Oggi le donne sono al potere. Dirigono imprese, governano paesi, comandano eserciti. Ne hanno conquistato il diritto. Ne sono capaci. Ma nulla va dato per scontato.
Questo il motivo per cui Giulia Sissa, docente di scienze politiche alla University of California, ha ritenuto necessario un libro che ripercorresse la tappe determinanti di questo lungo e tortuoso percorso che dagli antichi greci giunge fino a noi e ha, come meta, la parità l’eguaglianza e il rispetto reciproco.
I greci hanno saputo immaginare ragazze eroiche, madri autorevoli, regine guerriere. Ma hanno anche inventato l’autogoverno di cittadini guerrieri, la demokratia, nel quale il popolo è maschio e deve essere virile. Ed ecco che le donne potenti diventano impossibili.
L’uomo è un animale politico e la donna un animale domestico: Aristotele organizza queste idee in un sistema di pensiero. Il cristianesimo ne diffonde i principi e ne rafforza il rigore.
Sarà solo alla fine del Settecento che emergeranno nuovi diritti, i quali appartengono a ogni individuo in quanto essere umano, senza distinzione di genere. È il progetto emancipatorio dei Lumi. È la premessa della qualità democratica moderna. Per Giulia Sissa, è il nostro orizzonte.
Le donne non sono identiche agli uomini e gli uomini non sono identici alle donne. Biologicamente è così. Per cui, nell’analisi dell’autrice, ciò che rende veramente possibile l’emancipazione e l’uguaglianza lo dobbiamo a quei filosofi che sostituiscono la legge naturale con i diritti umani. Lo dobbiamo alla cultura dei Lumi. Non quella portata avanti da Rousseau il quale, ancora più sprezzante di Aristotele, rifiuta alle donne la possibilità di “coltivare” la ragione, ossia di ricevere un’istruzione adeguata, accusandole di usurpare diritti non dovuti. È con Condorcet che il progetto dell’Illuminismo comincia ad apportare chiarezza scientifica, a sostituire il biasimo con il sapere.
Ancora oggi si dà per scontato che le donne, anche le donne politiche scienziato astronauta medico ingegnere, siano invischiate nella domesticità alla quale, del resto, non si smette di ricondurle. Si mette in risalto la loro apparenza fisica, come se avesse in qualche modo a che fare con ciò che pensano, dicono e contro cui si battono o da cui si difendono.
Le donne vivono la loro presenza in posizioni di alta responsabilità come un’intrusione in un universo solidale, omogeneo, fratriarcale.1 In tali condizioni giungono a dubitare della loro legittimità. Forse il motivo per cui sovente si assiste a una sorta di metamorfosi riguardo le donne che hanno il potere – politico o economico – e che ricoprono ruoli apicali. Attivano una sorta di mascolinizzazione, evidente nei comportamenti, nelle espressioni verbali e, a volte, anche nell’abbigliamento. Quasi a voler celare la loro reale identità e tentare di uniformarsi o mimetizzarsi all’interno di questo ambiente fratriarcale che le circonda.
I teorici contemporanei della democrazia si appoggiano al postulato dell’universalismo: il demos moderno è inclusivo. Nei processi di democratizzazione vediamo emergere l’aspirazione a un’uguaglianza sociale, intesa come equivalenza, autonomia e partecipazione.2 L’equivalenza significa attribuire un valore uguale a individui che appartengono a gruppi sociali diversi ma che sono tuttavia riconosciuti e rispettati nella misura in cui condividono tutti una stessa umanità. Ammettere tutti i cittadini al diritto di cittadinanza non significa abolire le differenze – di ricchezza, status, classe, genere – bensì trascendere queste distinzioni in vista di un livello superiore di somiglianza umana.
Il libro
Giulia Sissa, L’errore di Aristotele. Donne potenti, donne possibili, dai greci a noi, Carocci Editore, Roma, 2023
1F. Gaspard, Du patriarcat au fratriarcat. La parité comme nouvel horizon du feminisme, in «Cahiers du genre», 2-3, 2011.
2P. Rosanvallon, La società dell’uguaglianza, Castelvecchi, Roma, 2013.
Nel 1879 il governo degli Stati Uniti dichiarò il capo Sioux Orso in Piedi “persona” di diritto. Eppure, gli sottrasse comunque le sue terre.
I colonizzatori occidentali, desiderosi di assicurarsi legalmente il possesso delle terre native, introdussero una formalità che i loro predecessori indiani non avevano mai conosciuto: l’atto di proprietà. Redatto da un organo governativo chiamato Commissione per la confisca.
Dell’occupazione dei nativi americani forse secolare, forse addirittura millenaria, s’intravedono ormai solo pallide ombre. Negli ultimi tempi, alcune comunità del New England hanno iniziato a offrire – anche solo con un breve discorso, una concisa omelia, un momento di silenzio all’apertura di un’assemblea pubblica – un segno di rispetto ai nativi americani. Ciò avviene già da anni in Australia e in Nuova Zelanda, paesi il cui trattamento dei loro predecessori aborigeni non è meno deplorevole di quello palesato in America.
Per Simon Winchester, scrittore e giornalista del «Guardian», il fatto che questa pratica, teoricamente redentiva, si stia diffondendo lentamente fino al tessuto pubblico degli Stati Uniti non può che essere un segnale positivo. In Terra egli si stupisce anche solo di come sia concepito il concetto di proprietà e di come in molti, in tutto il mondo, sembrano spingersi a tanto per acquistare ipotecare difendere rubare comprare entrare in comunione con un’entità che, in verità, non può essere posseduta da nessuno, mai.
Gran parte di coloro che oggi rivendicano il possesso di un terreno lo ha acquistato di seconda mano. In generale, la terra che appartiene a qualcuno ora è già appartenuta a qualcun altro in passato e, che si tratti di un prato o una brughiera, di un tratto sul fianco di una montagna o di un parcheggio sulla strada principale, può essere descritta al pari di un’auto o di una lavatrice: second hand. Non sempre però. Esistono piccole sacche di terra nuove di zecca che non sono mai state di proprietà di qualcuno.
Surtey, al largo della costa dell’Islanda meridionale, è un’isola di circa 600 acri di terra nuova, nata dal mare nel novembre del 1963 e, poiché la sua roccia è crepata e friabile e facilmente spazzata dalle onde e dal vento, sta lentamente diminuendo di dimensioni. Tuttavia, durante la sua esistenza, ha accumulato una discreta quantità di vita non umana.
Nel Pacifico meridionale, una piccola isola è apparsa dopo che si sono diradate le ceneri sparse dal vulcano nel Regno di Tonga. Anche Hunga Tonga come Surtey si sta lentamente erodendo.
La natura non è la sola a creare nuova terra, anche l’uomo lo fa. Discreti appezzamenti di nuovo territorio sono stati realizzati, in luoghi solitamente sovraffollati, a colpi di ingegneria dragaggi scavi demolizione di grandi quantità di materiali che sono stati gettati in mare allo scopo di far nascere nuove proprietà immobiliari.
Il Trattato di Nanchino del 1841 obbligò la Cina a cedere in perpetuo alla Gran Bretagna le isole di Hong Kong e Stonecutters. Quest’ultima, dove la Royal Navy immagazzinava le munizioni per la Flotta del Pacifico in lunghi e profondi tunnel scavati nel granito, non è più un’isola da anni. La discarica la collega ora alla terraferma di Kowloon, e su di essa sono stati eretti condomini e ferrovie e tunnel della metropolitana che la attraversano. La terra appartiene a Hong Kong ma è locata ai costruttori.
A Manhattan esiste un terreno artificiale, nell’unica estensione della discarica che costeggia gli scisti e gli gneiss fin troppo solidi dell’isola stessa. Battery Park City, con le sue migliaia di appartamenti e i suoi alberghi, negozi e uffici, è stata costruita nella punta sud-occidentale dell’isola su un terreno artificiale, dragato sotto gli occhi della Statua della Libertà, strenuamente sbarrato dal mare e poi asciugato e livellato per divenire talmente solido che l’edificazione è proseguita per i successivi trent’anni. Il terreno appartiene ancora a un ente pubblico.
Tutte queste terre, che siano plasmate dalla natura o estensioni create dall’uomo, sono di piccole dimensioni. C’è un paese intero sorto dal lavoro degli uomini che hanno conquistato e strappato il terreno alla natura, o meglio alle acque. Il Regno dei Paesi Bassi ha trascorso gran parte della sua esistenza recente a fabbricare nuovi territori per sé e per gli olandesi e, una volta realizzati, a fare in modo che questi beni immobili divenissero proprietà privata. I Paesi Bassi sono essenzialmente un enorme delta fangoso, un ammasso di pianure alle foci di tre grandi fiumi europei: Reno, Mosa, Schelda. Oggi si compone di dodici province, sei delle quali hanno come suffisso comune la parola land, terra. Il sostentamento del regno è sempre dipeso dal suo successo nel combattere le acque del Mare del Nord, sempre più agitate e, al giorno d’oggi, sempre più alte.
Dal 1880 a oggi il livello del mare è aumentato di oltre 20 centimetri. La velocità con cui il livello del mare continua a crescere è più che raddoppiata nell’ultimo periodo, passando da 1.5 millimetri a 3.6 millimetri all’anno. Se si prende come riferimento il periodo tra il 2013 e il 2021, l’aumento è risultato pari a 4.5 millimetri per ogni anno, secondo i dati del 32° Rapporto State of the Climate. A incidere sul fenomeno dell’innalzamento sono tre fattori principali: l’espansione termica dovuta all’aumento delle temperature dell’acqua, lo scioglimento dei ghiacciai montani e quello delle calotte glaciali di Groenlandia e Antartide.
Almeno 900 milioni di persone, che vivono in aree costiere in tutto il mondo, subiranno l’impatto dell’innalzamento del livello dei mari. Mentre gli abitanti di piccoli Stati del Pacifico, come le Fiji, Vanuatu e le Isole Salomone, già in parte sommerse, si stanno trasferendo.
Si calcola che saranno oltre 1800 chilometri quadrati di terra che rischiano di essere sommersi.
Se, da un lato, si cerca di preservare quanta più terra possibile per averne disponibilità, dall’altra ne si limita l’utilizzo rendendola, di fatto, inaccessibile. Un paradosso che Winchester sottolinea più volte nel testo.
La recinzione della terra, la rimozione di una porzione della superficie terrestre dalla proprietà comune di molti a quella di uno o più individui privati, ha costituito una vera rivoluzione dell’ordine sociale.
I più grandi proprietari terrieri del mondo sono quasi tutti i monarchi o sovrani assoluti. L’elenco non può non includere il sovrano britannico, proprietario tecnico in ultima istanza dell’intera superficie del Regno Unito, dalle Schetland alle Isole Scilly, insieme a porzioni o intere parti delle 54 nazioni ora indipendenti che un tempo facevano parte dell’Impero. Un quarto della popolazione mondiale vive su terre in rapporto nominalmente feudale con la Corona.
