I temi e i problemi trattati da scienza e letteratura a ben guardare non sono così dissimili, eppure la vicinanza tra le due è sempre stato motivo di accese discussioni, sia in ambito scientifico che letterario. I campi del sapere devono restare separati oppure dalla loro unione possono nascere nuove forme del sapere?
«La scienza si trova di fronte a problemi non dissimili da quelli della letteratura: costruisce modelli del mondo continuamente messi in crisi, alterna metodo induttivo e deduttivo, e deve sempre stare attenta a non scambiare per leggi obiettive le proprie convinzioni linguistiche» (I. Calvino, Filosofia e Letteratura, 1967). In realtà, nell’ambito della cultura ufficiale, il rapporto tra ricerca scientifica e letteraria è stato quasi sempre marginalizzato, non solo per la tendenza accademica a distinguere i campi del sapere ma anche per la diffidenza antitecnologica palesata dagli intellettuali più influenti. In Italia questa diffidenza si è concretizzata dapprima nel crocianesimo e nella riforma scolastica gentiliana e, successivamente, in un diffuso idealismo e in un’inclinazione estetizzante che hanno osteggiato la visione materialistica della realtà (C. D’Amicis, Scienza e Letteratura, Treccani, 2007).
L’ipotesi della contrapposizione tra scienza e letteratura spesso è basata su una presunta dicotomia di strutture linguistiche: il linguaggio scientifico sarebbe meno ridondante e ambiguo e, contemporaneamente, più strutturato e rigido. Il linguaggio letterario sarebbe invece più teso alla comunicazione di emozioni, retorico, libero e basato più su analogie e giustapposizioni che su deduzioni. La lingua italiana però è nata anche come strumento di comunicazione scientifica. Il Convivio di Dante Alighieri è un manifesto di diffusione e democratizzazione della cultura, un trattato di scienza laica del mondo moderno definito un “banchetto di scienza e sapienza”. In esso Dante spiega che l’uso della lingua volgare era funzionale soprattutto alla diffusione del sapere, ribaltando l’allora comune paradigma dell’uso del latino e della divulgazione delle idee solo per pochi studiosi (L. Ristori, Scienza e Letteratura, discipline in equilibrio dinamico, MaCSIS, 2012).
L’atto del “fare” letteratura presuppone che chi scrive sia al contempo artigiano e scienziato; che l’artificio letterario venga realizzato con un progetto: con elementi ponderati e misurati, tratti dal serbatoio di combinazioni evolutive della natura, concetto che in senso esteso viene a coincidere con tutta la realtà, sia vera che immaginata. Si delinea così un profilo “fabbrile” dello scrittore, alla maniera di Ezra Pound, che opera in un laboratorio con strumenti pratici per realizzare l’artefatto letterario in modo non dissimile dallo scienziato. La scrittura non incontra la scienza, perché la scrittura, se ben fatta, è già scienza – e viceversa – con norme, regole, architetture, un’estetica elaborata nei millenni mimando proprio forme e proporzioni naturali. Così come la scienza è a sua volta una narrazione umana, scritta con una sintassi e con caratteri più complicati di quelli alfabetici, pur sempre ideati dalla nostra specie. La migliore letteratura sembra così essere quella scientifica. La letteratura incontra la scienza nell’analisi, nello stupore per l’osservazione dei dettagli, delle regole e delle eccezioni che strutturano le forme sensibili della natura (T. Lisa, Fare letteratura con la natura. Quando la scrittura incontra la scienza, L’Indiscreto, 2024).
La nostra è un’epoca scientifica, se con questa denominazione intendiamo riferirci ai periodi in cui la scienza ha avuto il suo massimo sviluppo. Ma se intendiamo che oggigiorno la scienza svolge un ruolo nella visione del mondo della gente, ebbene, in tal caso, quest’epoca ha ben poco di scientifico. Esiste un palese e diffuso analfabetismo scientifico. Si potrebbe combatterlo con la narrativa: partire da un brano di narrativa, dai versi di una poesia, da una citazione tratta da un film o da un fumetto per affrontare singoli e importanti problemi legati all’immagine, spesso distorta, che la scienza ha nell’opinione pubblica (M. Salucci, Dalla mela di Newton all’Arancia di Kubrick. La scienza spiegata con la letteratura, thedotcompany edizioni, 2022).
