Marco Doria, Filippo Pizzolato, Adriana Vigneri, Il protagonismo delle città

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Il fenomeno urbano ha caratterizzato l’età contemporanea ed è tratto distintivo del XXI secolo, definito appunto il secolo delle città

All’inizio del XXI secolo il processo di globalizzazione sembrava destinato a ineluttabili avanzamenti, generalmente valutati in modo positivo, con un contestuale “ridimensionamento” del ruolo degli Stati nazionali a favore delle forze dinamiche del mercato e delle istituzioni sovranazionali, lasciando spazio anche a un nuovo protagonismo delle città. Quanto accaduto negli ultimi anni (la pandemia e i suoi effetti, la guerra russo-ucraina, le tragiche vicende del Medio Oriente) ha invece rilanciato il peso e l’importanza degli Stati come fondamentali, ancorché esclusivi, attori, nel bene e nel male, delle politiche. Ciò nondimeno le città continuano a essere spazio privilegiato per progettare e attuare strategie in grado di farci almeno avvicinare agli obiettivi di sviluppo sostenibile indicati nell’Agenda 2030 delle Nazioni unite. 

Oggi viviamo nel secolo delle città e dovremmo di conseguenza aggiornare le nostre mappe mentali. La realtà sta cambiando rapidamente mentre noi siamo fermi a una lettura Stato-centrica delle relazioni internazionali. Con la Pace di Westfalia del 1648, le città sono state espulse dal nostro orizzonte intellettuale dopo che per secoli erano state il fulcro della vita globale. Oggi esse tornano a guadagnare centralità, ma noi fatichiamo a prenderne atto perché ragioniamo ancora in termini westfaliani. Oggi alcune delle nostre attività più importanti hanno luogo nelle città, tuttavia noi vediamo solo gli Stati come attori della politica globale. Eppure la politica internazionale è fortemente influenzata da un numero crescente di città sempre più attive nello scacchiere globale. Città che sviluppano reti di gemellaggi e progetti, condividono informazioni, firmano accordi di cooperazione, contribuiscono a plasmare politiche nazionali e internazionali, forniscono aiuti allo sviluppo e assistenza ai rifugiati, competono nel marketing territoriale attraverso forme di cooperazione decentralizzata. 

Le città fanno oggi quello che i “comuni” erano soliti fare secoli fa: cooperano ma allo stesso tempo danno vita a una forte dinamica competitiva. Per questa ragione, se vogliamo comprendere davvero le dinamiche socio-politiche planetarie, dobbiamo avere due mappe mentali in testa, una Stato-centrica e una non-Stato-centrica.1

Vi sono almeno due logiche diverse dietro l’attuale attenzione al ruolo dei centri urbani. In primo luogo, la logica dell’efficienza e dell’efficacia: un’abile governance urbana è vista – in particolare da sindaci animati da determinazione personale – come lo strumento più adatto per raggiungere una qualche efficacia al livello sociale in ragione dei suoi caratteri di immediatezza esecutiva e prossimità ai cittadini. Poi c’è la logica della democrazia: una buona governance urbana è vista come lo strumento più adeguato per implementare l’ideale democratico; gli enti locali diventano un mezzo per raggiungere l’empowerment delle comunità e l’auto-determinazione democratica. La diplomazia della città, in qualche modo, connette direttamente i cittadini locali con le vicende globali, contribuendo a superare i deficit democratici a livello internazionale.2

Città come Los Angeles, Londra e Tokyo hanno un ruolo di guida economica e identitaria sia per se stesse sia per i Paesi che rappresentano. L’Italia è un Paese fondato sulle città e la nostra storia – dall’epoca dei comuni alle istanze autonomiste odierne – ci ricorda quanto l’attaccamento alla comunità locale sia spesso più forte del legame con lo stato centrale. Ma oggi l’avvento delle megacity impone un cambiamento di politica che ci consenta di superare la frammentarietà e riuscire a giocare con successo un ruolo di rilievo nel “secolo delle città”. In questa prospettiva un’ispirazione per l’Italia può venire da Milano, ritenuta in questi anni un modello dalle più autorevoli agenzie internazionali, dalle aziende, dai turisti, dai milanesi.3

Nel testo le città sono indicate come reti di flussi lungo cui si muovono merci, persone e capitali. Centri direzionali dell’economia mondiale, luoghi e mercati essenziali, centri dell’innovazione e della ricerca.

L’evoluzione della città si manifesta attraverso un percorso nella direzione di un sistema insediativo sempre più complesso e comprensivo, verso un sistema interagente di funzioni di varia natura e rango, un prodotto di intelligenze collettive e un incrocio di flussi globali e locali: la stessa natura collettiva della città si ribella con vigore alla monofunzionalità, al consumo di suolo come paradigma e alla solidità come configurazione identitaria. Nella società liquida, alla città rigidamente divisa per parti e per funzioni, alla città per recinti, si sostituisce la “città molteplice”, non solo multifunzionale al suo interno, ma anche nodo complesso di un’armatura planetaria di città in cui si intrecciano numerose reti locali e globali. Con il rischio però che l’esito, piuttosto che una identità molteplice e ricca, sia quello di una perdita di identità alla rincorsa perenne di modelli eteroprodotti. All’emergere delle molteplicità deve corrispondere un incremento della responsabilità, traducibile in un triplice impegno: verso l’ambiente, verso l’identità culturale e verso la cooperazione.4

Le città appaiono solitamente inserite dentro il “sistema paese”, ne condizionano le dinamiche e da queste sono condizionate. La crisi persistente ha aumentato la povertà, ne ha generato forme nuove, ha acuito le disuguaglianze: si tratta di fenomeni che si concentrano in particolare nelle aree urbane che divengono dunque lo spazio decisivo per l’attivazione di politiche atte a fronteggiare tali emergenze. Ma gli autori sottolineano che, oltre a mitigare gli effetti negativi della crisi sul piano sociale, le città sono chiamate a essere driver di sviluppo. Nell’età della quarta rivoluzione industriale le città sono interessate, o almeno dovrebbero esserne campo di applicazione, da politiche volte a renderle più green e smart. 

Non è sempre facile capire cosa si intenda esattamente per smart city anche perché, man mano che il concetto originario veniva esteso per rispondere alle critiche, l’espressione ha assunto un senso onnicomprensivo: si è passati da un significato che considerava “intelligente” una città in cui era forte e pervasivo il ruolo delle tecnologie a una città la cui intelligenza è multidimensionale e si basa soprattutto sull’intelligenza dei suoi abitanti. Insomma, alla fine, una delle tante parole-ombrello che contengono poco o troppo, alla fine piene di vuoto. I termini sostenibilità e resilienza, tra gli altri, soffrono di questo stesso rischio: se tendono ad allargare il loro ambito, perdono di precisione e di rilevanza, si annacquano. Non è possibile pensare a città intelligenti (smart cities) che non siano in primo luogo città sane (healthy cities), anche se è vero che l’uso delle nuove tecnologie può dare impulso fondamentale per ripensare e realizzare la qualità della vita urbana. Ma soprattutto non si può immagina una “città sana” che non stia dentro un “territorio intelligente”, ovvero un territorio che sappia ricomporre la frattura città/campagna dotando tutte le sue parti di un’elevata qualità ambientale e paesaggistica e di infrastrutture e reti che ne garantiscano le funzionalità.5

Uno smart land è un ambito territoriale nel quale attraverso politiche diffuse e condivise si aumenta la competitività e l’attrattività del territorio, con un’attenzione particolare alla coesione sociale, alla diffusione della conoscenza, alla crescita creativa, all’accessibilità e alla libertà di movimento, alla fruibilità ambientale e alla qualità del paesaggio e della vita dei cittadini.6 La smartness si concretizza in una più accentuata digitalizzazione del sistema economico e della pubblica amministrazione. Nel testo si pongono al riguardo questioni rilevanti inerenti ai temi delle piattaforme, della loro non frammentazione e del loro controllo, che rimandano tanto a delicati equilibri tra soggetti pubblici diversi quanto al rapporto tra attori pubblici e gruppi privati. Un invito a riflettere sull’insieme di relazioni bidirezionali tra città (o enti locali), Stato e mercato.

Il libro

Marco Doria, Filippo Pizzolato, Adriana Vigneri, (a cura di) Il protagonismo delle città. Crisi, sfide e opportunità nella transizione, Il Mulino, Bologna, 2024.

La redazione del volume è stata curata da Alessandra Miraglia.


1R. Marchetti, Il secolo delle città. Perché i nuovi centri urbani sono i luoghi più adatti per accogliere le sfide del futuro, Luiss Open, 16 aprile 2021.

2R. Marchetti, op.cit.

3G. Sala, Milano e il secolo delle città, La Nave di Teseo, Milano, 2018.

4M. Carta, Dalla Carta di Machu Picchu all’agenda per le città del XXI secolo, in A.I. Lima (a cura di), Per un’architettura come ecologia umana. Studiosi a confronto, Jaca Book, Milano, 2010.

5F. Angelucci (a cura di), Smartness e healthiness per la transizione verso la resilienza. Orizzonti di ricerca interdisciplinare sulla città e il territorio, Franco Angeli, Milano, 2018.

6A. Bonomi, R. Masiero, Dalla smart city alla smart land, Marsilio, Venezia, 2014.

Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa de Il Mulino per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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© 2025, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Greta Cerretti, Andrea Gualchierotti, Il mio posto tra i lupi

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Il libro di Cerretti e Gualchierotti porta il lettore indietro nel tempo. A un periodo molto impegnativo dal punto di vista politico e sociale. Siamo agli sgoccioli del secolo scorso, in un tempo caratterizzato dagli anni di piombo e dagli accadimenti che hanno riconfigurato l’intera area balcanica

La protagonista Liliana viene presentata al lettore come una giovane donna impegnata nello studio e nelle ricerche sul ripopolamento dei lupi insieme al collega Maksim. Vive a Trieste e, ben presto, la sua storia si intreccia con quelle dei profughi istriani. Accadimenti inaspettati sconvolgeranno la vita e la mente di Liliana ma sarà l’incontro/scontro con la guerra che scatenerà in lei un vero e proprio “conflitto”.

Nell’espressione poetica più recente le figure animali paiono assumere un ampio ventaglio di connotazioni simboliche, in alcuni casi assai distanti dalle rappresentazioni convenzionali, e pertanto agiscono in senso figurato all’interno di un campo referenziale che richiede il ricorso a strumenti e codici interpretativi in grado di setacciare i grumi del passato al fine di evitare di rileggere tendenziosamente ogni ripresa letteraria attraverso il filtro di quell’anxiety of influence, teorizzata da Harold Bloom.1

Cerretti e Gualchierotti sembrano aver fatte proprie queste premesse, nell’introdurre un tipo narrativo tanto pregno di simboli e simbolismo ma “utilizzato” per tutt’altro scopo perché non sarà certo il lupo il male indagato dagli autori nel libro. 

Nel Rapporto del 1999 delle Nazioni Unite su quanto accaduto in Bosnia-Erzegovina durante il conflitto armato, l’allora segretario generale Kofi Annan ha affermato che «è stato un errore, un giudizio errato e l’incapacità di riconoscere la portata del male che si aveva dinanzi, la causa per cui l’Onu non è riuscita a fare bene la sua parte e mettere in salvo il popolo di Srebrenica dalla campagna serbo-bosniaca di omicidi di massa».2 Come uno specchio riflettente, i Balcani ricordano ciò che l’Europa è stata nel Novecento, che ora non è più ma potrebbe tornare a essere, che in parte è tornata a essere. 

La situazione geopolitica attuale dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia deriva dalla dissoluzione della Jugoslavia, avvenuta gradualmente a partire dal 1991, con la conseguente nascita delle Repubbliche di Slovenia e di Croazia. La maggior parte dei territori ex italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia appartiene oggi alla Croazia, mentre solo una piccola parte dell’Istria settentrionale è sotto la sovranità slovena. La nascita dei due nuovi Paesi ha portato alla creazione di un nuovo confine in Istria, dividendo in due distinti tronconi un territorio che ha avuto per secoli una storia comune. 

Il 12 novembre del 1920 i Governi italiano e jugoslavo firmarono a Rapallo un Trattato con cui i confini tra i due paesi venivano fissati in maniera consensuale: l’Italia otteneva la quasi totalità della Venezia Giulia (ma non Fiume), mentre rinunciava a quasi tutta la Dalmazia (tranne Zara e l’isola di Lagosta). La città di Fiume divenne Stato Libero e il Governo italiano dovette, in rispetto al trattato, intervenire militarmente contro i legionari di Gabriele D’Annunzio che avevano occupato Fiume sin dal 1919. Nel 1924 l’Italia si annesse Fiume mentre il Porto Baros e una parte dell’entroterra fu assegnata alla Jugoslavia. 

