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Irma Loredana Galgano

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Costruire personaggi e storie intorno al proprio mondo. “Malùra” di Carlo Loforti (Baldini Castoldi, 2017)

09 mercoledì Mag 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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CarloLoforti, Malùra, recensione, romanzo, Sicilia, WMI

Torna in libreria Carlo Loforti, già autore di Appalermo, Appalermo!, con Malùra, il nuovo romanzo pubblicato sempre dalla casa editrice Baldini&Castoldi. E anche stavolta lo fa con una storia che solo in apparenza racconta dell’universo individuale del protagonista quando, in realtà, usando con abilità linguaggio e ironia, mostra ai suoi lettori l’immenso macrocosmo di una Palermo e di una Sicilia tutta che sono, in fondo, lo specchio e il riflesso di un’Italia intera.

Con uno stile narrativo che sarebbe ingiusto e riduttivo definire leggero, Loforti racconta le vicende, a tratti rocambolesche, dei suoi protagonisti, rimarcandone i tratti divertenti e, solo in apparenza, limitandosi ad accennare quelli seri e importanti. Riesce invece in questo modo a meglio imprimerli nella mente di chi legge, forse proprio perché non cede mai alla retorica e all’ipocrisia. Una “denuncia narrativa” che solo a uno sguardo disattento può sembrare superficiale e criptica.


«Tutte quelle cose (che avevi prima di entrare in prigione, ndr), quando esci ci sono ancora, mica no. Solo che per quanto tu possa sforzarti di vederle come le vedevi prima, ora sono in bianco e nero, una pellicola sbiadita dentro cui vorresti entrare per ritornarci a vivere ma che appartiene ormai a un’altra dimensione.»


I romanzi di Carlo Loforti sono ambientati in Sicilia, a Palermo, città che l’autore conosce in tutte le sue pieghe e risvolti, come il protagonista di Malùra e Appalermo, Appalermo!, Domenico Calò, detto Mimmo. Un ragazzo, un giovane uomo cresciuto in periferia e che ha assorbito ogni odore, ogni sapore, ogni colore di questa città e lo trasmette al lettore, in maniera graduale ma inequivocabile, attraverso i piccoli gesti quotidiani che riflettono tutto il retaggio culturale che li ha generati.

Il registro narrativo di Loforti in Malùra richiama molto quello già usato in Appalermo, Appalermo! e sembra essere plasmato intorno alla vera essenza del protagonista. Potrebbe anche essere vero il contrario, in qual caso l’autore ha modellato un personaggio che calza a pennello il suo stile di scrittura.
Frasi brevi e di composizione lineare. Discorsi che rimandano al dialogare quotidiano. Riflessioni che sembrano quasi interrotte e controvoglia. Emblema perfetto della personalità di Mimmo, il quale non ha alcuna intenzione di stressarsi per agire e portare qualsiasi cosa alla sua legittima conclusione, come non ha intenzione di sfiancarsi con pensieri e riflessioni che lo stancano e lo sfiniscono nello stesso momento in cui fanno capolino nella sua mente.

I temi o “leit motiv” narrativi incontrati in Malùra sono diversi, ma il romanzo di Loforti sembra concentrarsi maggiormente sul concetto di libertà ritrovata. Tema col quale il libro si apre al lettore, allorquando chi legge sembra “accompagnare” il protagonista nel suo primo giorno di libertà dopo «tredici mesi all’Ucciardone». Ma sarà nel viaggio intrapreso da Mimmo con suo padre Pietro e l’amico Pier Francesco che il simbolismo e la simbologia letteraria abbracceranno in toto gli aneliti di libertà e perché no anche di rinascita.
Un viaggio che proprio in quanto tale è un andare e un tornare, nello spazio geografico dei chilometri percorsi ma, soprattutto, nella mente di Mimmo che, proprio mentre sembra proiettarsi verso il futuro, viene travolta e stravolta dal passato, con tutto il peso e il sovraccarico che si trascina dietro. Un intricato labirinto che, alla fine, rappresenta un enorme, complesso ed esilarante preludio alla «separazione», in quanto poi «si riduce tutto a quello». E la vita stessa in fondo è solo tempo e spazio che intercorre tra una separazione e un’altra.

Anche se Loforti utilizza sempre un registro narrativo divertente e ironico, che ricalca il carattere di Mimmo Calò, traspare dal racconto e dalle vicende vissute dai protagonisti una mesta malinconia di sottofondo che sembra accompagnare tutti, nessuno escluso. Un malessere esistenziale che è appunto una malùra.

Malùra di Carlo Loforti è un romanzo che prosegue nel racconto delle semiserie avventure di vita di Mimmo Calò, già incontrato in Appalermo, Appalermo!, ma la struttura di entrambi i libri è auto-conclusiva. Non è necessario aver letto il primo romanzo per comprendere appieno il secondo.

Con il nuovo romanzo Loforti conferma le sue abilità di scrittore, di narratore della contemporaneità che sa raccontare mali e malesseri individuali e sociali dosando alla perfezione serietà, ironia e auto-ironia. Un libro, Malùra, che rappresenta una valida opera letteraria nel suo complesso e una lettura assolutamente consigliata.


Articolo pubblicato sul numero 51 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte


Source: Si ringrazia Michela Rossetti della GDG Press per la disponibilità e il materiale


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© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Terza: I colossi dell’Editoria

09 mercoledì Mag 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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editoria, WMI

I grandi colossi dell’editoria e il mercato editoriale globale. I maggiori gruppi editoriali italiani e gli editori indipendenti. Editori autori e lettori alle prese con la digitalizzazione, la discultura e l’oscurantismo.

A ottobre 2015 il gruppo Mondadori – che già includeva Einaudi, Piemme, Sperling&Kupfer, Frassinelli, Electa – acquisisce per 127milioni e mezzo Rizzoli, Rizzoli International, Bompiani, Marsilio, Fabbri, Bur, Sonzogno, Etas e la divisione education di Rcs e viene stimato che la nuova formazione conquisterà il 35% del mercato dei libri comprati in libreria e sul web e poco meno del 25% del settore scolastico.
L’acquisizione ha scatenato parecchi rumors tra gli editori, tra gli scrittori e anche tra i lettori. Ripetutamente è stato invocato l’Antitrust e rappresentato in maniera negativa lo scenario successivo per il libero mercato editoriale italiano.
Al momento dell’acquisizione Rcs aveva un debito di 526milioni. Il presidente della Mondadori, Marina Berlusconi, ha commentato l’operazione di acquisto indicandola come un «investimento sul futuro del nostro Paese e sulla qualità di questo futuro».

Guardata dal punto di vista culturale ed editoriale l’acquisizione conclusasi con la formazione del gruppo indicato come Mondazzoli preoccupava in quanto antitetica al pluralismo inteso come sinonimo di indipendenza, differenza e diversificazione. Aspetti editoriali che da anni comunque vengono rivendicati dall’editoria indipendente. Secondo le stime il nuovo gruppo editoriale avrebbe un fatturato oltre 500milioni in un mercato, quello editoriale italiano del 2014, di 1,2miliardi. Ma le critiche non sono mancate anche da parte degli stessi autori ai quali ha risposto Paolo Mieli, presidente di Rcs Libri: «La competizione europea e mondiale si gioca tra colossi dell’editoria, cui si affiancano magari case editrici più piccole».

Viene a questo punto naturale chiedersi se gli autori che hanno manifestato pubblicamente il loro dissenso all’accorpamento dei due grandi gruppi editoriali siano i medesimi che auspicano un numero sempre crescente di copie vendute e libri pubblicati. Perché il nocciolo della questione forse è proprio questo. Se si vuol conquistare un mercato sempre più ampio, globale, non si riuscirà di certo a farlo con una piccola o media casa editrice che potrà magari vantare la bibliodiversità ma di sicuro non la diffusione planetaria, la traduzione in molteplici lingue e la relativa promozione. Insomma non potrà mai ambire e far ambire ai propri autori le tanto agognate milioni di copie vendute. Se poi, invece, si abbandona o accantona l’aspetto economico e monetario e si rivolge la propria attenzione al problema della diversità culturale applicata ai libri allora il discorso cambia, ma la responsabilità non potrà comunque essere imputata totalmente ai colossi che in quel caso andrebbero a pescare in un mercato differente.

Ai cultori liberi e sopraffini non interessa la pubblicità, non interessano le classifiche settimanali mensili o annuali di vendita, le sponsorizzazioni e quant’altro… i titoli che interessano loro se li vanno a cercare, in librerie e biblioteche fisiche o store online.

Per Nicola Lagioia, vincitore dello Strega 2015, la Fondazione Bellonci dovrà «aguzzare l’ingegno e inventarsi delle contromosse per arginare il monopolio». È quantomeno singolare che si sia espresso in questo modo. Scorrendo la lista dei vincitori di quello che viene indicato come uno dei più prestigiosi premi letterari italiani salta all’occhio il fatto che le case editrici siano più meno sempre le medesime. Negli ultimi venti anni la Mondadori appare 7 volte, Einaudi 5, Rizzoli 4, Bompiani 2, Feltrinelli 2. Se si va ancora indietro di 10 anni l’unico editore che salta all’occhio è Leonardo altrimenti gli altri sono sempre gli stessi. E anche andando oltre a ritroso non è che la situazione cambi così radicalmente. Viene da chiedersi quali nefaste conseguenze teme Lagioia per l’ipotetico monopolio indotto dalla presenza della Mondazzoli. In fondo, a pensarci bene, una sorta di monopolio o quantomeno oligopolio esiste già e da decenni ormai.