«I mass media confondono l’immagine della scienza con quella della tecnologia e questa confusione trasmettono ai loro utenti che ritengono scientifico tutto ciò che è tecnologico, in effetti ignorando quale sia la dimensione propria della scienza, di quella – dico – di cui la tecnologia è certo un’applicazione e una conseguenza ma non certo la sostanza primaria. La tecnologia è quella che ti dà tutto e subito, mentre la scienza procede adagio. Questa abitudine alla tecnologia non ha nulla a che fare con l’abitudine alla scienza. Ha piuttosto a che fare con l’eterno ricorso alla magia» (U. Eco, Il mago e lo scienziato, La Repubblica, 2002).
Letteratura e scienza sono discipline ben distinte, ma non isolate. Invece di essere trattate come isole, le varie culture andrebbero viste come spazi approssimativamente definiti, ma con confini porosi. Non ci sono muri tra le culture, ma frontiere e spazi di transizione. Dall’incontro tra scienza e letteratura, tra l’altro, è nato il genere della fantascienza. Molti autori di tale genere sono stati scienziati: Fred Hoyle, Carl Sagan, Isaac Asimov, Michael Crichton. Edgar Allan Poe invece può essere citato come esempio di letterato che muove passi in ambiente scientifico. Egli ha proposto un nuovo modo di deduzione come modello scientifico, mentre ha sostenuto la necessità dell’intuizione e dell’immaginazione nel suo modus operandi. Il premio Nobel per la poesia 1979, Odysseas Elytis, ha scritto opere intrise di concetti matematici e geometrici, ai quali ha saputo attribuire un grande effetto emotivo e simbolico (D.G. Berta, Distanti, ma unite: la simbiosi tra scienza e letteratura, Trust in Science, 2020).
Nelle opere di Primo Levi il lettore non può non cogliere l’impressione che attraverso la letteratura il chimico abbia tentato di scavarsi un varco nell’impenetrabile oscurità della materia vivente e pulsante, dell’universo misterioso o dell’uomo. Uno spiraglio per comprendere il meccanismo con cui si incatenano le molecole, una chiave per capire le regole del Lager, regno della distorsione di ogni logica umana. Scrivere per capire, è questa la funzione dell’esperimento letterario di Se questo è un uomo, scritto non per formulare nuovi capi d’accusa, bensì per fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano. La salvezza delle parole garantisce ordine e sistema, dona uno spessore da frapporre tra due regni, il notturno e il diurno, le stelle e gli abissi. Tale è la funzione della letteratura in Levi, un argine all’insania generata dal grembo stesso della ragione umana e per questo ripetibile. Il laboratorio scientifico offre a quello creativo specifici strumenti da impiegare nell’esperimento della scrittura, impiegata come setaccio per distillare l’essenziale dal superfluo, per sciogliere il groviglio confuso dell’essere umano e della sua esperienza nella storia, un coacervo in cui convivono forze e tensioni opposte. Allo stesso modo, lo scrittore passa al vaglio della lente del chimico l’esperimento più atroce del XX secolo. Scienza e letteratura, dunque, sono due strumenti diversi nelle mani di un centauro che ha sperimentato la gioia del volo creativo e il rigore del chimico e di entrambi si serve per non scivolare nel fondo, nell’abisso assordante e babelico dove l’uomo è nemico all’uomo e domina la legge impietosa della lotta per la sopravvivenza (A. Carta, Parole come molecole: scienza e letteratura in Primo Levi, ADI, 2015).