I nuovi confini orientali dell’Italia avevano determinato l’esistenza all’interno del regno di un elevato numero di cittadini di etnia slovena e croata. L’amministrazione italiana dell’immediato dopoguerra evidenziò sin da subito una notevole impreparazione nell’affrontare i problemi specifici relativi alla presenza di consistenti nuclei di minoranze linguistiche autoctone. L’avvento del fascismo portò poi rapidamente a un peggioramento della situazione degli sloveni e dei croati del confine orientale. 

Il clima nella Venezia Giulia nei primi giorni del settembre 1943 era del tutto simile a quello del resto d’Italia. Buona parte della popolazione aveva sopportato con rassegnazione i tre lunghi anni di guerra che avevano portato lutti, sofferenze e privazioni e sperava che, dopo la caduta del fascismo, il conflitto si sarebbe concluso quanto prima. Tuttavia, la presenza dei tedeschi da un lato e l’esistenza di un movimento di resistenza capeggiato dall’elemento slavo induceva a fare i conti con una realtà del tutto incerta.3

La violenza, le deportazioni, le uccisioni, nonché l’esodo umano avvenuti in quei territori è discretamente noto eppure quello che rimane sconosciuto, o peggio ignorato, è il dolore ingenerato da tanto male

Dal momento in cui la teodicea fu sostituita con la filosofia della storia, nel XVIII secolo, fino ai nostri giorni in cui il relativismo riporta a posizioni pre-illuministiche di dogmatismo feroce, ma assolutamente dissimulate dietro il “multiculturalismo” e le teorie della “liquidità”, il concetto di male, così come quello di bene è rimasto indeterminato e problematico. Del male, che ovunque e sempre pullula e si ripete in forme sempre uguali e sempre nuove, rimane impossibile dire cosa sia, quale sia la sua causa prima o se abbia un senso nell’esistenza del mondo.4 Per certo, l’innovazione radicale introdotta dalla filosofia dei Lumi è stata la critica radicale del male come prodotto del diavolo, quindi di un agente esterno, mitico, inscritto nelle potenze extra-umane, con la conseguente interiorizzazione e trasformazione del male in una categoria psicologica, un aspetto della natura umana.5

La protagonista del libro è troppo giovane per aver potuto conoscere il male, quel tipo di male che ha dilaniato un intero territorio e diverse etnie. Eppure Liliana è ben determinata a scoprire tutto quello che è successo e che ora rimane ben nascosto nella mente di sua nonna, malata di Alzheimer. Una malattia che sembra averle fatto “dimenticare” tutto il dolore ma che, in realtà, lo tiene semplicemente nascosto al mondo intero. È sempre lì, dove Tecla lo ha “conservato” per tutti quegli anni. Anche questo aspetto della narrazione sembra ricordare al lettore quanto accaduto. In effetti non è solo il dolore di nonna Tecla ad essere “nascosto” al mondo intero. Quasi ignorato. 

I Balcani stanno scomparendo. Politicamente dimenticati da un’Europa che negli ultimi vent’anni ha preferito aprirsi a Est fino a inglobare gli ex satelliti sovietici, lasciando così un grande vuoto nel proprio cuore geografico e storico. Dentro quest’apparente vuoto si agitano forze in grado di condizionare il futuro dell’intero continente.6

Cerretti e Gualchierotti hanno dato, almeno in parte, voce a queste forze, per tramite della grinta e della determinazione di Liliana, dimostrando che tutti, prima o poi, devono fare i conti col passato per riuscire realmente a guardare avanti, al futuro. 


Il libro

Greta Cerretti, Andrea Gualchierotti, Il mio posto tra i lupi, Bertoni, Marsciano, 2024.


1S. Sibilio, La rappresentazione dei lupi in recenti opere di poeti palestinesi tra intertestualità e innovazione, in Quaderni di Studi arabi, vol. 14, 2019.

2 https://www.securitycouncilreport.org/atf/cf/%7B65BFCF9B-6D27-4E9C-8CD3-CF6E4FF96FF9%7D/a_549_1999.pdf

3G. Rumici, Istria, Fiume e Dalmazia. Profilo storico, Federazione delle Associazioni degli Esuli Istriani Fiumani e Dalmati – 2009.

4G. Cinelli, P. Piredda, (a cura di), La letteratura e il male – Atti del Convegno di Francoforte, 7-7 febbraio 2014, Sapienza Università Editrice, Roma, 2015.

5P.A. Alt, Ästhetik des Bösen, Beck, Monaco, 2010. 

6F. Ronchi, La scomparsa dei Balcani. Il richiamo del nazionalismo, le democrazie fragili, il peso del passato, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (Cz), 2023.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringraziano gli autori per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Francesco Ronchi, La scomparsa dei Balcani

Costruire una solida memoria storica dei mali causati dall’odio umano per non dimenticare neanche “Le verità balcaniche” (Andrea Foffano, Kimerik 2018)

Prigioni mentali e dittature politiche in “193 gabbie” di Rezart Palluqi (Ensemble, 2016)

La responsabilità globale del ‘deserto esistenziale’ de “L’infanzia nelle guerre del Novecento” di Bruno Maida (Giulio Einaudi Editore, 2017)


© 2025, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Homi K. Bhabha, I luoghi della cultura

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I testi coloniali e postcoloniali non ci raccontano la storia dello sviluppo ineguale del mondo. Quest’ultima andrebbe riportata alla luce scavando tra le pieghe della storia ufficiale, alla scoperta di quelli che Bhabha definisce i veri luoghi della cultura, nel tentativo di riscrivere la storia della modernità da una prospettiva non eurocentrica. 

La metafora dei nostri tempi è il voler situare il problema della cultura nel regno dell’oltre. La nostra esistenza attuale è contrassegnata da un oscuro istinto di sopravvivenza, dalla sensazione di vivere ai confini del presente: per descrivere questa sensazione niente è più adatto di quei termini mutevoli, attuali ma controversi, che hanno il prefisso “post”: postmodernismo, postcolonialismo, postfemminismo. Questo “oltre” tuttavia non è né un nuovo orizzonte, né un volersi lasciare alle spalle il passato. In esso si avverte un turbamento, un senso di disorientamento nella direzione da prendere, un moto esplorativo inquieto. 

Teoricamente innovativo, e politicamente essenziale, è il bisogno di pensare al di là delle tradizionali narrazioni relative a soggettività originarie e aurorali, focalizzandosi invece su quei momenti o processi che si producono negli interstizi, nell’articolarsi delle differenze culturali. Questi spazi “inter-medi” costituiscono, per Bhabha, il terreno per l’elaborazione di strategie del sé – come singoli o gruppo – che danno il via a nuovi segni di identità e luoghi innovativi in cui sviluppare la collaborazione e la contestazione nell’atto stesso in cui si definisce l’idea di società. È negli interstizi – emersi dal sovrapporsi e dal succedersi delle differenze – che vengono negoziate le esperienze intersoggettive e collettive di appartenenza a una nazione, di interesse della comunità o di valore culturale. La rappresentazione della differenza non deve essere letta come il riflesso di tratti etnici o culturali già dati e fissati nelle tavole della tradizione; al contrario, l’articolazione sociale della differenza, dal punto di vista della minoranza, è una negoziazione complessa e continua che punta a conferire autorità a ibridi culturali nati in momenti di trasformazione storica. 

La demografia del nuovo internazionalismo è la storia della migrazione postcoloniale, della narrazione di una diaspora culturale e politica, degli enormi spostamenti sociali di comunità contadine e aborigene, della poetica dell’esilio, della prosa spietata di rifugiati politici ed economici. È in questo senso che il confine diventa ciò che a partire da cui una cosa inizia la sua essenza, con un moto non dissimile da quello dell’ambivalente, nomade articolazione dell’oltre. La condizione postcoloniale è un salutare monito sui rapporti ancora “neo-coloniali” che si sono riprodotti nel “nuovo” ordine mondiale e con la divisione del lavoro su scala plurinazionale: questa prospettiva consente di rendere più autentiche le storie di sfruttamento e l’evolversi di strategie di resistenza. Al di là di questo, comunque, la critica postcoloniale si fa testimone di quei paesi e comunità – nel Nord e nel Sud, urbani e rurali – che si sono costituiti, per così dire, in condizioni altre dalla modernità. Queste culture, espressione di una contro-modernità postcoloniale possono condizionare la modernità, introducendovi discontinuità o antagonismi e resistendo alle sue tecnologie oppressive e assimilazioniste, ma possono anche sviluppare l’ibridità culturale insita nella loro condizione di frontiera, per tradurre e dunque ri-scrivere l’immaginario sociale sia della metropoli che della modernità. 

Homi K. Bhabha si rivolge all’Occidente, lo analizza, propone modalità nuove di lettura del presente e del passato, ma è un post-colonialista e il suo lavoro è influenzato dal poststrutturalismo di Jacques Derrida, Jacques Lacan e Michel Foucault. Per noi occidentali il Metodo cartesiano rappresenta un approccio mentale scontato nell’argomentazione (dal formulare un concetto, giustificarlo, dimostrarne l’utilità, accettare solo le evidenze, scomporre un problema, ordinare per importanza, enumerare e revisionare), per l’autore invece fondamentale diventa l’interstizio, l’ibridazione e il “terzo spazio”. Egli ritiene che la produzione culturale è maggiore quando è anche più ambivalente. Bhabha ritiene che tutto il senso dell’appartenenza a una nazione sia costruito discorsivamente, cioè narrativizzato. Descrivendo l’incontro tra due culture, spesso violento, fa notare la nascita di strategie narrative in cui l’incontro non “somma”, ma crea scompiglio nella conoscenza. Si crea un “terzo spazio”, un luogo teorico e simbolico dove gli antagonismi tra dominatori e dominati si annullano nel concetto di ibridità culturale, che include le differenze e rappresenta il presupposto per un incontro costruttivo tra culture senza più gerarchie imposte. Luogo in cui il potere coloniale non viene sostituito da una primitiva e autentica cultura del luogo, ma un territorio che rimescola entrambe le visioni unilaterali che si fronteggiano. 

Oriente/Occidente, nativo/emigrante, colonizzato/colonizzatore, bianco/nero scompaiono dall’orizzonte della discussione, la differenza culturale non è immutabile, né si può tornare indietro nel tempo. Popoli coloniali, postcoloniali, migranti, minoranze, genti erranti sono il segno di un confine in continuo movimento che sposta le frontiere della nazione moderna. Cambia anche il rapporto spazio e storia: il primo non è entità inerte che esiste prima e oltre lo storia, è terreno mobile e conflittuale che frammenta e disloca la linearità temporale. Tentare di liberarsi dall’oppressione facendo appello alla propria identità oppositiva non fa che raddoppiarla. Il passato e il luogo delle origini non forniscono più autonomia culturale e il discorso multiculturale può rivelarsi esso stesso una gabbia.1

Homi K. Bhabha riflette sulle diverse posizioni dei soggetti costretti a spostarsi dal loro ambito socioculturale a un altro. Per questi soggetti viene a crearsi una situazione di spazi inter-medi (in-between) ovvero uno spazio personale che si situa tra quello del collettivo di partenza e quello del collettivo di arrivo. Gli spazi inter-medi implicano una negoziazione continua e la creazione di “ibridità culturali”. 