Le case editrici i cui titoli arrivano finalisti e diventano vincitori dello Strega sono sempre le stesse perché sono le uniche a pubblicare libri meritevoli o c’è dell’altro? Eventualmente è su questo che andrebbe aguzzato l’ingegno.
L’obiettivo concorrenziale di un colosso editoriale come la Mondazzoli è, presumibilmente, un gruppo editoriale di pari o superiori dimensioni perché gli editori a esso afferenti avevano comunque già vinto in rapporto alla piccola e media editoria.

Lo scorso dicembre, in una lunga intervista a La Stampa Marina Berlusconi, parlando di concorrenza commerciale, rivolgeva il suo interesse e manifestava le proprie perplessità verso i 5 grandi colossi del web (Apple, Microsoft, Google, Amazon, Facebook) che hanno potuto agire, a suo dire, «in un contesto del tutto privo di regole». Un universo sregolato per tassazione ma anche per l’utilizzo di contenuti e copyright. Un universo che deve di certo essere regolamentato, per la trasparenza e la concorrenza ma, soprattutto, per la tutela degli utenti. Come deve essere tutelata da bibliodiversità da parte di coloro che operano, a vario titolo, nel settore della cultura, anche a livello di giuria e organizzazioni di eventi, fiere, saloni e premi letterari. Poi, naturalmente, c’è il pubblico che dovrebbe imparare a compiere ogni volta scelte indipendenti e libere.

Una cinquantina tra intellettuali e scrittori italiani manifestano pubblicamente le loro perplessità circa l’acquisizione e sottoscrivono un accorato appello volto a far desistere le parti in virtù del fatto che questa operazione genererebbe un colosso che avrebbe «enorme potere contrattuale nei confronti degli autori, dominerebbe le librerie, ucciderebbe a poco a poco le piccole case editrici e renderebbe ridicolmente prevedibili quelle competizioni che si chiamano premi letterari». Doveroso a questo punto andare a spulciare ancora tra i dati di quelle “competizioni che si chiamano premi letterari”.

Negli ultimi 20 anni gli editori i cui titoli sono arrivati tra i 5 finalisti di un altro tra i più quotati premi letterari italiani, il Campiello, sono nella misura di: Einaudi 18 volte, Mondadori 17, Bompiani 11, Rizzoli 9, Feltrinelli 8, Guanda 7, Sellerio 5, Baldini Castoldi 3, Giunti Piemme Aragno Nottetempo Marsilio 2, Il Saggiatore Neri Pozza E/O Adelphi Bollati Boringheri Garzanti Cairo Nutrimenti Ponte alle Grazie La nave di Teseo 1. Ancora più interessante è osservare tra i vincitori 4 volte Einaudi e Mondadori, 3 volte Sellerio, 2 Feltrinelli Bompiani e Guanda, 1 Adelphi Piemme Rizzoli.

Annualmente l’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) effettua una rilevazione, indicata come Indagine sulla produzione libraria, presso tutte le case editrici e gli altri enti che svolgono attività editoriale con l’obiettivo di «descrivere le principali caratteristiche della produzione di libri nel nostro Paese». L’indagine si rivolge a circa 2000 unità, registrate in un archivio informatizzato degli editori che viene aggiornato annualmente dall’Istat. Stando ai dati forniti dall’Aie – Associazione Italiana Editori – tra il 2016 e il primo semestre del 2017 le case editrici attive, ovvero quelle che hanno pubblicato almeno un nuovo titolo, sono 4.877. Numeri imponenti che evidentemente attraversano poi grate e imbuti che sembrano farli quasi del tutto scomparire. Da tempo, non dall’acquisizione di Rcs da parte di Mondadori.

Forse ha ragione Antonio Giangrande quando parla di Discultura e oscurantismo. Se in Italia i libri vendono poco non è colpa del digitale, dell’industrializzazione e neanche delle grandi concentrazioni editoriali, «c’entrano invece, e molto, gli usi consolidati della filiera tradizionale del libro, che gli operatori dominanti (grandi editori e distributori, che in Italia poi sono la stessa cosa) non solo faticano a superare, ma tentano disperatamente (e dissennatamente) di difendere, con una distribuzione fatta di una miriade di librerie sparse ovunque, e ora in crisi profonda, abituate come sono a un mercato drogato dal “tanto se non lo vendo lo rendo”. Ecco come funziona». E descrive nel dettaglio tutto l’iter seguito da un piccolo-medio editore serio che va dalla pubblicazione in tipografia di un libro scelto alla riconsegna dell’invenduto (che in Italia ha una percentuale media del 60%) alla pubblicazione di un nuovo libro i cui introiti fittizi serviranno a tappare i buchi lasciati dagli introiti mancati del precedente, e così via…

Se a un accorpamento delle case editrici corrisponde anche un ulteriore accentramento della distribuzione ecco allora che l’imbuto e le maglie della griglia si fanno ancora più stretti per la bibliodiversità. Ma è necessario comunque sempre tenere bene in mente il fatto che l’unico canale di distribuzione e vendita che ha registrato negli ultimi anni un trend positivo è quello digitale. Il medesimo dove i grandi colossi, inclusa la Mondazzoli, vanno a scontrarsi con giganti ben più imponenti di loro.

A tenere alto il livello di concorrenza del mercato librario italiano ci sarebbero il Gruppo Mauri Spagnol, il Gruppo De Agostini, la Feltrinelli, Giunti e anche altri che, volendo, potrebbero simbolicamente dare del filo da torcere al nuovo Gruppo Mondadori-Rcs. Ma tutti parlano di testa calata per gli autori e per gli altri editori, quelli che restano fuori dal nuovo colosso. Eppure influenzare un autore che desidera scrivere il suo libro è di sicuro meno diretto e immediato di quanto potrebbe accadere o accade nella stessa editoria ma parlando di informazione giornaliera, ovvero di quotidiani. Spulciando tra i membri dei Consigli di amministrazione e gli editori i nomi dei principali, intesi come i più grandi per numero di copie, diffusione e sponsorizzazione, vengono fuori dal cilindro sempre gli stessi conigli ma nessuno o quasi di coloro che si mostrano tanto preoccupati per la libertà culturale in Italia sembra volerne parlare.

Viene da sé che la cultura deve essere uno spazio di libertà, che mai deve venir meno la libera circolazione delle idee e la diversificazione culturale ma ciò è importante non solo per i libri, lo è anche per l’informazione, per l’educazione, per le istituzioni, per il sociale e per il territorio… e, soprattutto, va sottolineato che tutto ciò non potrà mai avvenire per la mera presenza di un regime di concorrenza perfetta, ovvero un mercato dualista dove si contrappongono le due grandi visioni del mondo. Il pluralismo e la diversificazione culturale deve essere intrinseca innanzitutto in chi la cultura la vuole creare, sotto forma di libri racconti articoli di giornale o fumetti che siano, e poi in chi la diffonde.

Nella classifica mondiale 2017 di Publishers Weekly e Livres Hebdo il primo grande gruppo editoriale italiano è Mondadori che passa dalla 39° posizione del 2015 alla 28° grazie anche all’acquisizione di Rizzoli Libri (un fatturato di 501milioni di dollari contro i 350milioni del 2015). Seguito a ruota alla 29° posizione da De Agostini Editore (469milioni di dollari nel 2016) e dal Gruppo Editoriale Mauri Spagnol stabile in 33° posizione (431milioni comprensivi anche del fatturato di Messaggerie Italiane).
Altro dato interessante della classifica è la conferma che anche nel 2016 il fatturato globale è ancora in gran parte realizzato da case editrici europee (59,80%). In aumento anche la quota del Nord America (31.12%). Tenendo comunque in considerazione l’esclusione dalla classifica dei gruppi editoriali cinesi non si può non chiedersi come è possibile che una industria, quella editoriale europea, che produce quasi il 60% del fatturato globale del settore sia continuamente denigrata, attaccata, svilita, incompresa, sottovalutata, boicottata da utenti e consumatori, operatori e investitori, governi e istituzioni.

Il Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia 2017 dell’Aie parla di ripresa dopo gli anni della crisi con una crescita del fatturato complessivo del 2016 di un +1,2%. L’editoria libraria italiana diventa sicuramente più internazionale, «con una maggiore capacità di proporre e vendere diritti degli autori italiani sui mercati stranieri (non solo per bambini e ragazzi, ma anche titoli di narrativa) e di realizzare coedizioni internazionali». Dal periodo pre-crisi (2010) i canali di vendita «sono profondamente cambiati: cresce l’online, cala la grande distribuzione, tiene la libreria». Resta e «si aggrava» quello che è «il vero problema strutturale della nostra editoria: il calo progressivo dei lettori di libri».

L’Italia registra la più bassa percentuale di lettori in confronto con le altre editorie:
Italia 40,5%
Spagna 62,2%
Germania 68,7%
Stati Uniti 73%
Canada 83%
Francia 84%
Norvegia 90%

Con questa percentuale media di lettori in Italia e il mercato dirottato verso il digitale e il globale ecco che trovano conferme le strategie poste in essere dai grandi colossi dell’editoria, come Mondadori-Rizzoli Libri. Un fiume di marketing che spaventa gli editori alternativi e indipendenti ma la cui sopravvivenza non dipende tanto da esse quanto proprio dai lettori, troppo scarsi e fors’anche troppo distratti da pubblicità e prodotti di tendenza.

 


Articolo pubblicato sul numero 51 della Rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte


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La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Seconda: Gli editori indipendenti

07 mercoledì Giu 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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articolo, bibliodiversita, desertificazionelibraria, dossier, editoria, editoriindipendenti, PME, scrittori, scrittura, WMI

Il ruolo degli editori indipendenti nel panorama editoriale italiano e internazionale. Bibliodiversità e desertificazione libraria. Editori indipendenti e autori emergenti.