Articolo pubblicato sul numero di ottobre 2024 della Rivista cartacea Leggere:Tutti
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Una cosa per la quale mi odierai è un romanzo che racconta la vita attraverso la narrazione della malattia e della morte. La protagonista trova il coraggio di leggere il diario scritto da sua madre, un resoconto degli ultimi nove mesi di vita. E lo fa proprio quando sta vivendo l’esperienza della gravidanza. Nove mesi che la renderanno madre. Orfana e madre. Sua madre Lucia ha preferito affidare al diario le parole per i suoi cari e, attraverso di esse, Erica riscoprirà il suo rapporto con lei. Le sembrerà quasi di conoscerla di nuovo, quantomeno in una maniera differente.
Erica sta per compiere un grande passo, a breve andrà a convivere con l’uomo che ama e, quando sua madre le chiede di parlare, è convinta voglia tentare di dissuaderla. Invece Lucia vuole raccontarle “una cosa per la quale mi odierai”. Vuole parlarle della malattia.
Il senso di colpa è una delle più comuni reazioni alla diagnosi di cancro. C’è chi si sente in colpa perché pensa di aver fatto qualcosa che ha favorito l’insorgenza della malattia. Chi pensa avrebbe potuto riconoscere prima i sintomi. Chi perché non può più svolgere il suo ruolo nella famiglia o sul lavoro. Chi perché si sente un peso per i suoi cari.1
È spaventata Lucia ma, nel raccontare la situazione a Erica, minimizza. Ha paura. Ma teme anche la sofferenza della figlia.
Il paziente oncologico ha necessità di elaborare il trauma psicologico dovuto alla diagnosi di tumore e di acquisire elementi che gli consentano di rompere l’equazione cognitiva cancro=morte.2 Lucia sembra aver trovato aiuto e sfogo scrivendo il suo diario.
Le parole possono contribuire all’efficacia delle cure. Presumibilmente hanno aiutato Lucia ad affrontare la malattia e il distacco dagli affetti. Di sicuro hanno aiutato Erica ad affrontare il lutto, la perdita.
Le pagine del libro di Erica Mou sono articolate secondo uno schema che vede alternarsi parti del diario di Lucia a riflessioni proprie della figlia. Riflette Erica. Legge. Rilegge e riflette. La sua mente ritorna a quei momenti. Poi sovviene al presente. Sono emozioni forti quelle che la assalgono. Pensieri e parole avvolti da un dolore sordo, lancinante, crudele, che sembra non avere mai fine. Ripensare ai momenti della malattia di sua madre le dà il tormento ma ritornare al presente non sembra donarle alcun sollievo perché quello che è stato è ancora lì, nelle crepe del suo cuore, tra le pagine di quel diario, nel profondo della sua mente, nel suo stesso corpo che soffrendo per la perdita, per la morte di sua madre è riuscito comunque a trasformarsi in grembo materno, ha accolto la nuova vita e con essa la speranza. Nel futuro certo. Ma anche nella stessa vita. Con le sue gioie e i suoi dolori. Perché la morte fa paura ma anche la vita allorquando ti costringe ad affrontare il dolore, quello vero, quello che richiede tanta forza per essere elaborato, superato.
Il racconto di Erica Mou è un inesorabile e sincero resoconto di quanto veramente accade. Non ci sono fronzoli, non ci sono iperboli né edulcorazioni. È la malattia. È la quotidianità. È semplicemente la vita. La quotidianità di una vita completamente stravolta. La sofferenza di chi è malato e quella dei suoi cari. La rabbia. Il dolore. La paura. Il timore di soffrire e veder soffrire. La scrittura di Erica Mou è egualmente lineare, pulita, quotidiana. Una lingua parlata, o meglio “musicata” perché il suo fraseggio ha un non so che di musicale, armonioso, come se leggendo le parole se ne avvertisse quasi il suono, il rumore oppure il silenzio.
Una cosa per la quale mi odierai non racconta solo un’esperienza o la storia di una persona, o meglio di una famiglia, ne racconta l’intera esistenza, la vita.
Il libro
Erica Mou, Una cosa per la quale mi odierai, Fandango Libri, Roma, 2024.
