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Irma Loredana Galgano

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Stragismo e depistaggi della mafia nera nei primi settantadue anni della Repubblica italiana. “La mafia nera” di Vincenzo Ceruso (Newton Compton, 2018)

09 venerdì Nov 2018

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Lamafianera, mafia, NewtonCompton, recensione, RinnovamentoCulturaleItaliano, saggio, terrore, VincenzoCeruso

Con la sconfitta del nazifascismo iniziava per l’Europa il più lungo periodo di pace mai conosciuto. Ma non è stato così per tutti gli europei. Per tanti a cominciare è stato solamente un conflitto differente, combattuto in modo diverso e che ha richiesto l’impiego di una nuova tipologia di soldati.
Sentimenti ostili nei confronti della neonata Repubblica e paura riguardo la possibile o probabile avanzata di ideologie diverse, opposte, che avanzavano da quello che ancora veniva indicato tra i principali nemici da combattere, il blocco dell’Est sovietico.
Il generale Arpino, capo di Stato maggiore dell’esercito, ha dichiarato dinanzi a una commissione parlamentare: «per noi, ancora negli anni Ottanta, un terzo del parlamento era il nemico».

Il conflitto che lacerava la società italiana all’indomani del secondo conflitto mondiale appare «feroce, come può esserlo solamente una guerra ideologica». Se il comunismo era impegnato a forgiare «un nuovo tipo di uomo, una macchina senz’anima», un docile strumento al servizio della guerra totale, anche i difensori del mondo libero dovevano affrancarsi da ogni preconcetto morale, per rispondere adeguatamente alle sfide che li attendevano. A partire dalla creazione del «soldato rivoluzionario», educato al nuovo tipo di guerra che il comunismo aveva imposto, addestrato tecnicamente e dotato di un’adeguata «educazione morale». Un «soldato d’élite», ideologicamente preparato al suo compito.

Questo e tanto altro si legge nella relazione di Edgardo Beltrametti, giornalista e collaboratore del corpo di Stato maggiore della Difesa, scritta in occasione del convegno che si tenne a Roma nel maggio 1965 dal titolo La guerra rivoluzionaria. Incontri, eventi, accadimenti che, unitamente alla narrazione storica più nota e alla documentazione di inchieste, indagini e processi, si trovano ampiamente analizzati ne La mafia nera di Vincenzo Ceruso, edito da Newton Compton a ottobre 2018. Un libro che racconta la storia di un’Italia oscura, le stragi, i depistaggi e le relazioni occulte tra lo Stato e il non-Stato. Eversione neofascista, brigatismo rosso, apparati dello Stato, società segrete e organizzazioni mafiose che si muovono e si sono sempre mossi all’interno del medesimo scacchiere per spartirsi o contendersi il medesimo bottino. A rischio sempre più elevato la democrazia e il bene comune.

L’Italia ha avuto ed ha numerose agenzie di depistaggio. I principali protagonisti di queste azioni sono ben identificabili dentro i nostri apparati di sicurezza, «abituati a muoversi al confine tra il legale e l’illegale». Alcune delle principali associazioni di natura criminale e sovversiva che il nostro Paese ha avuto ed ha, «hanno svolto anche le funzioni di agenzie di depistaggio». Viene da sé che a suscitare maggiore scandalo sono i «reati commessi da uomini nel cuore delle istituzioni».

Ceruso indica in quanto accaduto dopo la strage di via d’Amelio, nella quale persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, il tentativo di costruire un «depistaggio perfetto». Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta, Salvatore Candura e Calogero Pulci andarono a comporre «una ricostruzione dell’attentato in via d’Amelio che avrebbe retto ai tre gradi di giudizio». Scarantino però era «del tutto non credibile, sia nei panni dello stragista che del mafioso». Il 21 luglio 1995 ritrattò le sue dichiarazioni e accusò il capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera e i suoi uomini di «torture nei suoi confronti». La Barbera sarebbe stato «un agente sotto copertura, con il nome in codice di Rutilius, e avrebbe percepito dal Sisde un assegno di un milione di lire nel 1986 e 1987». Perché Scarantino ha accusato degli innocenti, seppur sempre di affiliati si parla?

Il giorno 5 novembre 2018 si è aperto il dibattimento che vede i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo accusati di calunnia aggravata dalla Procura di Caltanissetta. Avrebbero creato a tavolino falsi pentiti, come Scarantino, per costruire una versione non veritiera di quanto accaduto.

Tra il 1992 e il 1993 furono poste in essere sette stragi sul territorio della Repubblica italiana. Come ai tempi di piazza Fontana, ma ben venticinque anni dopo, «venne indagato l’ordinovista Franco Freda», per il quale venne ipotizzato il reato di strage. L’indagine portò ad alcuna accusa a carico di Freda. In una delle riunioni avvenute alla vigilia degli attentati, «di cui hanno parlato Sinacori e altri collaboratori di giustizia», i boss avrebbero decretato che gli atti terroristici sarebbero stati «rivendicati usando il nome della Falange Armata».
L’ammiraglio Francesco Paolo Fulci, durante una dichiarazione rilasciata per il processo sulla trattativa Stato-mafia, avrebbe rivelato che questa denominazione «serviva a identificare una struttura clandestina dei servizi segreti, che si muoveva secondo le tipiche di guerra psicologica utilizzate nell’ambito di Gladio». Gli esiti di un’indagine da lui stesso ordinata furono due mappe che indicavano, nei luoghi da dove partivano le telefonate a nome della Falange, «sedi periferiche del Sisde». Secondo quanto si legge nella Sentenza nei confronti di Bagarella Leoluca e altri del 20 aprile 2018 della Corte d’assise di Palermo.

I magistrati di Palermo, indagando su quegli anni, hanno utilizzato l’espressione «sistema criminale» per indicare «l’alleanza eterogenea di soggetti che agivano per portare a termine un comune progetto eversivo». Gli investigatori hanno accertato che, alla vigilia delle stragi, c’era in Sicilia «un gran viavai di personaggi legati alle trame eversive degli anni Settanta».
L’obiettivo finale del ‘sistema criminale’ era attuare una «forma di golpe che mutasse radicalmente il quadro politico-istituzionale». Secondo quando si legge nella richiesta di archiviazione nei confronti di Gelli Licio e altri del 21 marzo 2001 della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo.
Una mutazione del quadro politico da portare avanti «attraverso le stragi e a cui avrebbe aderito anche lo stesso Riina».
Secondo i collaboratori di giustizia calabresi, il vasto piano politico-criminale prevedeva la «piena collaborazione della ‘ndrangheta attraverso la figura dell’avvocato Paolo Romeo», esponente di Avanguardia Nazionale negli anni Settanta. Un altro personaggio centrale nel raccordo con il mondo politico era «Vito Ciancimino», il quale, in un interrogatorio del 1998 proponeva, come movente della strage di Capaci, «il sabotaggio della candidatura di Giulio Andreotti quale presidente della Repubblica». Il ruolo di mediatore di Ciancimino sarebbe stato assunto, in un secondo momento della trattativa, «da Marcello dell’Utri».

Durante la stagione delle stragi mafiose, tra il 1992 e il 1994, «i vertici del Ros, insieme agli uomini di Cosa nostra», avrebbero «minacciato e tentato di condizionare il governo della Repubblica». Il livello politico, cui avrebbero fatto riferimento gli ufficiali dei carabinieri, «non è stato però individuato». A meno che non si voglia pensare a «esecutori – quindi ad apparati di sicurezza – che non rispondevano a nessuno», oppure a «referenti estranei al governo della Repubblica» e distanti dagli interessi nazionali.

I magistrati hanno tratteggiato più volte nelle indagini sulle stragi la tecnica «piduista e mistificatoria» di fornire una massa di informazioni difficilmente verificabili e orchestrare campagne di stampa, confondendo fatti veri e falsi.
Alcune figure apicali dei nostri servizi segreti, prima ai vertici del Sid e poi a quelli che saranno il Sismi e il Sisde, «hanno ritenuto che spettasse svolgere ai servizi stessi un ruolo di agenzia di depistaggio» rispetto ad alcuni dei fatti più sanguinosi della cronaca eversiva. Per quanto riguarda le stragi di piazza Fontana e della stazione di Bologna, «le responsabilità parziali degli agenti sono state definitivamente individuate». Rimane tuttavia da chiarire il motivo per cui lo hanno fatto.
Non è più un mistero neanche la oramai «prassi consolidata dell’utilizzo delle forze sovversive e criminali da parte degli uomini che sarebbero preposti alla loro repressione».
La mafia, «sfruttando quelle capacità di adattamento alle diverse epoche che le sono proprie», ha adottato, in periodi cruciali della storia italiana, «l’habitus proprio dell’organizzazione terrorista». A questa mutazione in senso terroristico hanno contribuito anche «le sollecitazioni provenienti da determinati organismi statali», allorquando hanno visto nella mafia siciliana un potenziale e potente alleato per realizzare quello che ritenevano «sarebbe stato l’ordine giusto per il nostro Paese». Basti pensare a quanto accaduto «nel secondo dopoguerra e tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso».
Parimenti, anche «eversione nera e le mafie hanno stabilito», in particolari momenti della loro storia, «relazioni significative».

Esiste una «ideologia stragista» il cui nucleo essenziale consiste nel considerare la morte di innocenti come un obiettivo strategico da perseguire, «una condizione necessaria per incidere sull’esistente e modificare le strutture statali». Risultati da raggiungere con omicidi mirati o con massacri indiscriminati ma, in ogni caso, con «uno sforzo costante per occultare la verità».
Cosa nostra e Ordine Nuovo, a partire da un certo momento e per un lungo tratto della loro storia, «sono stati i due principali gruppi terroristici, con finalità stragiste» presenti in Italia.
Se guardiamo alle due organizzazioni senza preconcetti, sarà più facile «accertare una serie rilevante di punti in comune»:

•collusione con la politica e con gli apparati di sicurezza deviati;
•dichiarata visione fortemente ostile allo Stato e alle sue leggi;
•ideologia organica cui i loro membri sono tenuti ad aderire;
•straordinaria capacità militare;
•vocazione stragista;
•natura di associazione sovversiva;
•impiego del terrorismo politico.

Come per le Brigate Rosse, la principale banda armata comunista, anche le organizzazioni eversive di destra non hanno disdegnato di cercare «accordi con esponenti delle diverse associazioni mafiose», in nome della comune lotta allo Stato.
La mafia siciliana dal canto suo ha utilizzato lo stragismo per fini politici fin dall’immediato dopoguerra, con il massacro di Portella della Ginestra, e «ha affinato questa sua propensione negli anni Novanta del Novecento».

Si può compiere una strage per depistare. Ed è esattamente quanto sarebbe accaduto durante il periodo definito della «strategia della tensione», allorquando l’obiettivo era la creazione di un clima politico favorevole alle forze conservatrici mediante «l’attacco di obiettivi civili e il perseguimento di un disegno terroristico». Piazza Fontana fu un attacco terroristico, «ma servì anche ad altro».
L’eccidio mostrò ai burattinai delle stragi che era possibile colpire indiscriminatamente una folla di cittadini indifesi, nel cuore della capitale economica del Paese, e riuscire a indirizzare le indagini verso «colpevoli del tutto improbabili».