Gli editori indipendenti in Italia sono quelli che si dichiarano paladini della bibliodiversità, capaci di mantenere alta l’asta della libertà d’espressione grazie al fatto di essere liberi autonomi e sovrani nelle scelte editoriali.

Non rispondendo agli interessi di alcuno riescono a garantire ai lettori piena indipendenza. È veramente questo che accade? Gli editori non-indipendenti sono per contro tutti “dipendenti” da qualcuno? Le loro pubblicazioni sono quindi in un certo qual modo “falsate”?

I grandi editori producono molti titoli ma soprattutto stampano innumerevoli copie puntando al guadagno come ritorno per il numero di copie vendute. Un libro che ha venduto molto e che viene magari anche ristampato è identificato come best seller. Un “best seller” nell’immaginario collettivo diventa un “gran libro”, per l’editore è un “successo editoriale” ma nella realtà rimane semplicemente un titolo che ha venduto molto.

Gli editori indipendenti affermano di preoccuparsi più della bibliodiversità, ovvero di curare la diversità culturale applicata ai libri.

In un articolo pubblicato sull’Huffington Post lo scorso aprile e firmato da Leonardo Romei, venivano riportate tutte le risposte date dagli editori indipendenti presenti al Book Pride 2016 (la Fiera Nazionale dell’Editoria Indipendente) in merito al quesito: cos’è una casa editrice?

Le risposte sono molto varie e parlano di progetti culturali, di laboratori, di strumenti per interpretare lo spirito del tempo… nella gran parte dei casi si percepisce il tentativo di battere sull’aspetto culturale, a volte si palesa la concretezza dell’aspetto economico e la risposta data dalle Edizioni E/O sembra sintetizzare al meglio la complessa situazione. Una casa editrice è «una fabbrica di mondi che però deve fari tornare i conti».

Ecco allora che, almeno in qualcosa, gli editori indipendenti cominciano a somigliare di più ai grandi colossi dell’editoria. Nessuno di loro lavora a un progetto culturale per filantropia bensì tutti lo fanno con un fine economico. Permane l’obiezione che vede gli indipendenti paladini della bibliodiversità. Tuttavia spulciando i cataloghi dei grandi editori si trovano anche lì dei titoli bibliodiversi, certo meno sponsorizzati rispetto ai best seller ma pur sempre presenti. E allora dove sta la differenza, oltre ovviamente nelle dimensioni?

La differenza la dovrebbe fare l’utente che in questo caso coincide con il lettore.

I grandi editori possono giocare con i grandi numeri, con le poderose campagne pubblicitarie e con le “vantaggiose” campagne promozionali volte a invogliare i lettori all’acquisto. Cifre che sempre più spesso divengono per nulla competitive per gli editori indipendenti i quali, per tramite dell’Osservatorio degli Editori Indipendenti (ODEI), hanno presentato una proposta di legge «a favore della promozione della lettura, per il sostegno delle librerie di qualità, delle biblioteche e delle piccole e medie imprese editoriali» nella quale spiccano le richieste di fissare il tasso massimo di sconto al 5% e di una maggiore regolamentazione delle campagne.

Non si può sapere con certezza assoluta se fissando un tetto massimo di sconto si spingerà il lettore a guardarsi attorno con maggiore attenzione e magari se questi decida di acquistare, a parità di prezzo, libri meno sponsorizzati e pubblicizzati, ma di sicuro regolamentando i ribassi del prezzo di vendita si contribuirà a limitare la “svendita” di un libro.

Nel corso della Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria Più libri Più liberi, tenutasi lo scorso dicembre a Roma, sono stati presentati i dati dell’indagine Nielsen sul mercato generale del libro di carta. Nei primi dieci mesi del 2016 si è registrato un aumento dello 0,2% del mercato del libro di carta corrispondente a circa 2,1 milioni di euro in più rispetto allo stesso periodo del 2015. Ma il problema di fondo ruota proprio intorno ai quesiti: siamo sicuri che dati col segno più siano segnali positivi dell’editoria? Il mercato del libro è davvero come qualsiasi altro settore della commercializzazione dove chi più vende più guadagna e se così è non ci troviamo dinanzi a una situazione simile al casinò dove è il banco a vincere sempre?

In tutta questa vorticosa giostra fatta di numeri dati vendite e guadagni in che posizione si collocano rispettivamente autori e lettori?

Gianluca Ferrara, saggista e direttore editoriale di Dissensi Edizioni, in un articolo apparso su Il Fatto Quotidiano parla delle difficoltà incontrate come conseguenza della scelta di voler restare dalla parte dei lettori. «Il mercato editoriale è un settore delicato, la “fabbrica del consenso” nasce proprio con i libri, infatti sono i pochi gruppi editoriali che controllano la quasi totalità del settore. Posseggono le tipografie dove si stampano i libri, la distribuzione con cui li veicolano, le librerie dove se li vendono e i giornali dove si pubblicano le recensioni.» Gli spazi che rimangono liberi secondo il sistema appena descritto sono pochi ma al giorno d’oggi, tramite l’utilizzo delle nuove tecnologie e nuovi strumenti, le possibilità offerte agli indipendenti sono in aumento e loro dovrebbero approfittarne presentando sempre pubblicazioni lodevoli.

Secondo quanto riportato da Jon Sealy in un articolo per Literary Hub, negli Stati Uniti una serie sempre crescente di piccoli editori indipendenti cerca di aggirare gli ostacoli relativi alla distribuzione e alla vendita dei canali tradizionali aprendo dei propri punti vendita, librerie che siano al tempo stesso centri di commercio al dettaglio e aggregazione culturale. In Italia questo ruolo sembra sia stato assegnato alle fiere di settore.

In buona sostanza quindi l’obiettivo dell’editoria indipendente sembrerebbe ben sintetizzato nelle parole di Carlos Fuentes: «Bisogna creare lettori, non dar loro quello che vogliono». Gli indipendenti sognano di creare dei lettori mentre i colossi sognerebbero di creare dei buoni clienti.

I sogni però devono prima o poi scontrarsi con la realtà e, impossibile negarlo, l’Italia è il Paese dei pochi lettori ma soprattutto dei pochi lettori forti. Ciò significa che le persone che leggono regolarmente, che sono appassionate dalla lettura, che vanno a cercarsi dei titoli che esulano dalle classifiche dei best seller, dalla narrativa di genere, dai libri-tormentone… sono in numero ancora più esiguo e che, per contro, coloro che comprano la narrativa o altro genere a prezzo ribassato nei grandi store commerciali o online forse comprerebbero di meno o non comprerebbero affatto se venisse meno la convenienza economica. Lettori che acquistano libri né più né meno di come fanno la spesa al supermercato, dove le offerte speciali e i tre per due vanno per la maggiore.

È già da un po’ che in Italia si parla di ‘desertificazione libraria‘ in riferimento alle librerie storiche o più o meno recenti che chiudono i battenti per vari motivi ma principalmente ciò va considerato una diretta conseguenza della ‘desertificazione progressiva dei lettori’, frutto a sua volta della ‘desertificazione culturale’ che ormai sta diventando strutturale. Persone, famiglie, coppie, giovani e meno giovani, occupati e inoccupati disposti e addirittura bramosi di accollarsi anche un cospicuo numero di rate pur di ‘possedere’ un’auto, un televisore o uno smartphone di ultima generazione ma che storcono il naso dinanzi una pila di libri che sonnecchia in una pressoché invisibile vetrina. E allora sì che in quest’ottica l’impresa portata avanti dagli editori indipendenti diventa ancora più titanica.

In un’intervista rilasciata per Il Giornale, Matteo Chiavarone, direttore editoriale delle Edizioni Ensemble, afferma che essere “indipendente” è bello ma solo se fai dei bei libri, in numero limitato, mantieni una costante attenzione verso esordienti e autori di Paesi poco esplorati, partecipi assiduamente a eventi culturali e fiere di settore.

Per Gino Iacobelli, già editore e presidente di ODEI, la casa editrice indipendente è «un’azienda che parla con lo scrittore ma anche con il tipografo. Lavora a stretto contatto con tutta la filiera. Gli indipendenti scelgono sempre in virtù di una passione, pur non vergognandosi di gioire dei successi economici ed editoriali».

Se da un lato l’Italia è il Paese dei pochi lettori dall’altro è il regno degli scrittori in erba. Tutti gli editori, grandi e piccoli, indipendenti e non, dichiarano di ricevere decine o centinaia di manoscritti, quotidianamente. Iacobelli sostiene che questo va sempre e comunque visto come un qualcosa di positivo e che ogni editore è libero di scegliere se puntare sulla scrittura oppure sulle idee, magari in questo caso ritornando a lavorare sulla scrittura insieme con l’autore.

E ci sono stati molti casi di “grandi successi” letterari portati avanti da editori indipendenti. Nuovi autori scoperti o scrittori riscoperti, stranieri valorizzati oppure ancora “idee” in cui si credeva fermamente. Il “successo” riscosso dagli editori indipendenti sembra essere quasi sempre legato alle rigide scelte editoriali e all’accurata selezione preventiva dei titoli da inserire nel proprio catalogo per cui è lecito pensare che un autore emergente e non che intende rivolgersi a un indipendente per sottoporre un proprio manoscritto debba preventivamente visionare tutta la linea del catalogo e riflettere, con una quanto maggiore gli riesce obiettiva autocritica, valutare la propria scrittura oppure, quantomeno, la qualità delle proprie idee.

Articolo originale apparso sul numero 49 di Writers Magazine Italia – La Rivista di riferimento per chi scrive diretta da Franco Forte.