1Ci si può sentire in colpa per essersi ammalate di cancro?, Fondazione Veronesi Magazine, settembre 2020.
2S. Paladini, La sindrome Psiconeoplastica, PSICOFORM – Psicologia e Formazione, gennaio 2024
Ci sono momenti storici in cui i cambiamenti accelerano e convergono, portando a quello che gli autori definiscono situazioni di disruption.
Sin da Joseph Schumpeter, economista austriaco eterodosso che con le sue pubblicazioni focalizzò sull’importanza della crescita e dei cicli economici, la letteratura conosceva solo due tipi di innovazioni: quella radicale e quella incrementale. Le “radicali” proponevano una nuova idea di prodotto attraverso una nuova tecnologia. Le “incrementali” invece riguardano l’innovazione in misura evolutiva, ovvero la capacità di imitare, di differenziarsi dai concorrenti, dal sapere servire meglio il mercato senza mutare il concept di prodotto e la tecnologia per ottenere successo. Ma poi, nel 1997, Christensen con il termine disruption introdusse una terza categoria di innovazione.1
Nella teorizzazione di Christensen, la disruption è un processo mediante il quale un prodotto o un servizio vengono trasformati dall’innovazione tecnologica. Le innovazioni disruptive non sono il frutto di scoperte rivoluzionarie o dell’arrivo di nuovi protagonisti che ripensano radicalmente i modelli di business. Consistono invece spesso in prodotti e servizi semplici, facilmente accessibili e a basso costo. Soluzioni che all’inizio sono di qualità modesta ma che, nel tempo, hanno la capacità di trasformare un intero settore.
Molte grandi aziende hanno spesso in pancia le innovazioni disruptive ma, quando le brevettano, non hanno la forza di lanciarle sul mercato perché ascoltano troppo i loro clienti serviti e non hanno il coraggio di cannibalizzare la quota di mercato dei loro stessi prodotti. Ecco quindi che qualche concorrente proveniente da altri settori o in forma di start up, in assenza di queste inerzie cognitive ed economiche, le lancia e nel tempo diventano un vero e proprio disruptor, costringendo l’azienda leader improvvisamente a seguire anziché a guidare il mercato.2
Secondo i dati di una ricerca Accenture, il 63% delle aziende sono attualmente alle prese con processi di disruption, e il 44% ne sono fortemente influenzate. Gli autori si chiedono quali siano le cause che rendono ancora così vulnerabili le aziende alle minacce dei processi di disruption. Il problema è che anche i leader ben intenzionati spesso si illudono e minimizzano le reali minacce della disruption. Oppure sopravvalutano la difficoltà delle contromisure da adottare. I leader aziendali devono imparare meglio a sviluppare le capacità di un’organizzazione e degli individui che ne fanno parte a superare le resistenze che si manifestano di fronte a processi di disruption. È facile trovarsi nel mezzo di un vorticoso processo di disruption e cercare conforto in dati che continuano a suggerire che tutto stia andando per il meglio. Ma questo accade solo perché i dati sono sempre in ritardo rispetto alla rapidità delle trasformazioni.3
L’esempio che riportano gli autori è quanto accaduto alla Nokia la quale è caduta nonostante avesse ormai una posizione di mercato dominante, oltre alle risorse e le capacità per gestire la transizione verso gli smartphone, e sebbene avesse manager che avevano compreso e condividevano la teoria di Christensen sulla disruption.
Una reazione efficace ai processi di disruption richiede che i leader aziendali siano in grado di reinventare il business di oggi avendo già in mente come costruire quello di domani. Più nello specifico, devono essere adottati sistemi per risolvere i problemi dei clienti e al contempo individuare nuove opportunità di crescita. La difficoltà della sfida non sta solo nel fatto che spesso queste due missioni sono in contrapposizione e la loro attivazione produce fasi di confusione e incertezza, ma anche nel fatto che vengono richiesti una mentalità e un tipo di approccio nuovi. Da uno studio realizzato dal docente di Harvard Robert Kegan, emerge tuttavia come alla maggior parte dei leader manchi la flessibilità intellettuale necessaria per passare da un atteggiamento di disciplinata gestione dell’ordinario a una fase di maggiore intraprendenza.