I più grandi proprietari terrieri privati del mondo sono australiani. La più grande proprietà singola del paese, nell’Australia meridionale, è una stazione ovina che si estende per quasi 6 milioni di acri. Negli Stati Uniti c’è un discreto numero di proprietari terrieri molto ricchi. I venti più facoltosi possiedono ben oltre mezzo milione di acri a testa, e i primi cento nel loro insieme detengono tanta terra quanto l’intero stato della Florida.
Al centro del concetto di proprietà della terra c’è il diritto di dire agli altri di andarsene. Chi acquista un terreno può godere del Bundle of rights, complesso di diritti: possesso, controllo godimento disposizione e esclusione. Un proprietario terriero può escludere gli altri, può vietare ad altri di entrare nella sua proprietà e ha il diritto di chiedere alle forze all’ordine di costringere chi sconfina ad andarsene.
In molti stati la violazione di domicilio è considerata una grave infrazione dello spazio personale. All’estremo opposto, ci sono paesi in cui è del tutto legale per chiunque trovarsi su un terreno di proprietà privata.
In Scozia dal 2003 non esiste più il concetto di violazione di domicilio. Il diritto di accesso ha, per la maggiore, la meglio sul diritto quantomeno di privacy del proprietario.
Il diritto di muoversi liberamente senza arrecare danno in un territorio, per fare esercizio fisico o semplicemente per ristorare l’anima, è stato per secoli parte inalienabile dell’esistenza umana.
Terra, aria, oceano erano un tempo componenti del diritto di nascita dell’uomo. Oggi, la natura pubblica della terra, in particolare, è stata notevolmente ridotta e i diritti umani universali relativi al suo utilizzo si sono sempre più assottigliati.
In Scandinavia l’antico diritto di muoversi liberamente per il territorio, il cosiddetto allemansrätten – il diritto di tutti – sopravvive e viene custodito.
Tutte le foreste e i terreni agricoli della Bielorussia sono decretati di proprietà pubblica dalla costituzione nazionale postsovietica e chiunque può avventurarsi nei boschi del paese a prendere legna, frutta, bacche e piante medicinali. In Estonia è espressamente consentito raccogliere nocciole a volontà. In Baviera esiste una legge chiamata Schwammerlparagraph – clausola dei funghi – che dà a tutti il diritto assoluto di raccogliere e appropriarsi di piante selvatiche all’interno delle foreste regionali.
Gli usi civici sono diritti che, da sempre, le comunità locali esercitavano sul loro territorio per trarne i prodotti necessari alla sopravvivenza. Nonostante le proprietà collettive sono inalienabili, negli ultimi due secoli la loro superficie si è grandemente ridotta. Alla fine del XVIII secolo rappresentavano circa l’80% del territorio italiano. Ora solo un decimo.
L’istituto delle proprietà collettive è stato quasi sempre ignorato, solo all’indomani della crisi economica del 2008 si è riscontrato un rinnovato interesse per il territorio e le sue risorse, fruibili dall’intera comunità.
Le proprietà collettive italiane presentano una straordinaria biodiversità. Tra le maggiori ci sono: le Regole e leMagnifiche Comunità del Trentino Alto Adige, le Vicinie del Veneto, le Partecipanze dell’Emilia Romagna, le Università Agrarie del Lazio. In generale, sono membri effettivi della comunità individui di sesso maschile, discendenti per linea maschile degli originari abitanti del luogo. Ma questa non è una regola assoluta. Alcune comunità accettano come membri a tutti gli effetti persone che lavorano da un certo periodo nell’ambito della comunità e, in alcuni casi, anche donne.
Il ruolo delle universitas era di notevole importanza nel passato feudale italiano. La sua funzione travalicava la mera gestione di un patrimonio collettivo di terreni comuni, configurandosi come strumento di partecipazione attiva alle scelte importanti nella vita della comunità. Oggi si configura quale forma partecipativa associata di gestione delle terre di proprietà collettiva di un determinato territorio, costituendo un punto di riferimento per i residenti che fruiscono delle risorse naturali ivi presenti.
Per Simon Winchester, le città sono il luogo in cui la terra viene a morire. Dove sorgono le grandi città – Tokyo, Messico, Shanghai, Londra, New York, Il Cairo, Los Angeles, Chongqing, Seul – i pascoli e le foreste sono stati sostituiti dall’asfalto e dal cemento, il verde ha lasciato il posto al grigio, i corsi d’acqua sono divenuti fognature piastrellate, le vallate e le montagne gole intasate di auto che separano i grattacieli. Nelle periferie oltre la cinta urbana, il degrado della terra è stato più insidioso, il suo status deteriorato spesso astutamente mascherato. La terra così come appare è perlopiù un artificio, un simulacro di campagna. Gli spazi pubblici delle città laddove esistono, sono stati a lungo una conferma di questa perdita, presentandosi come sostituti.
L’agorà dell’antica Grecia riconosceva la necessità di uno spazio in cui tutti potessero recarsi per ascoltare i discorsi dei loro governanti, per incontrarsi tra loro, per dedicarsi alla politica o per offrire merci. L’agorà era, a tutti gli effetti, un bene pubblico. Nei centri di alcune città, ancora oggi, si custodiscono terre comuni.
A Newcastle-upon-Tyne, nel nord dell’Inghilterra, c’è il Town Moor, oltre mille acri di terreno agricolo preservato, dove possono pascolare ovini e bovini, scorrazzare conigli e, un tempo, decollare piccoli aerei.
Lo Stanley Park di Vancouver ha pressoché le stesse dimensioni e, proprio come il Town Moor, risulta intatto, inalterato dall’intervento umano.
E poi ci sono i maidan delle città orientali, grandi distese di prati, spazi verdi che fungono, letteralmente e metaforicamente, da polmoni urbani. Alcuni di questi, come il maidan di Kiev e Piazza Tahrir al Cairo, sono diventati famosi come centri di attivismo politico. Altri, come il maidan di Calcutta, ricoprono una posizione più curiosamente postcoloniale, considerata dai bengalesi contemporanei quasi un’apologia compensatoria della precedente autorità imperiale straniera.
Per ogni città utopica progettata ed edificata con grandi speranze – Welwyn e Port Sunlight in Inghilterra, Chandigarth in India, Islamabad in Pakistan – c’è una ventina di aggregazioni umane sovraffollate, con pochi elementi di riscatto e ben pochi ricordi del paesaggio naturale cha hanno sostituito.
Il paesaggio è territorio di comunità, spazio del vissuto, momento di relazioni. Il paesaggio antropizzato è uno spazio in continua costruzione, sede di complesse relazioni interne ed esterne. Tale prospettiva è resa ancor più evidente dall’etimologia del termine corrispondente inglese landscape, che combina la parola land – terra – con un verbo di origine germanica, scapjan|shaffen – trasformare, modellare – per cui il significato è terre trasformate. Il paesaggio è quindi luogo costruito, processo percettivo di rappresentazione, organizzazione e classificazione dello spazio, modalità per ordinare l’esperienza, complesso processo culturale fra diversi poli delle relazioni sociali che prevede le aspettative, le potenzialità, le relazioni di una determinata comunità.
Attraverso i concetti di tempo e di spazio, l’uomo ordina la realtà, le cose, gli eventi, le persone nell’ambiente in cui vive, e questi due elementi divengono fondamentali sia nel tentativo di comprendere la natura, sia nelle potenzialità di realizzazione delle proprie aspettative. In questo senso il landscape diviene un complesso processo culturale e sociale implicato nelle relazioni attive fra persone. Se le idee di tempo e di spazio sono un mezzo di comportamento e delle pratiche sociali, il landscape allora rileverà tali relazioni sociali.1
Il landscape, dunque, come codice grazie al quale osservare una determinata comunità, momento di relazioni interne ed esterne, processo culturale sempre in divenire, costruzione di luogo e narrativa dei luoghi. Il paesaggio osservato nella sua dimensione antropica, lo spazio concepito non come puro contenitore ma insieme complesso di fattori economici, politici, sociali e religiosi che in un determinato ambiente si relazionano.
I missionari salesiani della regione del Rio Das Garcas hanno capito che il mezzo sicuro per convertire i Bororo consisteva nel far loro abbandonare il villaggio per un altro in cui le case fossero disposte in ranghi paralleli. Disorientati in rapporto ai punti cardinali, privati del piano sul quale si basano tutte le loro nozioni, gli indigeni perdono rapidamente il senso delle tradizioni, come se i loro sistemi sociali e religiosi fossero troppo complicati per poter fare a meno dello schema reso evidente dalla pianta del villaggio. Lévi-Strauss mostra così chiaramente l’importanza vitale, per un gruppo di indigeni, del proprio spazio culturalmente concepito e interiorizzato, del proprio landscape, punto di orientamento e piano capace di sostenere il sapere, le relazioni e la memoria storica di una comunità. Non il villaggio in quanto entità materiale ma struttura spaziale in grado di generare e mantenere solidi gli orientamenti e quindi le identità.
Il legame comunità-villaggio è rapporto esistenziale che mette in gioco fattori emotivi e affettivi. Lo sradicamento comporta spesso un malessere, un male del ritorno, un’assenza di luogo che Ernesto De Martino indica come “angoscia territoriale”. Il male del ritorno colpisce gli individui costretti a lasciare il proprio luogo di nascita, il proprio spazio del vissuto, facendo così l’esperienza di una presenza che non si mantiene davanti al mondo, davanti alla storia.2
Il place attachment è correntemente indicato come il fenomeno per cui le persone formano forti legami emotivi con l’ambiente fisico.
Il legame di attaccamento sembra emergere con maggiore incisione quando l’individuo si distacca dal luogo e in maggior misura quando è costretto a distaccarsene. Tra i vari aspetti dell’attaccamento vi è quello legato alla sfera simbolica, indice del bisogno di attribuire grande importanza a un particolare luogo perché si ritiene che esso sia stato determinante per la formazione dell’identità personale, famigliare e di gruppo.
Ma nell’ambito degli studi sui luoghi e le sue circostanze esperienziali va ricordato anche l’impatto che esso ha sulla qualità della vita. In alcuni studi è stata evidenziata la prevalenza di depressione, dolore e danni emotivi causati dalla “mancanza di spazio” e dalla perdita della terra. La ragione potrebbe essere la mancanza di luogo e di attenzione da parte delle persone nella gestione dello spazio. Negli ultimi anni, l’attenzione di architetti, designer e pianificatori è aumentata e il ruolo del design come strumento per modellare l’ambiente e rispondere alle aspettative umane ha acquisito maggiore importanza.
Un ambiente è composto da una combinazione di parametri fisici e sociali. Quindi il rapporto tra le persone e il luogo è reciproco. Le persone traggono significati diversi dai luoghi e poi gli trasmettono un significato. Il senso del luogo è l’esperienza di tutto ciò che le persone inducono nei luoghi.
Nell’ambito del place attachment di recente è stato inserito anche l’attaccamento al posto di lavoro. Comprendere le relazioni affettive, cognitive e comportamentali delle persone alla perdita di luogo dovrebbe informare le strategie prevalenti di gestione del cambiamento organizzativo. Le parti interessate dovrebbero essere consapevoli dell’impatto che il cambiamento sul posto di lavoro può avere sui lavoratori che potrebbero sentirsi minacciati e resistenti ai cambiamenti.
