Leggere un libro di poesie non è come leggere narrativa o altro. La poesia è un concentrato di sentimenti, emozioni, aspirazioni, ambizioni, delusioni, paure, dolori, amori… sentimenti forti e grandi condensati in poche righe, o meglio versi.
Un romanzo è dilatato, concede al lettore il tempo per metabolizzare, assimilare, anche superare in un certo qual modo gli shock emotivi. La poesia no, è crudele da questo punto di vista.
Non è possibile leggere un libro di poesie tutto d’un fiato come un romanzo, un giallo o un poliziesco. No, la lettura di una poesia ha bisogno di tempo. E la lettura di una raccolta di poesie necessità anche di uno stato d’animo particolare da parte del lettore.
L’ordine, è un’altra cosa su cui riflettere. Non è necessario leggerle secondo l’ordine di stampa. A meno che non sia stato lo stesso autore a indicarlo.
Tutto ciò perché le emozioni che possono trasmettere le poesie sono una potenza esplosiva che va ben compresa e per poterlo fare bisogna necessariamente trovare il giusto punto di equilibrio tra la forza della trasmissione e la capacità di assimilazione.
Il giardino di Sophia è una raccolta di poesie di una potenza estrema. Intensa e cocente.
Una poesia che lascia intravedere tutta l’esitazione esistenziale dell’autrice la quale, unita alla volontà e determinazione di raggiungere una giustizia sociale, regalano al lettore pagine di una grande letteratura impegnata.
Un impegno che va oltre il sentimento e anche la religione, l’aspetto spirituale viene rappresentato dall’autrice più come un rimando alle divinità ancestrali che hanno animato la mente degli avi, i quali vivevano a stretto contatto e in simbiosi con la Natura, con le cose, intorno alle quali sembra proprio essere costruita la poesia di Sophia de Mello Breyner Andresen. Un cerchio scritto intorno a loro che sembra anche un abbraccio, all’interno del quale anche il tempo scompare, o meglio rimane sospeso per lasciare liberi i sentimenti di aprirsi senza limiti, di spazio o ti tempo appunto.
Il giardino di Sophia edito da Il ramo e la foglia edizioni è una selezione di poesie tratte dalle quattordici raccolte poetiche dell’autrice. La poesia di Sophia de Mello Breyner Andresen può nascere indistintamente da un giardino proteso verso l’oceano o da un frutto poggiato su una tavola ed entrambe le immagini danno origine a composizioni nelle quali forte è il rimando alla dimensione esistenziale dell’uomo innanzitutto, ma anche di tutto ciò che rappresenta Natura. Attimi di tempo e attimi di vita, in un concetto della stessa esistenza della poesia che, a tratti, rimanda alla poetica pascoliana del fanciullino.
Anche le composizioni di Sophia de Mello Breyner Andresen, pur nel loro essere universalmente valide, esattamente come quelle del Pascoli, sembrano nascere proprio dal legame con la propria Terra di origine, nei piccoli gesti della vita quotidiana, nell’esistenza delle persone e dei loro sentimenti.
L’espressione più grande della forza dei sentimenti si ritrova comunque nei componimenti a sfondo politico che attaccano il regime di Salazar, dai quali traspare il grande anelito alla giustizia e alla libertà che deve essere stato per certo il fondamento di tutta la ricerca interiore dell’autrice.
«… neppure una macchia si vedeva sulla veste dei Farisei.»
Il libro
Sophia de Mello Breyner Andresen, Il giardino di Sophia, Il ramo e la foglia edizione, Roma, 2022. Cura e Traduzione di Roberto Maggiani. Postfazione di Claudio Trognoni.
L’autrice
Sophia de Mello Breyner Andresen: è stata una poetessa portoghese, tra i maggiori autori lusitani nella storia della letteratura. In aperta opposizione al regime di Salazar, compose anche poesie contro la dittatura.
Le trasformazioni indotte nei paesi della semi-periferia dai paesi capitalisticamente avanzati, in associazione con le élite locali, hanno plasmato il mondo extraeuropeo nel corso del lungo diciannovesimo secolo e stanno, di fatto, trasformando il mondo europeo in questo nuovo secolo.
Tali riforme dimostrano che il processo di liberalizzazione economica non è frutto di una spontanea evoluzione del mercato, bensì è il risultato di un’azione diretta operata dagli attori economici che più ci guadagnano da tali grandi trasformazioni.
Il problema non è il liberal-capitalismo in sé, che indubbi meriti in termini di prosperità è riuscito a ottenere in molti paesi, ma il principio secondo cui la sua replica istituzionale possa avere lo stesso successo in termini di benessere materiale in paesi che non hanno il medesimo background sociale, culturale ed economico.
Eppure lo schema che si è presentato sembra essere sempre lo stesso, egregiamente analizzato da Giampaolo Conte nel libro: prima gli inglesi, poi gli americani e infine gli europei capitanati dalla Germania hanno esportato, o tentato di farlo, attraverso l’azione pacifica di una proposta riformista, un modello, un contratto sociale, spesso sotto la retorica della modernizzazione, funzionale alla riproduzione del proprio sistema economico di ispirazione liberal-capitalista.
Siffatte riforme, concentrate specialmente nel settore finanziario, rimescolano gli stessi equilibri sociali perfino all’interno dei paesi avanzati, che devono a loro volta subire i costi di esternalizzazione che in passato non hanno mancato di scaricare su paesi della semi-periferia. Non essendo funzionali al processo di accumulazione finanziaria, anche le società nei paesi avanzati diventano vittime della trasformazione del capitalismo sostenuta dall’ideologia neoliberista.
Molti libri sul capitalismo e sulla sua crisi si sono rivelate essere interessanti letture per comprendere un fenomeno la cui portata va intesa come epocale, laddove incide sulla vita e sull’esistenza di intere popolazioni. Ma Riformare i vinti di Giampaolo Conte è un libro che non ti aspetti, per la profondità dell’analisi e la metodica applicata. Dati alla mano, l’autore compie un’indagine sincronica e diacronica sul capitalismo e le sue riforme, sul liberalismo e sull’ideologia neoliberista che ha ispirato gran parte di dette riforme, definite eterne proprio perché applicate in stati, imperi o entità territoriali non inglesi, non statunitensi o quantomeno non appartenenti al club esclusivo delle grandi potenze capitaliste.