I soggetti collettivi che pensarono, promossero e ordinarono la strage di piazza Fontana, «erano gli stessi che avrebbero pensato, promosso e ordinato le stragi che insanguinarono il nostro Paese fino al principio degli anni Ottanta». Con piazza Fontana era iniziata una stagione di stragi che avrebbe reso l’Italia «un Paese a sovranità limitata», condizionata da «forze oscure» che ne avrebbero fatto il teatro di «una guerra non convenzionale», rivolta principalmente verso la popolazione civile. Molto simile a quanto poi si verificherà agli inizi degli anni Novanta, quando il filo conduttore sembra essere legato alle parole di Riina: “Si fa la guerra per poi fare la pace”. Creare instabilità per offrirsi come garante della agognata stabilità in fondo è sempre stato un must delle organizzazioni malavitose.

I misteri italiani analizzati da Ceruso sono molteplici, non tutti ma tanti, e abbracciano anche il mai attuato golpe Borghese, l’omicidio Pecorelli, piazza della Loggia, l’Italicus, il «suicidio simulato» di Peppino Impastato… e impressiona non poco la veridicità delle parole riportate nella Sentenza contro Moggi Carlo Maria e altri del 22 luglio 2015 della Corte di assise di appello di Milano: «Tutte le stragi che hanno insanguinato l’Italia appartengono a un’unica matrice organizzativa».
Ricorrono le medesime organizzazioni sovversive e malavitose ma lo fanno anche i nomi dei rappresentanti dello Stato in varie istituzioni e servizi. Persone che, magari, non hanno commesso dei reati eppure, forse, con i loro comportamenti non hanno neanche impedito che dette stragi si verificassero. Laddove non dovesse persistere una responsabilità civile o penale permane e persiste per certo quella etica e sociale, per la quale non c’è prescrizione che tenga.

Il lavoro di ricerca e analisi svolto da Vincenzo Ceruso per la composizione de La mafia nera deve aver richiesto notevole pazienza e determinazione, da parte dell’autore. Un’indagine certosina sulle fonti, sui documenti, sugli atti processuali che ha prodotto un lavoro notevole. Un libro che rappresenta una pietra miliare per la conoscenza della storia occulta di quell’Italia oscura che in tanti, in troppi vorrebbero lasciare nell’ombra.


Source: Si ringrazia l’ufficio Stampa della Newton Compton per la disponibilità e il materiale



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“Lo chiamano populismo ma è resilienza di democrazia”. Analisi del decennio di crisi economica che ha cambiato il mondo ne “Lo schianto” di Adam Tooze (Mondadori, 2018)

04 martedì Set 2018

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AdamTooze, Loschianto, Mondadori, monocolooccidentale, NWO, Occidente, Oriente, recensione, saggio, terrore

Cento anni dopo il primo conflitto mondiale i governi e i popoli dell’intero pianeta si pongono i medesimi interrogativi, di nuovo.
Come si accumulano rischi enormi, poco compresi e poco controllabili? In che modo quadri di riferimento anacronistici e obsoleti ci impediscono di capire cosa sta succedendo intorno a noi? Il motore di ogni instabilità è forse lo sviluppo disomogeneo e combinato del capitalismo globale? Possiamo raggiungere una stabilità e una pace perpetue?
Di nuovo, le medesime domande perché sono queste che «accompagnano le grandi crisi della modernità».

In Crashed, edito in Italia da Mondadori ad agosto 2018 nella versione tradotta da Chiara Rizzo e Roberto Serrai e intitolata Lo schianto, Adam Tooze analizza gli ultimi dieci anni, dal 2008 al 2018, dalle origini della crisi prima finanziaria poi economica che ha investito, a quanto hanno detto, a più riprese l’intero sistema globale. Per la gran parte menzogne o giustificazioni a provvedimenti che i governanti hanno ritenuto essere improrogabili. Per gestire la crisi dell’eurozona dopo il 2010, per esempio, condotta seguendo una logica che non è stata altro che «una ripetizione dei salvataggi bancari del 2008, ma questa volta sotto mentite spoglie».

E così, mentre ai contribuenti europei venivano richiesti enormi sacrifici, i medesimi chiesti in precedenza ai cittadini americani, «banche e altri istituti di credito erano pagati col denaro riversato nei paesi che beneficiavano del salvataggio». Tutto perché al centro della crisi eurozona venivano messe le politiche del debito sovrano. «Come i responsabili della UE sono ora disposti ad ammettere pubblicamente», questo non aveva alcun fondamento sul piano economico. La sostenibilità del debito pubblico può diventare un problema, a lungo termine. La Grecia, per esempio, era insolvente. Ma l’eccessivo debito pubblico non era il denominatore comune della più ampia crisi dell’eurozona. Il denominatore comune era «la pericolosa fragilità di un sistema finanziario eccessivamente legato all’indebitamento» e troppo dipendente «da finanziamenti a breve termine basati sul mercato».

La Federal Reserve statunitense si è proposta fin da subito come fornitore di liquidità di ultima istanza per il sistema bancario globale. Ma cosa vuol significare davvero il fatto che la finanza e l’economia globali dipendono, in ultima istanza, dalla decisioni del governo americano?
La crisi dei mercati emergenti (Messico, Corea, Thailandia, Indonesia, Russia, Argentina) degli anni Novanta ha mostrato a tutto il mondo «con quanta facilità uno Stato possa perdere la propria sovranità». Nel 2008, «nessuna delle vittime degli anni Novanta» è stata costretta a ricorrere al Fondo monetario internazionale. Una lezione che i paesi dell’eurozona sembrano non aver imparato neanche ora.

La crisi nell’eurozona è stata affrontata in maniera disomogenea, «una confusione di visioni contrastanti» che hanno portato alla messa in scena di un «dramma sconfortante di occasioni mancate, di fallimenti nella leadership e di fallimenti nelle azioni collettive». Generando un danno sociale e politico da cui «il progetto della UE potrebbe non riprendersi mai più».

La crisi finanziaria ed economica del 2007-2013 si è trasformata, tra il 2013 e il 2017, «in una crisi politica e geopolitica globale dell’ordine mondiale uscito dalla guerra fredda», le cui ovvie implicazioni politiche «non dovrebbero essere schivate». Pulsioni di rinnovamento e aneliti di cambiamento sono giunti da ogni parte ma «contro la sinistra le brutali tattiche di contenimento hanno fatto il loro lavoro». Si pensi a quanto accaduto, per esempio in Grecia. Invece non altrettanto è accaduto per la destra che ha resistito ed è avanzata nel consenso e nella determinazione. Si pensi a quanto sta accadendo, per esempio, in Austria.

Questa «nuova politica» del periodo successivo alla crisi è stata demonizzata come populismo, trattata alla stregua degli anni Trenta o attribuita alla «malvagia influenza della Russia», invece va osservata, sottolinea Tooze, come un segno della vitalità della democrazia europea davanti al «deplorevole fallimento dei governi» riassumibile forse nelle parole di Jean-Claude Juncker citate nel testo: «Quando le cose si fanno serie, bisogna mentire».

La tesi portata avanti da Tooze ne Lo schianto è di collocare la crisi bancaria nel suo contesto più ampio, politico e geopolitico, oltre che, naturalmente, finanziario ed economico perché è necessario «confrontarci con l’economia del sistema finanziario». La narrazione offerta dall’autore tenta di mostrare «la percezione dall’interno del funzionamento – o del non funzionamento – della circolazione del potere e del denaro» e di chiarire le dimensioni dell’interdipendenza del sistema globale nonché «l’estrema dipendenza del sistema finanziario globale dal dollaro». E l’importanza delle conseguenze di tutto ciò. Per tutti.


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18 mercoledì Lug 2018

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Guerresenzalimite, MarieHeleneBrousse, Occidente, paura, recensione, RosenbergSellier, saggio, terrore

“Guernica”, Pablo Picasso, olio su tela, 1937

Seguendo la ferrea logica che porta la nostra civiltà a una segregazione sempre più massiccia, a erigere muri, alla delazione, al sospetto paranoico abbiamo assistito alla caduta delle identità collettive. E ora non resta che l’identità individuale, «l’Io che non vuole sapere dell’alterità», considerata una «minaccia costante contro la sua unità, contro la sua sicurezza, contro il suo potere». Il legame sociale attuale, caratterizzato dal predominio del “senza limite”, «trova nella forma contemporanea della guerra una declinazione pragmatica», una guerra che è essa stessa “senza limite”, non più una contrapposizione tra Stati, ma di tutti contro tutti.

Pubblicato nel 2015 in Francia con il titolo originale La psychanalyse à l’épreuve de la guerre da Berg International Éditeurs, Guerre senza limite, curato da Marie-Hélène Brousse, esce in Italia in prima edizione a maggio 2017 con Rosenberg&Sellier, nella versione curata da Paola Bolgiani. Un saggio che raccoglie i contributi di un nutrito gruppo di psicoanalisti che hanno lavorato sul tema della guerra e della relazione fra la psicoanalisi e la guerra.

Un’esperienza sempre traumatica che segna tutti i soggetti che vi sono confrontati, anche indirettamente, la guerra è senz’altro «un laboratorio dello psichismo», dal momento che essa è lungi dall’essere terminata, piuttosto trasformata è diventata multipla, diversa, che «si sposa con la modernità» e le sue forme contemporanee manifestano i tratti di quell’epoca che è la nostra, in questo inizio di XXI secolo. Una società nella quale le trasformazioni del legame sociale rendono necessario il progetto di «una nuova psicologia delle masse» per capire a fondo «quel che la guerra insegna alla psicoanalisi e quel che la psicoanalisi può insegnare sulla guerra», forte dei nuovi strumenti e dati a disposizione.

Il testo si articola in diverse sezioni, ognuna delle quali con uno scopo ben preciso, ma tutte interconnesse secondo il filo logico del ragionamento che ruota intorno al concetto di guerra, all’esperienza di guerra (diretta e indiretta), ai traumi che essa genera, alla guerra come paradigma del legame sociale per una nuova psicologia delle masse.

Ricorrente nel discorso comune è la “ricerca della pace”. Si afferma che l’Europa, dopo i traumi dei conflitti mondiali, abbia finalmente raggiunto lo scopo. L’Europa è in pace. Gli europei si dichiarano pacifisti. Non si può allora non chiedersi, e gli autori lo fanno, come si debba in realtà interpretare questa “pace a casa propria” allorquando si deve legarla al traffico, al commercio e alla vendita di armi che l’Europa e gli europei continuano a praticare.

Lacan partiva dal «reale della guerra» che ci accompagna in modo costante «come una dimensione ineliminabile del potere moderno» e sosteneva che «il potere capitalista ha bisogno di una guerra ogni vent’anni». Per reggere. Per funzionare. La spesa militare è infatti una costante dei fautori del capitalismo. Fa girare l’economia, come suol dirsi. Dapprima con gli armamenti, poi con la ricostruzione, poi la macabra giostra deve ripartire per un altro giro… ed ecco trascorsi i venti anni.

I contributi che compongono il saggio Guerre senza limite analizzano sia questi aspetti, che potrebbero essere definiti macroscopici, del fenomeno, sia quelli più intimi, attinenti il microcosmo di ognuno. Gli effetti deleteri che il contatto con la guerra ha, inevitabilmente, con i soggetti che la vivono o la subiscono.