Leggi anche – La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Prima: Piccola e Media Editoria

© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La scrittura come conoscenza e rinascita. Intervista a MariaGiovanna Luini

09 martedì Ago 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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intervista, WMI

Intervista a MariaGiovanna Luini, medico-scrittore che interpreta la scrittura come conoscenza e rinascita. Una miscellanea di formazione scientifica e medicina “alternativa” che si riscopre nei suoi romanzi, l’ultimo dei quali, Il male dentro, ambientato in un Istituto di ricerca e cura. La Luini nelle terapie energetiche ha trovato la strada per la sua evoluzione interiore che si propaga anche alla sua scrittura.

MariaGiovanna Luini è lo pseudonimo utilizzato da Giovanna Maria Gatti per firmare le sue opere di narrativa.

Ha conseguito la laurea in medicina e la specializzazione in chirurgia generale e radioterapia. Svolge la professione di divulgatore e comunicatore scientifico presso l’Istituto Europeo di Oncologia di Milano. Risalgono ai tempi in cui era ancora una studentessa i primi contatti con il direttore scientifico Umberto Veronesi, nel cui team ha svolto il lavoro di ricercatrice e assistente. La collaborazione scientifica con il professor Veronesi ha portato anche alla pubblicazione di diversi saggi scientifici.

Ha prestato le sue competenze in campo medico-scientifico e letterario alla casa cinematografica Taodue per la fiction a carattere medico Crimini bianchi e al regista Ferzan Ozpetek per il film Allacciate le cinture di sicurezza.

MariaGiovanna Luini scrive anche sui suoi blog, sui portali online de Il fatto quotidiano e Satisfiction e recensisce libri per Mangialibri.

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Sei riuscita a conciliare aspetti e professioni apparentemente così diverse fra loro per concentrare il tuo lavoro sulla comunicazione efficace. Come ci sei riuscita?

Gli esempi di medici scrittori sono tanti e tali che dovremmo avere ormai imparato la lezione. Si può essere medico e si può anche scrivere, si può creare e si può comunicare. Anzi il medico ha una posizione privilegiata nell’osservazione della vita, nella conoscenza diretta (e non solo per esercizio di fantasia) dell’umanità, nelle sue sfaccettature più sottili e nascoste. Lo scrittore e il medico hanno parecchi elementi comuni, uno evidente è la posizione: guardano, ascoltano, producono e riproducono. Traggono conclusioni e prefigurano scenari. Chi, da medico, legge Cecov o Bulgakov intuisce subito il tratto sottile, la capacità di “vedere” che nasce non solo dal talento artistico e creativo ma da una quotidianità alle prese con la salute, la malattia, la morte, il dramma, le confidenze più intime, lo stupore di fronte all’inimmaginabile. Andiamo ad Andrea Vitali: le sue storie hanno dentro l’osservazione speciale, la consapevolezza che solo essere medico regala. Perfino l’ironia è più sottile. L’ironia dei pazienti, dei medici, degli infermieri è molto speciale perché nasce da una consapevolezza amara e cruda di quali siano le priorità reali.

Il male dentro è il tuo romanzo più recente. Uscito lo scorso marzo, edito da Cairo Editore, è ormai giunto alla quarta edizione. Un libro molto intenso. Senza lasciarti tentare dal dramma, o peggio dal melodramma, hai narrato della vita reale, vera, e della malattia, anch’essa reale, che ancora spaventa tanto perché troppo spesso colpisce duro. C’è molto di te, del tuo lavoro come medico ma anche di quello come divulgatore scientifico, delle esperienze vissute in prima persona e di quelle osservate da vicino o da lontano… quanto ritieni importante la narrazione di sé nella costruzione di una storia?

La narrazione di sé non è importante, almeno quando si parla di scrittura volta alla pubblicazione per un pubblico di lettori. Il punto è un altro. Si scrive meglio ciò che si sente, ciò che si conosce intimamente o comunque si comprende. Vero è che lo scrittore riesce a diventare altro, a uscire da se stesso per creare e ricreare identità differenti, ma nessuno mi convincerà mai che – salvo eccezioni rare – tale creazione possa essere del tutto realistica senza un pizzico di esperienza concreta. Il male dentro non è il romanzo dell’Istituto Europeo di Oncologia e neanche di MariaGiovanna Luini in quanto personaggio del romanzo, è una storia composta da tante storie possibili ma non riprese da una realtà quotidiana. Io non sono questo o quel personaggio, mi sono presa in giro qua e là ma non ho scritto un libro di memorie o una cronaca della mia professione medica. Il luogo non è IEO. Il male dentro contiene il mio amore per l’umanità che incontro all’Istituto Europeo di Oncologia, l’amore per la gente e per le relazioni che, sorprendenti e profonde, nascono in un istituto oncologico di eccellenza. Amo il lavoro di scrittore e amo il lavoro di medico, sono entrambi insostituibili.

Sei studiosa e ricercatrice di Reiki, TheReconnection, Energie, Luce. Anche ne Il male dentro si fa riferimento a questo genere di studi e ricerche nonché ai loro risultati che possono o potrebbero essere impiegati come supporto complementare alle terapie standard indicate nelle linee guida della prevenzione e cura dei tumori. Quanto ti hanno aiutato questi studi nella vita e nell’elaborazione delle tue opere di narrativa?

La creatività si nutre di tutto. Sono nata con il bisogno di scrivere, ho imparato a scrivere da sola nel momento stesso in cui ho scoperto di essere in grado di leggere (più o meno a tre anni). Ogni dettaglio della vita, anche quello che sembra più banale, non è a caso. Niente è a caso e tutto nutre la nostra evoluzione. Siamo persone in cammino, non siamo le stesse di un minuto o un giorno o un anno fa: andiamo avanti e ciò che facciamo è influenzato da ogni minimo evento. Le persone che capitano sul nostro cammino hanno un ruolo e tanto significato, lo stesso vale per i pensieri, gli accadimenti, le gioie e il dolore. Le terapie energetiche sono un passo fondamentale della mia evoluzione, si intuisce in ciò che scrivo e si vede nella mia vita di ogni giorno.

La tua carriera letteraria nasce quasi per caso nel 2005 eppure sei riuscita a conciliare i differenti aspetti della tua vita e garantire sempre un ottimo lavoro. Hai all’attivo sei titoli di narrativa (Una storia di delfini, Le parole del buio, Diario di melassa, Cosa fanno le tue mani, Ritorno ai delfini, Il male dentro) pubblicati in versione cartacea, quattro in formato digitale (È il mio racconto, Nemesi di un destino qualsiasi, Rita Levi Montalcini la vita e le scoperte della più grande scienziata italiana, Caheir di passione). Numerosi poi sono i testi di saggistica scritti con il professor Veronesi e i tuoi lavori di curatrice per testi scientifici dello stesso. Hai anche offerto la tua consulenza a case di produzione televisiva e registi quali Ferzan Ozpetek per la realizzazione di fiction e film a carattere medico. Qual è il consiglio che ti senti di dare a chi vorrebbe intraprendere il mestiere di scrivere?

Disciplina. Le energie per lavorare esistono, lo snobismo o il disfattismo non aiutano. Ho avuto e continuo ad avere una gavetta molto impegnativa, va bene così. Mettersi in discussione, leggere tantissimo (sembra incredibile ma c’è gente che scrive e non legge), usare le giuste parole con se stessi. Mai dire “non ce la faccio, non posso”. Si può fare, si fa. E usare la generosità: non siamo soli al mondo, abbiamo bisogno degli altri e in particolare chi scrive deve avere il massimo rispetto per i lettori, per il cosiddetto “pubblico”. Deve rispettare i colleghi, onorarli e stimarli e aiutarli con la lettura e la diffusione delle loro opere. L’amore crea il bene per tutti, anche e soprattutto per chi lo dona. I sogni esistono e muovono la nostra vita, a me sono capitate cose incredibili che hanno aperto tante strade… guarda caso, erano proprio le strade dei miei sogni e mai avrei immaginato che potesse accadere. Quando segui un sogno e ci credi, e non permetti a nessuno di fermarti con il disfattismo, la vita ti aiuta. Tenacia, mai abbattersi: ho ricevuto tanti “no” e capita ancora, mai mi sono lasciata sconfiggere da questi no. Un’esperienza recente è stata il lavoro di consulenza per Allacciate le cinture di Ferzan Ozpetek: chi pensava che mi sarebbe capitato di avere un’opportunità così? Invece c’è stata, e mi ha rivelato l’esistenza di persone profonde, meravigliose e creative: è accaduto perché medicina e scrittura si sono fuse (ecco, qui si dimostra che non sono incompatibili) e a quel particolare film, peraltro bellissimo, servivano entrambe.

Articolo pubblicato sul numero 40 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte

© 2016 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

L’agente letterario oggi. Intervista a Silvia Meucci

06 sabato Ago 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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Silvia Meucci, titolare dell’Agenzia Letteraria Meucci Agency. Ripercussioni in campo editoriale della crisi economica. La figura dell’agente letterario in Italia e all’estero. Le caratteristiche strutturali di un buon manoscritto. Gli errori da evitare quando ci si rivolge a un agente letterario. Esistono i generi letterari evergreen? Il consiglio dell’agente allo scrittore emergente.

Silvia Meucci è nata a Milano. Si è laureata in Lingua e Letteratura Tedesca. Ha lavorato prima in Italia per Feltrinelli e poi in Spagna per Ediciones Siruela e per l’Universidad de Salamanca. Nel 2007 è stata insignita del titolo di Cavaliere della Repubblica Italiana, Onorificenza della Stella della Solidarietà Italiana per il lavoro di diffusione della cultura italiana all’estero. Rientra in Italia e dopo un anno di collaborazione con l’Agenzia Berla & Griffini decide, nel 2012, di fondare la Silvia Meucci Agenzia Letteraria.