Oltre al posizionamento culturale del soggetto, la negoziazione si realizza attraverso un concreto referente mentale, spazio-temporale, in cui si contestualizza non solo la lingua, ma più in generale la performance culturale. Per produrre significato nella comunicazione tra un soggetto parlante e il suo interlocutore le loro posizioni devono incontrarsi in un luogo enunciativo di mediazione, il “terzo spazio”.2

Il Ventesimo secolo è stato lo scenario di profonde e multiformi trasformazioni nella totalità del globo, di carattere politico culturale economico e sociale, verificatisi con una rapidità senza precedenti nella storia del mondo. In questo contesto è necessario riconoscere l’importanza della decolonizzazione di Africa e Asia come momento rilevante dal punto di vista geopolitico, dal momento che segnala un drastico mutamento nello scenario internazionale: la liberazione di più della metà della popolazione mondiale dal dominio diretto dei paesi europei e la diaspora dei popoli di questi luoghi sviluppatasi lungo flussi migratori che riproducevano le rotte coloniali e le conseguenze ancora sconosciute dei fenomeni che emergevano nel periodo definito “postcoloniale”. Il “post” del postcoloniale non significa, in termini assoluti, una rottura con il periodo precedente, quello coloniale, e neppure un suo superamento, dal momento che la fine del colonialismo in quanto relazione politica non comportò la fine del colonialismo inteso come relazione sociale, mentalità e forma di sociabilità autoritaria e discriminante.3

L’accezione fondativa degli studi postcoloniali presuppone una revisione critica del passato considerato nei termini della modernità occidentale e la sua identificazione con un presente ancora permeato da una serie di narrative pratiche rappresentazioni e relazioni politiche che confluiscono nella perpetuazione della distribuzione asimmetrica del potere e della ricchezza a livello globale.4

La critica postcoloniale testimonia delle diseguali e inaspettate forze di rappresentazione culturale che agiscono nel contesto dell’autorità politica e sociale in seno al moderno ordine mondiale. Le prospettive postcoloniali emergono dalla testimonianza coloniale dei paesi del Terzo Mondo e dal discorso di “minoranze” tutte interne alle divisioni geopolitiche fra Est e Ovest, Nord e Sud del mondo, per poi disturbare quei discorsi ideologici della modernità che tentano di assegnare una normalità “egemonica” allo sviluppo diseguale e alle vicende differenti – ma spesso penalizzanti – di nazioni, razze, comunità, popoli. L’approccio postcoloniale formula le proprie revisioni critiche sui temi della differenza culturale, dell’autorità sociale e della discriminazione politica per mettere in luce i momenti antagonistici e ambivalenti nell’ambito delle “razionalizzazioni” della modernità.

Per ricostruire il discorso della differenza culturale, allora, non basta solo un mutamento dei contenuti e dei simboli della cultura; è completamente inutile, infatti, situarsi nell’identico lasso di tempo della rappresentazione, ed è invece necessaria, per Bhabha, una revisione radicale della temporalità sociale in cui possono essere scritte le storie che stanno venendo alla luce, accanto a una riformulazione de “segno” in cui possono essere in-scritte le identità culturali.

Il libro

Homi K. Bhabha, I luoghi della cultura. Postcolonialismo e modernità occidentale, Meltemi Editore, Milano, 2024.

Traduzione di Antonio Perri.

Titolo originale: The location of culture (1994).

1BoCulture, Migrazioni, diritti, sopravvivenza: il ruolo delle discipline umanistiche, Convegno-incontro con Homi K. Bhabha, Università di Padova, Padova, 6 giugno 2018.

2H. Nohe, Diventare estranea e marginale. Rappresentazioni e autorappresentazioni del soggetto migrante in Fra-intendimenti (2010) di Kaha Mohamed Aden, apropos – Perspektiven auf die Romania, 5/2020.

3B. Santos, Do Pós-Moderno ao Pós Colonial. E para além de um e outro, Centro de Estudos Socials, Universidade de Coimbra, Coimbra, 2004.

4A. M. Elibio Júnior, C. S. Di Manno De Almeida, Epistemologie del Sud: il postcolonialismo e lo studio delle relazioni internazionali, in Diacronie, n°20, 4/2014.


Source: Si ringrazia l’ufficio Stampa di Meltemi per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, www.pixabay.com


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© 2025, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Michael Pollan, Manuale dell’onnivoro

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Ottantatré raccomandazioni per districarsi nel sempre più complesso mondo del food. Un universo che tende di giorno in giorno ad allontanarsi dalla sua funzione primordiale di “nutrimento per l’organismo” e acquisire tra le più svariate connotazioni che spaziano dallo stile di vita al food porn. La casa editrice Adelphi ripropone, in una veste molto attualizzata, il manuale di Michael Pollan uscito nel 2009 e ripubblicato nel 2011. Un libro inserito nei “fuori collana” ma che sembra davvero anche fuori dal tempo e da qualsiasi tentativo di inquadramento. 

Manuale dell’onnivoro è con ogni probabilità una provocazione, la contro-narrazione del delirio alimentare in cui l’umanità, o almeno gran parte di essa, sembra essere precipitata da anni ormai. Ed è anche un palese invito alle origini, al passato, al consumo del vero cibo, quello che va a male perché è “vivo”. Per Pollan l’umanità si è cibata bene per secoli senza avere nozione alcuna dei componenti, buoni o cattivi che siano, degli alimenti e, soprattutto, senza avere la minima idea di chi o casa fosse il nutrizionista. Ovviamente queste affermazioni sono delle iperboli ma nascondono un fondo di grandi verità e certezze.

Nel corso dell’evoluzione la componente edonica nei confronti del cibo ha aiutato l’essere umano ad assicurarsi un adeguato apporto alimentare. Se per l’uomo preistorico l’esperienza della nutrizione garantiva la sopravvivenza, attualmente non è più così. Per una buona parte della popolazione globale almeno. Oggigiorno gli esseri umani si trovano davanti a una tale sovrabbondanza di cibo che l’esperienza edonica rischia di diventare addirittura un pericolo per la salute. 

In generale l’atto di ingerire alimenti è regolato da una serie di meccanismi dell’organismo, che emettono dei segnali diretti al cervello al fine di indicargli che l’equilibrio energetico, di cui prima era carente, è stato recuperato e tale fenomeno è chiamato “alimentazione omeostatica”. In altri termini, è possibile definire questo fenomeno come quell’alimentazione che risponde alla necessità primaria di preservare l’equilibrio energetico. Ciononostante l’ingestione di alimenti non è motivata esclusivamente dalla necessità di ottenere questo equilibrio energetico, ma la capacità dei cibi di generare piacere induce a mangiare comunque, a prescindere dalla sazietà. Questa è la componente edonica dell’alimentazione che non risponde ai segnali della sazietà. Essa è presente fin dall’inizio del processo, insieme con quella omeostatica. 

Il piacere del cibo è un meccanismo complesso che coinvolge tanti stimoli sensoriali come il gusto, l’olfatto, il tatto e la vista. L’area del cervello maggiormente coinvolta nella rappresentazione cerebrale del valore dei diversi tipi di alimenti e legata al maggior desiderio di consumo di cibo è la corteccia orbitofrontale. Quando ci si trova di fronte a un alimento e se questo è gradito, il cervello e soprattutto la parte della corteccia orbitofrontale fa sì che si produca il desiderio di consumarlo, generando un rinforzo positivo. Nel contempo si attiva anche l’amigdala che fa ricordare quanto ci piace quel cibo. Lo stesso, ma in funzione avversa, accade con un cibo non gradito. I prodotti alimentari ad alta palatabilità agiscono come uno stimolo gratificante nel sistema di ricompensa, dovuto all’aumento di dopamina nel nucleus accumbens che induce alla ripetizione dell’azione del comportamento. Oggigiorno le industrie alimentari, mosse dall’obiettivo di vendere il più possibile, lanciano sul mercato prodotti molto gratificanti e pronti per il consumo e quindi sempre più appetitosi e palatabili. 

Gran parte del piacere gastronomico è dovuto a illusioni cognitive. Ogni dettaglio apparentemente banale può far cambiare la percezione e la valutazione di un cibo.1

Come mai accaduto prima, negli ultimi anni si sta assistendo a una abbondanza inverosimile di trasmissioni di cucina, di ricette, di gare culinarie ma anche di reality, con specifici format lifestyle e makeover. Nella società occidentale contemporanea, dove la maggior parte delle persone è costantemente a dieta, si sta diffondendo una vera e propria ossessione per la cucina, per gli stili alimentari, per le ricette, in generale per tutto ciò che ruota intorno al cibo. 

Qual è il posto del food porn in una società neoliberale in cui la responsabilizzazione individuale ha prodotto il discorso sull’anoressia e in cui al venire meno del welfare state il corpo magro e la dieta diventano sinonimi di moralità e buona cittadinanza? Il  food porn è il piacere voyeristico del cibo, un edonismo mentale che si nutre del piacere dell’attesa piuttosto che dell’esperienza del godimento.  Il proliferare di format di cucina, di gare culinarie o di esperienze alimentari estreme è parte del  food porn. Così come il successo di trasmissioni sulla preparazione di dolci ipercalorici – che attraverso il “cake design” diventano opere d’arte – è legato a un edonismo mentale ormai piegato sull’estetizzazione del piacere. 

La diffusione del food porn è connessa alla foodie culture, una sottocultura che si costruisce intorno al gusto. Per i foodies, seguaci della foodie culture, lo stile alimentare è parte significativa della propria rappresentazione identitaria.2

Le categorie alimentari codificano, e quindi strutturano, gli avvenimenti sociali, mangiare è un’attività rituale e le categorie alimentari costituiscono un sistema di demarcazione sociale: la struttura prevedibile di ogni pasto crea una disciplina che elimina la potenziale confusione. Il pasto è perciò un microcosmo di più ampie strutture sociali e definizioni di barriere: se il cibo è trattato come un codice, il messaggio che esso mette in codice si troverà nello schema di rapporti sociali che vengono espressi. Il messaggio riguarda diversi gradi di gerarchia, inclusione ed esclusione, confini e transizioni attraverso i confini.3

Cibo, cultura ed educazione sono manifestazione di una qualità di vita che comunicano la diversità tra gli uomini di ogni cultura, paese, territorio. L’alimentarsi porta con sé uno specifico patrimonio di conoscenze che si è costruito nel corso degli anni e dei secoli e che è trasmesso di generazione in generazione con i racconti degli anziani, con i libri di storia, con i miti e con le pratiche religiose. Le pietanze che mangiamo nel nostro vivere sono strumento di comunicazione, di relazione e di identità. Lo stretto legame tra cibo e famiglia non rappresenta solo una modalità con cui si verifica la trasmissione dei valori, ma è inoltre uno strumento di socializzazione. È con un’educazione alimentare valida che sviluppiamo nei giovani la coscienza della nostra vita nutritiva. Il confronto tra passato e presente è molto importante per sviluppare un corretto legame intergenerazionale.4

Per Pollan non bisogna mangiare nulla che una bisnonna non avrebbe mai mangiato. Anche questa, ovviamente, suona come una provocazione, o meglio un invito a soffermarsi di più nella valutazione della reale qualità e provenienza del cibo. Tutto questo perché, nonostante il grande bagaglio scientifico o pseudoscientifico accumulato in anni recenti, ancora non sappiamo cosa effettivamente sia meglio mangiare.

È da ritenere che il cibarsi abbia una funzione che oltrepassa il mantenimento nutritivo, ma diviene un’espressione comportamentale di un vivere culturale e sociale. Ogni atto legato al cibo, anche il più semplice e quotidiano, porta con sé una storia ed esprime una cultura complessa. Nello scegliere ciò che mangiamo subiamo spesso pressioni sociali, culturali e, anche inconsapevolmente, ci facciamo guidare dalla pubblicità. Il modo di nutrirsi è collegato anche alle possibilità economiche sia individuali che del luogo in cui si abita. Per esempio, le ristrettezze economiche che, anche in Italia, stanno interessando sempre più le persone, non hanno provocato una riduzione del cibo assunto, bensì una netta variazione delle abitudini alimentari che sembrano essere decisamente peggiorate a livello qualitativo.5

Michael Pollan basa la costruzione delle sue raccomandazioni su due assunti principali: il primo riguarda le persone che seguono la cosiddetta dieta occidentale (molti cibi lavorati, carne, molti grassi e zuccheri aggiunti, molti cereali raffinati, molto di tutto tranne frutta, verdura e cereali integrali). Costoro invariabilmente soffrono di un alto tasso delle cosiddette malattie occidentali: obesità, diabete di tipo 2, disturbi cardiovascolari, cancro; il secondo riguarda le persone che seguono una delle varie diete tradizionali e che, in genere, non soffrono di queste malattie croniche. 

Tuttavia, piuttosto che lavorare alle modifiche della dieta occidentale si cerca di individuare quali siano o possano essere le singole sostanze dannose (ossidanti, grassi saturi, carboidrati, glutine, zuccheri aggiunti, e via discorrendo). E tutto questo viene fatto, secondo l’analisi dell’autore, in modo che le industrie alimentari possano apportare solo lievi modifiche ai loro prodotti, lasciando inalterata la dieta nel suo complesso, o in modo che le industrie farmaceutiche possano ideare e smerciare antidoti risolutori. La dieta occidentale è un affare. Più il cibo è lavorato, più diventa lucroso. 

Il manuale di Michael Pollan è stato pubblicato per la prima volta nel 2009. Quanta strada è stata fatta da allora? Quanto è realmente aumentata la consapevolezza nei confronti della nutrizione?