L’attività di vivere e conoscere uno spazio è attività cognitiva, in un sistema in cui l’uomo diviene organizzatore di un habitat da lui modellato. Ciò comporta una interiorizzazione dei luoghi, ancora Ceccarini afferma che gli individui diventano essi stessi luoghi. La percezione del proprio landscape è dentro se stessi, depositata nel bagaglio di conoscenze e ciò consente, anche senza un rapporto visivo e diretto col paesaggio, di ricostruire il proprio luogo del vissuto, la propria mappa mentale.
Esiste anche un forte legame con il mondo del suono, ovvero l’insieme di rumori, voci, musiche rituali, strumenti che vanno a formare il “paesaggio sonoro” di una determinata comunità nel suo territorio: il soundscape. Un paesaggio, soprattutto quando è antropizzato, è anche un paesaggio sonoro. E l’elemento sonoro si costituisce come chiave di lettura dell’identità di una comunità, al pari di altri elementi, quali l’economia, i riti, la parentela.
Il paesaggio, al pari di qualsiasi altra sfera del sociale, è estremamente dinamico, soggetto a cambiamenti continui in rapporto alle trasformazioni, sempre più accelerate, della società contemporanea.
Costruire, nel senso di edificare, e abitare sembrano fra loro collegati da una relazione strumentale: si costruisce per abitare. Tuttavia, la sfera dell’abitare appare molto più vasta di quella del semplice alloggio, dell’abitazione in senso stretto.
La relazione dell’uomo con l’ambiente è bidirezionale: da una parte c’è il modo in cui l’ambiente ha influenzato l’attività degli esseri umani, i quali hanno dovuto adattarsi all’ambiente, e dall’altra c’è il modo in cui gli esseri umani hanno determinato cambiamenti adattando l’ambiente alle proprie esigenze.
L’abitazione è stata considerata un’estensione dell’individuo, una seconda pelle, una sorta di carapace efficace tanto a mostrare quanto a nascondere e a proteggere, oltre a rappresentare un importante agente si socializzazione. Ma la casa è anche dove lo spazio si fa luogo, dove le relazioni famigliari, di genere e di classe vengono negoziate, contestate o trasformate. È un contesto attivo nel tempo e nello spazio adatto allo sviluppo dell’identità individuale, alle relazioni sociali e al significato collettivo. Non è da considerarsi come una cosa, bensì un processo dal momento che trovare accoglienza è qualcosa in cui siamo costantemente impegnati. Chi promuove nuovi modelli innovativi di abitazione tende a sposare una concezione dell’abitare che dà importanza alle attività di cura verso gli altri per creare e mantenere un mondo comune abitabile, un mondo umano. Ciò implica trasformare gli spazi della città e della casa in territori domestici, cioè luoghi che percepiamo come ambiti dell’intimità e del radicamento, in cui ci sentiamo a nostro agio, che siamo in grado di controllare dal punto di vista cognitivo e che ci coinvolgono dal punto di vista emotivo.
Il libro
Simon Winchester, Terra. Da bene comune a proprietà privata, da luogo di dominio a spazio di lotta, Mimesis, Milano – Udine, 2023.
Traduzione dall’inglese di Donatella Caristina.
Titolo originale: Land: How the Hunger for Ownership Shaped the Modern World.
1G. Ceccarini, N. Rezashateri, Mundus. Tra paesaggio, memoria e uomo, in Dialoghi Mediterranei, 1 marzo 2020.
2E. De Martino, La terra del rimorso, Einaudi, Torino, 2023.
Memoria e amnesia sono i punti focali intorno ai quali nasce, con ogni probabilità, l’idea che ha ispirato Io ricordo tutto di Pierdante Piccioni e Pierangelo Sapegno. Si tratta di un romanzo dai risvolti crime e investigativi ma anche di un libro che indaga la mente umana. Gli autori affrontano vari temi che spaziano dall’identità alla memoria, dalla malattia al potere di sentimenti e ricordi. Un’indagine che riguarda la vita delle persone, i piccoli gesti, gli accadimenti quotidiani, gli incidenti, le malattie, la morte e l’elaborazione di un lutto, di una perdita che, a volte, coincide con la difficoltà di ritrovare se stessi, il proprio equilibrio, la ragione della propria esistenza.
Il protagonista è Ernesto Ferrari. Una mente brillante messa a dura prova dagli ostacoli della vita. Disagio e malattia sono ampiamente trattati nel testo ma da un punto di vista non strettamente clinico. È l’aspetto umano a prevalere nella narrazione. Il racconto di ansia, depressione, Alzheimer passa sempre attraverso il vissuto e la mente dei protagonisti in modo tale che il disturbo o la malattia non siano solo contestualizzati bensì proprio personificati, umanizzati.
Il libro di Piccioni e Sapegno è uno scritto sulla ricerca, intesa come ricerca scientifica spirituale umana. Ma è anche un libro sulla scoperta, di se stessi prima di ogni altra cosa. Il percorso compiuto da Ernesto Ferrari è un cammino simbolico dell’uomo attraverso la propria esistenza, una riflessione sul dolore e sull’amore, sulla perdita e sul ritrovamento, sull’ambizione professionale e la semplicità del viver quotidiano. Ma non è un libro sui contrasti, sugli opposti. No, è un libro sulla vita e sul suo essere imprevedibile.
La scrittura a quattro mani del libro sembra una necessità nel momento in cui il libro si rivela essere un percorso di conoscenza che ha aiutato, prima ancora del lettore, gli stessi autori. A conoscersi vicendevolmente, a conoscere la storia e poi raccontarla. L’alternarsi di parti narrative che descrivono il presente e flashback di un passato che, attraverso la mente del protagonista, irrompe nella narrazione rendono per certo la storia più avvincente e contribuiscono a mantenere alto l’interesse del lettore. Durante la lettura dei numerosi dialoghi presenti nel testo il tutto sembra rallentare senza però mai fermarsi. I discorsi aiutano il lettore a meglio entrare nella vicenda narrata ma, soprattutto, a figurarsi i personaggi e i luoghi in cui essi vivono, parlano, chiacchierano, si raccontano. Un qualcosa che, in genere, è prerogativa delle parti descrittive e che gli autori sono riusciti a trasporlo nei dialoghi.
Ricorre spesso nel dibattito pubblico la preoccupazione per terapie invasive, esperimenti al limite, disumanizzazione delle cure. Tutte tematiche che si ritrovano in Io ricordo tutto. Nella parte crime del libro certo, ma anche in quella che indaga l’aspetto umano della professione medica. La necessità e la volontà di ritrovare il contatto con i pazienti, la personalizzazione delle cure mediche. In sintesi, il bisogno della medicina di ritrovare l’umanità. Ciò naturalmente non vuol dire che la ricerca debba fermarsi o che le sperimentazioni cessino, ma che non venga mai distolto lo sguardo dalle persone a cui queste cure sono destinate. Esseri umani la cui vita è unica, diversa dalle altre, la cui persona necessita di un’attenzione che deve essere anch’essa unica, personalizzata. Questo sembra essere l’obiettivo di Ernesto Ferrari. E questo sembra essere lo scopo del racconto di Pierdante Piccioni e Pierangelo Sapegno.
Mai dimenticarlo. E ciò è davvero simbolico perché l’intera storia sembra ruotare intorno al concetto di memoria, intesa come la capacità umana di ricordare. Il protagonista, un ipermnesico diventato un famoso neuroscienziato che sceglie di lavorare per le persone colpite dal morbo di Alzheimer. Un cerchio. Come la stessa vita.
Piccioni, a seguito di un incidente ha perso parte della memoria. Riduttivo e semplicistico affermare che questo lo abbia fatto sentire più vicino a chi, anche se per ragioni differenti, affronta il suo stesso disagio. Piccioni è un medico ma è anche e soprattutto un uomo, una persona. Leggendo il libro non solo uno o alcuni aspetti emergono bensì tutta la complessità dell’esistenza umana con i suoi sentimenti, le emozioni, le delusioni, le sfide, il coraggio e la determinazione. La fragilità e la forza. L’egoismo e l’altruismo. Il tutto fuso in quel vortice inscindibile che avvolge l’esistenza, la scuote e la trascina come un treno delle montagne russe.
Il realismo della vicenda narrata è di sicuro uno dei punti di maggiore forza del libro e appare chiaro fin da subito quanto questo sia il risultato di esperienze, testimonianze dirette, informazioni e nozioni ben note. Come anche di sogni, desideri e speranze. La realtà che aiuta la fantasia.
I Balcani stanno scomparendo. Politicamente dimenticati da un’Europa che negli ultimi vent’anni ha preferito aprirsi a Est fino a inglobare gli ex satelliti sovietici, lasciando così un grande vuoto nel proprio cuore geografico e storico.
La scomparsa dei Balcani è un viaggio dentro questi territori, con l’invito a riscoprirli. Perché, per Ronchi, dentro quest’apparente vuoto si agitano invece forze in grado di condizionare il futuro dell’intero continente. Innanzitutto, il ritorno del nazionalismo serbo che scuote Belgrado e altri paesi della regione, soprattutto la Bosnia. E poi il Kosovo e il Montenegro, anch’essi tutt’altro che immuni dal revival nazionalista.
Nell’analisi di Francesco Ronchi emerge chiaramente come l’Europa, o meglio l’Unione Europea si sia quasi completamente dimenticata di paesi quali Serbia, Bosnia, Montenegro, Kosovo, Macedonia del Nord, Albania. Persino Ucraina e Moldova sono candidate a entrare nell’Unione all’interno della quale si discute addirittura di un eventuale allargamento verso la Georgia e le montagne del Caucaso.
Ma la scomparsa dei Balcani è anche una sparizione fisica, un abbandono materiale: molti villaggi sono in rovina e si sgretolano per l’incuria. Ricorda l’autore che, negli ultimi decenni, milioni di donne e uomini, soprattutto giovani e istruiti, hanno abbandonato le loro terre, creando così in vertiginoso vuoto demografico. Questa voragine si somma alle centinaia di migliaia di persone fuggite dai conflitti degli anni Novanta.
Se, nei primi anni Duemila, la regione faceva passi in avanti sul piano della riconciliazione e del superamento degli aspetti più mortiferi del suo passato, nell’ultimo decennio si è invece assistito a un moto contrario che ha in parte annullato i progressi precedenti. Negli ultimi anni nei Balcani la nazione, la terra, i confini, con la loro gravità e solidità, ritornavano a essere elementi imprescindibili della politica e della società.
Ronchi ricorda al lettore che sono proprio i contrasti attorno ai confini e alla terra a determinare la politica nei Balcani, invitandolo a riflettere sugli scambi di territori tra Kosovo e Serbia o al fatto che molte frontiere della regione sono al centro di contese fra stati.
Come un specchio riflettente, i Balcani ricordano ciò che l’Europa è stata nel Novecento, che ora non è più ma potrebbe tornare a essere. Questo potrebbe essere uno dei motivi per cui, secondo l’autore, li abbiamo fatti scomparire dalla nostra visuale. Per paura più che per oblio.