La leadership trasformazionale e la trasformazione digitale sono due concetti significativi che hanno acquisito importanza negli ultimi anni. La combinazione di questi due domini è diventata sempre più rilevante poiché le organizzazioni cercano di adattarsi ai rapidi progressi della tecnologia e al panorama aziendale in evoluzione. La leadership trasformazionale è particolarmente utile per migliorare le capacità intrinseche nel motivare i dipendenti e aumentare l’empowerment psicologico. Comprende quattro componenti distinte: influenza idealizzata, motivazione ispiratrice, stimolazione intellettuale, attenzione individualizzata. Nel panorama digitale in rapida evoluzione, i dipendenti devono essere motivati e coinvolti per abbracciare nuove tecnologie e processi. I leader trasformazionali eccellono nel comunicare una visione avvincente del futuro digitale dell’organizzazione, instillando un senso di scopo e direzione tra i loro team. Questa visione condivisa crea un senso di scopo unificato, che spinge i dipendenti a lavorare verso obiettivi comuni. I dipendenti diventano più ricettivi al cambiamento, si adattano volentieri al panorama digitale in evoluzione e partecipano attivamente al percorso di trasformazione. Con il panorama digitale in rapida evoluzione, la leadership trasformazionale è diventata un’idea cruciale che può avere un impatto significativo sul successo organizzativo con risultati chiave quali: motivazione e performance dei dipendenti, soddisfazione lavorativa, impegno organizzativo che promuove innovazione, adattabilità, resilienza, crescita e performance organizzativa. In virtù della sua capacità di ispirare e motivare i dipendenti, la leadership trasformazionale svolge un ruolo cruciale nel promuovere l’adozione di progressi tecnologici e metodi di lavoro innovativi. In realtà, diversi stili di leadership, come quella transazionale o di servizio, potrebbero svolgere ruoli cruciali nella promozione di iniziative di trasformazione digitale.4
L’attuale contesto mondiale è responsabile del lato oscuro dello scenario globale: crescente disuguaglianza, disoccupazione, sottoccupazione, maggiore mobilità globale dovuta alla migrazione forzata. In quest’epoca di sconvolgimenti, le strutture di potere dall’alto verso il basso e i sistemi soffocati dalle regole sono passività. Schiacciano la creatività e soffocano l’iniziativa. La creatività è un segno distintivo delle capacità relazionali. I leader dovrebbero ispirare la creatività in tutta l’organizzazione. È necessario passare dalla mente individuale all’idea più ampia di basi socioculturali distribuite dell’intelligenza che poi estendono la natura della creatività in aree funzionali alla risoluzione dei problemi. Hamel e Zanini definiscono questo processo umanocrazia. Si potrebbe esplorare la ricerca futura che potrebbe essere in grado di sviluppare una teoria e quindi identificare le competenze di leadership di un leader umanocratico. I leader del futuro devono abbracciare l’immaginazione e il pensiero innovativo come essenziali sia per l’identificazione dei problemi emergenti che per la creazione di soluzioni praticabili. Devono cogliere la realtà sapendo che c’è una rimodellazione della natura umana in una cittadinanza globale, così come la ri-genesi della società attraverso cambiamenti nella struttura sociale, nelle istituzioni e nei governi esistenti.
La disruption presenta una serie unica di opportunità e sfide per i leader non solo per reinventarsi, ma anche per reimmaginare le proprie organizzazioni.5
La maggior parte dei manager è cresciuta professionalmente in un contesto di una gestione disciplinata oppure in uno imprenditoriale, ma raramente in entrambi e quasi mai in entrambi contemporaneamente. Per riuscire a trasformare se stessi i leader devono concentrarsi di più sulla propria mentalità, ed essere abbastanza introspettivi e riflessivi da riuscire a identificare i pregiudizi di fondo che compromettono un corretto processo decisionale. Non ci sono soluzioni immediate, ma le ricerche in questo campo suggeriscono sempre di più che il miglior punto di partenza sia quello di adottare pratiche note con il termine di mindfulness. Queste pratiche accrescono la consapevolezza e la capacità per chi le utilizza di capire e gestire meglio le proprie emozioni e i propri processi decisionali.