In media, il 59% degli adulti e il 28% dei bambini e degli adolescenti in Unione Europea sono in sovrappeso. La maggior parte della popolazione non raggiunge i livelli di attività fisica raccomandati (150 minuti a settimana). I livelli di coinvolgimento più bassi si registrano in Portogallo, Cipro, Germania, Malta e Italia. L’alimentazione degli europei sta passando a una dieta di tipo occidentale, con un elevato consumo di zucchero e sale, associato a una dieta di scarsa qualità. L’educazione alimentare è obbligatoria nel curriculum nazionale per le scuole primarie e/o secondarie di 18 paesi UE (Austria, Bulgaria, Croazia, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Grecia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Portogallo, Slovacchia, Svezia). In Italia l’educazione alimentare non è obbligatoria.6

Ecco perché i libri come Manuale dell’onnivoro, che sono al contempo delle provocazioni e dei moniti, risultano essere assolutamente necessari ancora oggi. 


Il libro

Michael Pollan, Manuale dell’onnivoro, Adelphi Edizioni, Milano, 2024.

Illustrazioni di Maira Kalman.

Traduzione di Livia Signorini.

Titolo originale: Food Rules An Eater’s Manual (2009).


1G. Cesarini Argiroffo, Il rapporto uomo-cibo, in Neuroscienze, 30 aprile 2019.

2L. Stagi, Food Porn. L’ossessione per il cibo in TV e nei social media, EGEA, Milano, 2016.

3M. Douglas, Antropologia e simbolismo. Religione, cibo e denaro nella vita sociale, Il Mulino, Bologna, 1985.

4B. Bertocci, P. Cavallero, Il cibo: uno strumento per socializzare le generazioni, in Turismo e Psicologia – Rivista interdisciplinare di studi, ricerche e formazione, Padova University press, Padova, 10 (2), 2017.

5B. Bertocci, P. Cavallero, op.cit.

6M. Antonelli, Report L’Europa e il cibo. Garantire benefici sull’ambiente, sulla salute e sulla società per la transizione globale, Barilla Center for Food & Nutrition Foundation, Autunno 2020.

Articolo pubblicato su LuciaLibri.it


Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Philippe Forest, Il romanzo, il reale e altri saggi

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Il romanzo risponde all’appello del reale – l’appello rivolto a chiunque si trovi confrontato all’esperienza dell’impossibile, allo strazio del desiderio e del lutto. Succede in quel momento qualcosa che chiede di essere detto e che non può esserlo se non nella lingua del romanzo, perché è la sola a restare fedele alla vertigine che si apre allora nel tessuto del senso, nella rete delle apparenze, per lasciare che vi si intraveda lo scintillio di una minuscola rivelazione. È questo il realismo del romanzo che proviene dall’esistenza vissuta e da cui si deduce una verità, dato che il lavoro dello scrittore consiste nel riprenderla senza sosta, nel tornare incessantemente verso di lei. 

Visto che risponde all’appello del reale, che scaturisce dall’impossibile e che un protocollo di questo genere esige l’esperienza che gli dia senso e lo giustifichi, il romanzo si scrive sempre in prima persona singolare, ma l’io di cui rende conto è esattamente il contrario di quello su cui poggia il principio opposto dell’impresa autobiografica: non presuppone alcuna identità personale da esprimere positivamente ma conduce verso l’orizzonte estatico in cui il soggetto si compie negativamente nel faccia a faccia con l’impossibile. Colui che scrive la sua vita si sdoppia e diventa per sé stesso un altro, una figura fittizia di cui il romanzo dice le avventure e le trasformazioni. Per questo non è necessario dedurre il romanzo dalla realtà dalla quale peraltro proviene ma che esso soprattutto restituisce alla sua verità inventata. Troppo spesso ricondotta a un neonaturalismo dell’intimo, la nozione di autofiction deve essere superata al fine di restituire al “romanzo dell’io” la sua vera dimensione. 

Ogni testo è in costante interazione col lettore, senza lettori il testo è incompleto e l’atto creativo un atto imperfetto. Il lettore mette in moto la “macchina pigra” che è il testo e procede per “sentieri narrativi” che l’autore ha o non ha definito, come in un bosco dove ogni strada è nuova.1 Il lettore compie delle scelte perché costituisce la trama stessa del tessuto narrativo. L’autore, a sua volta, ha operato progressivamente una “fuga” dalle sue narrazioni, una fuga che al principio si configura come evoluzione, trasformazione. Si è trasformato, da creatore di personaggi, in personaggio egli stesso grazie alla narrazione in prima persona.2 È questo il caso de La familia de Pascual Duarte di Camilo José Cela, pubblicato nel 1941, il primo romanzo significativo del panorama letterario del dopoguerra spagnolo. Fin dalle prime pagine il libro si presenta “votato” alla verosimiglianza e al rispetto del patto letterario: i sentieri sono perfettamente tracciati dall’autore, impegnato a mettere in atto le strategie narrative che il lettore riconosce. Sottolinea Cela che i punti cardine assolutamente da perseguire sono: sincerità, verità, lealtà, chiarezza.3

Il romanzo della seconda decade del post-dopoguerra mostra già i segni di un graduale allontanamento dell’autore dalla creatura narrativa. 

Da una parte ci sono gli autori che inventano le storie, la cui abilità consiste nel congegnarle bene, scriverle in buona lingua, dopo averle affidate a personaggi accattivanti e persuasivi, non senza aver dosato con sapienza i sentimenti. Dall’altro lato ci sono gli autori che non scrivono storie ma vita, quella di cui loro stessi sono i protagonisti, e nel farlo scoprono che il romanzo, la finzione narrativa che nasce dal racconto di certe esperienze, è l’unico luogo in cui l’io esiste. L’alternativa è tra una narrativa di consumo e un romanzo del reale. La forma narrativa che rende possibile l’esistenza di un romanzo contemporaneo, al di là e separatamente da quello commerciale, è la scrittura dell’io. Se realismo è resoconto minuzioso della realtà, del suo possibile, romanzo del reale al contrario è quello che mira a dire, del reale, l’impossibile. 

Chiunque racconti la propria vita, inevitabilmente, dandole forma di racconto, la trasforma in finzione. Poiché la verità ha struttura di finzione, la finzione deve raddoppiarsi, diventare finzione di sé stessa, se vuole sperare di ricondurre autore e lettore verso il luogo eventuale della verità.4

La possibilità odierna di vita per un genere come quello del romanzo, infinitamente e reiteratamente dato per morto, risiede per Philip Forest nella sua capacità di farsi scrittura per l’esperienza estrema, quella cui è legata la nostra vera vita, emotiva e intellettuale, ma che il discorso sociale non integra per la sua scomodità. L’esperienza estrema è la parte maledetta delle nostre vite, tutto ciò per cui l’universo della ragione vacilla e viene meno: il riso, l’ebrezza, l’efferatezza erotica o mistica, il male, infine la morte. 

Filosoficamente parlando, la verità risiede nell’accordo tra il linguaggio e il reale. Se il reale, come afferma Lacan, si presenta come impossibile, cercare il vero – questo il romanzo per Forest dovrebbe fare – consiste nel cercare l’impossibile, l’insostenibile, il limite, il momento in cui il senso viene meno. Il romanzo risponde al reale, ma risponde anche del reale, attraverso lo smantellamento dell’identità in quanto certezza, esso si fa testimoniale. Rende conto di ciò che avviene nelle sue dinamiche interne e di rapporto con l’esperienza vissuta, in modo tale che lo scandalo, l’osceno, l’indicibile ne siano salvaguardati, e non cada nell’oblio ciò che essa rappresenta. Nasce con Forest un nouvel engagementper il terzo millennio, che sdogana il sentimento, il pathos, forma moderna di un osceno che il puritanesimo contemporaneo si rifiuta di considerare.5

Foscolo ha sempre avuto una visione austera e appassionata del mondo, che non è retto dalla Provvidenza bensì dalla forza, tuttavia l’amore, la libertà, la giustizia non vi sono del tutto impossibili (altrimenti la società tutta intera si disfacerebbe), e si può anche mostrare come operano e dove. Senza mai ammettere esplicitamente di averli imitati, Foscolo riconosce in Nouvelle Héloïse (Jean-Jacques Rousseau) e Werther (Johann Wolfgang von Goethe) i capostipiti di un filone narrativo contemporaneo cui anche lui si è ispirato. Per lui l’opera d’arte non è una totalità autosufficiente, retta da leggi immanenti, un sistema simbolico, come avevano iniziato a teorizzare in Germania, intorno al 1875 Moritz e Goethe. Essa è piuttosto la rappresentazione di un “fatto”, di un “vero”, cioè di una storia, di una serie di eventi fra loro connessi che un primo scrittore ha colto nella sua verità e da cui gli autori successivi, i suoi imitatori, non potranno più dipartirsi. Due scrittori, pur trattando lo stesso argomento, lo possono svolgere in modo diverso, e con diverso successo, uno per esempio sorpassando gli altri nel grado di “realtà” che conferisce ai suoi personaggi, un altro invece rendendosi meritevole per il grado di bellezza ideale che ha infuso in essi. Foscolo rimane dunque fedele a una concezione classicista della letteratura, che gli permette fra l’altro di distinguere l’invenzione di un particolare contenuto narrativo dal grado di perfezione raggiunto nella sua rappresentazione.6

Il novel nasce in Inghilterra come reazione al fantastico dei romanzi cavallereschi e all’eroico dei romanzi eroici, specialmente francesi, del Seicento: dai generi precedenti, dotti o popolari che siano, dalle novelle, dal romanzo picaresco, dal saggio di costume, dalle biografie dei criminali, il novel assorbe soltanto ciò che non sia eroico né fantastico, tutto ciò che abbia almeno parvenza di verità. E il rifiuto dell’eroico e del fantastico porta con sé il rifiuto dello stile pseudoepico e pseudopoetico, roboante e ornato. Il che significa un mutamento di gusto nei lettori, e viene naturale attribuirlo al mutamento sociale avvenuto in Inghilterra con la rivoluzione del 1688 e la presa di potere della borghesia. Quel predominio di classe non durò e con esso cadde anche il predominio di gusto. I puritani borghesi e aristocratici per le loro ore d’ozio non vogliono più romanzi cavallereschi, come non vogliono più né drammi eroici né commedie immorali. Bisognava quindi istruirli offrendo testi loro graditi: romanzi che possano dare l’illusione di verità. Ovvero il novel

Oltre al realismo, il romanzo del Settecento inglese ha, infatti, un suo fine educativo. Puritanesimo e borghesismo si mescolano. O meglio, l’istruzione che il romanzo del Settecento dà dipende da un’interpretazione borghese del puritanesimo.7

Il puritanesimo come costante culturale, come indispensabile anello di congiunzione tra espressione letteraria del Seicento e del Settecento, si muove tra le due personalità complesse e prolifiche di Milton e Defoe, per andare poi a compiersi, e per il momento a esaurirsi, in Richardson. Milton è innanzitutto e principalmente l’esempio morale, la manifestazione vivente di come sia possibile per una coscienza puritana, preoccupata in primo e fondamentale luogo di tenersi lontana dalla menzogna, esprimersi nelle forme letterarie più raffinate che la tradizione europea abbia elaborato, senza con ciò venir meno al proprio rigore e alla propria onestà. 

La letteratura moderna è ricca di utopie in cui l’autore di volta in volta proietta le sue speranze e i suoi progetti per una convivenza umana più giusta e più civile. Anche Defoe, erede al tempo stesso della tradizione puritana e degli esperimenti coloniali inglesi, ne propone una nella seconda parte del Robinson Crusoe, le Farther Adventures. L’interesse di questa utopia non sta tanto nelle soluzioni trovate, ma soprattutto nel fatto che egli arriva a configurarla per gradi, quando è posto dinanzi alla necessità di descrivere la vita che si svolge sull’isola dopo che essa ha cominciato a popolarsi. L’originalità di Defoe sta nell’aver introdotto la dimensione del tempo nell’utopia.  Farther Adventures si caratterizza come una “utopia narrativa”. Il divenire di questa colonia modello non solo permette una costruzione progressivamente aderente alle mutate esigenze dei suoi abitanti, ma anche porta a una definizione e a un progressivo sviluppo del loro mondo morale e psicologico, trasformandoli da strumenti di un esperimento sociale in veri e propri personaggi narrativi.8

Nella visione di Forest, questa è la morale del romanzo moderno: presuppone che rispondendo al reale, non rinunci a rispondere anche di lui, a farsene garante in modo che, attraverso le finzioni che costruisce, il romanzo ci faccia comunicare ancora con la parte ormai sottrattaci delle nostre vite, ci trasformi nei testimoni di un’esperienza che ha fatto di noi quello che siamo e che la scrittura, inevitabilmente colpevole, non può tradurre se non a condizione di tradirla. E se il romanzo, in tali condizioni, diventa in effetti il luogo in cui è sospeso qualunque giudizio morale, questa formula, ben lungi dal significare una qualunque resa al nichilismo, deve essere capita come invito a un movimento singolare in direzione dell’assoluto di una verità nella quale risiede l’esclusiva e sufficiente possibilità dell’impegno letterario, a sua volta diretto verso l’orizzonte perpetuo di un eventuale giorno successivo. Potrebbe sembrare una tesi priva di qualsivoglia ambizione e originalità, invece rivendica di non essere altro che la ripresa di una certa concezione della letteratura, accontentandosi di ricordarla in tempi di unanime oblio, di generale degenerazione. 