All’interrogativo sulla necessità di leggere un libro come quello di Conte si deve necessariamente rispondere che il punto di rottura di un sistema economico-finanziario, qual è stato ad esempio la crisi del 2007, non è l’inizio di un nuovo periodo bensì il punto di arrivo di tutto ciò che prima è stato. Per evitare l’insorgere di nuove gravi crisi è quello che bisogna indagare e comprendere, ed è esattamente ciò che l’autore ha fatto. Egregiamente.
Il libro
Giampaolo Conte, Riformare i vinti. Storia e critica delle riforma liberal-capitaliste, Guerini Scientifica, Edizione Angelo Guerini e Associati, Milano, 2022.
L’autore
Giampaolo Conte: docente di Storia economica e Storia del capitalismo presso l’Università Roma Tre. In precedenza ha insegnato il Olanda presso l’International Institute of Social Studies ISS. Inoltre, ha avuto incarichi di ricerca ed è stato fellow all’Università di Cambridge e alla London School of Economics LSE.
“Attraversare la distanza” a cura di Gabriele Gabrielli
La pandemia, il lockdown, il distanziamento fisico, chiamato impropriamente sociale, hanno generato sofferenza e disorientamento, una inedita mancanza e un vuoto generato dalla sospensione.
Una sospensione inattesa e inaspettata. La nostra cultura non prevede fughe o sospensioni ed è, forse, questo uno dei motivi per cui si è andata a schiantare dritta contro la pandemia.
Diverse culture predispongono “vie di fuga” come soluzioni indispensabili e salutari all’effetto “gabbia” che ognuna di esse tende a produrre. La megacultura occidentale, identificabile come dell’Antropocene, non ha previsto vie di fuga o alternative a se stessa. L’Ekyusidei BaNande del Nord Kivu – Congo e lo Shabbathdegli Ebrei sono “traumi” che una cultura impone a se stessa, auto-sospensioni mediante le quali una cultura si costringe a “mettere tra parentesi” se stessa e le proprie pretese di dominio. Un valido modo per riconoscere che, oltre a se stessa, vi sono altre realtà (la terra, la foresta, …) da cui gli esseri umani ricavano risorse e che potrebbero esistere benissimo anche senza il lavoro degli uomini. Il lockdown, questa sospensione tanto inattesa quanto destabilizzante, ha paurosamente arrestato gli ingranaggi di una poderosa macchina economica che siamo abituati a pensare non solo come inarrestabile ma anche come universale, come un qualcosa di sacro e di intoccabile. Ciò che manca alla nostra civiltà è esattamente l’idea del limite, del proprio limite. La nostra cultura, così piena di lumi forniti dalla scienza, è priva dell’illuminazione che proviene dalla pratica dell’auto-sospensione, dalla pratica del suo arresto. Questa brama, anche definita “il male dell’infinito”, è la fonte dei problemi che affliggono la società moderna: sregolata, anomica, patogena. Le auto-sospensioni traumatiche introducono, nelle culture che le praticano, un forte senso del limite. Le obbligano a ritornare alla natura, fanno loro vedere la fine, fanno accettare l’arresto, fanno incorporare la morte. Ma non è una morte di desolazione, una desertificazione: la morte delle imprese culturali coincide con il riconoscimento dei diritti della natura. Siamo talmente intrappolati nelle maglie fitte di questa ipercultura e, come afferma Fred Vargas, non facciamo altro che avanzare alla cieca, inconsapevoli e sprovveduti.1
All’avvento della pandemia da Covid-19 tutto è cambiato: il mondo con il quale avevamo organizzato la vita, la scuola, l’economia, il lavoro. E ora va ripensato anche il futuro.
Per Gabrielli, tutto ciò è servito a capire che l’esperienza umana non è tale senza le relazioni che la sospensione dell’isolamento ha tolto quasi per intero.
Molti interrogativi si pongono ora che tutto sta ritornando alla tanta agognata “normalità” perché mai bisogna dimenticare che la pandemia ha accelerato dei processi in atto e che, forse, anche se più lentamente, si sarebbero manifestati comunque.
L’isolamento è stata una necessità e il digitale uno strumento oppure la pandemia è stata un accelerante per “rifugiarsi” ancora di più nel mondo virtuale? Inoltre, come rimettere al centro del palcoscenico organizzativo le relazioni senza buttar via i benefici della tecnologia? La digitalizzazione come sta cambiando le relazioni tra umani? Come ci fa guardare l’altro? Come ci fa guardare e sentire noi stessi?
Da molto tempo prima della pandemia la quarta rivoluzione, ovvero quella legata alla diffusione di un’infosfera, sempre più delocalizzata, sincronizzata e correlata, ha aperto la strada alla nuova esperienza onlife, con il quale si sta mescolando.2
Si sta andando sempre più velocemente verso un mondo intero a portata di click, dove tutto è più semplice, veloce e immediato. Una realtà virtuale sempre più mescolata al reale piena, però, di insidie e di lati oscuri. Una vera e propria “prossimità aumentata” nel campo delle relazioni, anche nel mondo del lavoro, che possono svilupparsi sia attraverso la compresenza fisica sia mediante la compresenza digitale.
Ed è proprio sulle relazioni che indagano a fondo gli autori, scrutandone i diversi aspetti, sociali e professionali. Un’indagine che parte dell’essere umano e ad esso ritorna, evidenziandone così il ruolo, che deve restare centrale, anche nelle connessioni virtuali.
Il libro
Gabriele Gabrielli (a cura di), Attraversare la distanza. Per una nuova prossimità nella società, nelle imprese, nel lavoro, Franco Angeli, Milano, 2022.
Con contributi di: Luca Alici, Maurizio Franzini, Gabriele Gabrielli, Raoul C.D. Nacamulli, Luca Pesenti e Silvia Pierosara.
Il curatore
Gabriele Gabrielli: ideatore e presidente della Fondazione Lavoroperlapersona, è imprenditore, executive coach e consulente. Professore a contratto di Organizzazione e gestione delle risorse umane alla Luiss Guido Carli. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche e divulgative.
1M. Aime, A. Favole, F. Remotti, Il mondo che avrete. Virus, antropocene, rivoluzione, Utet, Milano, 2020.
2L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina, Milano, 2017.
Storia e letteratura sono piene di narrazioni di eroi, avventurieri perlopiù maschi che esplorano il mondo, inventano oggetti, rivoluzionano il modo di essere e di pensare. Poche volte si sentono gli stessi racconti ma al femminile e questo non perché le donne mancassero di inventiva o di iniziativa. È sempre stata la libertà a mancare. La libertà di pensare prima ancora di quella di agire.