In questo quadro, inoltre, non bisogna sottovalutare i costanti segnali guerreschi, la continua evocazione della guerra e il linguaggio di odio che ancora divide gruppi etnici e nazionalità. Quasi come se il conflitto non possa ritornare nella regione non tanto per una scelta deliberata, per una decisione di principio, maturata nella politica e nella società, ma per una impossibilità pratica, dovuta a una momentanea assenza di risorse economiche, umane e militari. Una pace riluttante, subita più che cercata.
Inoltre, dalla lettura de La scomparsa dei Balcani, emerge chiaro quanto questo vuoto si stia riempendo di forze oscure. Innanzitutto organizzazioni criminali le quali, grazie a corruzione e clientelismo, catturano le strutture stabili e le piegano ai loro interessi.
E Ronchi avverte di non cadere nell’errore di ritenerle mera espressione di un mondo criminoso arcaico. Nei Balcani si sviluppano e testano moderni e sofisticati strumenti criminali.
Nella parte Nord del Kosovo, contesa fra Belgrado e Pristina, dove non sembra imporsi alcuna chiara sovranità, sono sorte miniere di criptovalute, capaci di sfornare bitcoin poi utilizzati anche come strumento di riciclaggio in tutto il mondo.1
Persino i risultati delle elezioni americane hanno in qualche maniera a che vedere coi Balcani. Le basi operative di molti siti web che hanno organizzato e diffuso negli Stati Uniti la disinformazione pro trumpiana si trovano nella regione.
Veles, una piccolissima cittadina nord-macedone, era arrivata a ospitare nella campagna elettorale 2016 migliaia di siti politici che disseminavano fake news a favore di Trump.2
Per cui, sottolinea Ronchi, i Balcani rischiano di diventare sempre più un “buco nero” che si presta a essere utilizzato come retroguardia strategica. E chi la controlla contribuisce a influenzare indirettamente anche i centri di potere globale.
La scomparsa dei Balcani è il risultato di anni di viaggi e incontri fatti da Francesco Ronchi nei luoghi dei Balcani, visitando le capitali certo ma soprattutto i villaggi, le comunità. I luoghi lontani dai grandi flussi e centri. Ricercando i Balcani persino lontano da essi: a Ridgewood per esempio, ai margini di New York, dove gli eredi dei Gottschee, la minoranza tedesca dei Balcani scacciata da Tito nel secolo scorso, ancora si incontrano per parlare il tedesco antico.
In queste periferie di quella grande periferia europea che sono oggi i Balcani, l’autore ha ricercato l’abbandono più della presenza, l’estinzione che si confonde con la persistenza. Perché, spesso, nelle piaghe della storia, nei margini, nelle ombre, nelle finis terrae si colgono inaspettatamente la direzione e il senso della storia globale.
La direzione e il senso del libro di Ronchi rientrano a pieno titolo in quel filone di studi orientato alla creazione di una solida memoria storica e contemporanea dei mali, delle scelte e delle decisioni compiute dal genere umano che bisogna conoscere per modellare correttamente il presente e sperare di crearne uno migliore per il futuro.
Il libro
Francesco Ronchi, La scomparsa dei Balcani. Il richiamo del nazionalismo, le democrazie fragili, il peso del passato, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli – Cz, 2023.
1Panic as Kosovo pulls the plug on its energy-guzzling bitcoin miners, in «The Guardian», 16 gennaio 2022
2H. Hughes, I. Waismel-Manor, The Macedonian Fake News Industry and the 2016 US Election, in «PS: Political Science &Politics» LIV, 1, 2021
Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Rubbettino Editore per la disponibilità e il materiale.
Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com
L’Africa è costituita da società e popolazioni in movimento, che contribuiscono a renderla una realtà interessante, da osservare e analizzare. Il mosaico dell’Africa sub-sahariana unisce studi e riflessioni su vari problemi e tematiche di quest’area del mondo, approfondendo ambiti trasversali della geografia: la geopolitica, le micro-geografie e la sostenibilità.
La finalità primaria del libro è fornire uno strumento di lettura di una realtà geografica molto complessa, articolata e in continuo cambiamento che alimenta molteplici interessi economico-politici e scientifici.
L’idea che la popolazione occidentale ha dell’Africa è spesso distorta. Sovente corrisponde a quella di un luogo inospitale dove regnano malattia povertà caos conflitti armati. Eppure, ricorda Nicoletta Varani nelle note introduttive, l’Africa è un continente molto vasto, con una varietà di paesaggi e risorse naturali, costituito da società e popolazioni in evoluzione crescita e movimento. All’interno di esso poi, per certo, vi è anche povertà e disuguaglianza, al pari di quanto non vi sia sfruttamento e degrado.
Una realtà la quale, per certo, desta interessa, oggi non meno di quanto sia accaduto in passato.
A poco più di sessant’anni dall’inizio delle indipendenze africane, il Continente ha intrapreso un percorso di sviluppo completamente nuovo. In questi anni recenti, prima della pandemia da Covid-19, ha fatto registrare una rapida crescita demografica – circa 1.3miliardi di abitanti –, e altre trasformazioni, quali la crescente urbanizzazione e la diffusione di nuove tecnologie, che permettono e permetteranno di contribuire allo sviluppo economico e commerciale del Continente.
Nonostante sia stata a lungo considerata un soggetto marginale da condurre per mano sulla strada della civilizzazione, un recipiente passivo di interventi e aiuti provenienti dal Nord, oggi il continente africano sembra aver ripreso in mano il proprio destino offrendo il suo contributo alla comprensione dei fenomeni della contemporaneità. Le grandi civiltà del suo passato e la straordinaria creatività della sua popolazione contemporanea – costituita in gran parte da giovani inseriti nella globalizzazione grazie dalla diffusione capillare delle tecnologie digitali – suggeriscono uno scenario di grande interesse per una teoria sociale che voglia uscire finalmente dall’eurocentrismo per tentare di comprendere le più recenti dinamiche globali.
Spesso gli osservatori europei hanno insistito sull’intrinseca fragilità delle democrazie africane, apparentemente incapaci di raggiungere un adeguato livello di maturazione. Frequenti sono i brogli elettorali e la corruzione delle classi dirigenti. Questi fenomeni, apparsi in un primo momento nel mondo coloniale e postcoloniale, stanno progressivamente investendo anche le democrazie occidentali. Si diffondono a macchia d’olio nei paesi del Nord sempre più alle prese con una crescente eterogeneità demografica che produce fratture e rivendicazioni, con un’economia delocalizzata dove i centri di produzione e di consumo appaiono dispersi, la finanza prevale sulla produzione, la flessibilità sulla stabilità. Dove si registra un continuo e progressivo indebolimento del tessuto sociale ed economico.1
Varani e Mazza sottolineano che l’Africa sub-sahariana si evidenza come un’area sempre più fornitrice di materie prime, attirando così l’interesse di numerosi imprenditori e compagnie che ritengono l’area africana un nuovo ampio spazio per gli investimenti.
Anche in questo caso la diffusione della pandemia ha rallentato molti finanziamenti a cui vanno sommate le endemiche instabilità di politica interna che caratterizzavano il Continente.
In soli dieci anni – tra il 2012 e il 2022 – sono stati registrati colpi si stato in Burkina Faso, Mali, Ciad e Niger, instabilità costanti nell’area dei Grandi Laghi, Corno d’Africa e Sahel, instabilità endemica in Somalia, il conflitto di Camerun e la guerra in Tigrè.
Negli stessi anni, sia i paesi europei sia gli Stati Uniti, occupati a risolvere crisi e diatribe interne, spesso non hanno dato risposta alle richieste di molti paesi africani circa la fornitura di strumenti di difesa e aiuti per la formazione. La Repubblica Popolare Cinese e la Russia hanno invece risposto alle richieste con partenariati di cooperazione di sicurezza.
Per contrastare l’influenza di Russia e Cina, il Dipartimento della Difesa americano sta elaborando programmi e autorizzando fondi, come emerge anche dallo Strategy and the Congressional National Defense Authorization Act for Fiscal Year 2023. Per gli autori, a breve sarà visibile una competizione tra grandi potenze: Russia e Cina, entrambe presenti molto attivamente nel Continente e impegnate soprattutto nel Sahel, e gli Stati Uniti.
Il 29 gennaio si è tenuto a Palazzo Madama il vertice Italia-Africa. Un ponte per una crescita comune, cui hanno partecipato anche rappresentanti dell’Unione Europea e di organismi internazionali quali le Nazioni Unite. La presidente Giorgia Meloni ha dichiarato apertamente che «all’Africa serve l’Europa». Iniziano così le azioni preliminari per l’avvio del Piano Mattei, un progetto strutturato in cinque punti, o pilastri come li ha definiti lo stesso governo italiano: Istruzione e Formazione, Agricoltura, Salute, Energia, Acqua. Pilastri interconnessi tra loro con gli interventi sulle infrastrutture, generali e specifiche in ogni ambito. È prevista inoltra la creazione, entro l’anno in corso, di un nuovo strumento finanziario per agevolare insieme a Cassa depositi e prestiti gli investimenti del settore privato nei progetti del Piano Mattei.
Oggi il continente africano è formato da 55 stati, i quali posseggono quasi i medesimi confini tracciati dalle potenze coloniali europee, con la rappresentazione cartografica che risulta pressoché immutata nell’ultimo secolo. Tale suddivisione non ha mai tenuto conto delle aree culturali comuni, le quali sono state separate senza alcuna discrezione, frammentando centinaia di gruppi etnici, le quattro famiglie linguistiche principali e le numerosissime sottofamiglie, con conseguenti scontri e conflitti.
L’orientamento generale che emerge, nell’analisi dei conflitti africani, è di caratterizzarli come lotte intestine, intra-statali, in apparenza etniche. Si ha la tendenza a spiegarne origine e sviluppo ricercandone un solo registro interpretativo principale, laddove gli stessi protagonisti ne utilizzano più di uno, dando loro il medesimo valore. In Europa e, in genere, sui media occidentali essi vengono rappresentate come brutali e selvagge, dal sapore esclusivamente etnico e perciò arcaiche, incomprensibili. Eppure si tratta di conflitti molto più moderni di ciò che si è portati a credere, legati alle condizioni socio-economiche e ambientali delle terre in cui scoppiano, dove si mescolano registri culturali e umani diversi.
L’Africa è entrata nella globalizzazione ancor prima dell’Europa, tornando a essere al centro degli interessi del commercio globale sia per le materie prime che per le infinite possibilità economiche che offre, inclusi i traffici illeciti. In molti casi ciò non ha fatto che acutizzare o far emergere vecchi conflitti mai del tutto sopiti o addirittura crearne di nuovi.2
Il continente africano è estremamente ricco di risorse naturali e detiene il 65% della terra arabile del pianeta. Eppure l’Africa detiene il primato del continente che ritrova molti dei suoi paesi nella parte più bassa della graduatoria ISU – Indice di Sviluppo Umano.