Il libro è una visione polemica dello stato attuale di una letteratura post-moderna dalla quale la nozione di reale viene censurata due volte. Da un altro, il neo-naturalismo (che domina nelle forme egemoniche del romanzo commerciale e della world-fiction) sfugge al reale pretendendo di poter offrire del mondo una rappresentazione positiva dalla quale si trova a essere evinta qualunque riflessione del testo su sé stesso e sull’impossibile da cui procede. Dall’altro, il neo-formalismo (che tutta una parte di creazione romanzesca e poetica attuale rivendica), coerente con un’estetica della simulazione e del virtuale, congeda quello stesso reale in nome di una concezione della letteratura distaccata dal mondo, che si autocompiace e si presenta come un esercizio ludico e ironico che basta a sé stesso. Il romanzo del reale non costituisce quindi in alcun modo una sorta di “nuovo romanzo” che la letteratura attuale dovrebbe inventare per sostituirsi alle forme fossili della creazione e aggiungere un capitolo molto contingente alla storia delle avanguardie. All’opposto, il romanzo del reale aspira semplicemente all’espressione costante di una verità intonsa dell’esperienza letteraria quale essa appare delineata dalle grandi opere del passato e sempre attiva oggi nel romanzo vivo. 

La tesi di Forest è questa: la possibilità romanzesca dipende dalla capacità che ha il testo di rispondere all’appello inaudito del reale. È doveroso distinguere da una parte il reale, spazio di negatività da cui il testo procede e verso il quale avanza, dall’altra, la realtà, trappola che il realismo sostituisce al reale per sbarrarne l’accesso, impedirne l’esperienza. La realtàcome brutto romanzo che si sostituisce al sentimento proprio della nostra esistenza. La realtà: sedimentazione di sogni fatti da altri, pesante accumulo di finzioni fossili. 

Il realismo romanzesco, in effetti (in quanto finzione immaginaria, oggi affiancata se non sostituita dal cinema), è ciò che programma il modo in cui noi pensiamo la nostra esistenza, lo schema che determina la possibilità dei nostri pensieri, dei nostri gesti, delle nostre emozioni apparentemente più intime o più singolari. In altre parole, sono i romanzi a insegnarci che cosa può essere la realtà, sono loro a modellare la forma del verosimile ai nostri occhi, a determinare i ruoli stereotipati che potremo interpretare credendo di viverli, a concepire gli intrighi intercambiabili di cui avremo l’illusione che costituiscono il corso uguale a nessun altro della nostra storia personale più segreta. Così, per l’autore, ciò che viene fatto passare per realtà e che, inizialmente, accettiamo come tale, non è mai altro che finzione. Per cui il romanzo che egli costruisce è la finzione della finzione, che è la realtà e che, annullandola tramite questo raddoppiamento, consente di giungere a quel punto di reale nel quale esso si rinnova e attraverso il quale ci comunica il senso vero della nostra vita. 

Il libro

Philippe Forest, Il romanzo, il reale e altri saggi, Rosenberg & Sellier, Torino, 2024.

Traduzione di Gabriella Bosco.

Titolo originale: Le roman, le réel et autres essais.


1U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Bompiani, Milano, 1994.

2J.M. Castellet, L’ora del lettore, Einaudi, Torino, 1962.

3R. Pignataro, La fuga dell’Io narrativo nel romanzo del dopoguerra spagnolo, in L’analisi linguistica e letteraria, Anno XXII – 1-2/2014, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 2014.

4G. Bosco, Nella vertigine dell’identità, in Il romanzo, il real e altri saggi.

5G. Bosco, op.cit.

6E. Neppi, Le origini del romanzo “moderno” secondo Foscolo: la Julie, il Werther e… Jacopo Ortis, in C. Berra, P. Borsa, G. Ravera (a cura di), Foscolo critico – XV Convegno internazionale di Letteratura italiana “Gennaro Barbarisi”, Quaderno di Gargnano – Università degli Studi di Milano, 2012. 

7S. Baldi, Letteratura inglese – Romanzi inglesi del Settecento, in C. Guerrieri Crocetti, C. Pellegrini, Storia delle letterature moderne d’Europa e d’America, Vallardi, Milano, 1958. 

8ML. Bignami, Daniel Dedoe, Dal saggio al romanzo, La Nuova Italia – Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, Firenze, 1984.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Rosenberg&Sellier per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Alessio Ricci, La lingua di Leopardi

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Una delle qualità fondamentali della lingua e dello stile di Leopardi è senza dubbio la varietà. Una varietà linguistica e stilistica che è in primo luogo il riflesso della varietà di generi letterari che egli ha sperimentato: dalla lirica suprema dei Canti alla poesia narrativa e corrosiva dei Paralipomeni, dalla prosa fantastica e metafisica delle Operette a quella monolitica ed “europea” dei Pensieri, fino all’Epistolario e lo Zibaldone. Esperimenti che hanno avuto la forza di innovare in profondità, talora dalle fondamenta, il modo di fare letteratura in Italia e fuori da essa.

«La lingua italiana è piuttosto un complesso di lingue che una lingua sola, potendo tanto variare secondo i vari soggetti, e stili, e caratteri degli scrittori che quei diversi stili paiono quasi diverse lingue, non avendo presso che alcuna relazione scambievole.»1

Leopardi era consapevole dello stretto rapporto che lega la lingua alla cultura e alla nazione: «La storia di ciascuna lingua è la storia di quelli che la parlarono o la parlano, e la storia delle lingue è la storia della mente umana».2 Ma nel momento in cui egli sposta il problema teorico della lingua a quello dei parlanti e alla storia delle idee veicolate appunto tramite la lingua s’imbatte nella dicotomia categoriale insita nella prospettiva sociolinguistica di ogni idioma: da una parte il punto di vista che privilegia l’uniformità e l’omogeneità e dall’altra quello che sottolinea la varietà e la molteplicità. Il prevalere di una delle caratteristiche sull’altra è strettamente connesso al tipo di organizzazione sociale di cui la lingua è uno strumento comunicazionale.3

In Italia, l’assenza di unità della nazione ha affidato un ruolo fondamentale, nella omogeneità normativa linguistica, al primato artistico e letterario svolto tra il quattordicesimo e il sedicesimo secolo da Firenze e dalla Toscana. Ma questa omogeneità, secondo Leopardi, sarebbe «cosa ridicola che in un paese privo affatto di unità, e dove nessuna città, nessuna provincia sovrasta all’altra, si voglia introdurre questa tirannia nella lingua».4 In comune con Manzoni eglilamenta la mancanza di un’unità nazionale e di una capitale che possa aver favorito la standardizzazione della lingua ma, a differenza dello scrittore lombardo, non accetta come soluzione linguistica unificante quella di «risciacquar i panni in Arno», scelta adottata da Manzoni a partire dal 1827. In qualche modo Leopardi anticipa il concetto di sistema, che è alla base del Cours de linguistique générale di De Saussure, quando affronta la dinamica che ogni poeta dovrebbe tener presente tra adozione di una lingua “comune e nazionale” e riutilizzo di forme antiche che favoriscono nel lettore l’accesso all’evocazione del passato e la proiezione nell’immaginario.5

Nell’ottica di Leopardi, tutto ciò che è umano ha a che fare in qualche modo con la lingua: letteratura, politica, storia nazionale, sistema delle idee.6 Per il poeta recanatese la lingua andrebbe a incidere anche sulla memoria.

«La poca memoria de’ bambini e de’ fanciulli, che si conosce anche dalla dimenticanza in cui tutti siamo de’ primi avvenimenti della nostra vita, e giù giù proporzionatamente e gradatamente, non potrebbe attribuirsi (almeno in gran parte) alla mancanza di linguaggio ne’ bambini, e alla imperfezione e scarsezza di esso ne’ fanciulli?»7

La parola costituisce l’uomo, ma costituisce l’uomo perché essa crea il mondo nel quale vive e opera l’uomo. La parola, intesa come capacità di dare un nome alle cose, di verbalizzare le esperienze presenti, di ricordare quelle passate, di progettarne altre e, infine, di fare una serie di operazioni con esse, come operazioni di selezione e di combinazione di parole, creando nuovi significati. Privo della parola, l’uomo non avrebbe mai potuto intendere e volere una qualunque cosa, avere memoria e ricordare eventi passati, programmare la sua esistenza e progettare il futuro. Non si sarebbe mai neanche posto tutti questi interrogativi.8

Leopardi ha speso “la favola della vita” a ragionare sulla natura, sull’uomo, sulle letterature e sulle lingue, e lo ha fatto nel solo modo possibile: attraverso le parole. 

Il panorama della situazione linguistica e culturale dell’Italia della Restaurazione è caratterizzato dal problema della costruzione di una lingua nazionale moderna che non aveva ancora trovato una soluzione soddisfacente, e dalla scissione tra lingua parlata e scritta. In questo contesto egli assume una posizione originale, dettata dal suo personale modo di considerare le lingue, alternativa sia al purismo che ai suoi detrattori. Mancando letteratura, la lingua è rimasta quella illustre del tempo antico, che non è idonea a esprimere nuove idee. Per uscire da questa situazione, Leopardi propone in un certo senso di rimettere in cammino la lingua italiana, di ridarle nuova linfa culturale e vigore, tenendo conto però della sua ricca, variegata e inestimabile storia.9

Un letterato di primo Ottocento aveva a disposizione una quantità di varianti fonologiche e morfologiche davvero notevole. Se questa spiccata varietà di forme – nei secoli precedenti era ancora maggiore, mentre oggi è ridottissima – per uno scrittore come Manzoni, sensibile alla funzione sociale del linguaggio, poteva persino rappresentare un ostacolo al processo di unificazione linguistica ancora di là da venire, era invece linfa vitale per alimentare l’impegno creativo di un autore come Leopardi, costantemente alla ricerca di forme di lingua e di stile sempre diverse, che potessero esprimere tutta la varietà del suo “pensiero in movimento”.10

In realtà, sottolinea Ricci, non sempre la scelta tra un’opzione e l’altra era in effetti libera: spesso era invece condizionata da fattori legati al tipo di testo che si stava scrivendo oppure alle caratteristiche di un certo genere di scrittura. Però è innegabile che avere a disposizione due o più alternative per uno stesso referente moltiplica le soluzioni in relazione sia alla variatio lessicale sia alla metrica. 

L’aggettivo solitario viene utilizzato da Leopardi in due titoli (La vita solitaria e Il passero solitario) e in altre dieci occasioni. Accanto a esso, il poeta si serve anche dei più lirici ermoromito solingo. La scelta è dipesa, di volta in volta, dalla varia modulazione sia delle implicazioni metriche (si va dalle due sillabe di ermo che, iniziando in vocale, può legarsi in sinalefe anche con la parola precedente, alle quattro di solitario) sia delle distribuzioni interne al singolo canto o al libro intero. 