Eppure gli esempi di donne coraggiose, avventuriere, rivoluzionarie non mancano.
Emanuela Monti in Memorie di un’avventuriera racconta una storia liberamente ispirata alla vita di Aphra Behn, la prima donna della letteratura inglese riuscita a guadagnarsi da vivere come scrittrice. Una donna che ha viaggiato molto, spostandosi in diversi paesi e fu anche arruolata come agente segreto al servizio di re Carlo II. Una donna libera e avventuriera, aperta e moderna e, per queste ragioni, anche accusata di oscenità e libertinaggio a causa del contenuto esplicito riguardo a relazioni sessuali e prostituzione nelle proprie opere. Una donna, femminista dentro, che ha scelto e deciso di non sottostare alle regole maschiliste dell’Inghilterra del Seicento pagando a caro prezzo le proprie convinzioni.
La vicenda di Aphra Behn è narrata prevalentemente sotto forma di mémoire in prima persona, con un linguaggio parlatodiretto e attuale. Riesce però l’autrice a imprimere nella storia un taglio psicologico che conferisce al personaggio un carattere universale. La storia è liberamente ispirata alla vita realmente vissuta da Behn, per cui Monti sopperisce ai vuoti biografici con la propria fantasia, rimanendo comunque sempre fedele ai principi di verosimiglianza e al valore della prospettiva storica che l’hanno ispirata. Utilizza inoltre, l’autrice, l’espediente di lettere e diari per dare voce ai fatti accaduti in assenza di Behn o avvenuti dopo la sua morte. Questa scelta narrativa per certo contribuisce a regalare al lettore pagine intense, pregne di pathos e sentimento e contribuisce a formare l’immagine della donna forte quale Aphra Behn è stata.
Memorie di un’avventuriera racconta nel dettaglio la vita di una donna, vissuta nel Seicento, che ha dovuto lottare ogni giorno per conquistare la propria libertà, per far valere il proprio pensiero e vivere la propria vita, seguendo istinto e desiderio. Ma la storia raccontata da Emanuela Monti riguarda tutte le donne, di ogni epoca, anche quella attuale, perché rappresenta un monito a tenere sempre alta l’attenzione, essere vigili sui propri diritti, consapevoli del fatto che, laddove diventino un qualcosa dato per scontato, vorrà dire che sono in pericolo e con loro la libertà, di essere, di pensare e di agire.
L’alternarsi di parti narrate in prima persona con parti sotto forma di diari o lettere, unitamente al linguaggio di forte ascendenza seicentesca, a tratti ingenerano confusione nel lettore, il quale si ritrova in più punti a dover arrestare la lettura per riflettere sul contenuto e sul significato della narrazione. Alla scorrevolezza non giova neanche la presenza dei numerosi personaggi, ognuno a suo modo protagonista della storia raccontata. Ciò però si avverte soprattutto all’inizio, man mano che si prosegue nella lettura si entra nell’ordine della narrazione voluta dall’autrice come anche nella struttura stessa del romanzo e ogni passo appare chiaro e significativo, necessario per comprendere il libro nel suo essere complesso e profondo, come la vita stessa della protagonista.
In generale, quindi, Memorie di un’avventuriera risulta una gradevole lettura, interessante per la storia narrata come anche per gli sviluppi impliciti, per gli insegnamenti che da essa se traggono, per il monito alla tutela dei diritti delle donne, di tutte le donne come anche di tutte le persone, degli esseri umani, qualunque sia il loro genere.
Il libro
Emanuela Monti, Memorie di un’avventuriera. Liberamente ispirato alla vita di Aphra Behn, Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2022.
L’autrice
Emanuela Monti: editor, lessicografa, scrittrice, curatrice della rubrica letteraria Di parola in parola sul blog Culturificio.
Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa IRELFE – Il Ramo e la Foglia Edizioni per la disponibilità e il materiale.
Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com
L’impresa per Dioguardi non è un sistema solo per generare profitti ma un’istituzione che produce ricchezza e benessere sociale per il Paese, che si prende carico degli interessi di tutti i propri stakeholder – azionisti, dirigenti, lavoratori, consumatori, territori -, che opera in termini di sostenibilità ambientale e sociale.
L’imprevedibile e turbolenta complessità del Terzo Millennio ha capovolto la tradizionale dinamica dell’impresa. Non è più possibile impostare, come prima, una strategia imprenditoriale definita e su quella costruire, poi, una struttura imprenditoriale in grado di portarla avanti. Per Dioguardi, si tratta di un cambiamento epocale, che rende necessario realizzare strutture organizzative just in time e, quindi, attuare conseguenti strategie operative che tengono sempre conto delle esigenze emergenti di sostenibilità e resilienza.
Ragioni per cui è necessario puntare sulla ricerca, da rendere priorità per le organizzazioni complesse – istituzioni, imprese città – valorizzando soprattutto i giovani, vettori di cambiamento.
I principali protagonisti di questo Terzo Millennio dovranno necessariamente riscoprire valori fondamentali – fra i quali un nuovo modo di acquisire cultura – oggi assopiti se non addirittura annullati, sottolinea l’autore con un velo di tristezza misto a incoraggiamento e determinazione.
Ed ecco allora che entra in gioco il concetto di impresa enciclopedia, che importa ed esporta conoscenze, soluzioni, benessere, in una continua permeabilità con il territorio, anch’essa città-impresa. L’organizzazione va concepita non come un sistema di gerarchie e di divisione dettagliata del lavoro come nei modelli novecenteschi, ma come una “organizzazione reale”, un organismo vivente composto da reti multiple di soggetti collettivi che combinano e integrano insieme strutture formali, regole, tecnologie digitali, sistemi professionali, comunità di pratiche, prassi, culture, valori, sistemi sociali e, soprattutto, persone in vista di scopi e permeabile con l’ambiente esterno.
L’impresa enciclopedia di Gianfranco Dioguardi, il cui riferimento alla più grande opera scientifica del Settecento prodotta da Diderot e D’Alambert e dall’esperienza illuminista è trasparente, connota l’impresa come un organismo, un soggetto vivente che importa ed esporta con il territorio e con il mondo esterno conoscenze, pratiche, soluzioni, artefatti di prodotti e servizi, valore economico e sociale, benessere. Quindi, come conclude Butera nella prefazione, non solo adattamento, agilità ma anche capacità di plasmare l’ambiente esterno. Organizzazione come strategia, appunto.