Per Freud la guerra «autorizza e legittima l’aggressività propria dell’essere umano, che spinge verso le sue inclinazioni più oscure». Ma quando ti trovi faccia a faccia con la morte, vedi morire i tuoi compagni, le mutilazioni, le torture, le lesioni… l’aspetto per così dire “liberatorio” della guerra diventa aleatorio ed è molto facile sviluppare problemi psichici.

Paralisi di vario tipo.
Tic.
Spasmi.
Tremori.
Stati dissociativi.
Riduzione del campo visivo.
Cecità.
Sordità.
Afonia.
Mutismo.

“Psicoanalisi”, Michele Cara, pennarelli e matite su carta, 2011

Sono alcune tra le più frequenti conseguenze psichiche e psicofisiche della guerra. Solo chi l’ha vissuta lo può sapere. Agli altri, per i quali la guerra è quella vista in televisione, al cinema o come un videogame, i reduci appaiono addirittura strani. Persone che per assurdo faticano a incontrarsi, a capirsi.

In un mondo ormai al contempo «mondializzato e in piena implosione geopolitica ed economica», appare ragionevole affermare che «non c’è che la guerra, e tangenzialmente un’unica guerra». La guerra che una «civiltà decaduta dai suoi titoli di civiltà fa contro se stessa». Eppure uno spiraglio di speranza ancora si intravede laddove si può affermare che «non siamo costretti dall’evoluzione a rimanere fissati alle condizioni del passato, possiamo evolvere verso il meglio». Dovremmo. Dobbiamo.


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Source: Si ringrazia Marta Guerci dell’Ufficio Stampa della Rosenberg&Sellier per la disponibilità e il materiale


 

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“Jihadisti d’Italia” di Renzo Guolo (Guerini e Associati, 2018)

28 giovedì Giu 2018

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GuerinieAssociati, JihadistidItalia, paura, recensione, RenzoGuolo, saggio, terrore, Terrorismo

Dopo aver analizzato il fenomeno degli jihadisti in Europa ne L’ultima utopia, pubblicato sempre con Guerini e Associati, Renzo Guolo decide di indagare a fondo sulla radicalizzazione islamista nel nostro Paese e scrive Jihadisti d’Italia, uscito in prima edizione a maggio 2018.

Nel saggio precedente Guolo si interrogava sulle cause politiche, culturali, religiose che avessero potuto in qualche modo incidere nella scelta di radicalizzazione di tanti giovani europei. Ora, questo genere di analisi, viene applicata al territorio italiano e ai suoi giovani abitanti.
Negli ultimi anni cittadini italiani, o residenti nel nostro Paese, hanno imboccato la via della radicalizzazione islamista. «Tra loro, circa un centinaio hanno combattuto in Siria e Iraq, nelle fila dell’Isis o di gruppi legati ad Al Qaeda».
Guolo ricerca a fondo le motivazioni alla base di queste estreme scelte di radicalizzazione.

Si tratta di immigrati di prima o seconda generazione ma anche di italiani autoctoni. Di uomini come di donne. Di residenti nelle periferie delle grandi città o in piccoli centri abitati. Lavoratori o inoccupati. Delinquenti o incensurati. A unirli sono poche caratteristiche, «in linea con altre esperienze europee»: l’età, in quanto si tratta quasi sempre di giovani o addirittura giovanissimi, e l’essere musulmani sunniti.

Attraverso l’esplorazione del fenomeno della radicalizzazione di matrice islamista, Guolo riesce anche a osservare il «profondo mutamento sociale indotto dai processi di globalizzazione nella nostra società». La comprensione del fenomeno della radicalizzazione consente quindi una più vasta conoscenza anche delle trasformazioni che investono e hanno investito la società italiana, al pari di quella europea, come dei conflitti che la attraversano e la caratterizzano: il ritorno all’ideologia, la ricerca d’identità, lo spazio pubblico delle religioni, le forme di disagio e le rivolte giovanili, l’impatto dei flussi globali sulle comunità locali, la risposta delle istituzioni e della politica, la xenofobia, le nuove forme di organizzazione socio-religiosa dell’islam.

Il fulcro del lavoro di ricerca e analisi di Renzo Guolo sembra centrato sulla dimensione soggettiva della scelta di radicalizzarsi da parte di soggetti giovani, oltre naturalmente il quadro politico e culturale all’interno del quale dette decisioni prendono forma. La violenza, il terrorismo, il terrore sono lontani, nella prospettiva di indagine di Guolo. È frutto certamente di una scelta, o di una necessità, la volontà di limitare il campo d’indagine.

Viene analizzato da Guolo anche il “ritardo” tutto italiano, rispetto agli altri Paesi europei, nella “produzione” di giovani jihadisti ma, soprattutto, le ragioni per le quali «questo gap potrebbe venire, drammaticamente, colmato nei prossimi anni».
Alla fine del 2017 i potenziali jihadisti interni o foreign fighters erano 129. L’immigrazione relativamente recente, limitato effetto banlieue, assenza quasi totale di poli di radicalizzazione, assenza di un gruppo etno-religioso predominante, associazionismo islamico non radicale, lavoro di investigazione e intelligence: sono questi i molteplici fattori che hanno consentito il ritardo italiano, «calcolabile sui tre/cinque anni», rispetto agli altri Paesi europei.

Un ritardo che però, avverte Guolo, non è destinato a protrarsi a lungo, sia per le tensioni sociali legate all’immigrazione, che sono destinate a crescere, sia per «la diffusa presenza, nel panorama politico nazionale, di forze palesemente xenofobe e islamofobe».

Se da una parte è difficile prevedere gli sviluppi «delle future dinamiche generazionali», largamente influenzate da fattori legati al proprio tempo, Guolo ipotizza che solo «attive politiche di integrazione, capaci di attenuare i richiami delle sirene islamiste radicali nei confronti di quanti si sentono per vari motivi esclusi o ostili, possano rafforzare efficacemente la sicurezza collettiva».

Un libro, Jihadisti d’Italia di Renzo Guolo, che si inserisce nel dibattito-focolaio mai sopito su Isis e terrorismo islamista analizzando un aspetto peculiare delle società del ventunesimo secolo in netta trasformazione e in evidente contrapposizione a quelle precedenti e, fors’anche, a quelle future dal punto di vista non soltanto economico e politico ma, soprattutto, sociale culturale ideologico e religioso. Società che come mai prima d’ora sono interdipendenti le une dalle altre, nelle quali soprattutto gli aspetti negativi e le degenerazioni ricadono scambievolmente e a notevole velocità. Ragioni per cui, come sottolinea lo stesso autore, non si può ipotizzare di studiare fenomeni e soluzioni senza allargare lo sguardo oltre i propri confini. Necessita sempre e comunque uno sguardo globale per problemi e fenomeni che sono innegabilmente globali.

Disclosure: Fonte biografia autore www.treccani.it


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© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

PLUTONOMY vs DEMOCRACY: far vincere la Democrazia contro la Shock Economy è il vero potere del popolo

09 sabato Giu 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Capitalism, Democracy, Democraziadiretta, Europa, Italia, italiani, NWO, Occidente, Piigs, ShockEconomy, terrore, TheCorporation

«Questo è il Capitalismo: tutti cercano di guadagnare sulle disgrazie altrui.»

A dirlo è un agente immobiliare della Florida ai microfoni del documentarista Michael Moore per Capitalism: a love story, lavoro che risale all’anno 2009.

Ma se il Capitalismo è il male, come ha fatto a resistere così a lungo?

Il sistema sarebbe costituito e basato su quella che viene definita propaganda, ovvero l’abilità di convincere le persone, che restano quindi vittime dello stesso sistema, a sostenere il medesimo e a credere che sia buono, la scelta migliore.

Ma come si fa a convincere milioni di persone in tutto il mondo che l’unica scelta utile per il benessere collettivo sia il Capitalismo?

Naomi Klein in Shock Economy, pubblicato la prima volta nel 2007, racconta la privazione sensoriale. Tecniche di persuasione volte a indurre la monotonia, la perdita di capacità critica, il vuoto mentale. Ma che significa “perdita di capacità critica”?

Sostanzialmente si tratta dell’incapacità, troppo spesso indotta anche da istruzione, informazione e pubblicità pilotate, di porsi delle domande, di analizzare dati e fatti con spirito critico appunto, invece di immagazzinare passivamente notizie e, soprattutto, immagini stereotipate e artefatte.

«Se ti è stato ripetuto per un’intera vita che le cose stanno come ti dicono gli altri, iniziare a pensare di cambiarle è una cosa grossa.»

A dirlo è un’operaia della Republic in sciopero da giorni con i colleghi contro la repentina chiusura della fabbrica e la ferma volontà di non corrispondere ai lavoratori i salari e la liquidazione già maturata. La lotta civile da loro portata avanti si è conclusa con il riconoscimento dei propri diritti e il versamento di quanto dovuto.

Combattere, lottare, protestare, scioperare solo per vedere riconosciuti i«servizi basilari»o essenziali, che in realtà sarebbero diritti. Perché in fondo ha ragione Erri De Luca che in Piigs sostiene che, con il Capitalismo sfrenato e deregolato, «i diritti sono diventati servizi. E i servizi hanno un costo e quindi vi può accedere solo chi se li può permettere».

Ea coloro che non possono permetterseli che succede? Già.

Questa «corrente selvaggia del Capitalismo» nel quale viviamo, il Capitalismo senza limiti, «ha conquistato il pianeta». Ed è basato sulle idee di un economista di nome Milton Friedman, per il quale tutto deve essere privatizzato tranne «la spesa militare, i tribunali e alcune strade e autostrade». Ma quando i doveri a cui dovrebbe adempiere il governo, lo Stato, vengono delegati a società private, che hanno naturalmente scopo di lucro, che succede?

Nel Rapporto 2005 della Citibank, stilato per i suoi investitori più ricchi, gli operatori di uno dei gruppi bancari più grandi che opera e ha interessi praticamente in tutto il mondo, compresa l’Italia, giungevano alla conclusione che «gli Stati Uniti non erano più una Democrazia, ma erano diventati una Plutonomia». Una società controllata esclusivamente da e per l’1% dell’élite che dispone di ricchezze maggiori di quelle del 95% della popolazione. «I ricchi sono la nuova aristocrazia e non si vede la fine della miniera che stanno sfruttando». Tutto bello, dal loro punto di vista, se non fosse per un problema, un intoppo cui ancora non erano riusciti a trovare la soluzione. Secondo Citigroup la minaccia peggiore e a breve termine sarebbe stata la richiesta, da parte della società, di una suddivisione più equa della ricchezza. Citigroup lamentava il fatto che i non ricchi potessero anche non avere potere economico, ma avevano lo stesso potere di voto dei ricchi. Infatti ogni persona ha diritto a un voto, indipendentemente dal suo potere economico. «Ed ecco quello che davvero li spaventa: che i non ricchi possano ancora votare. E hanno il 99% dei voti».

C‘è qualcosa che non torna però in questo ragionamento. Se i non ricchi rappresentano il 99% e hanno quindi un potere di voto enorme perché il tutto non cambia e loro lo sopportano passivamente? Per la propaganda?

In parte è vero ma ciò sarebbe dovuto a un effetto indiretto di essa. L’emulazione. Secondo quanto si legge nel Rapporto Citigroup, i non ricchi sopportano tutto perché «la maggior parte di essi è convinta che un giorno potrà anch’essa diventare ricca».