Quando il poeta, per esprimere la stessa cosa, ha a disposizione due o più risorse lessicali, la sua opzione sarà dettata dal livello stilistico del componimento. Nei Canti incontriamo otto volte un verbo di uso comune come prendere, mentre solo due volte il più familiare pigliare e sempre in contesti stilisticamente umili: nella prima lassa della Quiete (caratterizzata da “modestia di registro”).11 Anche quando Leopardi ricorre a un accostamento non inedito, la pregnanza e la “leopardianità” dell’attributo rendono quell’accostamento nuovo e originale. È stato preso in esame il celeberrimo “lenta ginestra” dell’attacco dell’ultima strofa della canzone: «E tu, lenta ginestra, / Che di selve odorate / Queste campagne dispogliate adorni».12 La ginestra leopardiana, stante la condizione di pieghevolezza, diventa un’allegoria di chi non si oppone alla sua sorte con vano orgoglio o con vili lamenti, ma accetta la legge della natura e la propria morte con consapevolezza e dignità.13

La ricerca di un adeguato strumento linguistico è collegata sempre alla scelta dei contenuti da esprimere, ai sistemi di idee che le parole rappresentano e fanno circolare. La posizione di Leopardi è piuttosto isolata nel dibattito del tempo dove, dopo l’esperienza riformatrice, la discussione sulla questione della lingua tendeva a ripresentarsi solo come ricerca linguistica fine a sé stessa, sterile e inutile, o come espressione retorica priva dello spessore culturale e molto distante, quindi, dai modelli di eloquenza che erano operanti a metà Settecento. Il dissenso che egli manifesta nei confronti della cultura del tempo è molto forte: «Tutte le opere letterarie italiane d’oggidì sono inanimate, esangui, senza moto, senza calore, senza vita».14 La mancanza di una lingua e di una società moderna in Italia dipende dalla mancanza di una nazione, dalla sua nullità politica e militare, dal fatto che è priva di una capitale, una letteratura, un teatro, una conversazione sociale, cioè di quelle istituzioni che assicurano una uniformità di opinioni e di costumi che è poi alla base della coesione sociale.15

La diagnosi di Leopardi della società italiana e delle forze politiche e culturali che governano l’opinione pubblica ricalca quel nesso tra letteratura e lingua, collegato a sua volta a quello, altrettanto centrale, tra nazione e lingua, e che si risolve nella reciproca determinazione fra condizioni linguistiche, condizioni politiche e forme della produzione culturale, il cui intreccio può ricordare l’impostazione che Gramsci avrebbe considerato molto tempo dopo la questione della lingua.16 Sul fatto che Leopardi cercasse consapevolmente e tenacemente la propria lingua poetica non c’è dubbio. La ricerca di lingua e di stile è orgogliosamente dichiarata nelle Annotazioni alle dieci canzoni. Le fittissime pagine delle annotazioni linguistiche sono un duello col Vocabolario della Crusca e coi reali o supposti critici puristi, volto a denunciare le lacune di quel dizionario e a integrarle coi testi canonici, a dimostrare la propria ortodossia alla tradizione sancita da quel dizionario stesso e insieme ad affermare la propria libertà e creatività.17 I grandi poeti sono anche grandi architetti.18Leopardi architetto si vede sia nelle microstrutture (disposizione delle parole o vari fenomeni microsintattici) sia nelle macrostrutture (dalla creazione della singola strofa o del singolo periodo alla composizione dell’intero testo). E allora, come evidenzia Ricci, al pari di una partitura musicale, le poesie e le prose leopardiane si configurano in una poliedrica varietà di soluzioni, dove costanti e varianti vengono intessute e dosate per inseguire, di volta in volta, la lingua e lo stile che Leopardi riteneva più adatti alle cose da dire. 


Il libro

Alessio Ricci, La lingua di Leopardi, Società Editrice Il Mulino, Bologna, 2024.


1G. Leopardi, Zibaldone.

2G. Leopardi, Zibaldone.

3A. Luzi, Le mythe repensé dans l’œuvre de Giacomo Leopardi, Presses universitaires de Provence, Aix-en-Provence, 2016.

4G. Leopardi, Zibaldone

5A. Luzi, op.cit.

6F. D’Intino, L. Maccioni, Leopardi: guida allo Zibaldone, Carocci, Roma, 2016.

7G. Leopardi, Zibaldone.

8R. Pititto, Processi linguistici e processi cognitivi. Verso una teoria della mente, Unina – Università degli Studi di Napoli, 2004.

9A. Prato, Il rapporto tra linguaggio e società nella filosofia di Leopardi, in Natura Società Letteratura, Atti del XXII Congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti, Bologna, 2018.

10S. Solmi, La vita e il pensiero di leopardi, in G. Pacchiano (a cura di), Studi leopardiani, Adelphi, Milano, 1987.

11P.V. Mengaldo, Leopardi antiromantico. E altri saggi sui Canti, Il Mulino, Bologna, 2012.

12G. Leopardi, La ginestra, o il fiore del deserto.

13P.V. Mengaldo, L’epistolario di Nievo: un’analisi linguistica, Il Mulino, Bologna, 2006.

14G. Leopardi, Zibaldone.

15A. Prato, op.cit.

16S. Gensini, Leopardi «filosofo linguista italiano», XLIX-L.

17G. Nencioni, La lingua del leopardi lirico, in Id., La lingua dei “Malavoglia” e altri scritti di prosa, poesia e memoria, Morano, Napoli, 1988.

18P.V. Mengaldo, Leopardi antiromanticoop.cit.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa de Il Mulino per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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© 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Giuliano Brenna, L’odore dei cortili

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Nel 1926 un colpo di Stato militare diede inizio a un lungo periodo di dittatura. Il Portogallo fu dominato, a partire dal 1932, da Antonio de Oliveira Salazar, il quale diede vita a uno Stato di stampo fascista, corporativo e molto legato alle gerarchie della Chiesa cattolica, per diversi aspetti assimilabile al franchismo spagnolo. Salazar rimase al potere sino al 1968, in un contesto di persistente arretratezza economica e sociale. Ma la dittatura, seppure con alcune moderate aperture, sopravvisse fino al 1974, quando fu abbattuta, nel contesto delle difficoltà poste dal processo di decolonizzazione, dalla rivoluzione dei garofani (un colpo di Stato messo in atto da forze militari progressiste).1

Quello appena descritto è esattamente il Portogallo che fa da sfondo all’intera vicenda narrata da Brenna ne L’odore dei cortili. Un intenso romanzo nel quale si intreccia la storia di un intero Paese con quella di umili cittadini i quali subiscono scelte non proprie e accadimenti tragici che cambiano il corso delle loro vite, le modificano, le distruggono e, proprio quando sembra che tutto sia perduto, ecco la speranza che nasce silenziosa e cresce come un piccolo fiore sbucato dal cemento. Improbabile eppure reale. 

Nella prima parte del libro protagonisti sono Mattia e sua madre, Serena, una donna segnata dalla vita e dal tempo.

«Le sembra che le sue giornate siano diventate come le foglie di tiglio (per la tisana, ndr), all’inizio fragranti, dense di profumo e promettenti un gusto delizioso, ma col trascorrere delle ore le acque della vita ne sottraggono l’essenza, fino a che, giunta la sera, si ritrova con una poltiglia tiepida e amarognola.»

Serena trasmette un senso di angoscia esistenziale che sembra l’opposto di quello del figlio. Ella sembra svegliarsi pronta ad accogliere la vita per poi ritrovarsi, a fine giornata, stremata da eventi e sentimenti. Mattia sembra avere, invece, come unico obiettivo quello di nascondersi, agli altri, alla vita e finanche a sé stesso. Un atteggiamento che manterrà fino all’età adulta, allorquando all’isolamento volontario sostituirà una certa voglia di autopunirsi per colpe non sue. L’inquietudine esistenziale di Mattia, rimpolpata da un vortice altalenante di emozioni, lo porterà a cercare il brivido della vita in situazioni dove la stessa è, in realtà, in grave pericolo. 

«Il dolore ha finito per sopraffarla, si sente come un corpo che ha galleggiato su di una superficie di acqua gelida e lentamente, giorno dopo giorno, impregnata del liquidi è affondata. Invece il dolore ha fatto la cosa opposta nella vita di Mattia che, al di là della parete, sembra ora sfuggirgli dopo una lunga immobilità, quasi una reclusione volontaria. Il nipote usa la terribile sofferenza, con cui ha imparato a convivere, come forza interiore che lo spinge a cercare la sua strada.»

O meglio, questo è quello che pensa Clara, sua zia. In realtà Mattia non ha proprio idea di cosa significhi una vita senza dolore. Ma Clara non è obiettiva, guarda e cerca di capire il suo dolore attraverso gli occhi del proprio. Quello mostrato da Clara sembra un vero e proprio disagio empatico. La paura che il dolore di Mattia possa aggravare il proprio la blocca al punto che sminuisce il primo altrimenti non riuscirebbe mai a reggere il peso emotivo di entrambi. 

Serena e Mattia sono vittime del regime dittatoriale, del clima di sospetto che questi ha ingenerato nell’intera popolazione, sono vittime perché privati delle libertà alla base dei diritti umani. 

«Serena pensa alla dittatura che rende tutto ciò così difficile, la censura filtra ogni cosa che giunge da fuori, e trova mille giustificazioni al silenzio dell’amato scomparso, per quanto ne sa, nel ventre di Parigi, città che lei immagina bellissima ma temibile, come una piovra che imprigiona che le si avvicina con tentacoli invincibili e al contempo deliziosi

Per anni Serena si è nutrita di un amore che forse ha solamente “nutrito” il suo cuore e tormentato Mattia per la cui assenza ha sempre vissuto come un paria. Il diverso senza un padre. Una diversità che poi non è neanche tale, ma nella dittatura in cui vivono diventa un vero flagello. 

«Il regime ha talmente avvelenato gli animi delle persone che anche i semplici cittadini, nel tentativo, perlopiù vano, di essere risparmiati dalle angherie della polizia politica, diventano delatori, al punto che tutti sospettano di tutti, in un gioco al massacro di informazioni reali o fittizie, dove anche banali sospetti vengono comunicati agli incaricati della repressione

La dittatura colpisce tutti i cittadini, anche quelli che pensano di essere dalla parte dei “forti”, dei “giusti”. Ecco allora che Brenna costruisce il personaggio del capitano Green proprio intorno a questo concetto. Una persona molto diversa da Mattia ma che con questi ha in comune la ricerca di sé stesso. 

La trama e il suo sviluppo del romanzo di Brenna hanno una direzione propria, tuttavia le scelte compiute da HoraceGreen ricordano, per alcuni versi, quelle di Adriano Meis ne Il fu Mattia Pascal di Pirandello. Anche se, a dirla tutta, è un altro l’aspetto della poetica pirandelliana che sembra più affine alle tematiche trattate da Brenna. In particolare il tema del doppio. Fin dall’inizio, le opere di Pirandello sono il frutto dello spirito del tempo in cui è vissuto, e testimoniano il passaggio dal naturalismo alla modernità. Anche i personaggi de L’odore dei cortili vivono in un periodo di grande cambiamento politico, economico, ma soprattutto sociale. E questi stravolgimenti per certo hanno influito e influenzato le scelte e i comportamenti sia di Mattia che di Green. Tuttavia, mentre quest’ultimo non reggerà il peso per lui troppo ingombrante dell’io privato sull’io pubblico, Mattia invece attraverso l’estremizzazione dell’io pubblico riuscirà a trovare l’equilibrio nel suo io privato. 

Un altro aspetto interessante del libro è la presenza di un narratore esterno il quale in più occasioni sembra dialogare direttamente con il lettore. È un corretto espediente per coinvolgerlo non solo nella lettura ma nelle stesse vicende raccontate, soprattutto nei punti in cui cambia la scena e più alto è il rischio di perdere concentrazione e attenzione. 

L’odore dei cortili è un romanzo intenso perché non si limita a raccontare una storia. Parla dell’esistenza dei personaggi i quali fin da subito assumono, agli occhi del lettore, valenza di persone.


Il libro

Giuliano Brenna, L’odore dei cortili, Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2024.


1Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani.


Articolo pubblicato su LuciaLibri


Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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© 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Diluvio: l’opera-mondo che riflette sul futuro dell’umanità

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Fenomeni meteorologici sempre più estremi e governi sempre più divisi e impotenti contro il pericolo che aleggia sul destino dell’umanità. Diluvio di Stephen Markley indaga a fondo la crisi ecologica che è già realtà.

Sulle montagne del Wyoming, Kate Morris, una giovane attivista, dà vita a un progetto che potrebbe cambiare il corso della storia mentre la politica rimane impantanata nei suoi riti stanchi. Intorno a lei, le vita, le speranze e l’impegno di un climatologo, un giovane sbandato e un gruppo di ecoterroristi.

L’approccio costruttivista ha enfatizzato i mutamenti culturali avvenuti nella percezione della sicurezza e del rischio o nella fiducia nel progresso tecnologico. Da una prospettiva realista-materialista, invece, l’accresciuta centralità dei disastri è stata connessa all’intensificarsi di processi economici i cui impatti ecologico-materiali hanno aumentato la vulnerabilità di intere popolazioni e territori. C’è un’accresciuta possibilità di eventi “improbabili” ma dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche (i cosiddetti “cigni neri”) o di raggiungere i tipping point – punti di svolta , ovvero punti di accelerazione repentina di catastrofi o emergenze “lente” (L. Pellizzoni (a cura di), Introduzione all’ecologia politica, Il Mulino, Bologna, 2023).