La mindfulness è uno stato di coscienza in cui siamo testimoni vigili e presenti dei nostri pensieri, delle nostre emozioni e percezioni, momento per momento. È uno stato mentale. Una modalità dell’essere, non orientata a uno scopo. Focalizzata al permettere di stare nel presente così com’è, di essere semplicemente in questo presente. Ma la pienezza dell’esperienza comprende necessariamente anche un lato negativo, il risvolto del benessere, ovvero il disagio, la sofferenza e il dolore. Accettare il lato negativo viene considerato motivo di crescita e di creatività. Fare spazio al disagio paradossalmente sembra essere un ottimo modo per porsi nelle condizioni migliori per trovare, ove ci siano, soluzioni efficaci per gestire o risolvere problemi e sofferenza.6
L’impiego della mindfulness nella nostra vita quotidiana porta alla consapevolezza di non essere individui che agiscono in un sistema isolato agli altri individui ma di appartenere a un contesto sociale, in cui le nostre scelte possono avere delle ripercussioni sulle altre persone. Dalla consapevolezza del sé si passa quindi alla consapevolezza dell’Altro, ovvero alla social mindfulness. Nello specifico, le scelte che facciamo e che tengono in considerazione la presenza delle altre persone, ossia che non limitano le loro possibilità di scelta, racchiudono in sé il concetto di consapevolezza proprio della mindfulness. Associare la mindfulness alle situazioni di interdipendenza potrebbe apparire una parziale forzatura poiché essa è solitamente considerata in relazione al benessere individuale. Tuttavia, è importante integrare l’attività individuale della mindfulness con l’esperienza della social mindfulness in quanto siamo costantemente portati a interagire in un contesto sociale popolato da altre persone.7
La mindfulness si colloca all’avanguardia della “micro” politica, o della politica “fai da te” o “del quotidiano”, poiché conferisce una dimensione politica alla presenza a sé stessi sul piano individuale: in questo senso si può forse considerare l’ultima frontiera della politica della soggettività umana. Nella fattispecie, il dilemma se leggere le pratiche individuali come parte integrante di un’azione sociale e politica trasformativa o piuttosto come modello di autogoverno neoliberista trova nella mindfulness un perfetto esempio. Alcune voci critiche indicano nella mindfulness l’esempio di una forma produttiva di potere, che costruisce e disciplina soggetti neoliberisti. Secondo la Scuola di Francoforte, il capitalismo della metà del XX secolo mirava a distrarre e pacificare i cittadini-consumatori. Secondo questa visione, ciò che oggi chiamiamo “deficit di attenzione” era in realtà una riproduzione dello status quo. Tuttavia, il deficit di attenzione contemporaneo rappresenta una minaccia strutturale per lo stesso regime neoliberista che lo produce: la saturazione dell’informazione, infatti, danneggia le nostre capacità di produttori (lavoratori) e consumatori. La mindfulness – che mira a ripristinare l’equilibrio e l’attenzione dell’individuo – agisce direttamente su questo piano. È una delle ragioni per cui Žižek ha profeticamente sostenuto che il “buddhismo occidentale” è il perfetto completamento ideologico del capitalismo contemporaneo.8
Anthony e Putz in Disruption affermano che la mindfulness è uno strumento potente e scientificamente riconosciuto per incrementare la propria consapevolezza. Un qualcosa di cruciale spesso sottovalutato per dirigenti di alto livello alle prese con le sfide della disruption. Sottolineano inoltre che trasformare solo la persona che sta al vertice di una struttura non basta. Troppo spesso si incontrano leader che si concentrano esclusivamente su questo. Ciò consente solo un’apparenza momentanea di trasformazione e, appena il leader se ne va, i cambiamenti se ne vanno con lui o lei.