Ha accettato di rispondere ad alcune domande sul suo lavoro come agente letterario, dando anche qualche consiglio pratico a chi, ultimato il suo scritto, voglia sottoporlo al vaglio di un’agenzia o degli editor di case editrici.

È un periodo particolare quello che stiamo vivendo, dal punto di vista economico ma anche sociale. Quali sono le ripercussioni più evidenti che ha riscontrato in campo editoriale?

Ripercussioni? In parte positive, sembra paradossale. Oggi gli editori sono più prudenti, più scrupolosi nelle scelte. Quando mi parlano di crisi mi permetto di esortarli a “fare meno ma a fare meglio”, a riappropriarsi di una propria linea editoriale, ferrea, che torni a caratterizzarli. Fino a oggi, troppi editori volevano fare gli “stessi” libri, senza più distinzioni tra marchi, profili editoriali, origini, ma solo per rispondere a logiche di mercato, mode, fenomeni sociologici…

Il lettore non è stupido. A un certo punto si stanca. I bei libri vincono sempre. Crisi o non crisi. E la crisi sul lettore si fa sentire sul poter acquisitivo. Se ho quindici euro, voglio portare a casa un libro, un mondo, una storia che resti, non un prodotto usa e getta. L’editore non è uno stampatore, e ultimamente si era perso di vista, a parer mio, il “mestiere”, quel buffo e strano mestiere che sfida tutte le leggi dell’Economia, e che fa anticipare tutti i costi di produzioni, prima ancora di capire se un prodotto funzionerà o meno. Per questo, bisogna tornare a calibrare bene, anzi benissimo, le proprie scelte editoriali e appoggiare il libro, nel momento del lancio, con un editing accurato, una veste grafica ben studiata, campagne di marketing e messaggi chiari.

Più lavoro, più professionalità, più attenzione. Ecco, secondo me, il lato positivo. Quello negativo è purtroppo un aspetto pesante che non ha che a vedere con la crisi della lettura, ma della vita in sé. Si è ridotta enormemente la fascia di acquirenti. Come diceva Brecht: “prima il cibo, e poi la morale”.

Cosa rappresenta oggi e quanta importanza riveste la figura dell’agente letterario all’interno del business editoriale italiano? E in quello internazionale?

Un agente è importante perché è garanzia per l’editore che il manoscritto che viene proposto è stato già vagliato, è frutto di una selezione, di un’analisi, forse anche di una prima e sommaria correzione, ed è garanzia per l’autore che la propria opera raggiunga effettivamente l’interlocutore adeguato e venga letta. La stessa identica cosa vale per l’estero.

Quali caratteristiche (strutturali, narrative, letterarie, e via discorrendo) deve avere un manoscritto per catturare la sua attenzione di agente letterario?

La voce. L’angolo da cui l’autore spia la realtà. L’originalità. Ma soprattutto, l’onestà. È la storia, il mondo nuovo, i personaggi che devono catturare, rapire, il lettore. E questo rapimento non avviene se la scrittura non è efficace.

Qual è l’errore più comune che riscontra nelle proposte editoriali che le giungono in redazione?

Molti scrivono non leggendosi dentro, non capendo realmente di cosa vogliono parlare e scrivono pensando al successo, al mercato, ai generi di moda. Bisogna scrivere di quello che si sa, di quello che si conosce o che non si conosce personalmente ma che è oggetto di una passione forte, frutto di curiosità, di interesse…

Stare aderenti alla propria mappatura interiore. E non voler andare a creare qualcosa di “artefatto”. I lettori (gli editori) capiscono subito quando un’opera è frutto di uno sterile lavoro a tavolino e quando invece è il risultato di un’esperienza reale o immaginata, ma sentita. Scrivere è scavare dentro e fuori, fa male. Non è un’operazione delicata.

Quali sono i generi letterari che potremmo definire evergreen, ovvero la cui richiesta e commercializzazione non passa mai di moda?

Non amo parlare di generi ma di libri. Bei libri. Il buon libro non passa mai di moda. Indipendentemente dal genere a cui appartiene: mainstream, poliziesco, thriller, storico, sociale o romanzo d’amore. Basti pensare ai Classici o ai capolavori del Novecento. Sono tali perché hanno resistito all’impatto di mode e del tempo. Perché? Perché sono ‘storie’ prodigiose.

C’è un consiglio che sente di dare a un aspirante scrittore in cerca di un agente letterario?

Quello che dico sempre a tutti: un agente non è un critico letterario. È solo un interlocutore, una persona che deve, assolutamente deve, entrare in sintonia con l’opera presentata. Quindi non bisogna avvilirsi se un agente dice “no”, perché ciò che non entra nelle corde dell’uno, può entrare nel sentire di un altro. Succede costantemente.

Articolo pubblicato sul numero 40 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte

© 2016 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Il giornalismo d’inchiesta: aspetti e conseguenze. Intervista a Stefano Santachiara

05 venerdì Ago 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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intervista, StefanoSantachiara, WMI

Stefano Santachiara. Il giornalismo d’inchiesta: aspetti tecnici e conseguenze.

Stefano Santachiara, giornalista d’inchiesta e corrispondente del «Fatto Quotidiano», dopo I panni sporchi della sinistra (Chiarelettere, 2013), scritto a quattro mani con Ferruccio Pinotti, ha pubblicato Calcio, carogne e gattopardi, un’indagine su come il controllo sociale sia gestito dal potere attraverso il calcio, autoprodotto e distribuito dalla piattaforma YouCanPrint, disponibile sia in versione cartacea che digitale. Gli abbiamo rivolto alcune domande sugli aspetti tecnici del suo lavoro ma abbiamo anche voluto affrontare il discorso delle conseguenze, spesso spiacevoli, della professione di reporter.

Essere un giornalista significa raccontare i fatti, essere un giornalista d’inchiesta invece ha un significato molto diverso. Ricerca, analisi, descrizione sono i passaggi perentori da seguire per condurre un’inchiesta. A tutti gli effetti il tuo lavoro somiglia più a quello investigativo che giornalistico in senso stretto.

Sì, fare inchiesta significa non accontentarsi della verità superficiale, delle prime dichiarazioni e documenti che ti arrivano sul tavolo.

Non metterei però dei paletti rigidi tra l’inchiesta e le altre categorie. Non solo il cronista di giudiziaria e il nerista, ma anche il notista politico e il responsabile della cultura di un quotidiano o un periodico possono sviluppare vere e proprie inchieste, anche se il tempo e lo spazio sono sempre più circoscritti. Ognuno di noi si evolve sulle basi del proprio background, delle nuove sperimentazioni e dei principi di deontologia e onestà intellettuale che dovrebbe preservare.

A volte il giornalista d’inchiesta svolge un lavoro parallelo e di supporto all’apparato investigativo, può capitare che per intuizione, capacità logico-deduttiva, rapporti stretti con gli inquirenti, scopra materiale scottante di rilievo penale. Ma bisogna sempre fare molta attenzione, dopo le prime risultanze occorre procedere al fact checking: incrociare i dati acquisiti con nuovi documenti e testimonianze per verificare i riscontri. È fondamentale non lasciarsi influenzare dalle tesi che si sono costruite, rimettendo qualora fosse necessario tutto in discussione con il fine della sola ricerca della verità, che significa sviluppare l’inchiesta giornalistica nella massima correttezza ed equidistanza lasciando parlare i fatti.

Cosa ti ha spinto nella direzione del giornalismo d’inchiesta?

Non saprei fornire un’unica motivazione, le nostre scelte sono il risultato di predisposizioni naturali, insegnamenti che riceviamo in famiglia, a scuola, consigli di colleghi e amici, avvenimenti più o meno imprevedibili che troviamo lungo il cammino. A volte prima, a volte poi, scopriamo qual è la nostra passione e credo sia giusto, malgrado tutte le difficoltà, cercare di farla coincidere con il proprio mestiere.

Ricordo un episodio avvenuto al liceo: il professore di Lettere, Alberto Ricchetti, motivò il doppio voto che mi aveva dato, 4 e 10, apparentemente incomprensibile, scrivendo: ‘Sei fuori tema oppure, se è come penso, sei un giornalista’. Nel compito avevo parlato della guerra civile in Yugoslavia, non accontentandomi di attingere dalle cronache embedded, scrivendo dunque che in ogni conflitto esistono interessi economici e geopolitici diversi e che la pulizia etnica non era prerogativa soltanto dei miliziani del presidente Milosevic ma anche dei fascisti croati Ustascia contro i cittadini serbi residenti nella regione della Krajina.

In quegli anni, come tanti coetanei, scoprii la passione civile nel biennio di Mani Pulite, la rabbia impotente per le stragi di Capaci e via D’Amelio.

La molla decisiva però, quella che mi fece “sentire” le parole del maestro di liceo, fu la visione casuale de Il muro di gomma di Marco Risi, il film sull’inchiesta giornalistica che cercò di far luce sulla strage di Ustica e i depistaggi di Stato. Di lì a poco iniziai a collaborare per la Gazzetta di Modena e in particolare di Reggio Emilia, dove la curiosità e la pratica sul campo furono alimentate dagli insegnamenti della mia caposervizio Luisa Gabbi.

Quali requisiti tecnici deve contenere un articolo o un reportage d’inchiesta?

Le informazioni fondamentali che devono essere fornite al lettore, possibilmente già in forma sintetica nell’attacco di ogni pezzo, rispondono alla regola di stampo anglosassone delle cinque W: who, what, where, when, why. Una volta spiegati gli elementi essenziali, l’approfondimento di una particolare circostanza o aspetto è naturalmente soggettivo.