Negli ultimi cinquanta anni, l’impatto economico degli eventi estremi si è moltiplicato a causa di un aumento sostanziale nei danni causati da ciascuno di questi disastri: alluvioni, tempeste, uragani, ondate di calore estreme, incendi, frane. Si stima che rispetto all’anno precedente, il costo di ogni evento catastrofico tra il 5% dei più dannosi aumenti di circa 5 milioni di dollari (Sant’Anna Magazine, 2021). 

Markley immagina un mondo nel quale uno sparuto gruppo di cittadini dimostra l’importanza della capacità di credere nella natura e nelle abilità dell’essere umano il quale, contrariamente a tutte le altre specie di animali, non ha un habitat proprio, tuttavia, pur privo di un suo habitat specifico, ha fatto di qualsiasi ambiente il suo ambiente (M.T. Pansera, Natura e Cultura in Arnold Gehlen, in Il Tema di B@bel, RomaTre Press, 2020). Ed è proprio in questa sua capacità di adattamento che, forse, l’uomo deve ricercare e ritrovare la capacità di sopravvivenza, di sé stesso e dell’ambiente scelto per vivere. 

Se si accetta la tassonomia luhmanniana, attributiva e costruttivistica, allora è evidente come la nostra epoca si caratterizzi per due fenomeni: lo spostamento progressivo dal pericolo al rischio e l’aumento oggettivo delle situazioni di danno potenziale e di incertezza. Nella società attuale l’accrescimento delle capacità tecniche e scientifiche consente un incremento della possibilità di decisione e quindi innesca un progressivo passaggio da una società del pericolo a una società del rischio. Per cui assumono grande rilevanza le scelte con cui vengono ripartiti rischi e possibilità decisionali tra i diversi attori sociali (R. Sibilio, Alcuni aspetti sociologici dei rischi ambientali: il caso Vesuvio, in Quaderni di Sociologia, 2001). 

Perché allora non vengono messe in campo tutte le risorse possibili e potenziali per preservare l’ambiente e i suoi abitanti? 

Questo sembra essere il quesito alla base del libro di Markley, un’epopea distopica sul cambiamento climatico che abbraccia un lungo arco temporale che va dal 2013 al 2030. Il romanzo è ambientato in Wyoming, nella parte occidentale degli Stati Uniti, caratterizzato da vaste pianure, dalle Montagne Rocciose e dal famosissimo Parco nazionale di Yellowstone, conosciuto come il Cowboy State, dove si contano più cervi che abitanti. Ed è proprio in questo stato che, simbolicamente, l’autore sceglie di ambientare la sua storia tutta incentrata sul tema della natura, dell’ambiente, dell’uomo e dei disastri generati dall’incuria di quest’ultimi e dalla forza dirompente della prima. Pur narrando di argomenti di stretta attualità, il taglio dato al romanzo da Markley rende i protagonisti sempre un po’ borderline, ai margini di una società che sembra rigettarli forse proprio per la loro resilienza, costanza e tenacia nel portare avanti un progetto di vita “globale”. 

La lotta per salvare e salvaguardare l’ambiente dalle minacce incombenti, dai cambiamenti estremi, dalle speculazioni e dall’inerzia, vera o presunta, della politica ha sempre ingenerato opinioni contrastanti tra chi ritiene i problemi e le minacce reali e chi invece le derubrica a mere contestazioni al sistema. Markley ha inserito nella sua storia anche una tra le figure più controverse in questo sistema: l’ecoterrorista

La criminalizzazione delle proteste non violente per il clima e il “talismano” del terrorismo finiscono per diventare una profezia che si autoadempie perché serrano in una morsa il dissenso legittimo e pacifico favorendo il ricorso a metodi più aggressivi e financo violenti. Anche per gli ambientalisti/animalisti può verificarsi quel processo di radicalizzazione che poggia sulla constatazione del fallimento dei metodi non violenti per raggiungere gli scopi prefissi, e alcuni studiosi affermano che recenti riscontri hanno mostrato la propensione a intraprendere azioni sempre più aggressive. I movimenti ambientalisti sono stati paragonati alle angurie: verdi fuori e rossi dentro. Che alcuni gruppi ambientalisti siano in contatto, e pure in accordo, con formazioni che invocano una maggiore giustizia sociale è dovuto alla constatazione che i più danneggiati dal disastro ambientale sono i meno abbienti, anche nel senso che i peggiori cataclismi si sono verificati nei paesi del sud del mondo. L’ecoterrorismo può essere indicato come una “criminalità” di tipo ideologico, motivata da ideali politici e di cambiamento sociale, ma difficilmente identificabile come movimento terroristico in senso stretto (I. Merzagora, G. Traviani, P. Caruso, Ecoterrorismo tra conoscenza e percezione sociale, Rassegna Italiana di Criminologia, 2024).

Già sul finire dell’Ottocento, le testimonianze di letterati come Giocosa e Ojetti, oltre a confermare i progressi dell’America moderna, introducono anche una serie di giudizi ostili, determinando una costante compresenza di mito e antimito, di sentimenti contrastanti che rispecchiano la faticosa ricerca di identità della società italiana, che, proprio nell’altro, il diverso, esplicita le proprie paure e le proprie speranze. I narratori americani, portando sulla scena temi e problemi propri delle classi subalterne con un linguaggio fortemente radicato nella parlata comune, sembrano instaurare la democrazia nella letteratura (Beniscelli, Marini, Surdich (a cura di), La Letteratura degli Italiani. Rotte Confini Passaggi, Associazione degli Italianisti, Genova, 2010). L’opera di Stephen Markley sembra il continuum contemporaneo di questo filone letterario.


Il libro

Stephen Markley, Diluvio, Einaudi, Torino, 2024. Traduzione di Manuela Francescon e Cristiana Mennella. Titolo originale: The Deluge.


Articolo pubblicato sul numero di dicembre 2024 della rivista cartacea Leggere:Tutti


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Einaudi per la disponibilità, il materiale e l’invio preprint.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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© 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Nikolai Prestia, La coscienza delle piante

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Smarrimento, confusione, incredulità, paura. Sono questi i sentimenti che il protagonista del libro, Marco, lascia trasparire, fin dalle prime battute, al lettore che legge il resoconto di un ricovero in pronto soccorso attraverso gli occhi e la mente di colui che, fin da subito, realizza di essere uno dei tanti. Dei troppi in realtà. Marco si trova ancora sulla barella dell’ambulanza perché i posti letto sono finiti, o meglio sono tutti occupati. È ancora incredulo ed evita l’interazione con gli altri degenti. Cerca di fare scudo e si isola, di nuovo. Perché, in fondo, è proprio la solitudine ad averlo condotto in quel luogo. Una solitudine che ha origine non dall’essere o dal sentirsi realmente solo, bensì dal sentirsi inadeguato. Un disagio che non è solo di Marco ma di tutti, perché si tratta di un vero e proprio disagio generazionale e sociale. Un disagio che diventa rabbia allorquando si realizza di vivere un’epoca in cui il risultato vale più del percorso, e dove la velocità è l’unico parametro con il quale tutti, più o meno consapevolmente, giudichiamo il successo.

Quando la fase acuta del suo attacco di panico è rientrata, Marco comprende di dover fare i conti con la propria coscienza, affrontare i traumi del passato. L’unico vero modo per poter guardare con certezza e sicurezza al futuro. Ma per farlo, ha bisogno non dell’ultima bensì delle ultime quattro sigarette, dopodiché si ripromette di smettere di fumare. Questo passaggio non può non sollecitare la mente del lettore al ricordo del celeberrimo personaggio alle prese con la propria coscienza e con l’ultima sigaretta.

Il problema di fondo del protagonista de La coscienza di Zeno di Italo Svevo non sembra essere il vizio del fumo in sé ma l’incapacità di tenere fede ai buoni propositi. Così egli acquista i tratti dell’inetto sofferente di una malattia morale, incapace di assumersi alcuna responsabilità, un antieroe, un perdente, come indica il suo atteggiamento rinunciatario.1 Ma il romanzo scritto da Svevo non è la storia di Zeno Cosini, bensì la storia che egli racconta. La coscienza di Zeno include dure racconti: quello dell’analista e quello di Zeno. Ma il primo, incastonando il secondo, dà all’insieme un senso particolare: il libro ci dice questa è la storia che Zeno racconta e non questa è la storia di Zeno.2 Un esempio di metanarrativa le cui regole interpretative si possono utilizzare anche nell’analisi del libro di Prestia: La coscienza delle piante non è il racconto della vita di Marco bensì il racconto che egli fa della sua vita attraverso la sua coscienza. 

Svevo si è spesso rivolto alla letteratura non come semplice mezzo di evasione dalla realtà, ma come vero e proprio strumento conoscitivo con il quale esplorare e spiegare la natura umana e la vita. Egli è convinto che la mente e il comportamento umani abbiano molte caratteristiche universali che si osservano in tutti gli individui a prescindere dalle contingenze storiche, sociali e culturali delle loro vite, e che molte dinamiche sociali umani riflettano la competizione (che egli chiama “lotta”) per la sopravvivenza e per la riproduzione.3 Una competizione difficile da affrontare per il protagonista del romanzo di Prestia al punto che egli si nasconde dietro una vita immaginata, sognata, mentita, perché costruita intorno alle menzogne che racconta allo scopo di nascondere i fallimenti. O meglio quelli che la società identifica come tali e che ricadono su di lui come macigni. 

Zeno Cosini aveva scelto il distacco ironico come terapia per l’ineludibilità della natura umana, Marco tenta invece la strada della confessione e, dinanzi al suo terapeuta, si apre al racconto vero della sua coscienza.

L’adolescente ha fame di esperienza, è animato da una voracità psicologica che lo spinge a vivere la sua realtà esistenziale con irruenza, con la percezione di non esserne mai sazio; l’adulto, invece, ha bisogno di digerire, ovvero di accettare la sua dose di esperienza assimilata per renderla conforme a una realtà che scopre essere “altro da sé”, una realtà di cui non può disporre in modo indiscriminato, onnivoro: l’adulto che non riesce in questo adattamento, restando adolescente, ancora affamato, rientra nell’ambito del patologico. Gli adolescenti di un secolo fa, pur apparendo ribelli agli occhi degli adulti, venivano da questi ridotti alla sottomissione, al rispetto della volontà dei padri imposto con la forza. Oggi le dinamiche sono cambiate. Da alcuni decenni il mito dominante in Occidente, e ormai si può dire in tutto il pianeta, è quello di Narciso. L’Ideale dell’Io ha più spazio nella dimensione psichica della persona rispetto al Super-Io. L’adolescente, distratto da uno scontro con un adulto che non si oppone alla sua individuazione con la forza, si specchia nel confronto intenso con i suoi pari. Vivono insieme la loro crescita, non più ristretti nel contesto familiare, danno sfogo alla loro fame di esistenza, vivono emozioni e sentimenti, condividono la loro energia vitale senza più le forme repressive dell’epoca precedente, eppure la frattura resta, resta l’incomprensione fra adulti e adolescenti, e persiste un disagio evidente vissuto dagli adolescenti.4

Le trasformazioni sociali e culturali che, da oltre un trentennio, stanno caratterizzando la struttura delle società occidentali hanno contribuito, tra le altre cose, ad accentuare la rilevanza del cosiddetto “disagio giovanile”, la cui diffusione è stata favorita sia dai profondi mutamenti intervenuti nella struttura delle relazioni sociali (in larga parte legati all’avvento della società digitale), sia dalle difficoltà che, in seguito alla crisi economico-finanziaria della fine degli anni duemila, hanno interessato alcune parti della popolazione, con accentuazione delle diseguaglianze e amplificazione delle incertezze, non solo lavorative, legate al passaggio dei giovani all’età adulta. Le cause sociali (come quella del disagio giovanile) sono a volte strumentalizzate per legittimare cambiamenti che di fatto potrebbero inasprire le disuguaglianze, anziché ridurle.5Gli studenti universitari sembrano sentire sempre più la pressione sociale, le aspettative familiari e la paura del fallimento. «Non siamo più disposti ad accettare senso di inadeguatezza, depressione o persino suicidi a causa delle condizioni imposte da un sistema malato che baratta la persona con la performance», sono state le parole di una studentessa all’inaugurazione dell’anno accademico all’Università di Ferrara nel 2023. Un aspetto evidenziato dagli studenti, in termini negativi, è la percezione che all’Università si faccia riferimento a un modello di prestazione che fa sentire molto a disagio chi è fuori corso.6

Isolamento volontario o indotto, aspettative reali o presunte dei genitori, senso di vergogna e inadeguatezza sono tra i sintomi principali del malessere provato dagli studenti che vivono il percorso universitario come un vero e proprio insuccesso. Ed è esattamente intorno a queste tematiche che Nikolai Prestia ha costruito la struttura portante de La coscienza delle piante. Un libro che parla di un percorso interrotto e poi ripreso (quello universitario) e di un altro percorso (quello terapeutico) che Marco intraprende per analizzare non tanto il primo quanto il suo essere interiore, il tutto in un libro che è esso stesso un percorso che conduce il lettore ad analizzare luci ed ombre di una società che progredisce è vero ma che a volte lo fa nel verso sbagliato.