I burrascosi tempi che stanno vivendo le imprese oggi sono iniziati, per l’autore, tra la fine del Novecento e gli inizi del Terzo Millennio. Una vera e propria bufera provocata da innovazioni tecnologiche divenute di giorno in giorno sempre più preponderanti e di troppo rapido utilizzo, tanto da venire definita come «distruptive innovation» – innovazione dirompente in grado di provocare un “cambiamento turbolento”, assolutamente difficile da programmare e causa di una generale complessità di difficile governabilità che ha finito per diventare endemica.
Tutto questo ha cambiato ogni regola in ambito organizzativo imprenditoriale e, per questo, Dioguardi sottolinea la necessità di una nuova forma di impresa, l’impresa enciclopedia appunto, più impegnata culturalmente e più adatta alle attuali condizioni di operatività.
Questa nuova forma di impresa si inserisce nell’evoluzione storica che dall’impresa castello tayloristica è approdata via via nelle varie forme di impresa flessibile, macroimpresa, impresa rete e via discorrendo.
Si impone quindi la necessità di realizzare strutture organizzative just in time sempre tenendo presente il territorio, reso sistema complesso, nel quale un ruolo fondamentale svolgono le città che si stanno nuovamente imponendo, per l’autore, come i luoghi più idonei alla convivenza in quest’epoca. Necessarie si rendono allora le City School, nuove istituzioni di formazione manageriale da immaginare, progettare e realizzare per fornire un’educazione urbana adeguata alle attuali esigenze.
L’impresa è fuor di dubbio centrale nel sistema socioeconomico, deve allora imparare a diventare strumento fondamentale per la conquista della frontiera culturale, e deve farlo, per Dioguardi, diffondendo il sapere e stimolando creativamente la curiosità per la conoscenza sia nel proprio ambiente sia, sul territorio, nei confronti delle organizzazioni con le quali interagisce.
Deve diventare un veicolo importante, addirittura il principale per l’autore, di diffusione della conoscenza rendendosi capace di stimolare, in parallelo all’istruzione relativa alle singole professionalità, anche un sapere di carattere più generale, tale da promuovere un neo Illuminismo culturale. Un nuovo Illuminismo che deve però generare anche un nuovo Rinascimento, per un ritorno dell’individuo come protagonista della città e dell’impresa.
L’analisi di Dioguardi è assolutamente condivisibile laddove insiste sulla necessità di aprire le imprese a una cultura generale e profonda, non più meramente settoriale e professionale, in modo tale da agire da stimolo e da monito per l’intera società. Un’impresa al servizio dell’individuo e del territorio, che rispetti l’uomo e l’ambiente. Una necessità per la quale l’autore delinea interessanti linee guida applicabili per ogni forma di impresa.
Il libro
Gianfranco Dioguardi, L’impresa enciclopedia. Organizzazione come strategia per il Terzo Millennio, GueriniNext, Milano, 2022.
Prefazione di Federico Butera.
L’autore
Gianfranco Dioguardi: ingegnere e professore di Economia e organizzazione aziendale presso il Politecnico di Bari. Svolge attività imprenditoriale e consulenziale nei settori dell’edilizia, dell’engineering, dell’innovazione tecnologica, della comunicazione e della formazione professionale. È inoltre presente in diversi consigli di amministrazione, riviste, organizzazioni culturali, istituzioni pubbliche e private. Cavaliere al merito del Lavoro dal 1989 e Cavaliere della Legion d’Onore dal 2004. Autore di numerose pubblicazioni.
La diversità storica delle varie etnie e delle relative culture va vista assolutamente come positiva. Nell’ottica di quella necessaria biodiversità ambientale e animale così tanto a rischio, purtroppo, sul nostro pianeta. La globalizzazione incontrollata e irrefrenabile è una minaccia anche per questo. Ogni popolo ha un proprio sapere che viene inevitabilmente minacciato dal mito del tutti e tutto uguale. Appiattito e schiacciato dalla cancel culture che valorizza solo l’aspetto economico e produttivo delle attività umane.
Ad agosto 2022 è stata diffusa la notizia della morte dell’ultimo uomo di una tribù del territorio di Tanaru, nello stato della Rondonia, all’interno della foresta amazzonica brasiliana occidentale. Nel 2018 Stephen Corry, direttore di Survival International, aveva detto che «le tribù incontattate non sono reliquie di un passato remoto. Vivono nel qui e ora. Sono nostri contemporanei e una parte vitale della diversità dell’umanità».
Fiona Watson, direttrice della ricerca e dell’advocacy di Survival, ha detto che «nessun estraneo conosceva il nome di quest’uomo, e nemmeno molto della sua tribù, e con la sua morte il genocidio del suo popolo è completo. Perché questo è stato davvero un genocidio: l’eliminazione deliberata di un intero popolo da parte di allevatori di bestiame affamati di terra e ricchezza».1
È stato Ernst Bloch a indagare il concetto di «non-contemporaneità», vale a dire la constatazione che non tutti i popoli e non tutte le culture vivono nello stesso tempo storico.2 Sono numerose le tribù a rischio estinzione. Il problema poco esplorato di questa triste situazione è che, insieme all’etnia, si estingue anche il suo sapere.
Ma cos’è veramente il sapere?
Alessandro Carrera spiega molto bene che il sapere non è né l’istruzione ricevuta, né la somma dei libri letti. Il sapere inizia insieme all’umanità, ben prima che si formi la nozione di cultura. Il sapere e la cultura prendono così strade distinte, a volte parallele, a volte intersecantesi, altre volte proprio divergenti. La cultura può essere giudicata dall’esterno, da un’altra cultura. Giudicare un sapere è molto più difficile, perché esso è anche ciò che resiste alla cultura, che invece si può anche cancellare, lo si è fatto molte volte. Più arduo è cancellare il sapere, perché spesso se ne sta nascosto, scorre silenzioso sotto la cultura, di fatto è il suo inconscio.