La sfida in corso è quella di riuscire a reclutare e formare una generazione di lavoratori che, nello svolgimento delle loro mansioni, dovranno utilizzare l’Intelligenza Artificiale, la Robotica, l’informatica quantistica, l’ingegneria genetica, la stampa 3D, la Realtà Virtuale e via discorrendo. L’evoluzione tecnologica ha drasticamente ridotto la longevità delle competenze come mai in passato. Le aziende devono anticipare e coltivare le competenze fondamentali di cui i loro team necessiteranno domani.
Le aziende tendono a trascurare il fatto che la Quarta rivoluzione industriale si stia affermando proprio mentre altri due grandi cambiamenti stanno esacerbando la carenza di competenze. Innanzitutto i cambiamenti demografici. I millennial e la generazione Z sembrano avere aspirazioni professionali diverse rispetto ai padri e ai nonni. Molti di loro preferirebbero lavorare per una start up piuttosto che per un’impresa già affermata. Questi giovani lavoratori hanno aspettative molto alte nei confronti dei datori di lavoro, il che rende difficile per le aziende tradizionali attrarre i giovani talenti di cui hanno bisogno. In secondo luogo, poiché oggi la tecnologia sta trasformando il mondo in cui lavoriamo, sta generando una dinamica diversa da quella delle precedenti rivoluzioni industriali. In passato, l’innovazione ha potenziato la precisione e la produttività dei lavoratori con abilità manuali, consentendo loro di svolgere compiti precedentemente riservati ad artigiani specializzati e ben pagati. Intelligenza Artificiale e Robot avranno l’effetto opposto: aumenteranno precisione e produttività dei lavoratori altamente qualificati, ma finiranno per rimpiazzare gli addetti con basse qualifiche.9
È chiaro a tutti che le innovazioni tecnologiche abbiano assunto un ruolo centrale, che riguardano tutte le funzioni aziendali e che si susseguono sempre più velocemente. Meno evidente è come sia cambiata la loro stessa natura: le tecnologie più rilevanti per un’azienda sono sempre state quelle sviluppate internamente o sviluppate da partner industriali. Erano poche, rare, specifiche e tipicamente segrete. Questo tipo di innovazione continua a esistere e a essere importante, ma non è più l’unico. Bassi e Mattiello suggeriscono di pensare all’IA Generativa: si tratta di un’innovazione tecnologica sviluppata da altri, che arriva dall’esterno e, nonostante ciò, può trasformare tutti gli ambiti di un’organizzazione, da quelli creativi a quelli tecnici, dalla comunicazione alla logistica. Per cui è facilmente immaginabile che tutte le innovazioni tecnologiche potenzialmente più disruptive per un’azienda avranno due aspetti fondamentali in comune: si diffonderanno rapidamente e saranno facili da utilizzare, da tutti e per diverse applicazioni.
Il libro
Alberto Mattiello e Paolo Taticchi (a cura di), DISRUPTION. Guida per navigare i cambiamenti estremi, The Future of Management – MIT Sloan Management Review, Guerini NEXT, Milano, 2023.
Traduzione di Mauro Del Corno.
I saggi presenti nel volume sono tratti da: The next age of disruption, The MIT Press, 2021.
1G. Verona, Teoria e pratica della disruption, Bocconi, Milano, 2022, www.unibocconi.it
3S.D. Anthony e M. Putz, Le illusioni dei leader sulla disruption, in DISRUPTION. Guida per navigare i cambiamenti estremi.
4D.W. Mandagi, D.I. Rantung, D. Rasuh, R. Kowaas, Leading through disruption: The role of transformational leadership in the digital age, Jurnal Mantik – Published by Institute of Computer Science (IOCS), marzo 2023.