Il libro

Nikolai Prestia, La coscienza delle piante, Marsilio, Venezia, 2024. 


1I. Svevo, La coscienza di Zeno, Dall’Oglio, Milano, 1981.

2P. Jedlowski, R. Màdera, Racconti di racconti. Una conversazione, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2014.

3F. Suman, Scienza e letteratura: la natura umana nei romanzi di Italo Svevo, IlBoLive – Università di Padova, 2019.

4P. Di Biagio, L’eterna storia del disagio giovanile nell’era di Internet. Come evolvono le dipendenze patologiche, link – Rivista Scientifica di Psicologia, volume ½ 2019.

5CNG, Il disagio giovanile oggi – Report del Consiglio Nazionale dei Giovani, Sapienza Università Editrice, 2022.

6L. Mannino, Stress da università, STATE OF MIND di inTHERAPY, 2023.



Articolo pubblicato su LuciaLibri


Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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© 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Con proposta di modifica all’articolo 12 della legge 40/2004, il Parlamento italiano ha dichiarato la maternità surrogata, già vietata da detta legge, reato universale. Ciò significa che è perseguibile come reato non solo se praticata in Italia ma anche all’estero, da cittadini italiani ovviamente. Il dibattito che ha preceduto e seguito la votazione in Parlamento è stato connotato da toni molto accesi e posizioni dualistiche che non si incontreranno mai. In base ai dati raccolti nel RapportoItalia 2024 Eurispes, il 62.9% degli italiani si dichiara contrario alla maternità surrogata, con una percentuale in crescita rispetto al 2021, allorquando era favorevole il 59.8% dei rispondenti. Per quanto riguarda, invece, la fecondazione eterologa che richiede l’utilizzo dei gameti donati da individui esterni alla coppia, 6 italiani su 10 si dichiarano favorevoli. Lo sono soprattutto i cittadini italiani di età compresa tra i 18 e i 44 anni. Aumentando l’età degli intervistati progressivamente cala la percentuale di consenso. 

In Italia, sia la fecondazione omologa che quella eterologa sono consentite. A disciplinarle è la medesima legge, ovvero la 40/2004. I requisiti per accedere alla fecondazione eterologa sono chiari, è necessario che si tratti di una coppia eterosessuale e convivente, anche se non coniugata, e che l’età della partner femminile sia ancora in epoca fertile, orientativamente al di sotto dei cinquanta anni. 

«Mi basta il tuo sperma!» è la frase che apre il romanzo di Caterina Perali centrato sul tema della fecondazione assistita. Il racconto preciso di un percorso che la medicina oggi può offrire a chiunque voglia avere dei figli. 

Da sempre la maternità è stata considerata un evento naturale da ascriversi al destino femminile; se la collochiamo tra i comportamenti naturali rischiamo di non cogliere il senso profondo della sua essenza e ne appiattiamo la sua molteplicità storica e antropologica. D’altra parte, se le attribuiamo una esclusiva valenza sociale, rinneghiamo il suo radicamento corporeo e inconscio. La donna è sempre stata ritenuta la depositaria dell’amore materno; questo affetto incondizionato presuppone l’annullamento del sé in funzione del figlio e l’abbandono di qualsiasi aspetto individualista che non sia in armonia con le cure del proprio bambino. Tale concezione, tuttavia, se trascura il contesto culturale, i vissuti e la fragilità connessi alla trasformazione psichica della donna, durante la gravidanza, perde di vista tutta la complessità della situazione. Attualmente, le donne si confrontano con nuovi fantasmi che influenzano, inevitabilmente, il processo che le conduce a divenire madre. In passato la maternità “come destino” era determinata dall’impossibilità di controllare le nascite. Oggi il progresso biomedico e le trasformazioni sociali e culturali hanno prodotto nell’immaginario femminile nuove possibilità e nuove configurazioni di genitorialità, conducendo le donne alla sublimazione del desiderio e all’assunzione della responsabilità della scelta.1

Il confronto delle donne con la nuova idea di maternità, caratterizzata dal controllo della fecondità e dalla possibilità di intervenire medicalmente su di essa attraverso la procreazione assistita le pone al cospetto di scelte un tempo impensabili. Scelte che le costringono a confrontarsi con nuovi fantasmi che possono condurre a forti vissuti depressivi. La nascita psicologica della madre corrisponde a quella situazione psichica in cui la donna si trova a creare in sé uno spazio mentale nel quale riorganizzare la nuova identità e contenere l’idea del proprio bambino.2 Infatti, alla metamorfosi corporea corrisponde una crisi di identità che la conduce a ridefinire il proprio assetto mentale. Perdere il confine della propria identità, diventando doppia, è un passaggio evolutivo molto complesso che dovrebbe concludersi, dopo la nascita, con il ritorno alla propria individualità. Il cambiamento dell’identità, presente nella maternità, implica un grande lavoro psichico che dovrebbe condurre le donne a pro-seguire nell’itinerario della propria esistenza, inoltrandosi nel presente, separandosi dal passato e camminando verso il futuro. In questo complesso percorso esistenziale è necessario attuare delle reti di sostegno, che siano capaci di accogliere le silenziose richieste di aiuto delle madri sia nel periodo gestazionale sia dopo la nascita del bambino.3

La protagonista del romanzo di Caterina Perali è una donna single che ha scelto di diventare madre con la fecondazione assistita. La sua storia viene raccontata attraverso lo sguardo, prima incredulo poi indagatore, di un’altra donna, sua coetanea, la quale sulle prime non comprende la scelta di Chiara ma poi sembra addirittura entrare in piena sintonia con la stessa. L’ambiente in cui il tutto si svolge è uno stabile di ringhiera che evoca immagini da vecchia Milano, quasi una location dei tempi che furono. E invece la vicenda narrata dall’autrice è molto attuale. Questo contrasto sembra quasi incarnare il dualismo che aleggia sempre intorno a tematiche del genere, delicate sensibili e complesse. Il percorso che Chiara deve seguire per portare avanti la sua scelta di sottoporsi alla fecondazione eterologa non è semplice e sarà proprio una iniziale scettica Jean ad assistere la donna, addirittura accompagnandola fino a Valencia, perché in Italia non le viene consentito di accedere a tale procedura.

La natura come realtà biologica e il sistema sociale e culturale, ciascuno con le proprie regole, sin dall’inizio dell’età moderna sono stati soggetti a un processo, al tempo stesso di distanziamento e di compenetrazione, in continuo divenire: di volta in volta, la natura è stata vissuta come amica o come sfida per la razionalità dell’uomo. In questa prospettiva, se è vero che il ricorso alle tecniche di riproduzione assistita è un procedimento fondamentalmente culturale, è altrettanto vero che anche le norme che configurano il rapporto di filiazione naturale sono, nelle diverse società, profondamente influenzate dalla cultura propria di ciascuna di esse e rappresentano, quindi elaborazioni culturali dei diversi sistemi sociali. La contrapposizione tra natura e artificio, allora, costituisce sotto alcuni aspetti un falso problema, mentre sotto altri si rivela inidonea a descrivere esaurientemente il rapporto che intercorre tra dato naturale e dato culturale (artificiale) in molti ambiti dell’esistenza umana, tra i quali non si può certo non ricordare la procreazione. In effetti, naturale e artificiale sono sempre stati separati solo dalla convenzione sociale. 

Nella procreazione oggi prevale l’aspetto della scelta volontaria. Tuttavia detta “scelta” se da un lato contiene positivi aspetti di libertà (individuabili in una migliore possibilità di raccordo tra tempo biologico, tempo psicologico e tempo sociale personale e di coppia) e di responsabilizzazione dell’uomo e della donna, dall’altro porta con sé il rischio di un’eccessiva soggettivizzazione e privatizzazione del vissuto genitoriale. In senso più generale lo spostamento del confine tra natura e artificio appare strettamente correlato alla progressiva medicalizzazione dell’esistenza che caratterizza la nostra società e che comporta una sorta di delega all’apparato sanitario scientifico riguardo ad ambiti e momenti decisivi della vita umana, tra i quali appunto la procreazione.4

È inevitabile domandarsi cosa spinga le coppie sterili che si rivolgono alle tecnologie di procreazione assistita a cercare un figlio “proprio” a tutti i costi, piuttosto che ricorrere all’adozione. Quest’ultima, che rinuncia al legame biologico, pone il partner fecondo e quello sterile sullo stesso piano nei riguardi del bambino e maschera la responsabilità della sterilità all’esterno della coppia. L’adozione inoltre sembra riproporsi, per il soggetto sterile ma soprattutto per l’uomo, come permanente verità del proprio limite. D’altro canto, però, le tecniche eterologhe costringono i partner a confrontarsi, seppur solo a livello psicologico, con la figura del donatore. Si è constatato che il significato immaginario di cui il donatore può essere investito innesca frequentemente, nei soggetti che devono ricorrere a pratiche eterologhe, complessi meccanismi di difesa, che si esprimono, per esempio, nei timori per le reali condizioni di salute del donatore o nel dubbio sulla possibilità della trasmissione di malattie ereditarie non riconosciute o non riconoscibili all’atto della donazione. 

La procreazione assistita non può essere affrontata unicamente sul piano di realtà. Esiste un altro registro, quello dell’inconscio, che non può essere in alcun modo disconosciuto. Basti pensare alle fantasie relative al significato profondo che le varie procedure assumono agli occhi dei pazienti, agli investimenti emotivi di tutte le persone coinvolte, compresi i donatori, gli operatori, il bambino concepito. Gli effetti di ciascuno vanno valutati nel tempo, soprattutto per quanto concerne il nascituro.5

Caterina Perali racconta la storia di una donna single che si approccia alle pratiche di procreazione assistita eterologa. Una donna quindi che ha scelto di far nascere e crescere un bambino senza la figura paterna. 

L’assenza del padre nella scena psicologica del bambino compromette gravemente la risoluzione della relazione simbiotica con la madre e il graduale transito verso una condizione di separazione-individuazione. Il rischio è quello che il bambino resti imprigionato in una relazione fusionale con la madre (il che può implicare anche la sua assunzione di identità di genere). Per la madre il rischio è quello di vivere il figlio come proprio prodotto, un figlio fatto da sola, con un’accentuazione delle aree narcisistiche.6

La struttura del libro di Perali sembra voler invitare il lettore a riflettere su cosa sia veramente egoistico e narcisista tra il desiderare un figlio a ogni costo e il non desiderarlo affatto.

La voce narrante di Come arcipelaghi è Jean, donna che vive di rendita e che per sentirsi utile al mondo conduce una trasmissione radiofonica, una sorta di melting pot nel quale chiunque può intervenire e dire la sua riguardo qualunque argomento, e coltiva sonnecchiante una relazione d’amore con Carlo. Jean è una donna la quale, nonostante le innumerevoli domande intorno alle quali ruota la sua professione, sembra non volersi interrogare sulla vita. Questo almeno fino all’incontro con Chiara che diventa un vero e proprio scontro con i costrutti sociali metabolizzati negli anni e che le erano sempre sembrati, fino a quel momento, certezze assolute. 

Il libro

Caterina Perali, Come arcipelaghi, Neo Edizioni, Castel di Sangro (AQ), 2024.


  • 1T. Schirone, Identità e trasformazione di identità: la maternità, in Journals UniUrb, 2010.

2D.N. Stern, Il mondo imterpersonale del bambino, Bollati Boringhieri, Torino, 1985.

3T. Schirone, op.cit.

4CNB – Comitato Nazionale per la Bioetica, La fecondazione assistita, Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria, Roma, 1995.

5CNB – Comitato Nazionale per la Bioetica, op.cit.

6CNB – Comitato Nazionale per la Bioetica, op.cit.


Articolo pubblicato su LuciaLibri


Disclosure: Per l’immagine in evidenza, credits www.pixabay.com


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