Il sapere, umanistico e scientifico, è un privilegio. Non perché sia riservato a pochi, ma perché è sempre stato riservato a pochi, ed è solo negli ultimi settant’anni che si è delineata la possibilità di renderlo un «privilegio democratico». La democrazia non ha mai fatto interamente i conti con la doppia natura del sapere. Il populista lo detesta, ma il progressista l’ha in sospetto e gli attribuisce una connotazione classista, mentre l’unico privilegio del sapere è quello di introdurre alla visione delle idee. Sottolinea Carrera che, chiunque affermi l’inutilità di insegnare idee contro la necessità di un’istruzione volta solo al mercato del lavoro strappa dalle mani delle classi meno abbienti una vittoria che nel corso della storia umana non era mai stata conquistata, e va difesa a ogni costo.
L’autore sottolinea come questa non è soltanto l’epoca in cui si può essere informati di tutto senza sapere nulla, bensì, e soprattutto, l’epoca in cui non si sa più che cos’è il sapere.
Il sapere è tutto lo scibile di un popolo. Ma cosa tramandare di generazione in generazione e cosa no? Inoltre, è davvero necessario tramandarlo oppure bisogna lasciare che i discendenti scoprano per conto loro quello che sarà utile e quello che invece dovranno accantonare?
La certezza è senz’altro che il sapere, al pari di conoscenza, cultura, istruzione e formazione, non è un qualcosa di statico ma in continua evoluzione. Straordinario l’esempio che riporta nel libro Carrera per spiegare al meglio questo aspetto.
Quando all’età di ventidue anni si imbarcò sull’HMS Beagle, Darwin portò con sé il «Paradiso perduto» di Milton, il più creazionista dei poeti. Cinque anni dopo, quando rimise piede sul suolo inglese, aveva sottobraccio gli appunti di una teoria che con il creazionismo non aveva più nulla a che fare.
Possiamo ricercare e conoscere, connettere e capire quanto vogliamo, ma se da tutto questo lavoro non se ne esce trasformati, trasfigurati e pronti a mettere da parte tutto quello che credevano di sapere, allora si conosce ben poco di ciò che si è appreso. Il sapere è sfuggito.
Sapere di Alessandro Carrera analizza ed espone al lettore tutti quegli aspetti del sapere che sfuggono, oppure vengono volutamente ignorati ma che sono estremamente necessari per la sopravvivenza e l’evoluzione della specie umana, nel suo complesso come anche nella sua necessaria diversità. Un piccolo libro che regala al lettore un grandissimo insegnamento.
Alessandro Carrera: professore di Italian Studies e World Cultures and Literatures alla University of Houston, in Texas. Direttore della rivista «Gradiva» (Olschki).
1C. Manetti, Amazzonia: addio a “Índio do Buraco”, ultimo indigeno Tanaru, «LaSvolta», 30 agosto 2022: https://www.lasvolta.it/3147/amazzonia-addio-a-indio-do-buraco-ultimo-indigeno-tanaru
2E. Bloch, Eredità del nostro tempo, a cura di L. Boella, Milano, il Saggiatore, 1992.
Emilio Salgari è forse più di tutti lo scrittore che ha incarnato la forza e la potenza della fantasia quando incontra la penna e la carta. I viaggi che non si possono fare fisicamente diventano la materia prima da plasmare con le parole, i desideri, le emozioni, le sensazioni, le idee. E così anche un “viaggio virtuale” può diventare reale, a almeno sembrarlo.
Ora, non si sa se Mia Another sia fisicamente mai andata in Giappone, ma per certo la sua fantasia e la sua scrittura trasmettono egualmente tutta la forza e la potenza che a un buon libro viene richiesto. Racconta la storia dei suoi protagonisti l’autrice ma, soprattutto, conduce il lettore in un viaggio in Giappone, una terra tutt’ora esotica e affascinante che sembra essere raccontata da una persona che lì davvero ci ha vissuto.
Tokyo a mezzanotte si apre al lettore con una sgradevole vicenda che ha visto coinvolta la protagonista. Una situazione destabilizzante, acutizzata dal trasferimento in una nuova terra, diversa e complessa. Una terra da scoprire, riscoprire e amare, come la stessa vita dopo un brutto colpo, allorquando ti accorgi che, nonostante tutto, non tutto è perduto e vale sempre la pena ricominciare.
La storia è raccontata in prima persona alternando le voci dei due protagonisti principali, con uno stile narrativo molto attento, curato in ogni dettaglio. Riesce l’autrice a coinvolgere il lettore fin dalle prime battute e per certo gli appassionati del genere non resteranno delusi anche dalla prorompente sensualità della narrazione.
Il dualismo presente nella vita della protagonista e il fatto che, letteralmente ella debba “farsi” in due per guadagnare il più possibile, si ritrova anche nel racconto di una città, Tokyo, duale: fredda e stretta da rigide regole anche comportamentali quella diurna, scottante e misteriosa quella notturna.
L’immagine che Hailey si era creata del Giappone, grazie anche ai racconti fantasiosi del fratello che lì si era trasferito e, a suo dire, si era realizzato professionalmente e umanamente, impattano non poco con la realtà nella quale la ragazza si ritrova a vivere, soprattutto nella fase iniziale.
Senza lasciarsi troppo tentare da immagini stereotipate e pregiudizi netti, l’autrice racconta di un Giappone vero, di un Paese alle prese con i tanti problemi e difficoltà della vita quotidiana, né più né meno di tutti gli altri Stati del mondo. A tratti potrebbe quasi sembrare che l’autrice manifesti un marcato giudizio filo-americano ma, in realtà, il tutto sembra essere funzionale alla storia raccontata, ricordando, tra l’altro, che la protagonista è americana di origine.
C’è un ulteriore aspetto del libro che merita qualche considerazione. La protagonista è una ragazza giovane sempre alle prese con lo smartphone, con le app e con i social e sembra essere convinta che questo le basti per conoscere il mondo e, soprattutto, Tokyo. Naturalmente una volta atterrata in questa nuova città tutto le appare molto diverso, complesso e caotico. Troverà la sua guida ma, per la gran parte della narrazione, non sembrerà la scelta migliore. Il punto di congiunzione tra lei e la sua “guida” sembrerà essere la determinazione che entrambi hanno nel non volersi arrendere e nel voler andare avanti a ogni costo. Come il tempo che non si può mai fermare. Come i giorni che passano inesorabili. Anche se il loro punto di incontro sembra labile e inafferrabile come quell’attimo, a mezzanotte, che unisce e al contempo divide due giorni consecutivi.