Cito un esempio che vale per il reportage del videomaker come per l’estensore di un articolo di cronaca. Il 26 luglio 2006 la mia regione si risvegliò bruscamente dopo un attentato di ‘ndrangheta che distrusse l’Agenzia delle Entrate di Sassuolo. L’Emilia credeva di avere gli anticorpi adatti a respingere le infiltrazioni mafiose, invece presenti come in ogni zona dove il benessere diffuso è occasione di riciclaggio per le cosche, che stringono rapporti con pezzi di economia e politica. Allora lavoravo per Modena Radiocity e la mattina appresi la notizia durante il consueto “giro di cronaca” che consisteva, anche in radio come nei giornali, nel chiamare numeri concordati di vigili del Fuoco, polizia e carabinieri per sapere cos’era accaduto nella notte. Si trattò di un attacco allo Stato in controtendenza rispetto alla strategia della sommersione tipica delle mafie al Centro-Nord. Per fortuna non ci furono vittime ma quando arrivai sul posto vidi uno scenario di guerra, gli uffici erano stati sventrati con un chilo di pentrite, esplosivo cinque volte più potente del tritolo. L’Agenzia era stata punita dalla cosca degli Arena perché aveva scoperto una frode fiscale che nascondeva un giro di riciclaggio tra Svizzera, motor valley e il paradiso fiscale delle Isole Vergini. Tra le macerie fumanti intervistai il direttore percependo il suo terrore. La mattina stessa il boss crotonese l’aveva chiamato per dirsi “a disposizione per ricomprare macchinari”. Quel racconto passò quasi in diretta sulle frequenze della radio, nei mesi seguenti continuai a occuparmi del caso raccogliendo nuove testimonianze, recuperando documenti, scavando a ritroso su flussi di denaro e legami tra i soggetti coinvolti. I collegamenti mi hanno condotto sino a Roma, all’inchiesta del pm della Dda capitolina Giancarlo Capaldo sul riciclaggio di Telekom-Sparkle che vide ancora protagonisti gli affiliati alla cosca Arena, alcuni dei quali si erano occupati di far eleggere il senatore Nicola di Girolamo del Pdl tramite brogli organizzati presso emigrati in Germania. Già, proprio la nazione della strage di Duisburg, dove le penetrazioni della ‘ndrangheta sono state raccontate praticamente in solitudine dalla massima esperta di mafie tedesca, la giornalista e scrittrice Petra Reski.

È fuor di dubbio un mestiere complesso il tuo, spesso difficile, con dei risvolti duri come le implicazioni giudiziarie che possono seguire a un’inchiesta. Come vivi questi momenti?

A quale caso in particolare di riferisci?

Sicuramente quello più noto è il “Sacco di Serramazzoni, primo caso di rapporti tra ‘Ndrangheta e Pd di governo al Nord” che tu raccontasti nel 2011 e che fu poi oggetto della trasmissione Report. Per la partecipazione al programma di Rai3 una coop ti ha chiesto un risarcimento danni di circa 1 milione di euro, una causa definita “intimidatoria” da Ossigeno, Articolo 21, sindacato e Ordine dei giornalisti…

Tutti quanti, compresa la conduttrice Milena Gabanelli, abbiamo rifiutato la proposta di mediazione pre-processuale prevista dalla legge perché riteniamo di aver esposto in modo continente fatti documentati e di rilievo pubblico. La sola differenza, a parte il fatto che il mio breve intervento ha riguardato la lettura di visure camerali e la conferma dell’esistenza di un procedimento penale, è che la Rai tutela i propri giornalisti mentre il giornalista freelance o precario che viene colpito nel “limbo” di un passaggio televisivo deve arrangiarsi da solo. Per fortuna ho trovato un avvocato di grandi qualità professionali e umane come Fausto Gianelli, responsabile del Forum Giuristi democratici e già legale dei ragazzi pestati dalla polizia durante il G8 di Genova. Gianelli si era subito accorto che si trattava di una causa mirata a imbavagliare la stampa scomoda con fini pedagogici: colpire il giornalista che osa toccare certi sepolcri imbiancati per educarne altri cento che eventualmente volessero fare altrettanto.

Sei stato chiamato in giudizio per altre cause simili? Come affronti questo aspetto del tuo lavoro?

Di querele in vent’anni ne ho ricevute diverse ma sono state tutte archiviate o definite in udienza preliminare con sentenza di non luogo a procedere. Le ho sempre affrontate serenamente, nel merito, perché consapevole di aver lavorato in modo corretto e per quanto riguarda l’aspetto economico l’editore, come da prassi, assicurava la tutela legale.

Ora invece mi trovo costretto a pagare un avvocato per un processo ‘kafkiano’. Si tratta di una querela per diffamazione per un articolo pubblicato nel 2010 su «L’Informazione» di Modena relativo a dissidi tra un ufficiale dell’Accademia militare e l’ex moglie. La querela è stata riesumata proprio appena dopo il fallimento del giornale, nel luglio 2013, ed è stata sospinta da mani sapienti fino al processo malgrado l’articoletto in questione fosse senza firma e senza sigla. Dunque non solo non vi è uno straccio d’indizio sulla paternità ma, ancora più assurdo, il dibattimento che dovrò sostenere riguarda un articolo in cui non sono identificabili i protagonisti, ma proprio nel modo più assoluto: non ci sono i nomi, le iniziali, le età, le residenze del co-querelato, l’ufficiale, e della querelante, l’ex moglie, di cui non si conosce neppure il lavoro e la nazionalità. Ho solo saputo, a margine dell’udienza preliminare, che si tratta di una persona con precedenti penali. Dunque: o siamo in presenza dell’invenzione di un nuovo reato e non ci hanno avvertito, la “diffamazione senza il diffamato”, o evidentemente qualcuno ha del tempo da perdere e del denaro da farmi perdere.

Quale consiglio senti di dare a chi vuole intraprendere questo mestiere?

Il consiglio è sempre di provarci. Purtroppo il mercato è saturo e soffre come gli altri settori della crisi economica e della destrutturazione dei diritti del lavoro. Ma nonostante tutti i problemi, le minacce, le cause, gli ostacoli professionali che colpiscono i giornalisti veri, sono sempre più persuaso che si debbano seguire le proprie passioni e ciò che si sente giusto.

So che non ti piace parlare di quello a cui stai lavorando e allora per concludere ti chiedo se mai ti sei pentito delle scelte fatte in passato…

Errori ne ho fatti certamente ma pentito no, rifarei lo stesso percorso.

Intervista pubblicata sul numero 41 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte

© 2016 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Prima: Piccola e Media Editoria

02 martedì Ago 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Rapporto Aie sullo stato dell’editoria in Italia. Le caratteristiche della piccola e media editoria. Rapporto ISTAT su produzione e lettura dei libri. I PmE e la digitalizzazione. Cataloghi e e-commerce. I PmE e gli autori esordienti secondo il parere degli editor.

«Con il 2014 siamo al quinto anno consecutivo di segno meno: la ripresa non arriva, viene data solo e ancora come imminente. La crisi è diventata un fatto ordinario con cui editori, librerie e distributori si trovano quotidianamente a fare i conti. Ma la crisi è anche una grande spinta modificatrice, che ha cambiato e sta cambiando i processi e i flussi produttivi, le strategie comunicative e la gestione della logistica distributiva alla ricerca di una maggiore efficienza.»

Con queste parole è stato presentato il Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia 2015 dell’Associazione Italiana Editori (Aie), un’indagine su un campione rappresentativo di 220 piccoli editori.

La piccola, o almeno parte di essa, vende in e-commerce, produce e-book, utilizza i social network più della media editoria. Entrambe poi vendono maggiori diritti a editori stranieri, con un aumento del 96,2% rispetto al 2011.

A questo impegno profuso per la promozione e la vendita non corrisponde un aumento delle tirature, delle ristampe e della pubblicazione di nuovi titoli, valori questi tutti con segno negativo. In diminuzione anche la presenza nelle librerie mentre ad aumentare purtroppo sono le rese che passano dal 52% del 2000 al 63,6% del 2014.

Nel Quaderno 6 del «Giornale della Libreria» Giovanni Peresson, responsabile dell’ufficio studi dell’Aie, cerca di porre l’accento sulle qualità identificative della piccola e media editoria che non sono solo e non devono necessariamente essere circoscritte alla dimensione strutturale (numero di occupati, addetti, capitale investito, fatturato, ecc.), criterio questo che «consente di discriminare tra grande, media e piccola casa editrice (e soprattutto tra le diverse “dimensioni” delle piccole) ma che non consente immediatamente di identificare i tratti che caratterizzano i PmE sotto il profilo della strategia o del posizionamento nel sistema competitivo o nel segmento di cui fanno parte».

Secondo Peresson uno dei tratti caratterizzanti il profilo del PmE sta nella dimensione progettuale del lavoro editoriale e nella sua qualità.

«Un grande editore non può permettersi di pubblicare un libro di cui non vende almeno 4-5 mila copie. Noi invece sì. Qualità del prodotto (traduzione, cura redazionale, apparati editoriali, grafica e confezionamento, stampa, ecc.), del rapporto con l’autore, con la rete vendita, con il libraio… restare piccoli significa continuare a lavorare in maniera artigianale, curando tutto il percorso, dal manoscritto alla libreria».

Chiara Valerio, consulente editoriale della casa editrice Nottetempo, in un’intervista rilasciata per Rai Letteratura ha affermato che «molti piccoli editori si sono distinti per una politica specifica di traduzione anche da aree linguistiche molto segnate, penso al lavoro che ha fatto Nuova Frontiera sull’area ispano-americana, Voland su tutta l’area slava e sui russi e quello che sta facendo adesso Sur sugli scrittori sudamericani, e penso che sono costituzionalmente case editrici fondate da persone che non solo maneggiavano quelle lingue ma vivevano in quei mondi. Ancora una volta il fronte della traduzione è stato portato avanti da lettori che avevano frequentato quei libri. Le loro stanze dell’immaginazione erano state aperte in quei libri».