Benché la povertà non sia una causa diretta dei conflitti, essa rappresenta certamente un incentivo, poiché strettamente connessa all’appropriazione di ricchezza e risorse e, conseguentemente, all’illegalità e alla violazione dei diritti umani. L’estrema competizione per le risorse svolge un ruolo determinante per l’instabilità regionale, anche per via di alleanze di potere, talvolta implicite, tra uomini d’affari locali, signori della guerra e multinazionali. Lo stretto legame tra sfruttamento delle risorse minerarie e il finanziamento di guerre e conflitti è ormai noto. Basti pensare alla Repubblica Democratica del Congo.
La Grande guerra d’Africa è stato il risultato di un insieme di conflitti diversi, collegati tra loro al nodo centrale del conflitto tra il governo di Kabila e i suoi ex alleati ruandesi. Almeno sei paesi (Ruanda, Uganda, Angola, Zimbabwe, Namibia e Ciad) si combatterono con proprie truppe sul territorio congolese. A ciò vanno aggiunte le varie guerriglie il cui computo è tutt’ora arduo. Così, a partire dall’epicentro congolese, tutta l’Africa centrale è stata travolta, impoverendosi. Secondo il Programma Alimentare Mondiale, circa un terzo dei congolesi vivrebbe ancora oggi in uno stato di denutrizione e sottoalimentazione grave.
Anche in Congo, come prima in Liberia e in seguito nel Sahel o in Nord Mozambico, il warlordismo ha cambiato pelle ed è diventato a pieno titolo un attore del caos indotto dalla globalizzazione competitiva, nel quale soggetti di tipo molto vario concorrono per il potere e le risorse.3
I megatrend, come il cambiamento climatico, la digitalizzazione, la crescita demografica e l’urbanizzazione, stanno trasformando tutti gli aspetti della politica, dell’economia e della società in Africa. Di conseguenza, influenzano anche le dinamiche dei conflitti, alterando i modelli di intervento straniero nelle aree di crisi. Nell’analisi degli autori, emergono due aspetti principali: la gamma dei poteri di intervento si sta allargando e si interviene sempre più a distanza, delegando. Al momento sono tre i paesi i quali maggiormente stanno intervenendo in un numero crescente di conflitti africani: Emirati Arabi Uniti, Turchia, Russia.
Il fallimento delle politiche di sviluppo economico di molti stati africani ha generato forti discrepanze sulle direzioni dei modelli di cooperazione per lo sviluppo. Si è fatta sempre più largo la consapevolezza che la cooperazione Nord-Sud potesse rappresentare un ostacolo allo sviluppo di aree fragili, trovando l’unica alternativa nella strategia Sud-Sud.
La cooperazione Sud-Sud è una comune iniziativa sviluppata su esperienze condivise che coinvolgono stati del Sud, sulla base di obiettivi comuni con finalità di solidarietà e collaborazione tra eguali, riconoscendo la necessità di migliorare l’efficacia di suddetta cooperazione allineando le iniziative alle priorità di ciascun stato.
Così pensata, la cooperazione Sud-Sud certifica il trasferimento di risorse, tecnologie e conoscenze tra i paesi in via di sviluppo, inserito all’interno delle rivendicazioni di un passato coloniale e post-coloniale condiviso, e ancorato nel quadro più ampio di promozione del valore collettivo del Sud.
La riformulazione delle pratiche e delle strategie della cooperazione internazionale ha portato all’affermarsi, sulla scia dell’iniziativa Sud-Sud, della cooperazione triangolare. Gli autori ritengono essa si sia manifestata per la necessità di uno strumento più efficace per favorire strategie di sviluppo territoriale.
L’espressione si riferisce allo scambio diretto di conoscenze esperienze competenze risorse e know-how tecnico fra i paesi in via di sviluppo, spesso con l’esistenza di un donatore o di un’organizzazione multilaterale.
L’Agenda 2063 è il Piano di sviluppo per l’Africa per raggiungere uno sviluppo socio-economico inclusivo e sostenibile nell’arco di cinquant’anni.
Le società dell’Africa sub-sahariana sono fortemente condizionate da un crescente sentimento d’apertura verso sistemi democratici integrati in un’economia di mercato. Varani e Mazza ritengono evidente che la risultante di questi cambiamenti porti in dote tensioni sociali e conflitti su più scale, giustificando il riaffiorare di un certo pessimismo verso i processi di democratizzazione.
Ancora oggi, difatti, la transizione socio-economica che investe il continente è frutto di logiche neocoloniali espresse dalla pressione occidentale volta all’adozione di un modello neoliberale.
Il colonialismo è mai davvero finito, oppure è stato semplicemente adattato ai tempi?
La società coloniale, fondata sulla dominazione, è inseparabile dalla società colonizzata, oggetto della dominazione. Oltre che dalla messa in rapporto delle differenze culturali, la situazione coloniale nasce dagli scarti stabiliti fra i suoi elementi costitutivi e dalla logica inegualitaria che ne organizza le relazioni. Dal punto di vista formale, queste relazioni si stabiliscono tra una minoranza demografica costituita in maggioranza sociologica dalla dominazione che esercita, cioè la società coloniale, e una maggioranza demografica ridotta allo stato di minoranza sociologica, che è poi la società colonizzata.4
La presidente Meloni ha dichiarato alla stampa che la logica del Piano Mattei è quella di una piattaforma programmatica, in una collaborazione da pari a pari che dovrà stabilire anche i contenuti esatti del testo. Il capitolo più delicato del Piano – che omaggia il fondatore dell’Eni Enrico Mattei e per questo ampiamente criticato proprio per il suo essere un nome di rimando coloniale – è il progetto già in essere dell’elettrodotto Elmed fra Italia e Tunisia e l’iniziativa per lo sviluppo di biocarburanti in Kenya.
Il presidente della Commissione dell’Unione africana, Moussa Faki, ha sottolineato l’apprezzamento verso il cambio di paradigma nei rapporti con l’Africa ma ha anche dichiarato che avrebbe preferito essere consultato sui punti del Piano stesso.
L’Africa è per certo un Continente ricco di criticità ma, accanto a queste, gli autori hanno voluto sottolineare l’infinita serie di potenzialità che potrebbero e dovrebbero rappresentare degli strumenti utili per ridefinire le strategie di sviluppo del territorio, garantendo una maggiore indipendenza su larga scala. Potenzialità che fanno capo, soprattutto, alla consistente presenza di risorse naturali, sulle quali si manifestano gli interessi di paesi occidentali, in quella che per gli autori si presenta come una “nuova colonizzazione”.
Il libro
Nicoletta Varani, Giampietro Mazza, Il mosaico dell’Africa sub-sahariana. Sostenibilità e geopolitica, Carocci Editore, Roma, 2023
1Jean Comaroff, John L. Comaroff, Teoria dal Sud del mondo. Ovvero, come l’Euro-America sta evolvendo verso l’Africa, Rosenberg&Sellier, Torino, 2019.
2Mario Giro, Guerre nere. Guida ai conflitti nell’Africa contemporanea, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2020.
Di cosa parliamo quando parliamo di Roma? È questo l’interrogativo intorno al quale Francesco Erbani ha costruito il libro.
Roma è grande: 1.287 chilometri quadrati. Una città che sembra una matrioska. La parte all’interno della cinta muraria dell’età imperiale, sopravvissuta o meno che sia, racchiude la Roma antica, quella d’età repubblicana e imperiale, quel poco di Roma medievale e la spettacolare Roma del periodo che va dal Quattrocento all’Ottocento. Appena oltre la cinta muraria c’è la Roma dell’Unità d’Italia. La Roma che diventa capitale e, dunque, la Roma umbertina e poi Liberty.
Tra il 753 a.C. e il 1950 Roma si estende su circa dodicimila ettari. Poi, in poco più di settant’anni, il territorio costruito arriva a superare i cinquantamila ettari.
Ecco allora che giunge il consiglio dell’autore per chiunque si accinga a visitare Roma o, pur conoscendola, intenda viverla in maniera diversa: andare adagio. Ciò può significare percepire e assaporare la città nel suo complesso.
L’idea è quella di suddividere la città in zone simili a dei cerchi concentrici, un po’ come gli anelli che vanno a comporre la città di Mosca in Russia. La prima macrozona è il centro storico, poi la periferia, anch’essa storica, arroccata lungo le vie consolari. La città residenziale è la terza macrozona, abitata da impiegati e professionisti e da molti considerata frutto esemplare della speculazione edilizia. L’ultima è quella che si sviluppa a partire dalla fine degli anni ottanta del Novecento, la cosiddetta città anulare, a ridosso del Gra – Grande raccordo anulare. Quello che avrebbe dovuto rappresentare il limite della città e che invece è diventato «il focolaio di un vasto e incontrollato incendio edilizio».
E poi c’è la parte quasi impercettibile che all’autore sta più cara: la campagna romana. Settantacinquemila ettari non edificati, se non sparutamente. Un patrimonio storico e archeologico forse un po’ bistrattato ma per certo dal valore inestimabile.
L’intento di Erbani sembra essere quello di raccontare gli angoli più suggestivi di una Roma lontana dai riflettori di turismo e spettacolo, non per questo meno bella, anzi proprio per questo più interessante e scriverlo in un libro che fosse quanto più distante possibile da una guida di viaggio perché egli non parla di itinerari, no lancia solo dei piccoli input, sarà poi il lettore stesso, laddove decida di trasformarsi in viaggiatore, a tracciare i propri, a visitare i luoghi da lui scelti, la Roma da lui selezionata. Lo scopo di Roma adagio sembra essere proprio quello di far luce dove ora è buio, ovvero illuminare l’anima stessa della Capitale, con la sua storia millenaria, i suoi spazi vuoti, o meglio liberi, i suoi angoli dimenticati, i reperti archeologici trascurati, le strette vie trasandate. Tutto quello che insieme ai famosi monumenti, le vie consolari, i palazzi e i musei contribuisce a renderla eterna.
A tratti sembra quasi che l’idea di Erbani sia la medesima e spontanea abbracciata a Napoli dove i vicoli del centro storico insieme ad altri quartieri prima bistrattati e mal visti sono diventati meta di un vero e proprio pellegrinaggio. Nulla è stato fatto per modificarne l’aspetto, sono rimasti pressoché invariati eppure i visitatori hanno imparato a guardarli con occhi diversi. Hanno cercato oltre il primo impatto o l’immagine stereotipata e hanno incontrato la loro essenza, ne hanno riconosciuto la storia e ne hanno fatto l’anima di un turismo completamente nuovo il quale, per induzione, ha portato gli stessi cittadini a viverli in una maniera tutta nuova.
La Roma raccontata da Erbani è quella delle piccole realtà quotidiane, di oggi come di ieri, di scorci di un paesaggio che viene da lontano e guarda al futuro. Ma è anche la città caotica e problematica che tutti conosciamo. Una città difficile, complessa, a tratti disperata, come sospesa tra l’eterno e il viver quotidiano.