È un libro interessante, Tokyo a mezzanotte di Mia Another, non tanto e non solo per la trama in sé quanto per le sfumature che l’autrice riesce a dare a singoli eventi e al carattere dei protagonisti, come dei personaggi in generale, ben ideati e che rappresentano forse la vera forza del romanzo.
Il libro
Mia Another, Tokyo a mezzanotte, Newton Compton editori, Roma, 2021. Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma.
L’autrice
Mia Another: pseudonimo di una scrittrice che vive nel modenese. Dopo aver lavorato in un web magazine a tema hi-tech, ha iniziato la sua avventura nel self-publishing.
L’approccio dei giovani rispetto all’emergenza Covid-19 è stato, ed è, un nodo-chiave per capire l’impatto della malattia, le sue conseguenze e le sue implicazioni mediche, economiche e sociali anche nel medio-lungo termine. La pandemia, per le nuove generazioni, non è stata solo la minaccia alla salute, ma anche una chiamata importante a un senso condiviso di responsabilità.
In grande prevalenza giovani, gli studenti universitari rappresentano la futura classe dirigente e la “prima linea” sul fronte del progresso. Sono giovani impegnati nello studio e nella ricerca, cioè in quegli ambiti che hanno fatto i conti con la pandemia e che dovranno affrontarne le conseguenze nel tempo, misurandosi con il rischio di nuove possibili emergenze sanitarie, ora una ipotesi non più tanto remota e astratta.
Per Messa, la società si adatta e cambia con efficacia se l’università riesce ad avere un ruolo guida, e se di questa duttilità sa esserne consapevole interprete.
Tornare indietro al periodo pre-Covid non è un’opzione tanto semplice: alcune delle opportunità/vincoli vissute in pandemia ci accompagneranno ancora. Soprattutto daranno, o hanno dato, forma a nuove radicate abitudini mentali. Per esempio, immaginare di non poter partecipare a una riunione collegandosi da casa sarà quantomeno visto come “fuori tempo”.
L’università chiusa, o meglio l’università anche digitale non è stata per tutti un danno o per tutti un beneficio. Per certo però, durante i due anni di lockdown alternato, la frequenza alle lezioni è andata aumentando in proporzione significativa.
Ne hanno giovato gli studenti lavoratori e quelli economicamente più fragili, i fuori sede e quelli con vari carichi di impegno. Ma l’università non è solo luogo del sapere scientifico, è anche un luogo di formazione delle coscienze individuali e collettive.
La società civile deve molto a chi afferisce al mondo universitario perché in esso gli individui interagiscono condividendo idee, progetti, speranze e orizzonti valoriali comuni o in costruzione comune.
È doveroso, sottolineano gli autori, riflettere sul concetto di parità di condizioni per l’accesso al diritto allo studio. Mentre il diritto allo studio tradizionale si pone l’obiettivo di permettere a un numero più ampio di persone di essere uguali all’interno del sistema universitario, la didattica a distanza prelude alla creazione di un doppio sistema, in realtà fortemente classista, in cui gli spazi universitari – di crescita umana e sociale, oltre che professionale – il rapporto con i colleghi e con i docenti e la vita delle città universitarie sarebbero riservati solo a chi può permettersi le spese per frequentare in presenza.
Lo scopo è quello di allargare la concettualizzazione del diritto allo studio per garantire l’accesso all’università in termini di sostegno economico e anche nei termini di accessibilità tout court.
Per Chiapparino, si tratta di valutare e costruire una rete di trasporti locali adeguata e funzionale, di riconoscere i carichi di cura degli studenti che hanno responsabilità come caregiver famigliari, e di offrire servizi bibliotecari/spazi di studio che siano funzionali agli orari didattici e alle esigenze degli studenti.
Il tutto nell’ottica di ridurre il divario che separa l’Italia dal resto d’Europa, che vede la prima con una percentuale di laureati ferma a quota 28 contro la media europea che sfonda la soglia del 40.
L’università a modo mio è un’opera collettiva che mira a dare uno sguardo panoramico della condizione degli studenti universitari italiani anche oltre l’emergenza sanitaria della pandemia da Covid-19. Un lavoro destinato e programmato per continuare, con l’intento di monitorare l’andamento della situazione. Una ricerca davvero interessante che invita alla riflessione sul mondo universitario e sui giovani che lo animano.
Il libro
Sara Nanetti e Giuseppe Monteduro (a cura di), L’università a modo mio. Esperienze e stili di vita degli studenti universitari, Edizioni Centro Studi Erickson, Trento, 2022.
Prefazione di Maria Cristina Messa (già Ministro dell’Università e della ricerca).
Postfazione di Luigi Leone Chiapparino (Presidente del Consiglio Nazionale Studenti Universitari – CNSU).
Gli autori
Sara Nanetti e Giuseppe Monteduro (curatori), Michele Bertani, Matteo Moscatelli, Daria Panebianco, Livia Petti, Davide Ruggeri.
Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Edizioni Centro Studi Erickson per la disponibilità e il materiale.
Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com
Per raccontare lo scontro generazionale tra i queer, idealisti e romantici, e i loro precursori, pionieri e truci operai spaziali, Fabio Carta fa attraversare al lettore l’intera Via Lattea. In una narrazione tanto futuristica quanto attuale. Ne nasce un romanzo di fantascienza quasi paradossalmente ancorato alla realtà in maniera incredibile, che racconta e analizza tematiche di stretta attualità con una visione d’insieme certamente originale.
Su una remota miniera extrasolare denominata Geuse, un vecchio mek-operaio, giorno dopo giorno, vede i frutti del suo duro lavoro sfumare a causa di una crisi economica senza precedenti, che coinvolge tutte le colonie della Via Lattea. Come molti altri medita di prendere ciò che gli spetta e cambiare vita. Ma non è così facile.
Ad anni luce da lì la Metrobubble, la capitale finanziaria della galassia, è stravolta dallo slittamento temporale tra sistemi planetari, dai disordini e dalle rivoluzioni. Ora a regnare è un feroce dittatore che si fa chiamare Meklord. I nativi del pianeta, i queer, gli fanno guerra per quanto possono, mentre attendono l’aiuto della Terra o di chiunque avrà il coraggio di sfidare per loro le maree del tempo e le armate meccaniche del tiranno.
Armilla Meccanica è una space opera senza alieni, ma con molte società, culture e sub-culture umane “alienate” o conformi al grande consesso cosmico informatico a governo della Via Lattea, l’Armilla appunto.