Cosa succede quando realizza che non accadrà mai? Succedono le rivolte, le rivoluzioni, gli scioperi, gli scontri, le proteste… a volte pacifici e consumati nelle cabine elettorali, altre volte nelle piazzecon risultati più o meno tragici, ma sempre per i non ricchi. Il Cile di Pinochet, i Desaparecidos in Argentina, la Gran Bretagna della Iron Lady Margaret Thatcher, la Russia di Yeltsin e poi ci sono le rivolte in Grecia e in Spagna contro l’austerità dell’Unione Europea… Tutte duramente represse in nome del benessere del Capitalismo.

Il Capitalismo per poter funzionare necessita ancora del consenso e dell’appoggio incontrastato della popolazione, di quel 95% di cui scrivono i relatori della Citigroup che ha il diritto di voto e quindi il potere di mandare al governo esecutori o meno degli interessi degli investitori, degli operatori finanziari, delle Corporation, delle banche… Un metodo per aggirare l’ostacolo del diritto di voto, o quantomeno indirizzarlo verso la direzione voluta,però è stato trovato.

«Se ti servi della paura riesci a far fare alla gente ciò che vuoi».

Ancora Friedman, quando insegnava economia all’Università di Chicago, durante le sue lezioni affermava: «la terapia di shock economico può stimolare le società ad accettare la più pura forma di capitalismo deregolato». La Dottrina dello Shock, che la Klein ha studiato e analizzato nel suo libro, ovvero «il sistematico saccheggio della sfera pubblica dopo un disastro», quando le persone sono molto concentrate su un’emergenza, su una catastrofe che può essere un evento naturale o il risultato di politiche e tattiche, può essere un terremoto, un’alluvione, uno tsunami oppure una rivolta, un conflitto, un attentato terroristico… Non importa, perché sempre e comunque il Capitalismo, deregolato e senza limiti, per tramite dei suoi fautori e operatori, troverà il modo per trarne profitto, un grande profitto che finirà sempre e comunque nelle mani di quella élite dell’1% che da sola detiene in mano le ricchezze praticamente dell’intero pianeta. E per ricchezze non vanno intesi solo denaro e preziosi ma i beni, quelli sìdavvero preziosi, che il pianeta fornisce per la vita dei suoi abitanti, come l’acqua e l’aria pulite, per esempio.

L‘opinione di Michael Moore sul Capitalismo è molto drastica, per lui «è il male. Non si può regolamentare. Bisogna sostituirlo con qualcosa di buono. E questo qualcosa si chiama Democrazia». Ma per farlo è necessario, innanzitutto, che le popolazioni sviluppino la «resistenza allo shock» con la conoscenza, la lotta pacifica, la resilienza, lo sciopero, l’organizzazione e la solidarietà. Non da ultimo, e di pari passo con la conoscenza, il mantenimento della memoria collettiva, la rivalutazione degli insegnamenti del passato, della Storia, frutto di uno studio critico e diapprofondimento non di mnemonica assimilazione di contenuti e concetti preconfezionati. In maniera tale che i non ricchi smettano di desiderare, di sognare di diventare ricchi pensando che questo porti loro felicità e benessere e non avidità e insano potere, come invece accade, e ritrovino o trovino in prima istanza l’importanza, la sacralità della vita, degli esseri umani, delle risorse del nostro pianeta e smettano di idolatrare persone, come Phil Gramm, per esempio, ex-senatore Usa e vice-presidente di UBS Investment Bank, il quale ha dichiarato di considerare Wall Street «un luogo sacro».In realtà è tutt’altro che un luogo sacro. Somiglia piuttosto a «un folle Casinò, dove si scommette su qualunque cosa».Anche sulla vita umana.

Nel suo intervento durante il dibattimento in Senato precedente la votazione per il governo del cambiamento, Mario Monti ha detto: «Non il Presidente del Consiglio, ma l’intero vostro Governo nascerebbe oggi come governo dimezzato se altre forze politiche non avessero dato, in un momento difficilissimo della vita del Paese, prova di grande responsabilità». Ovvero l’appoggio al suo governo e alle misure di austerità imposte come “sacrificio necessario” per evitare al Paese, cioè all’Italia, la “vergogna” dellaGrecia, ossia la Troika. Ma attenzione, avverte ancora Monti, «non è escluso che l’Italia possa dover subire ciò che ha evitato allora, l’umiliazione della Troika». Shock Economy.

Le misure economiche poste in essere dall’allora Governo presieduto dallo stesso Monti e che egli dichiara hanno portato l’Italia «fuori dalla grave crisi finanziaria»hanno riguardato, soprattutto, e continuano a riguardare il taglio della spesa pubblica per diminuire il deficit di Bilancio.

Detto in parole più semplici, il taglio della spesa pubblica diviene quasi sempre un taglio alle spese sociali, che equivalea diretaglio dei servizi.

In Italia, stando ai dati diffusi dal Censis, i finanziamenti dati alle Regioni e legati ai servizi sociali si sono ridotti di circa l’80% dal 2007 al 2014 (da 1.600milioni di euro a 297milioni di euro). Per quantificare un esempio, ma i tagli dal 2007 a oggi hanno riguardato anche la scuola pubblica e quindi l’istruzione, la sanità e quindi la salute dei cittadini e la loro assistenza. E via discorrendo…

Sempre del Censis i dati relativi all’indebitamento di oltre 7milioni di italiani per pagare le cure mediche. Ci sono poi anche quelli che non si indebitano ma, semplicemente, rinunciano a curarsi perché i soldi non li hanno. E questa è l’amara realtà conseguenza diretta dell’austerità, di quel “sacrificio necessario” richiesto da Monti, dal suo governo e da quelli successivi.

Una domanda però bisogna porsela: perché c’è stata la cosiddetta esplosione del debito pubblico italiano che ha reso necessario gli interventi di riordino dei conti pubblici pena la Troika?

Sul sito della Consob, l’Autorità italiana per la vigilanza dei mercati finanziari, si legge che la crisi finanziaria del 2007 ha avuto inizio, in realtà, negli Stati Uniti già a partire dal 2003, allorquando «cominciò ad aumentare in modo significativo l’erogazione di mutui ad alto rischio», ossia a clienti che in condizioni normali non avrebbero ottenuto credito perché «non sarebbero stati in grado di fornire sufficienti garanzie». Ciò è stato reso possibile dalla cosiddetta bolla immobiliare, favorita dalla Federal Reserve che ha consentito al prezzo degli immobili di salire mantenendo tassi di interesse bassi. Ma, soprattutto, dalla cartolarizzazione, ovvero dalla possibilità per gli istituti di credito, le banche, di trasferire i mutui, dopo averli “trasformati” in titoli, a soggetti terzi e recuperare così buona parte del credito vantato. In questo modo le istituzioni finanziarie «poterono espandere enormemente le attività in rapporto al capitale proprio», realizzando profitti molto elevati, ma esponendosi anche al «rischio di perdite ingenti».

«I titoli cartolarizzati sono stati sottoscritti da molti investitori sia negli Usa che in Europa».

Bill Black, uno dei supervisori bancari americani, ricorda, intervistato in Capitalism di Moore, che l’FBI «iniziò ad allertare l’opinione pubblica nel settembre del 2004 sul fatto che ci fosse un’epidemia di frodi sui mutui messa in atto dalle banche». Ma l’amministrazione Bush destinò centinaia di agenti specializzati in crimini finanziari ad altre mansioni, nonostante «stavamo entrando, durante tutto il periodo dell’amministrazione Bush, nella più grande ondata di crimini finanziari del Paese ma, in realtà, della storia mondiale».

Ritornando all’analisi della crisi fatta dalla Consob, si legge che le operazioni di cartolarizzazione generavano prodotti strutturati molto complessi, poco standardizzati e poco liquidi. I prodotti strutturati, inoltre, venivano scambiati prevalentemente over the counter (OTC), ossia «al di fuori dei mercati regolamentati, e in assenza di prezzi significativi, cioè di prezzi utilizzabili per una loro valutazione condivisa dagli operatori di mercato». In quella circostanza fu palese che le agenzie «avevano assegnato rating troppo generosi (anche per effetto di conflitti di interessi che creavano incentivi in tale direzione) e si erano dimostrate troppo caute nel rivedere il proprio giudizio sugli emittenti che incominciavano a manifestare i primi segnali di crisi».

«Le istituzioni finanziarie coinvolte nell’erogazione dei mutui subprime registrarono pesanti perdite».Tali titoli, ormai ampiamente diffusi sul mercato, persero ogni valore e diventarono illiquidabili. La banca di investimento Lehman Brothers avviò le procedure fallimentari il 15 settembre del 2008 e questo innescò un ulteriore processo di «tensione e incertezza sui mercati».

La crisi apparve sempre più nella sua «natura sistemica», con “turbolenze” senza precedenti che si estesero dal mercato dei prodotti strutturati ai mercati azionari e, progressivamente, all’intero sistema finanziario evidenziando un «elevato grado di interconnessione».

In breve tempo la crisi dei mutui si trasferì all’economia reale statunitense ed europea provocando «una caduta di reddito e occupazione». Sempre sul sito della Consob si legge che, nel complesso, gli aiuti erogati alle banche dei rispettivi sistemi nazionali in Europa ammontano a 3.166miliardi di euro, sotto forma di «garanzie (2.443miliardi), ricapitalizzazioni (472miliardi) e linee di credito e prestiti (251miliardi)». La Consob dichiara di far riferimento a dati MBRES del dicembre 2013.

3.166miliardi di euro.

«I salvataggi bancari accrebbero in modo significativo il debito pubblico dei paesi coinvolti, gettando i presupposti per la cosiddetta crisi del debito sovrano».

La crisi del debito sovrano dei paesi europei è dovuta quindi alla crisi finanziaria partita da Wall Street ed estesasi fino agli istituti finanziari europei che hanno poi ricevuto, in complesso, 3.166miliardi di euro di aiuti.

Ora la domanda che viene da porsi è: perché per far rientrare il debito pubblico non è stato richiesto un sacrificio alle banche invece che ai cittadini?

Ma sorgono anche altri interrogativi. Ipotizzando anche e volendo dare per buona la versione che sostiene l’effetto sorpresa della crisi del 2007, ovvero che ha avuto un effetto domino perché inaspettata, allora ci si chiede cosa in concreto sia stato fatto per evitare che accada di nuovo. I mercati finanziari deregolati sono stati regolamentati? Se gli aiuti a sostegno delle banche hanno come conseguenza l’esplosione dei debiti pubblici degli Stati è stato previsto un piano differente di intervento in caso di nuova crisi? Invece di darli alle banche tutti quei miliardi di euro non potrebbero essere destinati direttamente all’economia reale? Al welfare? Al pubblico impiego? Al sociale? All’istruzione? Alla sanità? Cosa hanno poi fatto le banche con quei soldi pubblici? Contano di restituirli?

Ripensando alle parole di Mario Monti sembrerebbe proprio di no. Piuttosto pare ci sia una qualche tanto grave quanto incomprensibile responsabilità dei cittadini e dell’allora opposizioni incapaci di comprendere fino in fondo la serietà della “vergogna della Troika”. Con il 92% del consenso in Parlamento il governo Monti sarebbe riuscito a portare l’Italia fuori dalla crisi finanziaria e ad avviare una «seppur lenta, ripresa». Forza Italia, Partito Democratico, Fratelli d’Italia… li nomina tutti come sostenitori tranne la Lega, unica forza politica di opposizione nel Parlamento di allora, e Movimento Cinque Stelle come esterno alle istituzioni. All’epoca c’erano solo il blog di Grillo e i meetup.