La Roma che Erbani invita a visitare e conoscere è una città a spicchi, ognuno dei quali può condurre dal centro alla periferia e viceversa. E in ogni spicchio si possono ritrovare alcuni o tutti i temi con cui l’autore ha strutturato e suddiviso il libro: l’acqua, il verde, i palazzi, le chiese, le piazze, l’antico, i musei. Percorsi segnati dal tempo ma, a volte, fuori da esso che vivono ed esistono, come il resto della città, ancorati a un’esistenza che sembra priva di regole e disciplina, un passato nella modernità che vuol risucchiare quest’ultima secondo una logica anacronistica che, se da un lato, genera fascino, dall’altro produce scompenso. Caos.
Ma Erbani cerca di non far perdere il lettore in questi tormenti e insiste sull’adagio come vero e proprio stile di vita. Un esercizio per il corpo e per la mente, un percorso interiore da compiere insieme a quello esteriore, paesaggistico e architettonico, per scoprire la città certo ma anche per ritrovare se stessi, come abitanti o come visitatori.
Il libro
Francesco Erbani, Roma adagio. La città eterna, la città quotidiana, Enrico Damiani Editore, Brescia, 2023
Per Douglas Murray quella in atto negli ultimi anni è una vera e propria guerra all’Occidente. Non di quelle con gli eserciti che si scontrano bensì una guerra culturale, condotta implacabilmente contro tutte le radici della tradizione occidentale e contro tutto ciò di buono che essa ha prodotto.
È ormai chiaro a tutti che quest’epoca è definita soprattutto dal cambiamento di civiltà in corso. Un cambiamento che ha scosso le fondamenta della nostra società, proprio perché, nell’analisi di Murray, è in atto un attacco sistematico contro tutto ciò che esiste in essa. Contro tutto ciò che gli occidentali davano per scontato, fino a non molto tempo fa.
L’autore afferma che l’Occidente tutto si sia arreso troppo in fretta in questa guerra. Troppo spesso questa guerra è stata inquadrata in modo completamente sbagliato. Sono stati travisati gli obiettivi di chi vi prende parte e ne è stato sminuito il ruolo che avrà nelle vite delle generazioni future. Nel giro di pochi decenni, la tradizione occidentale è passata dall’essere celebrata al diventare imbarazzante e anacronistica, etichettata, infine, come un qualcosa di vergognoso.
Sottolinea Murray come non sia solo la parola «occidentale» a essere contestata dai critici ma anche tutto ciò che vi è collegato, persino il concetto di «civilizzazione» in sé. Come l’aveva espresso uno dei teorici del moderno “razzismoantirazzista”, Ibram X. Kendi: civilizzazione è spesso un cortese eufemismo per razzismo culturale.1
Murray non si dichiara contrario a un ripensamento della storia in generale, tuttavia afferma di non condividere l’atteggiamento dei critici della civiltà occidentale perché essi venerano qualsiasi cosa purché non appartenga all’Occidente. La cultura che ha regalato al mondo progressi scientifici e medici salvavita, e un mercato libero, che ha fatto uscire dalla povertà miliardi di persone in tutto il mondo e che ha offerto la più grande fioritura di pensiero, viene messa dappertutto in questione attraverso il filtro della più profonda ostilità e del più profondo semplicismo. Egli non tollera che la cultura di Michelangelo, Leonardo, Bernini e Bach venga dipinta come se non avesse nulla di importante da dire. Alle nuove generazioni viene offerta la storia dei fallimenti dell’Occidente senza dedicare un tempo lontanamente paragonabile alle sue glorie.
Viene attaccata la tradizione giudaico-cristiana ma anche quella del secolarismo e dell’Illuminismo e ciò, per l’autore, ha un effetto devastante sulle nuove generazioni, le quali non sembrano comprendere neppure i più basilari principi del libero pensiero e della libertà d’espressione.
Per screditare l’Occidente sembra necessario demonizzare in primo luogo le persone che continuano a rappresentare il gruppo razziale maggioritario, ovvero i bianchi. Nonostante la diminuzione, negli Stati Uniti, delle leggi apertamente razziste e del potere di chi si dichiara razzista in modo esplicito, le disparità nei risultati fra bianchi e neri si riducono con grande lentezza.
Si va diffondendo con sempre maggiore forza la Teoria critica della razza – Tcr, emersa nell’arco di alcuni decenni nei seminari, nelle ricerche e nelle pubblicazioni delle università. A differenza dei tradizionali diritti civili, che includono l’incrementalismo e il progresso passo dopo passo, la Tcr mette in discussione le fondamenta stesse dell’ordine liberale, compresa la teoria dell’uguaglianza, il ragionamento giuridico, il razionalismo illuminista e i principi neutrali del diritto costituzionale.
Douglas Murray dissente dalle argomentazioni dei promotori della Teoria critica della razza sia per la forma che per il contenuto. Egli ritiene che se si fondasse un movimento che cerca di demonizzare la «nerezza», quell’organizzazione finirebbe inevitabilmente per demonizzare le persone nere. Se si demonizza la «bianchezza» e l’essere bianchi, a un certo punto le persone bianche saranno demonizzate.
Solo sul mercato africano esistono più di centocinquanta marche di creme, unguenti e altri gel sbiancanti, facilmente acquistabili, ma quasi sempre illegali e dannosi per la salute. Il problema non è solo medico e non riguarda solo l’Africa. Un’inchiesta di Le monde del 2008 già rivelava la tendenza diffusa da parte delle persone di colore di voler sbiancare la pelle. Un desiderio comune anche tra le cittadine francesi di origine africana. Fin dal 1500 l’opposizione simbolica tra il bianco e il nero assunse e sviluppò concetti legati anche alla tradizione classica, soprattutto cristiana, di bianchezza e oscurità. Il bianco è associato a purezza, verginità, virtù, bellezza. Il nero alla bruttezza fisica e spirituale, alla mostruosità, alla collera divina.
L’uso del sapone e di altri detergenti è, ovviamente, legato in primis a questioni di salute, igienico sanitarie, ma non è né esente né lontano da aspetti simbolici legati alla purificazione sociale. Un simbolismo quasi escatologico che si sovraccarica di aspettative al punto da arrivare ai dati odierni relativi ai tentativi di sbiancamento della pelle. Un tema che le aziende hanno sfruttato, per fini commerciali e di immagine.2
I segni distintivi, evidenti fin da subito, della Teoria critica della razza sono, secondo Murray: un’assoluta ossessione per la razza come strumento essenziale per capire il mondo e qualunque ingiustizia e la pretesa che i bianchi siano colpevoli in toto di avere dei pregiudizi, in particolare razziali, già dalla nascita e che il razzismo sia radicato così profondamente nella società a maggioranza bianca che le persone bianche in quelle società non si rendono nemmeno conto di vivere in contesti sociali razzisti.
Per Bell Hooks, tra i teorici della Tcr maggiormente criticati da Murray, impegnarsi per porre fine al razzismo nell’istruzione è l’unico cambiamento realizzabile a beneficio degli studenti neri e, in generale, di tutti gli studenti. Se i neri americani hanno dovuto, e devono ancora, lottare contro la discriminazione e la segregazione, di fatto i neri d’Italia, pur trovandosi in scuole libere e aperte a tutti, spesso sono stigmatizzati come stranieri, anche se nati e cresciuti qui. Altre volte sono etichettati come alunni con bisogni educativi speciali solo perché non parlano ancora la lingua italiana o sono traumatizzati per i trascorsi, per la fuga da paesi in guerra o povertà estrema.
Una delle situazioni più ricorrenti sottolineata da Hooks riguarda il fatto che la gran parte di coloro che si dichiarano antirazzisti, nel loro quotidiano, non frequentano persone nere o di colore (intesi come non bianchi). Non hanno grandi rapporti con loro. La loro cerchia si compone, alla fin fine, di persone bianche. Nella visione di Hooks, il “modello suprematista bianco” plasma le nostre vite in ogni momento, e questo succede sia negli Stati Uniti che in Italia. Necessita allora un lavoro di decolonizzazione e auto-decolonizzazione mentale.3
Ma l’autore si chiede cosa può fare l’Occidente con un tale elenco di peccati che gli vengono imputati. Come si può riparare agli sbagli senza colpire gli innocenti e premiare gli immeritevoli? È un enigma che aleggia su tutte le ingiustizie della storia e bisogna fare molta attenzione nel maneggiare questo “bisturi morale”.
Tutta la storia e la geografia sono un insieme di rivendicazioni e contro-rivendicazioni su chi è stato ingiusto con chi e su quale gruppo di persone è ancora in debito con un altro a causa di un’ingiustizia storica.
Si chiede inoltre Murray come sia potuto accadere che, in nome della grande apertura mentale, siamo diventati di vedute così ristrette, e come, in nome del progresso, abbiamo assorbito idee che si sono rivelate altamente regressive, generando così solo una gran confusione.
Negli ultimi anni, gli americani e gli altri popoli sono stati molto entusiasti di dimostrare che non sono ciò che sostengono quelli che li criticano. Queste persone provano a dimostrare di non essere razziste, omofobe, misogine e quant’altro, e sperano che si capisca che, nonostante la loro storia possa aver incluso il razzismo, non è stato in alcun modo l’unico elemento della loro storia.
Il libro
Douglas Murray, Guerra all’occidente, Guerini e Associati, Milano, 2023.
1I.X. Kendi, How to be an antiracist, One World, New York, 2019.
2F. Faloppa, Sbiancare un etiope. La costruzione di un immaginario razzista, Utet, De Agostini Libri, Milano, 2022.
3B. Hooks, Insegnare comunità. Una pedagogia della speranza, Meltemi, Milano, 2022.
Il benessere ambientale è un ritorno al passato o una proiezione verso il futuro? La correlazione tra demografia e inquinamento: il controllo delle nascite e il consumo delle risorse plasmano il mondo globale
Demografia e inquinamento, nell’era del cambiamento climatico: come trovare l’equilibrio per il benessere, dall’allarmismo anni Settanta alla fiducia nelle innovazioni tecnologiche
Il dibattito sull’impatto del numero della popolazione mondiale è riemerso a partire dal novembre 2022, quando si è raggiunto il traguardo degli 8 miliardi di persone – ma le visioni allarmistiche sulla crescita esponenziale della popolazione animavano già il dibattito negli anni Settanta.
Lo slancio demografico è pre-programmato, occorre agire su consumi ed ecologia
La crescita della popolazione mondiale nel medio termine è guidata dalla struttura dell’età giovane di alcune popolazioni mondiali. Il cosiddetto slancio demografico implica che gran parte dell’ulteriore crescita della popolazione totale nei prossimi decenni è già pre-programmata nella composizione per fasce di età della popolazione. Pertanto, le soluzioni immediate per ridurre le emissioni fino al 2050 devono provenire principalmente dall’ecologizzazione dell’economia mondiale e da un cambiamento nel consumo pro capite.
Ciò non significa che i cambiamenti nella dimensione della popolazione globale siano irrilevanti. Nel lungo termine, l’entità della popolazione avrà un impatto in termini di vulnerabilità e capacità della popolazione di adattarsi al già inevitabile cambiamento climatico. Considerando le emissioni future, la dimensione della popolazione degli attuali paesi a basse emissioni farà una grande differenza man mano che le loro economie cresceranno e i livelli di consumo aumenteranno.
