, Blackhawk, Cheyenne». Un qualcosa che passa del tutto in sottotono ma immaginiamo le reazioni, di sicuro più forti, se «la Luftwaffe avesse chiamato i suoi caccia Ebreo o Zingaro».

“Chi sono i padroni del mondo”, il lato oscuro delle potenze democratiche nell'analisi di Noam Chomsky

Sempre con riferimento agli “intellettuali responsabili”, ovvero giornalisti storici critici che mentono sapendo di mentire, dimenticando le loro reali responsabilità nei confronti dei lettori per diventare degli sfacciati «apologeti dei misfatti americani e israeliani», Chomsky sottolinea più volte come questi siano giunti anche ad affermare che «mentre gli arabi ammazzano i civili di proposito, Stati Uniti e Israele, essendo società democratiche, non lo fanno intenzionalmente».

Come consueto l’autore riporta svariati esempi a supporto delle sue considerazioni, azioni similari che ricevono una interpretazione differente e di conseguenza il pubblico ne avrà una percezione diametralmente opposta.

In base a tutto ciò Chomsky invita il suo lettore ad «assumere la prospettiva del mondo reale» e chiedersi chi realmente siano i «criminali che vogliono la fine del mondo».

Il libro di Noam Chomsky è una lettura abbastanza impegnativa. Oltre trecento pagine di una rivisitazione storica secondo una chiave di lettura che non lascia molto spazio al fraintendimento e alla edulcorazione della realtà dei fatti, scritte tuttavia con uno stile che cerca di essere più semplice e chiaro possibile, accessibile a tutti coloro vogliano quantomeno provare a riflettere e mettere in discussione la ‘versione ufficiale’ della Storia e chiedersi, insieme all’autore, chi governa il mondo e, soprattutto, secondo quali principi e valori lo fa.

http://www.sulromanzo.it/blog/chi-sono-i-padroni-del-mondo-il-lato-oscuro-delle-potenze-democratiche-nell-analisi-di-noam-cho

 

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