Uno dei punti chiave su cui si è tanto insistito, lo ha fatto il governo Monti e lo ha fatto anche il governo Renzi, era il precetto del 3%. Se il deficit restava al di sotto di questa percentuale la ripresa e con essa la crescita dell’Italia sarebbero arrivate più fervide che mai. In più sedi istituzionali e conferenze Matteo Renzi ha sottolineato la coerenza del suo esecutivo nel rispettare questa direttiva.

Restare al di sotto del 3% significa mantenere la politica di tagli alla spesa pubblica.

Ma da dove viene fuori questo 3%? Funziona davvero?

Guy Abeille, ex funzionario del Ministero delle Finanze francese, ai microfoni dei giornalisti di PresaDiretta, intervista poi ripresa anche nel documentario Piigs, dichiara che, una sera del 1981, l’allora Presidente Mitterrand lo chiama perché necessita di una norma che fissasse il tetto del debito pubblico. «Il Presidente voleva qualcosa di semplice, di pratico. Non cercava una teoria economica ma uno strumento a uso interno». Siccome tutte le soluzioni sembravano complicate, Abeille e colleghi hanno pensato di rapportare il deficit al Pil. Il risultato di questa elementare operazione matematica è stato 3. Ed ecco il 3%. «Nessun criterio scientifico».

Qualche anno più tardi, quando a Maastricht bisogna trovare una regola per l’unione monetaria, Trichet disse: «Noi abbiamo un numero che ha funzionato benissimo in Francia». Da quando il 3% è diventato una regola, continua Abeille, «tutti hanno dovuto legittimarlo agli occhi dell’opinione pubblica, della gente che vota», gli economisti hanno elaborato mille spiegazioni scientifiche, ma «io posso garantire che le cose sono andate esattamente come ho raccontato».

Sembra una barzelletta ma in realtà è molto triste. Sarà per questo motivo, forse, che alla prima votazione utile il popolo italiano ha premiato proprio quelle forze politiche che hanno scelto, nel tempo, di rimanere fuori da quel 92% che ha preferito invece imporre “sacrifici” alla popolazione tra cui proprio la regola del 3%.

In effetti lo scrivevano anche i relatori del Rapporto Citigroup in America che il diritto di voto equanime può essere un grande problema, perché i non ricchi non hanno potere economico ma sono in tanti, tantissimi, e siccome ogni persona ha diritto a un solo voto, il loro complessivamente supera di gran lunga quello delle élite, ovvero di coloro che, da questa immensa crisi finanziaria che ha investito l’economia reale di praticamente tutti i Paesi, sono riusciti forse anche a guadagnarci. Ho scritto forse ma penso di sicuro.

La Consob segnala che, nel novembre 2012, è stato adottato il nuovo Regolamento europeo come contromossa della crisi che ha messo in discussione anche «la capacità di tenuta di quasi tutti i comparti della regolamentazione del sistema finanziario», per l’attitudine a «creare un sistema di incentivi distorto e deresponsabilizzante». Gli eventi occorsi hanno messo in evidenza «la necessità di una riforma degli assetti istituzionali della supervisione finanziaria in Europa e negli Usa» e di rivedere «l’approccio tradizionalmente improntato all’autodisciplina» in alcuni settori del mercato finanziario, tra i quali «quello relativo ad agenzie di rating, fondi speculativi e mercati cosiddetti over the counter». In Europa è stata disegnata una nuova «architettura istituzionale» volta a promuovere «regole armonizzate e prassi uniformi di vigilanza e applicazione delle norme».

Sulle politiche di austerity invece permane la visione condivisa di governi locali e comunitari.

Riacquistare la capacità critica, la forza di volontà, creare gli anticorpi alla dottrina della shock economy, riappropriarsi degli strumenti utili a dar voce alle popolazioni e ai loro diritti, lo sciopero, la piazza, la cabina elettorale… Ecco la vera forza del popolo, della Democrazia.

Michael Moore sostiene che, nonostante i contenuti, le case di produzione e distribuzione cinematografica scelgano di produrre e distribuire egualmente i suoi documentari perché convinte che forniranno comunque un incasso e che la gente, anche se li guarderà, poi non farà nulla di così rivoluzionario da mettere in bilico il sistema. Moore è convinto del contrario e continua a lavorare a sempre nuovi documentari-inchiesta. Chi ha ragione? Solo il popolo, le scelte e le decisioni che prenderà potranno dirlo.

Le parole dell’operaia della Republic in sciopero per far valere i propri diritti di lavoratrice e cittadina sintetizzano alla perfezione il mix di meraviglia ed entusiasmo che accompagna la scoperta della possibilità di liberarsi della privazione sensoriale cui si viene costantemente sottoposti: «Se ti è stato ripetuto per un’intera vita che le cose stanno come ti dicono gli altri, iniziare a pensare di cambiarle è una cosa grossa». Immaginate riuscirsi cosa sarà.


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Derive del terrorismo e dell’antiterrorismo in “Non c’è sicurezza senza libertà” di Mauro Barberis (ilMulino, 2018)

31 giovedì Mag 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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IlMulino, MauroBarberis, Noncesicurezzasenzaliberta, paura, recensione, saggio, terrore, Terrorismo

Il saggio del professor Barberis si apre con una citazione di Edward Snowden che in parte anticipa il fulcro centrale del discorso portato avanti dal filosofo e per il resto rende perfettamente l’idea di cosa il lettore deve aspettarsi inoltrandosi tra le righe del libro Non c’è sicurezza senza libertà, edito quest’anno da ilMulino: «Il terrorismo è solo un pretesto».

In Putinofobia (Piemme, 2016), Giulietto Chiesa afferma che, mentre il terrore rosso operante nell’ex Impero Sovietico fosse un nemico vero dell’Occidente, il terrore verde, ovvero quello di matrice islamista, sia in realtà una mera invenzione dello stesso Occidente. Non è l’unico saggista ad affermare una cosa del genere ma bisogna stare bene attenti al significato di queste parole.

Lo stesso Barberis, che in Non c’è sicurezza senza libertà più volte si avvicina alla linea tracciata anche da Chiesa, risulta essere ben lontano dall’affermare che il terrorismo islamista non esiste, letteralmente parlando. È ovvio che gli jihadisti esistono, come pure i foreign fighter. Naturale che gli attacchi terroristici nelle città dell’Occidente ci sono stati, come pure le vittime… quello su cui Barberis, Chiesa, Luizard e altri studiosi invitano a riflettere sono le dinamiche che hanno dato origine a detta forma di terrorismo e le conseguenze, durature seppur non immediate e dirette, di questi attacchi al cuore e ai simboli della civiltà occidentale.

Pierre-Jean Luizard, storico e direttore di ricerca al Centre national de la recherche scientifique a Parigi, in La trappola Daesh (Rosenberg&Sellier, 2016) afferma che l’unica strada indicata come percorribile per annientare in maniera definitiva il terrorismo estremista di matrice islamica sia la sconfitta militare del Califfato. È una storia già nota, quella che raccontano media e politici, che prospetta una soluzione già fallita. Basti ricordare quanto accaduto all’indomani degli attentati dell’11 settembre del 2001, alle guerre e alle invasioni che ne sono derivate, alla uccisione di Osama bin Laden e all’affermazione dell’avvenuta sconfitta di Al-Qã’ida.

Il terrorismo islamista si è presentato più forte e organizzato di prima ed è tornato prepotentemente e più volte a bussare alle porte degli stati occidentali, mietendo vittime e democrazia. Esatto, perché è proprio da questo punto che parte la dettagliata analisi del fenomeno portata avanti da Mauro Barberis. Sentirsi o essere al sicuro non significa necessariamente sentirsi o essere liberi. Spesso i valori di sicurezza e libertà, «lungi dell’essere solidali, confliggono». E allora non si può non chiedersi, insieme all’autore, a quanta libertà personale abbia dovuto rinunciare ogni occidentale in seguito non solo e non tanto alle minacce terroristiche quanto alle misure restrittive e limitative intraprese dai vari governi, Stati Uniti in primis.

Conta poco che un 11 settembre sia oggi, con tutti i controlli aerei posti in essere, irripetibile. Autorità e apparati conservano i poteri e le risorse loro attribuiti per prevenire la replica. Da eventi come l’11 settembre, o da noi in Italia i terremoti, si sta «sviluppando una sorta di capitalismo della catastrofe» che ruota intorno al concetto di “sicurezza sociale” che non è mai stata un ostacolo allo sviluppo del mercato «come crede la gran parte dei neoliberisti contemporanei, ma una sua condizione necessaria».

Più volte citato dallo stesso Barberis, Michel Foucault sosteneva che la seconda conseguenza del liberismo, e dell’arte liberale di governare, è la formidabile estensione delle procedure di controllo, di costrizione e di contrappeso delle libertà. L’allerta seguita agli attacchi terroristici in territorio occidentale ha innalzato notevolmente l’asticella dei controlli e delle limitazioni della privacy di ognuno. Ma quanto in realtà queste misure possono o incidono sul reale rischio di nuovi attentati? Barberis afferma che la quasi totalità delle misure antiterrorismo è inadeguata, non necessaria e sproporzionata. Perché viene posta in essere comunque?

I limiti militari e tattici del nuovo terrorismo sono stati più volte dimostrati sul campo di battaglia. La vera forza dei terroristi risiede nell’eco mediatica che le loro “gesta” riscontrano sui media e nella Rete. Se le loro azioni, al pari delle minacce e dei video propagandistici, non ricevessero l’attenzione mediatica che invece trovano in tutto il mondo ormai il loro “potere” e la conseguente efficacia ne sarebbero inevitabilmente compromessi. Mauro Barberis sottolinea come ciò sia vero anche per le misure e le reazioni antiterroristiche dei governi, i quali sembrano affidarsi sempre più spesso alla tattica della politica-spettacolo, dove tutto viene “spettacolarizzato” al fine di ottenere il consenso del pubblico, ovvero dei cittadini. Tattiche che possono risultare affini, almeno per quel che concerne l’esagerazione o, se si preferisce, l’estremizzazione.

Battere così tanto sul concetto di sicurezza può anche sembrare un modo per stimolare e, al contempo, far leva sulla paura. Una persona che ha paura è decisamente molto più remissiva. In nome della sicurezza di tutti si può anche arrivare ad accettare passivamente limitazioni della propria libertà personale purché ciò sia utile a sconfiggere il pericoloso nemico che motiva i provvedimenti di urgenza intrapresi dai vari stati. Provvedimenti che poi si trasformano da eccezione a regola.

Riscontrabile, ad esempio, nella tendenza degli esecutivi ad appropriarsi della legislazione in tempo di guerra tramite la decretazione d’urgenza. Poi le guerre finiscono ma i governi, compreso quello italiano che ufficialmente non entra in guerra da settant’anni, continuano a legiferare per decreto. Quanti decreti vengono approvati? Qual è la loro reale emergenza? A legiferare non è preposto il Parlamento?