Una space opera dove forte è la presenza di veri e propri mecha japan-style, ovvero meka, delle macchine industriali bipedi pilotate come mezzi corazzati.
Grazie allo slittamento temporale tra vari sistemi planetari, Carta propone al lettore una lotta generazionale che vede scontrarsi due opposti schieramenti dotati del vigore, dell’incoscienza e della tenacia della gioventù. Singolare la scelta dell’autore di far emergere da questo blocco di giovani il “vecchio eroe” come figura che riuscirà a dare la svolta decisiva all’intera vicenda.
Il libro di Carta si apre al lettore con una citazione di Dostoevskij:
«Nell’Apocalisse l’angelo giura che il tempo non esisterà più. Quando tutto l’uomo raggiungerà la felicità, il tempo non vi sarà più, perché non occorrerà. È una idea molto giusta. Dunque dove lo nasconderanno? In nessun posto lo nasconderanno. Il tempo non è un oggetto, è un’idea. Si spegnerà nella mente.»
L’idea del tempo che si trova in Armilla Meccanica rimanda alla visione religiosa di esso ma anche a quella esistenziale analizzata da tanti studiosi e pensatori.
Il tempo è la limitazione stessa dell’essere finito o è la relazione dell’essere finito con Dio?
Relazione che non assicurerebbe tuttavia all’essere un’infinità opposta alla finitezza, né una autosufficienza opposta al bisogno, ma che, al di là della soddisfazione e dell’insoddisfazione, significherebbe il sovrappiù della socialità.
Il tempo non sarebbe quindi l’orizzonte ontologico dell’essere dell’essente, ma modo dell’al di là dell’essere, una relazione del pensiero con l’Altro e – attraverso diverse figure della socialità posta di fronte al volto dell’altro uomo: erotismo, paternità, responsabilità per il prossimo – come relazione con il tutt’Altro, con il Trascendente, con l’Infinito. Il tempo non è una degradazione dell’eternità ma una relazione con ciò che, di per sé inassimilabile, assolutamente altro, non si lascerebbe assimilare dall’esperienza, o con ciò che, di per sé infinito, non si lascerebbe comprendere.
Il tempo non fa parte del modo d’essere di un soggetto isolato e solo, ma è la relazione stessa del soggetto con altri, non si tratta quindi dell’idea del tempo ma del tempo in se stesso.1
Gli argomenti trattati da Carta nel libro sono molteplici e spaziano dall’ambientalismo ai danni prodotti dal capitalismo sfrenato, dalla guerra agli scontri per il potere. Ma l’altro argomento si cui si vuole focalizzare ha anch’esso, in qualche modo, a che fare con il tempo, questa volta “rubato” alle persone e in particolare agli operai, costretti a un lavoro durissimo, vittime di allucinazioni metacroniche.
«Si diceva che alcuni operai fossero impazziti a causa di queste continue cronovisioni, incapaci di distinguere il presente degli eventi, anche quelli fisicamente più prossimi e semplici, ma anche impossibilitati a elaborare la realtà in termini di passato e futuro, secondo il legame eziologico tra causa ed effetto.»
Come si può recuperare il tempo perduto nel vortice turbolento di un’esistenza che costringe le persone a impegnare gran parte della loro vita in attività svolte per il guadagno soprattutto altrui? Come possono gli esseri umani ritrovare se stessi e il loro equilibrio?
Carta identifica nel testo la meditazione degli yogi quale ottimo compromesso tra un pacifico credo religioso e tollerante e una pratica via di fuga mentale dalle nevrosi, dalla solitudine e dalla claustrofobia riscontrata nei primi e sovraffollati habitat artificiali.
La solitudine è un’assenza di tempo. Gli esseri possono scambiarsi tutto reciprocamente, fuorché l’esistere. In questo senso, essere significa isolarsi per il fatto di esistere.
L’esistere allora rifiuta ogni sorta di rapporto, ogni sorta di molteplicità. Non riguarda nessun altro all’infuori dell’esistente. La solitudine sta proprio nel fatto che ci sono esistenti.
Concepire una situazione in cui la solitudine è superata significa sondare il principio del legame che unisce l’esistente al suo esistere. Il soggetto è solo perché è uno. È necessario che ci sia una solitudine perché si dia la libertà del cambiamento, il dominio dell’esistente sull’esistere, cioè, in definitiva, perché ci sia l’esistente.
La solitudine non è dunque soltanto disperazione e abbandono, ma anche virilità e fierezza e sovranità. Caratteri questi che l’analisi esistenzialistica della solitudine, condotta esclusivamente in termini di disperazione, è riuscita a cancellare, facendo cadere nella dimenticanza tutti i motivi della letteratura e della psicologia romantica e byroniana che esaltano la solitudine fiera, aristocratica, geniale.2
Diverse culture predispongono “vie di fuga” come soluzioni indispensabili e salutari all’effetto “gabbia” che ognuna di esse tende a produrre. La megacultura occidentale, identificabile come dell’Antropocene, non solo non ha previsto vie di fuga o alternative a se stessa, ma continua ad avere una visione distorta del mondo.
L’Ekyusi dei BaNande del Nord Kivu – Congo e lo Shabbath degli ebrei sono dei “traumi” che una cultura impone a se stessa, auto-sospensioni mediante le quali una cultura si costringe a “mettere tra parentesi” se stessa e le proprie pretese di dominio. Ciò che manca alla nostra società occidentale è esattamente l’idea del limite, del proprio limite. La nostra cultura, così piena di lumi forniti dalla scienza, è priva dell’illuminazione che proviene dalla pratica dell’auto-sospensione, dalla pratica del suo arresto. Questa brama, anche definita il male dell’Infinito, è la fonte dei problemi che affliggono la società moderna: sregolata, anomica, patogena. Le auto-sospensioni traumatiche introducono, nelle culture che le praticano, un forte senso del limite. Le obbligano a ritornare alla natura, fanno vedere loro la fine, fanno accettare l’arresto, fanno incorporare la morte. Ma non è una morte di desolazione, una desertificazione: la morte delle imprese culturali coincide con il riconoscimento dei diritti della natura.3
Nell’analisi della megacultura occidentale si nota il suo distaccamento dalla natura e la paura del suo arresto. Le chiusure o sospensioni ad essa ascrivibili sono periodi di riposo, ferie, vacanze, svago, divertimento… legate comunque all’aspetto economico della cultura occidentale. Invece ciò che viene auspicato è la ricerca di sospensioni o auto-sospensioni che non siano mere pause dalla routine, piuttosto ricerca e cura di se stessi e della natura.