La futura crescita della popolazione si concentrerà nelle regioni del mondo che attualmente presentano le emissioni pro capite più basse e una responsabilità limitata per le emissioni passate, come l’Africa. Pur partendo da un livello basso, si prevede che queste regioni registreranno i progressi più lenti in termini di decarbonizzazione, miglioramento dell’efficienza energetica e disaccoppiamento della crescita economica dalle emissioni. Spetta all’Unione Europea e alle altre regioni del primo mondo, che hanno contribuito a gran parte delle emissioni passate, guidare gli sforzi di coordinamento per ridurre l’intensità energetica, sviluppare tecnologie green e adottare modelli di consumo più sostenibili.
Tecno-ottimisti e futuristi puntano tutto su ingegno umano e tecnologia
Mentre le visioni allarmistiche di una crescita esponenziale della popolazione sono ormai scartate dalla maggior parte degli analisti, anche le preoccupazioni più moderate sull’impatto di una popolazione mondiale ancora in espansione vengono spesso minimizzate con l’argomentazione, in ultima analisi, che le emissioni sono influenzate più dal reddito che dalle dimensioni della popolazione.
Lo spostamento dell’attenzione verso il reddito è generalmente accompagnato dalla fiducia nell’ingegno umano e nel ruolo che la tecnologia può svolgere negli sforzi per decarbonizzare le economie. Alcuni studiosi, tra i quali Ian Goldin, vedono in un maggior numero di persone sul pianeta opportunità che si presentano per l’arricchimento del capitale umano e della diversità che consentiranno di affrontare al meglio le sfide globali.
I tecno-ottimisti confidano nella forza dell’innovazione e tendono a ignorare la dipendenza fondamentale delle economie dai bisogni materiali dei combustibili fossili. Ancora più estremisti sono i futuristi come Harari e Kurzweil, i quali invocano le upcoming singularities – trasformazione digitale, intelligenza artificiale, energia da fusione –, quali supporti indispensabili che consentiranno alla specie umana di continuare lungo il suo percorso di espansione economica esponenziale, indipendentemente dall’entità della popolazione e dai confini planetari.
Cambiamenti climatici e popolazione che invecchia sono le sfide europee – anziani e residenti urbani inquinano di più
Stando ai dati del Report 2023 del Joint Research Centre, considerando le emissioni in termini pro capite, è possibile osservare come le persone anziane tendono a emettere in media più delle generazioni giovani. Nelle città le emissioni sono inferiori grazie alle economie di scala urbane – ad esempio, dalla condivisione dei trasporti pubblici. D’altra parte, queste efficienze sono contrastate dal reddito più elevato dei residenti urbani, che normalmente si traduce in maggiori consumi ed emissioni. Inoltre, le persone che vivono in città sono penalizzate dal fatto che le le famiglie, in genere, tendono a essere più piccole rispetto alle aree rurali e quindi le emissioni sono divise per un numero minore di membri della famiglia.
Piuttosto che sulla dimensione e sulla crescita della popolazione, la maggior parte dei riferimenti demografici nelle politiche di mitigazione e adattamento climatico dell’Unione Europea sono legati alla necessità di far fronte alla vulnerabilità di una popolazione che invecchia, a uno status di basso reddito e al luogo di vita rurale.
La popolazione europea sta invecchiando rapidamente. Eurostat prevede che entro il 2050 nell’UE-27 ci saranno quasi mezzo milione di centenari. Questo cambiamento nella struttura per età della popolazione europea avviene parallelamente ai cambiamenti climatici. Ondate di caldo, siccità ed eventi meteorologici estremi sempre più frequenti incidono sui tassi di mortalità complessivi, sul benessere e sui mezzi di sussistenza delle persone.
Stando ai dati del Report 2023 del Joint Research Centre, considerando le emissioni in termini pro capite, è possibile osservare come le persone anziane tendono a emettere in media più delle generazioni giovani. Nelle città le emissioni sono inferiori grazie alle economie di scala urbane – ad esempio, dalla condivisione dei trasporti pubblici. D’altra parte, queste efficienze sono contrastate dal reddito più elevato dei residenti urbani, che normalmente si traduce in maggiori consumi ed emissioni. Inoltre, le persone che vivono in città sono penalizzate dal fatto che le le famiglie, in genere, tendono a essere più piccole rispetto alle aree rurali e quindi le emissioni sono divise per un numero minore di membri della famiglia.
Crescita demografica ed emissioni di carbonio nel mondo: la trappola malthusiana
Il premio Nobel Nordhaus sottolinea che esistono tre modi per ridurre le emissioni: minore crescita della popolazione, minore crescita del tenore di vita, minore intensità di CO2 – decarbonizzazione. C’è una discrepanza della popolazione e di livelli di emissioni tra i paesi. I principali emettitori, storici e attuali, Stati Uniti, Cina e Unione Europea, sono regioni in cui la popolazione ha smesso di crescere o sta crescendo a un ritmo lento. Le regioni in cui la popolazione cresce più forte sono quelle che contribuiscono solo in minima parte al riscaldamento globale.
Dal finire del Diciottesimo secolo in poi, le richieste di risorse sono aumentate costantemente mentre sono emerse conseguenze ecologiche negative come il peggioramento della qualità dell’aria e dell’acqua, il declino delle risorse idriche e terrestri e, con il tempo, il cambiamento climatico… continua a leggere su Lampoon.it
Una delle immagini che vengono in mente quando si pensa all’antica Roma è quella dei giochi gladiatori: enormi anfiteatri gremiti di spettatori che gridano ed esultano, mentre nell’arena uomini armati si affrontano in duelli all’ultimo sangue o combattono contro bestie feroci.
Come nacquero queste manifestazioni? Qual era il reale significato?
Sono questi i quesiti da cui parte il libro di Campanelli. Un racconto in chiave storica di un aspetto assolutamente particolare della Roma antica che ancora riecheggia nell’arte, nel cinema e soprattutto nello sport.
Chi erano i gladiatori? Lo ricorda in maniera molto dettagliata l’autrice che questi altro non erano che prigionieri di guerra, criminali, schiavi e talvolta volontari, pronti a mettere in gioco la propria vita per guadagnare fama, onori o semplicemente una seconda possibilità.
Impressiona molto la dedica con cui si apre il libro al lettore: alla memoria di tutti gli animali, le donne e gli uomini perseguitati e uccisi negli anfiteatri.
Riporta la mente alla forza attrattiva esercitata dai giochi gladiatori sulla follla. Un fascino cui è stato difficile sottrarsi anche dopo l’avvento del Cristianesimo.
Il popolo amava troppo gli spettacoli per potervi rinunciare, fossero lotte tra gladiatori, battute di caccia – venationes – o simulazioni di imponenti battaglie navali – naumachiae. La sete di sangue era così intensa che si giunse ad allestire rappresentazioni teatrali sostituendo all’attore professionista un condannato alla pena capitale, così da vederlo morire realmente.
E allora Campanelli si chiede come sia stato possibile che una civiltà tanto razionale e pragmatica come quella romana, fondata sul diritto e dove ogni azione doveva essere basata sul fondamento, abbia fatto della violenza gratuita su animali e uomini una forma di svago.
Impossibile credere che tutti i romani fossero affetti da un disturbo sadico della personalità, eppure le grandi mattanze di belve, i supplizi pubblici e soprattutto i duelli cruenti tra uomini rappresentavano il passatempo preferito, finendo per diventare anche un potente strumento di condizionamento ideologico e di propaganda politica.
Inoltre l’autrice sottolinea che, nella cultura del tempo, la compassione era sinonimo di debolezza. Gli spettacoli cruenti erano parte della vita quotidiana e sottoporre un condannato a castighi feroci era considerato iustum, ovvero «conforme alla giustizia», oltre che avere un’importante valenza educativa e formativa per l’intera comunità.
Le prime esibizioni di gladiatori si tennero a Roma alla metà del III secolo a.C., ma al tempo non erano ancora quella grandiosa e avvincente forma d’intrattenimento pubblico che avrebbe ammaliato fino allo stordimento il popolo in età imperiale. Ricorda l’autrice che i giochi gladiatori derivano da una pratica di carattere sacro e privato strettamente connessa al mondo dei morti.
Il duello cruento era un omaggio offerto al defunto dai propri eredi in occasione dei ludi novendiales, i giochi funebri che chiudevano il periodo di lutto della durata di nove giorni.
I numera – giochi gladiatori – prima di trasformarsi nel genere di intrattenimento più diffuso e gradito dalla plebe, rappresentavano un voto, un impegno solenne verso gli dèi e il defunto, nella convinzione che il sangue umano versato sulla tomba riconciliasse la vita terrena con l’aldilà.
Una tradizione già in uso nell’antica Grecia.
Il popolo romano assistette per la prima volta a uno spettacolo di gladiatori nel 264 a.C.
Negli stessi anni in cui comparvero i duelli gladiatori prese forma un altro genere di attrazione: la venatio, letteralmente «battuta di caccia». In realtà, rimanendo nell’ambito degli spettacoli, con questa parola gli antichi indicavano un’ampia serie di performance con animali, dalla semplice sfilata di specie esotiche come struzzi, giraffe, ippopotami e coccodrilli, al combattimento tra le belve, fino alla caccia nelle arene. A differenza dei numera, le cacce non avevano alcun valore sacrale e si configuravano piuttosto come un’attrazione strettamente connessa alla guerra di conquista e alla vertiginosa espansione dell’Urbe dalla penisola italica all’intero bacino del mediterraneo, eventi che permisero ai romani di entrare in contatto con animali esotici e sconosciuti.
Secondo i calcoli effettuati nel 2012 da Elliott Kidd, la perversa attrazione per le venationes avrebbe condotto, in cinque secoli di spettacoli, allo sterminio di circa due milioni e mezzo di animali in tutto il territorio dell’impero.1
Le naumachiae erano il più costoso e scenografico genere di spettacolo che gli antichi potessero concepire, capace di riesumare e far rivivere episodi bellici di epoche passate, con la differenza che gli attori che prendevano parte maneggiavano armi reali e spesso morivano davvero.
Esisteva anche una forma d’intrattenimento che Campanelli descrive come solo in apparenza molto diversa, segnata da un carattere di crudeltà ancora maggiore: le esecuzioni capitali. Non l’uccisione di un detenuto sulla pubblica piazza ma di vere rappresentazioni teatrali con tanto di canovaccio narrativo, maschere, costumi di scena, effetti speciali e accurate scenografie. Solo che a interpretare tali farse non erano degli attori professionisti, bensì donne e uomini torturati fino alla morte.
I gladiatori non erano solo dei «barbari» provenienti da nazioni selvagge fatti prigionieri e ridotti in schiavitù, molti di loro erano anche dei provinciali, altri giungevano persino dalla penisola italiana, Roma compresa, ed erano di condizione libera, sebbene in misura minore.