Quesiti doverosi su argomenti complessi è vero ma molto attuali. Situazioni e decisioni da cui derivano le sorti di interi popoli e nazioni. Tematiche di cui, a volte, spaventa il sentirne parlare o leggere perché, più o meno consciamente, si teme la scoperta di un ordine inverso delle cose, delle azioni e, soprattutto, delle motivazioni che hanno preceduto e determinato le scelte, di governi e terroristi. Eppure, alla fine, risulta sempre positivo lo studio e l’approfondimento di questi temi.

Non c’è sicurezza senza libertà di Mauro Barberis si presenta al lettore come una sistematica analisi di concetti, nozioni, dati, diritti e violazione degli stessi che ruota intorno a due termini affatto scontati: sicurezza e libertà. Un libro che appare moderato anche nelle tesi “estreme” più volte espresse, le quali vanno assimilate e maturate prima di essere frettolosamente giudicate o mal-interpretate.

Una interpretazione che deve essere portata avanti con una grande onestà intellettuale, la medesima che Barberis chiede abbiano sempre i “produttori” culturali, prima ancora dei politici e dei governanti. Avallando così l’ipotesi e la speranza che un’informazione e una educazione “libere” possano essere le migliori apripista per i cambiamenti di cui il mondo ha bisogno. Cambiamenti che potranno e dovranno per forza venire dalla cultura, in particolare dai libri, vero punto di forza nel giudizio dell’autore, il quale attribuisce loro una potenza talmente intensa da essere, a volte, una vera e propria catarsi.

Una lettura forse impegnativa Non c’è sicurezza senza libertà di Barberis, soprattutto nell’excursus storico-politico e nell’analisi dettagliata di dati e provvedimenti governativi, ma di sicuro interessante e, per molti versi, illuminate. Assolutamente consigliata.


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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Società Editrice ilMulino per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte trama libro e biografia autore quarta di copertina


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© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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17 sabato Mar 2018

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I governi di tutto il mondo basano le proprie decisioni sui rapporti informativi dei servizi di intelligence, strutture di sicurezza cui spetta il compito di reperire tutte le informazioni possibili necessarie alle autorità per compiere le proprie scelte e prendere le relative decisioni. Un potere enorme racchiuso nelle mani di una rete di persone pressoché invisibili, ma che esistono e agiscono, anche se all’ombra di governi e istituzioni, determinandone però la linea e le iniziative. Andrea Foffano, docente di sicurezza e intelligence presso ASCE e ANVU-ISOPOL, sottolinea come alcune notizie di carattere internazionale sono in grado di poter stabilire l’andamento politico, sociale ed economico di un’intera comunità nazionale. Anche laddove queste informazioni fossero volutamente forzate o addirittura falsate. Infatti, uno dei principi cardine dell’attività d’intelligence, svolta da tutti i servizi di informazione del mondo, non è altro che l’imperativo: usa tutto e tutti per raggiungere i tuoi scopi.
Quali sono allora gli scopi dei servizi di intelligence e quali quelli degli stati per cui lavorano?

Per esemplificare il lavoro svolto da servizi segreti e governi Foffano analizza il conflitto civile siriano partendo da quanto accaduto due anni prima l’inizio della guerra. Ovvero allorquando nel tratto di mare compreso tra l’Iran e la penisola del Qatar, fu scoperto uno dei più grandi giacimenti energetici di gas naturale, usufruibile da entrambi i Paesi. La Siria, al cui governo si trovavano gli Alauiti del Presidente Bashar al-Assad, fedeli alleati degli Sciiti iraniani, negò il consenso al transito delle strutture di trasporto sul proprio territorio nazionale per la Qatar-Turkey pipeline, che avrebbe dovuto collegare l’Europa con il Qatar. Mentre diede il proprio consenso per il passaggio dell’Islamic pipeline progettato dall’Iran. Washington decise di intervenire in difesa dei propri alleati (Qatar e Arabia Saudita) e iniziò a sostenere militarmente le fazioni ribelli che, dopo l’avvento della Primavera Araba in Siria, avevano iniziato a opporsi al regime di Assad. Parallelamente, l’Arabia Saudita iniziò a finanziare in modo massiccio molti dei gruppi terroristici e jihadisti che si opponevano allo stesso regime.

Secondo quanto riportato in un’inchiesta del NewYork Times, l’Arabia Saudita avrebbe finanziato la guerra segreta della CIA in maniera continua e massiccia, si parla di circa un miliardo di dollari da parte degli Stati Uniti e svariati miliardi di dollari provenienti da ricchi e anonimi finanziatori sauditi. Un servizio segreto estero che fornisce sistemi d’arma di ultima generazione a gruppi ribelli divenuti poi estremisti, jihadisti, terroristi è di sicuro una scomoda verità. Modi di agire che ricordano molto, forse troppo, la guerra russa in Afghanistan, con gli americani intenti a sostenere militarmente i Talebani e i Mujaheddin. Americani e sauditi, con il sostegno fondamentale del Pakistan e dei pashtun della zona tribale, avevano creato a Peshàwar il più grande centro jihadista del mondo. Come ricorda Pierre-Jean Luizard, storico e direttore del Centre national de la recherche scientifique, del tempo in cui gli jihadisti erano i nostri eroi che combattevano contro l’Impero del Male, e solo in un secondo momento si trasformarono in barbari che avevano portato il terrorismo nel cuore dell’Occidente.

Per Luizard, il regime siriano ha avuto sempre alcuni difetti agli occhi degli occidentali. In primis per il diniego a una pace con Israele che non prevedesse la restituzione del Golan, occupato dall’esercito ebraico nel 1967. Continua ad avere ottimi rapporti con Mosca, alleato della repubblica sciita dell’Iran e a sostenere militarmente gli Hezbollah, l’unica formazione araba che abbia fermato Israele nella guerra del 2006. Appartiene a quell’asse della resistenza che intende mantenere un’indipendenza dal sistema occidentale alleato con le potenze sunnite del Golfo. Insomma, il nemico perfetto che ha fatto della Siria il terreno ideale per una guerra santa.

Secondo Joshua Landis, uno dei massimi esperti mondiali della politica siriana, circa il 60-80% delle armi che gli Stati Uniti hanno introdotto nel paese sono finiti nelle mani di gruppi terroristici jihadisti riconducibili ad al-Qaeda. Ma se a qualcuno venisse in mente di trovare le prove per accusare gli Stati Uniti di fomentare la guerra in Medio Oriente, avverte Foffano, sappia che andrà incontro a un fallimento certo. Il conflitto in atto in Siria appartiene a una nuova tipologia di guerra: quella per procura, nella quale gli attori in campo mascherano il proprio intervento tramite il sostegno, più o meno indiretto, ad una delle parti in causa. Scontri nei quali il secondo livello, ovvero la guerra delle informazioni, risulta alla fin fine più potente e pericoloso del primo, gli scontri armati sul campo. Almeno per gli Stati che non risultano in apparenza coinvolti direttamente nello scontro perché per quelli direttamente chiamati in causa e soprattutto per le popolazioni ad essi afferenti la situazione naturalmente cambia e anche di molto.

Bana Alabed, la ragazzina che ha fatto conoscere il dolore dei cittadini di Aleppo a tutto il mondo attraverso i suoi tweet inviati ai presidenti di tutte le maggiori potenze mondiali, si chiede come le persone possano essere così crudeli da far diventare, per un bambino, nessun posto sicuro e dedica il libro che racchiude la sua storia a tutti i bambini che soffrono a causa di una guerra, per dire loro che non sono soli, purtroppo. In tanti, in troppi soffrono e subiscono le conseguenze di scelte non proprie, non volute e non condivise in nome di una pace che stenta ad arrivare e a causa di interessi che raramente coincidono con quelli di interi popoli e troppo spesso invece con quelli elitari di ristrette cerchie e categorie di persone.

 

Quei terroristi che in altri scenari operativi sparsi per il mondo gli Stati Uniti stavano combattendo, a prezzo di numerose vittime fra i soldati dell’esercito americano e della coalizione internazionale, anche come conseguenza dell’intervento, diretto o indiretto che sia, degli stessi nel conflitto civile rischiavano di prendere il potere in Siria e allora lo Stato Maggiore decise di servirsi dei servizi segreti di intelligence per passare informazioni militari alle forze armate delle altre nazioni impegnate nel conflitto. Con la certezza che i servizi segreti di Assad avrebbero intercettato il movimento di dati e utilizzato il tutto nella lotta contro gli jihadisti. I cablo del Dipartimento di Stato americano, resi pubblici nel corso degli anni da Wikileaks, avrebbero gettato un fascio di luce su un retroscena assai torbido e buio.

Un rischio enorme quindi quello corso dagli americani. Non si può non chiedersi il perché reale del continuo e persistente intervento degli Stati Uniti in Medio Oriente o in qualsiasi altra parte del mondo si prospetti o si profili una qualsivoglia instabilità. Al termine della cosiddetta Guerra Fredda, gli Stati Uniti sono diventati l’unico polo dominante schierato in campo geopolitico mondiale. L’America è una di quelle nazioni, insieme a tante altre del cosiddetto Occidente, ad aver improntato il proprio sistema economico sulla competitività: non riescono a trovare una sicura e certa stabilità interna, senza ricorrere a nuovi mercati e ad altrettanti investimenti. Lo slogan del ventennio era: “Chi si ferma è perduto!”. Ecco, mai parole furono più adatte a descrivere la situazione di alcune potenze mondiali a ridosso del ventunesimo secolo.

Gli attacchi dell’11 settembre 2001, da questo punto di vista, sono stati un avvenimento strategicamente molto importante. Hanno decretato l’inizio della «guerra al terrore» che ha significato l’invasione dell’Afghanistan, la guerra ai Talebani, l’invasione dell’Iraq, gli interventi in Libia e in Siria. Operazioni nelle quali ogni mossa è politica, è dettata da convenienze economiche e risponde sempre a chiare regole sociali. Giulietto Chiesa, giornalista e politico italiano, considera il terrorismo islamico un prodotto diretto dell’azione coordinata degli occidentali che usa semplicemente i terroristi, che pure esistono, come manodopera che spesso non riesce a capire neanche per chi sta lavorando. L’Occidente ha sempre avuto bisogno di un nemico. L’Unione Sovietica del ventesimo secolo era perfetta in questo senso. Ma, una volta abbattuto il Comunismo sovietico, l’Occidente si è ritrovato senza un nemico da combattere. Senza nemici e con un nuovo gigantesco alleato e vassallo non è riuscito a spiegare al mondo intero come mai l’economia mondiale andava comunque a rotoli. Il problema non sarebbe quindi esterno, bensì interno, nel modello di sviluppo scelto. Il piano messo in atto sarebbe stato quello di sostituire il terrore rosso con il terrore verde. Il terrore rosso non era un’invenzione, era un antagonista serio. Il terrore verde non è un’antagonista, è stato inventato dall’Occidente. È un’ipostasi messa davanti agli occhi della gente per terrorizzarla e costringerla a rifugiarsi sotto l’ala protettrice degli Stati Uniti d’America.