Per la Valerio punto fondamentale delle piccole e medie case editrici è il catalogo, determinante per la loro permanenza sul mercato, non avendo in genere accesso alla grande catena distributiva ed essendo spesso assenti nelle librerie.

Secondo quanto si legge nel Rapporto 2015 dell’Istat su La produzione e la lettura di libri in Italia negli anni 2013 e 2014, oltre la metà degli editori attivi (58,4%) pubblica meno di 10 titoli l’anno. I medi editori rappresentano il 29,2% del totale e pubblicano non più di 50 titoli, mentre i grandi marchi editoriali sono il 12,4% degli editori.

Nel 2013, i circa 1.600 editori attivi censiti hanno pubblicato 61.966 titoli e hanno stampato 181 milioni di copie: circa tre per ogni cittadino italiano. In media sono state stampate poco meno di 3 mila copie per ciascun titolo pubblicato. E se consideriamo che in Italia i lettori forti, ovvero quelli che leggono almeno un libro al mese, sono il 14,3% si capisce bene che la soluzione per uscire dalla crisi del settore editoriale non va certo cercata nel numero di copie stampate. Potrebbe aiutare invece una varietà nella scelta, una selezione accurata dei titoli… ed ecco che si ritorna al punto evidenziato da Chiara Valerio: il catalogo.

I dati Istat sembrano confermare quanto affermato da Peresson. I piccoli e medi editori, cioè quelli che pubblicano non più di 50 titoli l’anno, rappresentano l’87,6% del numero complessivo di editori attivi. I grandi editori, invece, pur essendo il 12,4% del numero complessivo degli operatori del settore, pubblicano oltre tre quarti (76,2%) dei libri proposti sul mercato, con una capacità di produzione e di offerta quasi 12 volte superiore a quella dei piccoli editori in termini di titoli proposti e 34 volte maggiore in termini di copie stampate.

A fronte di una capacità di produzione quantitativamente circoscritta, i piccoli e medi editori hanno sviluppato un’elevata specializzazione tematica delle proposte editoriali, «svolgendo spesso un importante ruolo di innovazione, di esplorazione e di soddisfazione della domanda, rivolgendosi a target di lettori estremamente specifici». Oltre la metà dei piccoli editori (55,4%) ha una linea di produzione editoriale tendenzialmente monotematica.

In base ai dati diffusi dall’Osservatorio eCommerce B2C Netcomm del Politecnico di Milano, i servizi offerti dai grandi canali di vendita online alle piccole e medie imprese italiane operanti nel comparto dell’editoria hanno registrato nel 2013 una crescita del 28%.

Un settore, quello dell’e-commerce, cui è doveroso e utile guardare sia per abbattere i costi della distribuzione sia per raggiungere una fetta di lettori più ampia e diffusa. Sarebbe bello, e ne parla anche la Valerio nella sua intervista, poter avere una biblioteca e una libreria in ogni città, paese e borgo, come una piazza, come l’edicola o una fontana. Un must cui non è che si è dovuto rinunciare a causa della crisi ma un qualcosa che non è mai stato realtà.

Per definizione gli editori, grandi e piccoli, devono continuare a investire risorse sui cosiddetti esordienti, gli autori nuovi tra i quali, potenzialmente, ci sono i grandi scrittori di domani.

Spesso si leggono lamentele sui tempi di attesa molto lunghi, risposte che arrivano di rado, proposte di pubblicazione ancora più esigue.

Il catalogo della piccola e media editoria pesa per il 19,1% sul catalogo complessivo italiano.

Tra il 2012 e il 2013 il settore ha perso il 21,5% degli addetti e le previsioni per il 2015 sono anche peggiori. Antonio Monaco, presidente del Gruppo Piccoli editori dell’Aie, in un’intervista ha dichiarato: «Il timone per resistere alla tempesta sarà, a mio avviso, la capacità di mettere al centro la professionalità, intesa come una composizione delle diverse professionalità che, combinate, fanno la buona editoria».

Beppe Severgnini, dalle pagine de «Il Corriere» risponde a una lettera col tramite del responsabile delle scelte editoriali di una casa editrice: «(gli scrittori, ndr) sono tutte persone con una vocazione che sono state “trovate” dall’occasione giusta in forma del tutto imprevedibile. Idem per i registi, i calciatori, i pittori: professioni destrutturate che non hanno un percorso istituzionale. Se l’occasione non capita, vuol dire che non c’era il talento o che si è stati sfortunati». Per avallare la sua risposta il responsabile editoriale invita a rileggere le vite degli scrittori del Novecento. Severgnini invece esorta gli emergenti a «presentarsi con un’idea. È questa che manca, quasi sempre».

In un saggio pubblicato sul numero 65-66 di «Allegoria», Luca Pareschi compie un’attenta analisi dei metodi di selezione di opere di autori inediti impiegati da 13 case editrici italiane, diverse per dimensione, localizzazione e orientamento verso gli esordienti.

Cosa cercano gli editor in un manoscritto? «Si tratta piuttosto di una costruzione di senso a posteriori: un manoscritto piace, in maniera pre-razionale; quando si cerca di spiegarne il perché, lo si riconduce ad alcune caratteristiche notevoli.»

Un editor di una piccola casa editrice milanese di qualità dice: «Se lavorassi in una grande casa editrice dovrei motivare maggiormente le mie scelte, o magari inquadrarle in un progetto. Invece devo dire che in un libro, innanzitutto cerco proprio il piacere della lettura personale. È evidente che se un libro faccio fatica a leggerlo, fatico ad andare avanti, difficilmente è un libro che posso promuovere».

Uno dei luoghi comuni che circolano fra gli aspiranti autori è che una biografia interessante aiuti a pubblicare il manoscritto. Gli editor sentiti da Pareschi non sembrano considerarla fra gli elementi più importanti almeno in fase di selezione, può diventare un valore aggiunto in un momento successivo, durante la promozione del libro.

Anche nelle case editrici medie spesso si applica la politica di scelta di un autore piuttosto che di un libro. «Cosa che commercialmente non conviene, in verità. Però, nei 10 anni in cui ho lavorato per Minimum Fax, abbiamo sempre privilegiato l’idea di trovare un autore e di seguirlo su diversi libri. Di credere nella sua carriera, più che di prendere un titolo X, che magari funziona, ma che sentiamo che non ha alle spalle una penna già forte.»

Originalità sembra essere il tema più ricorrente cercato dagli editor. Originalità di voce, di storia, di temi, di lingua. «Tutto ciò che è nuovo è qualcosa che valutiamo con favore. Tutto ciò che non va in scia, che non segue. Per me conta molto il tasso di novità, di singolarità dell’opera, la sua carica di innovazione, la capacità di prevedere, di precedere le tendenze.» Ecco che si ritorna al concetto di “idea” auspicato da Severgnini.

Il comparto della piccola e media editoria ha subito un duro contraccolpo a causa della crisi che ormai rischia di diventare endemica, per cui gli operatori del settore tendono a diventare sempre più esigenti e selettivi, a orientarsi verso le opportunità offerte dalla rete e dalla digitalizzazione. Qualità, novità, serietà sembrano essere gli imperativi dei PmE che lottano quotidianamente per restare a galla e possono vantare l’onore di non cedere all’inganno della pubblicazione a pagamento.

Articolo pubblicato sul numero 45 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte

© 2016 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Chi è lo scrittore più bravo al mondo?

29 venerdì Lug 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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articolo, scrittori, scrittura, WMI

Criteri di classificazione degli scrittori più bravi o più venduti. I classici e la Letteratura di genere. I gusti del grande pubblico e i consigli di scrittura degli autori celebri. Riflessioni sul Premio Nobel per la Letteratura e la ‘direzione ideale’ degli scrittori premiati.
Lo scrittore più bravo al mondo, la qualità della scrittura e quella del narrato.

“Chi è lo scrittore più bravo al mondo?” Spesso il concetto di più bravo viene associato a quello di più noto o peggio di più ricco.

Sono tante le classifiche che si trovano anche in rete e che stilano la lista degli scrittori più venduti al mondo.

Stando agli annuali elenchi della rivista «Forbes» a farla da padrone è l’americano James Patterson che finisce nella top ten degli artisti più ricchi al mondo. Patterson ha venduto oltre 300 milioni di copie. Perché?

I libri oggi sono commercializzati al pari di una qualsiasi altra merce e come tali per rendere devono essere inseriti nel sistema mediatico della promozione. Gli americani, il popolo che ha inventato la cosiddetta ‘fabbrica dei sogni‘, in questo sono dei veri maestri.

Numerose opere di Patterson sono state trasposte cinematograficamente, ma non tutti i libri che diventano film vendono milioni di copie. Quindi dev’esserci dell’altro.

Patterson viene «considerato uno dei più importanti autori di thriller del nostro tempo». Al ‘nostro tempo’ infatti il thriller, come il giallo, il poliziesco e il noir acquistano sempre maggiore consenso e diffusione.

Generi letterari nati nell’accezione negativa di produzioni ‘commerciali’ o ‘di massa’ hanno faticato non poco per trovare una congrua collocazione nel panorama letterario. Ancora non troppo ben visti dai cultori della Letteratura vengono sempre più considerati come scritti che non si limitano a raccontare un crimine e relative indagini ma opere di narrativa che denunciano i mali sociali e la violenza, o quantomeno ne parlano.

Ma perché il pubblico è sempre più attratto da un qualcosa da cui nella vita reale si cerca di fuggire?