Entrando in una famiglia gladiatoria, tutti i combattenti, seppur con qualche eccezione, erano obbligati a risiedere all’interno delle caserme, dove tanto gli schiavi quanto gli uomini liberi venivano sottoposti alla rigida disciplina imposta dal lanista – istruttore o proprietario di una scuola gladiatoria – e a un regime di sorveglianza più o meno restrittivo. Il ludus era dunque un luogo molto più simile a una prigione che a una caserma e chi tentava di fuggire o di ribellarsi doveva tollerare la detenzione e subire pesanti punizioni corporale come la flagellazione e il ferro rovente.
La vita quotidiana all’interno dei ludi non era solo faticosa, ma anche scomoda. Lo stesso alloggio – di fatto una camera detentiva di non più di 10-15 metri quadrati, nel migliore dei casi 20 metri quadrati circa, sottolinea Campanelli – era occupato contemporaneamente da due o tre uomini, il più delle volte era privo di finestre e gli archeologi sostengono che non fosse nemmeno dotato di veri letti ma solo di giacigli di fortuna messi a terra.
D’altra parte, ricorda l’autrice, il disagio veniva compensato con una serie di servizi solitamente negati alla plebe urbana, a partire dall’assistenza medica. I gladiatori avevano a disposizione medici ma anche unctores, ossia i massaggiatori sportivi, che avevano il compito di ridurre la tensione muscolare e accelerare la guarigione delle contratture.
Per quanto strapazzati, i gladiatori dovevano rendere il massimo dal punto di vista fisico, diversamente il lanista non avrebbe potuto ricavarne alcun profitto.
Persino la dieta meritava un’attenzione particolare e a giudicare dal vitto si direbbe che il fisico dei gladiatori non fosse particolarmente muscoloso e asciutto come ci si aspetterebbe da un atleta. A dispetto delle durissime condizioni di vita, sottolinea Federica Campanelli quanto sia in realtà plausibile che questi uomini si nutrissero in maniera più che abbondante e con regolarità, assumendo cibo volto a favorire un buon apporto calorico e lo sviluppo di uno strato di adipe che li proteggesse dai colpi di arma da taglio cui erano esposti.
L’apertura al Cristianesimo da parte dell’impero sotto Costantino non ebbe effetti immediati sui numera, che continuarono a essere messi in scena almeno fino al principio del V secolo d.C. Al tramonto dei numera concorsero soprattutto ragioni di ordine economico, il venir meno di prigionieri di guerra – principale fonte di reclutamento dei gladiatori –, il mutato atteggiamento delle autorità pubbliche e anche il decadimento strutturale di teatri e anfiteatri.
Campanelli ricorda come l’aggressività è un impulso ancestrale, insito nella natura stessa dell’uomo, e ha costituito la prima «arma» quando gli uomini hanno dovuto combattere contro le altre creature viventi del pianeta per sopravvivere.
Ancora oggi sono milioni i seguaci di discipline sportive caratterizzate da competizione e una buona dose di aggressività, esiste tuttavia un’enorme differenza rispetto al passato: i combat sport come karate, boxe, arti marziali e wrestling mettono in scena una violenza solo simulata e anzi aiuterebbero a conoscere il proprio «lato oscuro» e a gestire gli impulsi aggressivi.
Nessun atleta contemporaneo rischierebbe menomazioni e finanche la vita per una professione miserabile, ciononostante si ha la tendenza a comparare la figura del gladiatore con le prodigiose stelle dello sport.
Dall’analisi di Campanelli emerge come, in realtà, i gladiatori erano poco più che scarti umani da dare in pasto all’arena, nulla a che vedere con il patinato e redditizio mondo sportivo attuale, soprattutto calcistico. Il mestiere del gladiatore non dava alcuna garanzia economica, quindi gli atleti moderni hanno davvero poco da spartire con i gladiatori.
Il libro
Federica Campanelli, La grande storia dei gladiatori. Dalle origini del mito agli ultimi combattimenti: tutto quello che c’è da sapere sui leggendari eroi dell’antica Roma, Newton Compton, Roma, 2023
1Elliott Kidd, Beast-Hunts in Roman Anphitheaters: the Impact of the Venationeson on Animal Populations in the Ancient Roman World in The Eagle Feather Undergraduate Research Journal – vol. 9, Università del Texas, Denton, 2012
Il festival artistico senegalese Partcours 12 ha ospitato la mostra dedicata a Mauro Petroni e alle sue manifatture in ceramica – «Non fingo di essere integrato: sono un viaggiatore, che guarda tutto e capisce poco»
Partcours – la mostra Petroni 40, organizzata dall’Ambasciata Italiana e dall’Istituto Italiano di Cultura
Un evento a Dakar lega arte e territorio. Si è conclusa il 10 dicembre la manifestazione artistica Partcours iniziata lo scorso 24 novembre e giunta alla dodicesima edizione. Il festival itinerante è un’esplorazione dinamica del tessuto urbano di Dakar, a cui partecipano Artisti, curatori, galleristi e pubblico.
Partcours ha ospitato quest’anno la mostra Petroni 40, organizzata dall’Ambasciata Italiana e dall’Istituto Italiano di Cultura per omaggiare l’artista italiano Mauro Petroni e il suo lavoro creativo in Senegal. Ma numerosi sono stati gli eventi e le esposizioni che hanno visto la partecipazione di oltre cento artisti.
I luoghi di Partcours 12: Almadies Ceramics Workshop
Mauro Petroni ha esposto nell’hangar di Almadies Ceramics Workshop. Costruito all’inizio degli anni Sessanta nella foresta di Almadies, questo capannone aperto ospitava la produzione di prefabbricati in cemento, utilizzando le rocce della vicina scogliera. Dal 1984 è sede del laboratorio di Petroni, che ha prodotto interventi in ceramica per l’architettura e il patrimonio senegalese: dalla ricostruzione del mercato Kemel nel 1996 al restauro della stazione ferroviaria di Dakar nel 2018. Tutta la sua produzione è realizzata a mano con la terra rossa del Senegal, che si lega agli smalti nel forno a gas di Limoges risalente al XIX secolo.
Le ceramiche prodotte nel laboratorio di Petroni sono una commistione di radici italiane liberamente ispirate all’estetica africana. L’artista sottolinea di non aver praticamente mai lavorato la ceramica in Italia, mentre il suo lavoro in Senegal ruota completamente intorno a essa. «Ho poco dell’artista e dell’artigiano – ma amo il rigore. Non ho mai fatto ceramica in Italia. Ho bevuto tanto da tante parti e quando faccio dei pezzi che mi dico del Sahel, forse sono di una matrice etrusca, o ancora c’è un po’ di Oriente. In fin dei conti il viaggiatore quando diventa sedentario vive di sogni, e di segni».
Il viaggio artistico di Petroni fa tappa a la Gare de Dakar
Un viaggiatore, Petroni, che ha ricreato un ‘viaggio architettonico’ sui muri di Dakar – sono circa 240 i suoi interventi nella città, per creare un percorso nel tempo e attraverso il Paese. Intorno al concetto di viaggio ruota anche uno dei monumenti storici della città: la Gare de Dakar, tra le opere architettoniche pubbliche forse quella che più di tutte rappresenta l’impegno di coniugare e unire culture e tradizioni. Un’opera che vuole rappresentare il progresso, l’infrastruttura, il viaggio.
Petroni stesso ha percorso migliaia di chilometri nella sua vita. Ha vissuto più tempo in Senegal che in Italia e si sente ancora un viaggiatore e uno straniero. «In questa casa atelier dove abito ho vissuto quarant’anni, più del tempo che ho dormito in un letto italiano. Non ho mai fatto le treccine, non fingo di essere integrato: sono ‘straniero’, privilegiato, più libero di chi deve sottoporsi a regole sociali. Non so se questo si traduce anche in quello che faccio, forse sì. La lettura che posso fare delle cose è simile a quella del viaggiatore, che guarda tutto e capisce poco».
Petroni, il mercato di Kermel e l’arabisance
Un’altra opera rappresentativa dell’architettura urbana di Dakar è il mercato di Kermel, cuore vivo della città, meta anche di turisti. L’originale architettura è a pianta centrale – una struttura in acciaio e mattoni colorati, con ringhiere di ferro battuto plasmate secondo motivi floreali, richiamati anche dalle ceramiche decorative. Un edificio che parla di sogni, di fantasia, di allegria. Esso è testimonianza del padiglione a pianta centrale con struttura in acciaio secondo i modelli importati dalla Francia ma è, al tempo stesso, il volto esotico della arabisance – arabizzazione. Petroni ha lavorato alla sua restaurazione. Un lavoro per il quale nutriva molte aspettative.
«Avevo entusiasmo per quello che era il mio primo grosso cantiere, legato alla storia della città. Un mercato. Il posto di tutti gli scambi e di tutti i sogni. Quelli che avevano disegnato i decori non avevano capito niente, pensavano all’Africa come alle Mille e una notte, ma proprio lì sta la genialità. Ancora una volta la mescolanza, i fischi per fiaschi: le lune dell’Arabia nel loro decoro somigliavano a delle banane».
Petroni 40: il labirinto multiculturale dove non ci si perde ma ci si trova
Ad aprire il festival Partcours quest’anno c’è stata proprio la mostra in due parti dedicata ai 40 anni di lavoro creativo in Senegal di Mauro Petroni. Petroni 40 all’Istituto Italiano di Cultura di Dakar sarà allestita fino al 24 febbraio 2024 mentre quella all’Atelier Céramiques Almadies fino al 1 marzo 2024. La prima è proiettata verso le opere di architettura urbana e la seconda incentrata, invece, su otto collezioni iconiche dell’artista.
Petroni ha definito le sue ceramiche il filo di Arianna che gli hanno permesso di creare la tela sulla città. La tela su una città che egli definisce un labirinto nel quale invece di perdersi ci si trova. «Facile rispondere che Dakar è un labirinto – non di quelli dove ci si perde, piuttosto quelli dove ci si trova. E questo grazie al suo senso multiculturale, una città dove molte anime convivono».
I chiaroscuri della cultura e della società senegalese
Dakar è la città più grande del Senegal. Situata sulla costa occidentale dell’Africa è un centro multiculturale vibrante e vivace. Fondata dai colonizzatori francesi nel 1857, ospita numerosi gruppi etnici: Wolof, Serer, Puhl, Diola, Mandingo. La presenza francese è evidente nella ristorazione, nel commercio e nell’architettura, con gli edifici coloniali che si affiancano a moderne strutture africane. Un labirinto di strade, case, arte, cultura le cui caratteristiche si intrecciano per creare quella peculiare società che Petroni definisce una vera e propria rampa di lancio.
Cambiamenti bruschi, radicali. Petroni ha iniziato a frequentare il Senegal dagli anni Settanta e vi si è trasferito in maniera definitiva nel 1983. Una nazione dove ha trovato, al suo arrivo, la libertà di espressione e movimento. «Era un posto dove trovavo la libertà di essere, di muovermi, di esprimermi. Prima tutto era largo, ora tutto sembra essere così stretto. Non voglio dire che era meglio, era così»... continua a leggere su Lampoon.it