Per Foffano, prima di passare all’analisi oggettiva dei fatti, provando conseguentemente a interpretarli sino a giungere a una spiegazione logica e razionale degli avvenimenti, bisogna forzatamente sgombrare il campo da ogni sorta di pregiudizio politico-ideologico, che potrebbe in qualche modo viziare la nostra intrinseca capacità critica. Quello che Chiesa definisce con parole molto più crude Matrix, con riferimento diretto alla omonima produzione cinematografica. L’Occidente ha forgiato un apparato di comunicazione, attraverso il suo meraviglioso sistema dell’immagine gradevole e dell’immagine in movimento in generale, che è riuscito a modificare profondamente la psicologia della gente. Ha lavorato in tutti i modi possibili e immaginabili alla penetrazione cognitiva nel cervello degli uomini, delle donne e dei bambini soprattutto, modificando la loro percezione del mondo. Il mondo reale è altrove però, fatto in un altro modo, è furibondo, è feroce, è senza tregua. Siamo sistematicamente mitragliati da una sterminata quantità di messaggi gradevoli che uccidono la nostra capacità critica di sentire, di percepire e di conoscere.

Anche quanto sta accadendo o è già accaduto in Siria, per fare un esempio, viene tagliato fuori dall’immagine che del conflitto hanno milioni di occidentali indotti a credere che si stia parlando, solo, dell’ennesima lotta contro il terrorismo, di matrice islamica questa volta, necessaria e imprescindibile per la sicurezza e la stabilità del mondo, occidentale naturalmente.


Bibliografia di riferimento:

A. Foffano, “Siria. La guerra segreta dell’intelligence”, Ed. Solfanelli, 2017
P.J. Luizard, “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna”, Rosenberg&Sellier, 2016
B. Alabed, “Caro mondo”, Tre60, 2017
G. Chiesa, “Putinofobia”, Piemme, 2016


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La nascita dei “mostri” del terrorismo e il rifiuto delle responsabilità dell’Occidente in “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna” di Pierre-Jean Luizard (Rosenberg&Sellier, 2016) 

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La Filosofia può aiutare ad affrontare il terrorismo? Intervista a Ermanno Bencivenga

15 lunedì Mag 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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La filosofia può aiutare ad affrontare il terrorismo? Intervista a Ermanno Bencivenga

Un approccio filosofico può aiutare ciascuno di noi a capire quale sia l’atteggiamento giusto da tenere riguardo il fenomeno terroristico. Questa la base di partenza e il motivo ispiratore di Prendiamola con filosofia di Ermanno Bencivenga (edito da Giunti), un libro che tenta di dare risposta a tutte le domande che è necessario porsi per guadagnare una posizione responsabile in proposito a eventi di oggi o di ieri, questo poco importa, purché si comprenda quanto abbiano da insegnarci.

Paura, terrorismo e cambiamenti epocali inevitabili esaminati con la lente del ragionamento filosofico in un libro che è un’indagine su quanto le parole mettono in gioco nel tempo del terrore.

Ne abbiamo parlato con Ermanno Bencivenga nell’intervista che gentilmente ci ha concesso.

Che cosa può dire un approccio filosofico sul terrorismo rispetto agli altri approcci? In che cosa consiste l’originalità del discorso della filosofia e perché è utile affidarsi a quest’ultimo?

Un approccio storico può informarci sulle origini del fenomeno. Un approccio politico o economico può chiarire quali siano i fattori in gioco, in termini di potere o di finanza. Un approccio legale può illustrare i diritti e doveri che le leggi nazionali e internazionali riconoscono alle varie parti. Un approccio filosofico può aiutare ciascuno di noi a capire quale sia, per lui o per lei, l’atteggiamento giusto nei confronti del fenomeno, mostrandone tutti gli aspetti e tutte le domande cui bisogna dare risposta per raggiungere una posizione responsabile in proposito.

La filosofia può aiutare ad affrontare il terrorismo? Intervista a Ermanno Bencivenga

Libertà di espressione e rispetto per le fedi religiose. Mai come in questi anni tali principi, o meglio diritti, sono spesso al centro di dibattici pubblici e politici. Si sta veramente conducendo una “guerra” planetaria per tutelarli o rischiano di essere o diventare solo una copertura per interessi di altra natura?

Gli interessi di altra natura ci sono, naturalmente. Ma bisogna evitare ogni forma di riduzionismo, economicista per esempio. Ricordiamo il fallimento, intellettuale prima ancora che politico, del riduzionismo di stampo marxiano. Gli esseri umani sono animali razionali, quindi, oltre che da emozioni e interessi, sono mossi dalla ragione. E capire chi abbia ragione, in questi casi, è molto difficile. La difficoltà va affrontata, non evitata con il ricorso a facili slogan che mortificano e avviliscono la nostra natura di esseri pensanti. Una mortificazione che finiremo per pagare: con la frustrazione, con la depressione, con la rabbia.

Nel testo si legge: «che un evento si sia verificato ieri o duemila anni fa non conta», importa solo «quanto abbia da insegnarci». Che cosa abbiamo imparato o che cosa avremmo potuto e dovuto imparare dagli eventi storici passati?

Nel mio libro faccio riferimento, per esempio, al comportamento di Socrate durante il suo processo e la sua esecuzione, nel 399 a. C. Sono eventi sui quali continuiamo a interrogarci e dai quali continuiamo a imparare. È giusto scendere a compromessi per salvarsi la vita? È giusto fare un’eccezione per sé stessi quando si pensa che ci sia stato fatto un torto? È giusto rispondere al male con il male? Socrate ci fornisce le sue risposte e il suo esempio; sta a noi prenderli in esame e decidere da che parte stiamo.

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Tornando ai fatti recenti invece, quanto incidono le emozioni “a pelle” provate per gli attentati alle Torri Gemelle e a «Charlie Hebdo», per citare qualche esempio, su quelle che dovrebbero essere analisi più ragionate e obiettive della situazione contemporanea globale?

Le emozioni sono parte integrante della nostra umanità e bisogna accettarle ed esprimerle. Indipendentemente da tutte le analisi che ne ho fatto, io il giorno dell’attentato alle Torri Gemelle ho pianto in pubblico, e credo fosse una reazione perfettamente umana a quel che era successo. Poi, però, è anche giusto porsi delle domande e cercare delle risposte, anche per evitare che tragedie del genere si ripetano.

La filosofia può aiutare ad affrontare il terrorismo? Intervista a Ermanno Bencivenga

La sensazione è di assistere a un cambiamento epocale che coinvolge e coinvolgerà gli abitanti dell’intero pianeta e che originerà un “mondo diverso”. I paletti che vari stati tentano di mettere per arginare detto cambiamento basteranno a tenerli separati dal resto del mondo oppure, dopo inutili quanto sanguinosi conflitti, cadranno inesorabilmente?

Non c’è alternativa a un mondo planetario. Rinchiudersi in un proprio spazio protetto è una scelta infantile e perdente. Bisogna accettare la sfida, che è culturale prima che politica o economica: inventare insieme una nuova forma di convivenza, trasformare l’attuale situazione di crisi in un’opportunità di crescita comune.

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In questo tempo del terrore, qual è la vera posta in gioco?

Di poste in gioco ce ne sono tante. Come sarà chiaro da tutto quel che ho detto finora, per me la più importante è riuscire a mantenere la nostra umanità e il nostro senso di giustizia sociale, che in questo momento stanno correndo un gravissimo rischio di essere annientati dalla paura, dall’ansia e dall’odio.

http://www.sulromanzo.it/blog/la-filosofia-puo-aiutare-ad-affrontare-il-terrorismo-intervista-a-ermanno-bencivenga

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“Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione” di Stefano Allievi e Gianpiero Dalla Zuanna (Editori Laterza, 2016)

12 venerdì Mag 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Uscito in prima edizione ad aprile 2016 per Editori Laterza, Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione di Stefano Allievi e Gianpiero Dalla Zuanna è un saggio tascabile di poco oltre centocinquanta pagine sui «radicalismi emergenti, tra gli immigrati e contro gli immigrati».

Un libro che è un valido «strumento di lettura e di orientamento», utile a fornire «chiavi interpretative» prive di pregiudizi ideologici per una questione che ha «radici profonde nella storia» e di cui gli autori si interessano sistemicamente. Ciò ha consentito loro di evitare l’inseguimento delle notizie di stretta attualità e mantenere un approccio meno semplicistico al fenomeno, riuscendo così a raccontare al lettore «alcune prospettive di questa storia grandiosa, piena di speranze e soddisfazioni, ma anche delusioni e sofferenze».

Una vicenda che ha visto un paese come l’Italia «che si credeva monoculturale e in passato di emigrazione» trasformarsi, nel giro di un paio di generazioni, «in un grande porto di mare» e un popolo, quello italiano, che nella necessità del confronto con l’altro, con il “diverso”, si vede costretto a fare i conti con la propria identità. Una condizione di mutamento continuo, dove «anche i nativi vengono in qualche modo modificati dall’interazione con i migranti», esattamente come questi subiscono la metamorfosi del cambiamento e così «da questi incontri nasce una popolazione nuova». Diventa a questo punto necessario «adattare la nostra società e – prima ancora – la nostra mentalità, per vivere al meglio questo grandioso mutamento».

Nel caos degli allarmismi di informazione e politica il testo di Allievi e Dalla Zuanna viene positivamente accolto come una lettura che invita alla calma e alla conoscenza riguardo un fenomeno che è sempre esistito e che ruota intorno a tre “semplici” parole: «necessità, selezione, integrazione».

Utile doveroso e necessario anche l’aver ricordato in Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione che il censimento del 1881 rivelò che metà dei milanesi non erano nati a Milano e che nel primo secolo di Unità nazionale (1861 – 1961), almeno 25milioni di italiani hanno lasciato l’Italia, «quasi 700 al giorno».

L’impegno degli autori è stato profuso non solo nel racconto dettagliato di ciò che i fatti storici avrebbero dovuto insegnarci e il cui apprendimento sotto un ottica diversa avrebbe potuto meglio preparare la società attuale ad affrontare la “crisi migratoria” in atto, ma anche nell’analisi dei dati, nella formulazione di pacate ipotesi risolutive nonché per sfatare i luoghi comuni che sembrano sempre più radicalizzati e strumentalizzati per creare un clima di diffidenza e paura.

  • Gli stranieri rubano il lavoro agli italiani.

  • Gli stranieri frenano lo sviluppo dell’Italia.

  • Tra gli stranieri c’è un’elevata percentuale di criminali.

Gli economisti mostrano e dimostrano che, in Italia come in altri Paesi “ricchi”, i nuovi flussi migratori «hanno causato la crescita dei salari dei nativi, favorendo nel contempo la compressione dei salari degli stranieri» già presenti da tempo sul territorio. Sul mercato del lavoro «gli immigrati sono complementari piuttosto che concorrenti degli italiani». Sono loro per la gran parte ad accollarsi l’onere di svolgere mansioni dirty, dangerous and demeaning (sporche, pericolose e umilianti) e la loro “disponibilità” allo svolgimento dei ddd jobs ha di fatto «permesso agli italiani di concentrarsi sui lavori meglio retribuiti, meno faticosi e più prestigiosi». Ma ha anche, in concreto, spinto «verso mansioni meglio retribuite i lavoratori italiani non qualificati». Per contro «polacche, ucraine, filippine, peruviane, moldave e rumene» sono le più penalizzate, costrette per necessità «a svolgere un lavoro poco qualificato rispetto al titolo di studio conseguito e alle competenze professionali acquisite».

I motivi alla base della mancanza di lavoro, della diffusa disoccupazione, anche giovanile, e dei bassi livelli di crescita dell’Italia vanno invece ricercati nelle «forti barriere all’ingresso delle professioni», negli «oligopoli e cartelli fra le imprese (spesso tutelati dal sistema politico)», nella tendenza a «preservare strenuamente il posto di lavoro piuttosto che a proteggere il lavoratore».