Stephen King è un altro scrittore e sceneggiatore statunitense che ha all’attivo una prolifica e fortunata carriera, con libri entrati regolarmente nelle classifiche dei più venduti e una vendita complessiva di oltre 500 milioni di copie. King entrò a far parte della giuria composta da 125 scrittori celebri che nel 2013 stilò l’elenco dei 10 libri più belli di tutti i tempi. Non è presente in esso nessuno dei libri e quindi degli autori attualmente ‘produttivi’, neanche Patterson o lo stesso King, mentre figurano nomi del calibro di Tolstoj, Flaubert, Twain, Cechov, Eliot… autori che non hanno cercato o studiato il modo di scrivere un libro che piaccia al pubblico, che venda milioni di copie e che sia rappresentato cinematograficamente o meglio, visto il periodo, nei teatri.

Leggendo Tolstoj, Flaubert, Twain, Cechov, Eliot non ti chiedi com’è o come sarebbe il film, non ripercorri mentalmente le scene qualora ne avessi già visto la trasposizione in video, bensì ti figuri il mondo nel quale affrontano la vita i personaggi, protagonisti di storie intense, uniche, straordinarie come solo la vita vera può esserlo. Impari, senza neanche rendertene conto, tutto sulla società, sui luoghi che ospitano le vicende con, spesso, riferimenti e collegamenti ai grandi eventi che hanno caratterizzato il corso della Storia.

Quindi mentre il grande pubblico sembra apprezzare sempre più libri che rispondano alle sue precise richieste, opere di narrativa studiate a tavolino e lanciate nel mercato con vere operazioni di marketing, gli scrittori più famosi, tra i quali figurano gli autori dei libri sopra descritti, preferiscono i classici.

Ma cosa cerca il grande pubblico in un libro?

Stando alla classifica stilata lo scorso anno da «MetalliRari» tra i 10 scrittori più ricchi al mondo troviamo 5 autori di thriller e noir, 3 autori di romanzi rosa e 2 autori di fantasy. Si può dedurre che la prima cosa che i lettori cercano in un libro sia l’evasione, al pari del grande pubblico televisivo e cinematografico.

Studi psicologici ipotizzano l’ambivalente piacere che ci procura la sofferenza altrui, che diviene in parte compensatorio della nostra aggressività repressa. Quindi il costante aumento di consenso ottenuto dai libri gialli, thriller, polizieschi, noir e horror potrebbe in qualche misura essere dovuto anche a questo ‘ambivalente piacere‘.

Raggiunta a un convegno sul tema delle “grandi storie romantiche” Lidia Ravera affermò: «Sì, però le lettrici non sono ingenue, sanno bene che il principe azzurro non esiste». Lo sanno quindi che nella vita reale non ha senso attendere l’arrivo di una carrozza e che il ‘vivere per sempre felici e contenti’ ha un significato differente ma leggono comunque con passione e costanza i romanzi rosa che ruotano intorno alla figura del grande amore da sogno.

Per quanto concerne il fantasy poi alcuni sostengono di leggerlo «perché non è soltanto evasione», ma anche avventura, thriller, horror… il tutto condito da una buona dose di Storia, più o meno fantasiosa.

Ma il bravo scrittore è colui che sa adattarsi alle richieste dei lettori o colui che sa meglio trasmettere il proprio messaggio, la propria eredità letteraria?

«Se lo fai solo per soldi o per fama, non farlo. Se lo fai perché vuoi delle donne nel letto, non farlo. Se devi startene lì a scrivere e riscrivere, non farlo. Se è già una fatica il solo pensiero di farlo, non farlo. Se stai cercando di scrivere come qualcun altro, lascia perdere.» Scriveva Charles Bukowski, lo scrittore che per molti “derise l’umanità”, lui che in fondo ha solo cercato di descriverla questa umanità, senza filtri né belle parole.

Nel suo libro On Writing, uscito in Italia nel 2010 per la Sperling&Kupfer con il sottotitolo Autobiografia di un mestiere, Stephen King elenca oltre venti consigli diretti agli aspiranti scrittori utili per diventare delle ‘buone penne’.

I suoi in realtà sono più consigli da manuale che segreti del mestiere. Suggerisce di essere costanti, chiari nella scrittura, di leggere molto, di limitare l’uso degli avverbi, di fare attenzione a dialoghi e personaggi e poi ritorna anche lui sulla questione economica: «Non scrivere per denaro, ma per il piacere di farlo, perché se puoi farlo per piacere, puoi farlo per sempre».

Il nostrano Umberto Eco invece in La bustina di Minerva, edito da Bompiani nel 2000, elenca ben 40 regole da seguire per scrivere bene. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a suggerimenti sulla tecnica di scrittura che Eco ha ammesso di aver ‘ricopiato’ dalla rete.

«Ho trovato in internet una serie di istruzioni su come scrivere bene. Le faccio mie, con qualche variazione, perché penso che possano essere utili a molti, specie a coloro che frequentano le scuole di scrittura.»

Eco suggerisce, tra l’altro, di scrivere in maniera semplice e poco ridondante, di usare con parsimonia le figure retoriche e le citazioni, di fare attenzione alla punteggiatura e ai congiuntivi. Ma i suoi consigli, dispensati tra il serio e il faceto, si fermano all’aspetto manuale della scrittura lasciando intendere che ‘il mestiere di scrivere’ è, al pari di qualsiasi altro lavoro, basato soprattutto su tecnica ed esperienza.

Opinione simile ha espresso il regista e scrittore italiano Biagio Proietti, il quale in un’intervista ha definito l’attività di un buon scrittore come un «oneroso lavoro da bravo artigiano».

In maniera sempre più ricorrente nell’immaginario collettivo lo scrittore più bravo al mondo viene identificato con il ricevente il Premio Nobel per la Letteratura.

Secondo le disposizioni testamentarie di Alfred Nobel il Premio è assegnato all’autore «nel campo della letteratura mondiale che si sia maggiormente distinto per le sue opere in direzione ideale».

La gran parte degli autori a cui è stato assegnato il Nobel per la Letteratura erano sconosciuti al grande pubblico e tali sono rimasti anche dopo, fatta eccezione per il fatto di saperli individuare come vincitori del prestigioso premio. In rarissimi casi i premi Nobel sono letti dal grande pubblico e leggendo le motivazioni per cui sono stati candidati o hanno vinto il premio se ne comprende anche la ragione.

“Perché nelle sue commedie [egli] scopre il baratro che sta sotto le chiacchiere di tutti i giorni e spinge ad entrare nelle stanze chiuse dell’oppressione”; “Perché nel ricercare l’anima malinconica della sua città natale, ha scoperto nuovi simboli per rappresentare scontri e legami fra diverse culture”; “Cantrice dell’esperienza femminile, che con scetticismo, fuoco e potere visionario ha messo sotto esame una civiltà divisa”; “Autore di nuove partenze, avventura poetica ed estasi sensuale, esploratore di un’umanità al di là e al di sotto della civiltà regnante”; “Con la concentrazione della poesia e la franchezza della prosa ha rappresentato il mondo dei diseredati”; “Per la sua cartografia delle strutture del potere e per la sua immagine della resistenza, della rivolta e della sconfitta dell’individuo”; “Attraverso le sue immagini dense e nitide, ha dato nuovo accesso alla realtà”; “Che con un realismo allucinatorio fonde racconti popolari, storia e contemporaneità”; “Per l’arte della memoria con la quale ha evocato i destini umani più inafferrabili e scoperto il mondo della vita dell’occupazione”.

Quelle appena elencate sono alcune delle motivazioni per cui sono stati scelti e premiati i più recenti nobel per la Letteratura, espressioni che racchiudono la direzione ideale delle opere scritte da questi autori che poco o nulla hanno in comune con gli scrittori più venduti o più ricchi al mondo mentre tanto sembrano averne con i grandi classici, autori dei libri selezionati dai 125 scrittori celebri.

Non è cosa facile stabilire chi sia lo scrittore più bravo al mondo, forse addirittura impossibile ma la via indicata da Alfred Nobel anche se opinabile e imperfetta è sicuramente indicativa di una particolare tipologia di autori che si vuol premiare per il loro ‘ideale’, ovvero per l’impegno con cui hanno raccontato i mali sociali, i soprusi, hanno narrato degli oppressi, denunciando a volte situazioni di estremo disagio. È innegabile che questo tipo di opere letterarie abbia una immensa eredità che trasmette al lettore, svolgendo al contempo l’impagabile funzione di informare, educare e fungere da monito.

Oscar Wilde diceva che «non esistono libri buoni o libri cattivi, esistono solo libri scritti bene o scritti male» e questo potrebbe anche essere vero ma la differenza non è solo la qualità della scrittura a farla, è il narrato che può anche arrivare a diventare un esempio al pari dei grandi personaggi.

Pensiamo alla forza e alla determinazione che contengono i testi del premio nobel 1997 Dario Fo. In ogni sua opera la sopraffazione dei poveri, degli analfabeti, dei deboli è il tema fondamentale e l’occasione da cui partono le critiche, ora satiriche ora rabbiose, a chi di queste sopraffazioni è responsabile. Ce n’è per tutti, perfino per il concetto stesso di democrazia, ritenuto la maschera sorridente di una élite finanziario-capitalista aggressiva e cinica.

Scritti che rispecchiano le azioni di denuncia dei grandi uomini che hanno lottato, pagando con la propria vita, contro i soprusi e le ingiustizie: Malcon X, Martin Luther King, Mahatma Gandhi, per citarne alcuni.

Forse non si riuscirà mai a stabilire con certezza assoluta chi è il più grande scrittore al mondo e forse non si riuscirà neanche a stabilire quale sia il libro migliore ma di sicuro esistono, e si spera ce ne saranno tanti altri ancora, testi e autori straordinari per il loro operato e i loro scritti… in poche parole per la loro eredità letteraria.

Articolo pubblicato sul numero 44 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte.

© 2016 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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