Nella cultura dei nativi americani tutto è sacro, dal ramo dell’albero al sasso, all’acqua, alla Terra e ciò che in essa vive, ovvero tutto. Il rispetto verso se stessi, verso gli antenati, verso la vita passa inesorabilmente attraverso il rispetto per la Terra, per la Grande Madre, la Natura.
Lo scopo della meditazione zen è molto introspettivo: conoscersi di nuovo, riscoprire se stessi al netto degli schemi e delle convenzioni sociali.
L’azione della pratica della meditazione è riscontrabile su più piani:
Fisico
Emozionale
Psicologico
Studi e ricerche scientifiche hanno evidenziato effetti benefici oggettivi quali la diminuzione della frequenza del respiro e della pressione sanguigna, un aumento della funzionalità e flessibilità cognitiva, della stabilità emotiva, e un diffuso senso di benessere.4
Come si fa a sconfiggere la malinconia? Essere malinconici equivale a essere folli? Bisogna guarire il corpo o la mente? O entrambi?
Sono queste, o similari, le domande che deve essersi posto Robert Burton quattrocento anni or sono, allorquando iniziò la stesura del suo trattato sulla malinconia. Un’opera che è anche un mondo, che racchiude in sé cielo terra e inferi: dall’armonia delle sfere celesti sino agli abissi dell’inferno, il lettore viene indotto a osservare il caos che domina il mondo terreno. Ed è in questo caos che si insinua e s’impone la malinconia. La malinconia assume mille forme diverse, tante quante sono le persone.
La cura per la malinconia è raggiungere il summum bonum che, secondo Epicuro e Seneca, è la tranquillità della mente e dell’animo. Per sconfiggere questo male, o malessere che sia, la disperazione deve essere volta in speranza di rigenerazione.5
Armilla Meccanica di Fabio Carta è un libro che racconta una storia di fantascienza ma offre innumerevoli spunti di riflessioni sulla realtà, sull’umanità, sul tempo e l’interiorità. Una space opera davvero interessante.
Il libro
Fabio Carta, Armilla Meccanica. Nel Cielo, vol. 1, Inspired Digital Publishing, 2021.
L’autore
Fabio Carta: laureato in Scienze Politiche con indirizzo storico, appassionato di fantascienza e letteratura classica. Autore di diversi romanzi e racconti.
1Emmanuel Levinas, Il tempo e l’Altro, Mimesis Edizioni (Milano-Udine), 2021.
Nel momento esatto in cui Adam Hochschild scopre l’esistenza del movimento mondiale contro la schiavitù in Congo – di cui ha fatto parte, tra gli altri, lo scrittore Mark Twain – si chiede come sia stato possibile che ne fosse rimasto tanto a lungo all’oscuro. Una pratica che aveva mietuto da cinque a otto milioni di vittime. Le statistiche sugli stermini sono spesso difficili da confermare. Se la cifra esatta fosse anche solo la metà il Congo sarebbe comunque stato il teatro di una delle maggiori stragi dell’epoca moderna. Eppure non ha mai fatto “tanta notizia”.
Gli spettri del Congo di Adam Hochschild è la storia di quel movimento, del selvaggio crimine che ne rappresenta il bersaglio, del lungo periodo di esplorazioni e conquiste che lo precedette e del modo in cui il mondo ha dimenticato, o ignorato, una delle grandi stragi del recente passato.
Dietro l’entusiasmo europeo si celava non di rado la speranza che l’Africa diventasse una fonte di materie prime per la Rivoluzione industriale. Ma agli europei piaceva pensare di avere motivazioni più nobili. In particolare, i britannici credevano fermamente di dover portare la “civiltà” e il cristianesimo agli indigeni.
L’autore sottolinea come una delle esperienze più inquietanti per chi si recava nell’allora Unione Sovietica era passeggiare lungo le ampie gallerie del Museo della rivoluzione in via Gorky, a Mosca. Vi erano esposte centinaia di fotografie e dipinti di rivoluzionari con il colbacco che facevano capolino da dietro barricate coperte di neve, innumerevoli fucili, mitragliatrici, bandiere e vessilli e una vasta collezione di altre reliquie e documenti, senza che vi fosse alcuna traccia dei venti milioni di cittadini sovietici morti nei sotterranei delle esecuzioni, durante carestie provocate dall’uomo e nei gulag.
Oggi quel museo moscovita ha subito cambiamenti che i suoi creatori non avrebbero mai immaginato. All’altro capo dell’Europa, invece, ce n’è uno che non è cambiato affatto: il Museo reale dell’Africa centrale e Bruxelles. In nessuna delle venti ampie gallerie del museo ci è traccia dei milioni di congolesi rimasti vittime di una morte crudele. E Bruxelles non è la sola.
A Berlino non vi sono musei o monumenti in ricordo degli herero massacrati, mentre a Parigi e Lisbona nulla rievoca il terrore della gomma che decimò metà delle popolazioni di alcune zone dell’Africa francese e portoghese.
Il Congo diventa nel libro di Hochschild un esempio di politica dell’oblio. Un simbolo, un faro che va a illuminare anche le altre innumerevoli “dimenticanze”.
Dopo aver letto Gli spettri del Congo viene naturale chiedersi quanto siamo diversi noi occidentali oggi, rispetto agli inglesi convinti di dover civilizzare il mondo.
Quella compiuta da Adam Hochschild è un’approfondita e dettagliata analisi di un sostanzioso periodo storico, che inizia sul finire del 1800, e riguarda molteplici popoli dislocati in varie parti del mondo, uniti da una linea rossa che li lega insieme e, al contempo, li divide. Un libro che racconta la Storia che molti non hanno mai voluto vedere e altri hanno preferito dimenticare. Un libro tanto cruento e brutale quanto veritiero e necessario.
Il libro
Adam Hochschild, Gli spettri del Congo. La storia di un genocidio dimenticato, Garzanti, Milano, 2022.
Titolo originale dell’opera: King Leopold’s Ghost.
Traduzione dall’inglese di Roberta Zuppet.
L’autore
Adam Hochschild: è uno scrittore, giornalista e storico statunitense. Con Gli spettri del Congo ha vinto il Duff Cooper Prize.
Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Garzanti Editore per la disponibilità e il materiale.
Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com