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Allievi e Dalla Zuanna sottolineano con fermezza il destino di declino cui andrà inesorabilmente incontro il nostro Paese «se non inizierà a prendere di petto questi problemi». Paesi come la Germania, il Regno Unito e gli Usa negli ultimi venti anni «sono cresciuti molto più di noi pur condividendo i nostri alti tassi immigratori». Mentre paesi come il Giappone «sono cresciuti poco anche se continuano a tenere blindate le loro frontiere». Ne conviene quindi che «alti tassi di immigrazione possono convivere con alti tassi di sviluppo».

Non è tanto la condizione di straniero in sé a essere determinante nel delinquere quanto «quella di marginale». È «la povertà materiale, di risorse sociale e di capitale culturale» a giocare un ruolo decisivo. Leggendo i dati del Dossier Statistico Immigrazione 2015 del Centro Studi e Ricerche IDOS, che gli autori riportano nel testo, si apprende che le denunce contro italiani sono in aumento del 28% mentre quelle verso stranieri sono in calo del 6,2% e che il 17% di queste riguarda violazioni della normativa di soggiorno.

Inoltre non bisogna dimenticare che «gli stranieri non sono solo soggetto, sono anche oggetto di devianza e vittime di criminalità». Dettagliato il resoconto che fanno Allievi e Dalla Zuanna su traffico di manodopera, tratta, sfruttamento, caporalato, violenza, truffa… insomma su tutte le «forme di criminalità legate al business sugli immigrati e all’accoglienza», ricordando anche il recente scandalo etichettato da media e magistratura Mafia Capitale.

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Gli autori sottolineano come la questione dei profughi, al pari dell’immigrazione, non è un’emergenza ma «un dato strutturale del mondo globale» e come tale va affrontata.

  • Con strategie, non con parole d’ordine.

  • Con politiche, non con slogan.

  • Con pragmatismo, non con precomprensioni ideologiche.

A livello europeo, a livello nazionale e locale, nella scuola… evitando strumentalizzazioni e multiculturalismi improvvisati che sono speculari all’identitarismo grossolano.

I rifugiati sono dei testimoni della storia e delle volte portano con sé «il destino, la coscienza e il desiderio di riscatto di un intero paese». Viene riportato l’esempio di un esule italiano antifascista in Francia che, dopo aver lavorato come muratore, è rientrato in Italia e diventato successivamente il settimo Presidente della Repubblica. Sandro Pertini.

I migranti economici si muovono per ragioni in parte differenti dai rifugiati politici ma la loro storia merita egualmente di essere scritta con l’inchiostro della civiltà, dell’umanità e del rispetto, tenendo sempre a mente le tre “semplici” parole che ricorrono nelle storie migratorie.

  • Necessità.

  • Selezione.

  • Integrazione.

Tre termini che custodiscono il mondo che è stato e al contempo mostrano quello che sarà. Perché il cambiamento è «la chiave di lettura principale, da assumere e da sostanziare con contenuti seri» se l’intenzione è «capire cosa sta succedendo, tra le comunità islamiche presenti in Europa e nelle società che le ospitano». E questo naturalmente è un discorso valido per tutte le comunità, non solo quelle islamiche.

Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione di Stefano Allievi e Gianpiero Dalla Zuanna si rivela una lettura molto interessante. Si tratta di un saggio breve ben articolato e con un’ottima struttura narrativa in grado di presentare al lettore una panoramica di ampio raggio sul fenomeno delle migrazioni e indurlo in profonde riflessioni sulla società, attuale e passata, su quelli che devono o dovrebbero esserne i principi fondativi (l’inalienabilità dei diritti e l’universalità della loro applicazione), sulle politiche e sull’informazione globalizzate ma neanche poi tanto, sui concetti per niente astratti di inclusione e divisione. Un libro che merita senza dubbio alcuno di essere letto.

Stefano Allievi: è professore di Sociologia e direttore del Master sull’Islam in Europa presso l’Università di Padova.

Si occupa di migrazioni in Europa e analisi del cambiamento culturale e del pluralismo religioso.

Gianpiero Dalla Zuanna: è professore di Demografia presso l’Università di Padova.

Ha studiato il problema dell’equilibrio demografico nazionale e internazionale e l’integrazione delle seconde generazioni nella società italiana.

Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Editori Laterza per la disponibilità e il materiale.

Disclousure: Fonte biografia autori quarta di copertina.

Articolo disponibile anche qui

© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Muoversi tra gli specchi per indagare il mondo e se stessi. “Il logista” di Federica Fantozzi

21 martedì Mar 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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Muoversi tra gli specchi per indagare il mondo e se stessi. “Il logista” di Federica Fantozzi

Da poco pubblicato da Marsilio, Il logista di Federica Fantozzi è un romanzo dal ritmo incalzante, dalla narrazione forte che alterna suspence e descrizione, azioni statiche e scene di immediato impatto emotivo e sensoriale… elementi tutti che concorrono a definire l’ottima struttura di un libro che può servire al lettore a dare grandi input di riflessione sulla società, sulla malvagità, sulla criminalità e il terrorismo, sulle relazioni con il mondo esterno e con se stessi.

Ne abbiamo parlato con l’autrice nell’intervista che gentilmente ci ha consesso.

Il logista sembra contrapporre due mondi, quello arabo e quello occidentale, e due realtà, quella del benessere e quella della disperazione. Perché ha deciso di scrivere questo libro?

In realtà la disperazione è ovunque, tra i ricchi come tra i poveri. Il benessere può mascherarla ma non eliminarla. A me non interessava contrapporre il mondo arabo a quello occidentale bensì indagare i motivi che attirano sempre più persone giovani nella rete del terrorismo. E non sono convinta che la ragione principale sia la povertà: è il vuoto dentro. La solitudine, l’assenza di prospettive, lo sfilacciarsi dei legami familiari e sociali. Un cocktail micidiale che rende la vita priva di significato e, dunque, inutile. Infatti il jihadismo, come il terrorismo degli anni ’70, comincia a fare presa anche sui ceti sociali più elevati.

Agli occhi degli Occidentali, dai tempi delle Crociate contro gli infedeli, il mondo arabo e l’Islam vengono caricati continuamente di simboli misteriosi e negativi. Nel testo lei riprende l’immagine dello scorpione e il lettore viaggia attraverso il tempo e i continenti dalla Gran Bretagna all’antico Egitto, passando per l’Italia e il Medio Oriente. Il suo scopo è rimarcare il filo conduttore che lega insieme popoli e culture oppure quello di delineare le peculiarità che hanno contraddistinto i vari popoli e che ancora lo fanno?

Lo spunto è stato quello a cui lei fa riferimento: l’Islam è stato associato allo scorpione, a sua volta simbolo del maligno e dell’oscurità, all’epoca delle Crociate. Quando i cristiani, immersi nella sfolgorante luce di Dio, combattevano gli infedeli musulmani. Come fa notare Adam a un certo punto del romanzo, nella storia le prospettive cambiano e adesso è la Jihad a dare la caccia a chi non conosce né pratica il Corano. Credo che ogni lettore debba trarre le proprie conclusioni, io ho solo voluto raccontare una storia. Ma certo, nel nome delle diverse religioni attraverso i secoli sono state perpetrate molte nefandezze.

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Ne Il logista lei racconta, attraverso gli occhi della protagonista, una Roma decadente. Quali ragioni l’hanno spinta a rappresentare in questo modo la Capitale d’Italia?

La cosa divertente è che non avevo intenzione di rappresentare Roma in quel modo: sporca, insicura, decadente. È semplicemente uscita così, pagina dopo pagina. Me l’ha fatto notare per prima una persona a cui avevo fatto leggere le bozze e ho deciso di renderlo un elemento forte della narrazione. Il punto è che, da romana, evidentemente percepisco così la mia città. È un dato apolitico, non attribuisco la colpa esclusivamente a questo sindaco piuttosto che al precedente, ma resta la spiacevole sensazione che tale degrado si trascinerà a lungo.

Muoversi tra gli specchi per indagare il mondo e se stessi. “Il logista” di Federica Fantozzi

Il Male nascosto dietro lo scorpione è l’estremismo islamico di matrice jihadista. Ma l’Isis è il Male assoluto oppure viene considerato tale perché irrompe con la forza nel mondo occidentale?

È vero, e profondamente ingiusto, che noi tendiamo a considerare l’Isis come il Male assoluto solo quando tocca le nostre società. Mentre le stragi di donne e bambini in Iraq, Afghanistan, Sri Lanka o Somalia passano spesso inosservate. È altrettanto vero che il dolore, le emozioni potenti, la solidarietà, difficilmente attraversano il video del piccolo schermo. Personalmente, ho deciso di scrivere il romanzo dopo essere stata inviata dal mio giornale, «l’Unità», a Parigi nei giorni successivi al massacro del Bataclan. Una settimana durissima e commovente. Senza quell’esperienza vissuta dal vivo forse non avrei avuto la spinta necessaria per raccontare Il logista.

C’è stato un tempo e neanche troppo lontano in cui gli jihadisti erano considerati, da americani e occidentali, “i nostri eroi” perché combattevano per sconfiggere “l’Impero del Male” rappresentato dai sovietici che avevano invaso l’Afghanistan. Poi sono diventati i “barbari” che hanno portato il terrorismo nel cuore dell’Occidente. Quanta responsabilità occidentale c’è, secondo lei, nell’esplosione dello “scorpione jihadista”?

L’Occidente ha responsabilità fortissime, basti pensare anche a Bin Laden e Saddam Hussein. Non c’è dubbio che l’espansionismo politico, lo sfruttamento da parte di pochi delle risorse globali, le crescenti diseguaglianze che la Rete rende immediatamente percepibili siano alla base di moltissimi conflitti del nostro tempo. Si tratta però di temi che servirebbe un’enciclopedia e non un romanzo per sviscerare. E io, invece, ho voluto creare alcuni personaggi lasciando al lettore il compito – e, spero, il piacere – di indagare se hanno o meno un cuore di tenebra.

Muoversi tra gli specchi per indagare il mondo e se stessi. “Il logista” di Federica Fantozzi

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Ne Il logista la protagonista Amalia Pinter da cacciatrice si scopre preda in un vorticoso andirivieni di azioni e suspense che caratterizzano e definiscono il ritmo incalzante del libro. La sua idea sembra essere stata quella di creare un gioco degli specchi. Si può ipotizzare una situazione simile anche per l’attuale scenario geopolitico euro-occidentale e medio-orientale?

Ma certo. Siamo tutti cacciatori e prede allo stesso tempo. Ci illudiamo di controllare il gioco, ma il rischio di venire usati, incastrati o manipolati è dietro l’angolo. Questo vale in ambito geopolitico (pensiamo ai sospetti che la Russia abbia condizionato le elezioni americane o al potere dell’Fbi rispetto alla Casa bianca), economico (lo scandalo Dieselgate o i Panama Papers) e personale. Quest’ultimo è l’aspetto che mi fa più paura: i falsi profili che creano identità parallele, le foto rubate e divulgate in oscuri gruppi Facebook, l’esistenza stessa di Darknet.


http://www.sulromanzo.it/blog/muoversi-tra-gli-specchi-per-indagare-il-mondo-e-se-stessi-il-logista-di-federica-fantozzi

© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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