5L. Ellington, Leadership Disruption: Time to Reimagine Leadership Talent, UBMR – International Journal of Business and Management Research, Volume 9, Issue 2, april 2021.
6E. Grechi, Mindfulness: definizione, meditazione, applicazioni, IPSICO – Istituto di Psicologia e Psicoterapia Comportamentale e Cognitiva – Psicologia Psichiatria e Psicoterapia, Firenze, 20 marzo 2021.
7M. Tumino, F. Fasoli, L. Carraro, La mangio o non la mangio l’ultima fetta? Il caso della social mindfulness come processo decisionale, IM – The Inquisitive Mind, n°17 anno 2019.
8W. Leggett, La mindfulness può davvero cambiare il mondo? La dimensione politica delle pratiche meditative, GATE – Il portale dell’Unione Buddhista Italiana, 2022.
9T.J. Marion, S.K. Fixson, G. Brown, Quattro competenze che saranno indispensabili nel lavoro del prossimo futuro, in DISRUPTION. Guida per navigare i cambiamenti estremi.
Da tempo ormai si dibatte in merito al problema del «capitalismo della sorveglianza», ovvero il business del controllo, dell’estrazione e della vendita dei dati degli utenti che è esploso con l’ascesa dei giganti tecnologici quali Google, Apple, Facebook, Amazon. Doctorow si chiede se il cosiddetto capitalismo della sorveglianza in realtà non sia una forma di capitalismo disonesto o una svolta sbagliata presa da alcune aziende deviate, ma parte di un sistema che funziona esattamente come previsto. Per cui l’unica speranza di ripristinare un web libero è quella di combattere direttamente il sistema stesso. Egli sostiene che l’unica possibilità è distruggere i monopoli che attualmente costituiscono il web commerciale per tornare a un web più aperto e libero, in cui la raccolta predatoria dei dati non sia un principio fondante.
Ci sono tre modi evidenti nei quali il capitalismo della sorveglianza si distacca dalla storia del capitalismo di mercato:
Si basa sul privilegio di una libertà e di una conoscenza illimitate.
Abbandona gli storici rapporti di reciprocità con le persone.
Dietro allo spettro della vita nell’alveare è possibile intravedere una visione collettivista della società, sostenuta da un’indifferenza radicale espressa nel Grande Altro.
La concorrenza tra capitalisti della sorveglianza li spinge alla ricerca della totalità. La totalità dell’informazione si avvicina alla certezza, e pertanto a esiti sicuri. Operazioni del genere implicano la possibilità di conoscere nel dettaglio domanda e offerta dei mercati dei comportamenti futuri. Il capitalismo della sorveglianza, pertanto, mette la certezza al posto del mistero, e renderizzazione, modifica del comportamento e previsione al posto del vecchio «schema insondabile». È un’inversione fondamentale dell’ideale classico secondo il quale il mercato era intrinsecamente non conoscibile. Il capitalismo della sorveglianza è definito da una convergenza inedita di libertà e conoscenza. L’intensità di tale convergenza è pari forza del potere strumentalizzante.1
«Più informazioni ci date su di voi e sui vostri amici, migliore sarà la qualità delle vostre ricerche. Non serve nemmeno che scriviate. Sappiamo dove siete. Sappiamo dove siete stati. Sappiamo più o meno anche a cosa state pensando.»2
Per il proprio tornaconto, il capitalismo della sorveglianza ci spinge verso l’alveare. Questo ordine sociale strumentalizzato è una nuova forma di collettivismo nel quale è il mercato, e non lo Stato, a detenere conoscenza e libertà. La convergenza di libertà e conoscenza trasforma i capitalisti della sorveglianza negli autoproclamati padroni della società. Dal loro piedistallo determinato dalla divisione dell’apprendimento, i “regolatori” appartenenti a un clero privilegiato governano l’alveare interconnesso per fargli produrre sempre più materie prime. Grazie all’indifferenza radicale, essi giudicano i contenuti in base a volume, varietà e profondità del surplus, con criteri “anonimi” quali clik like e durate, senza curarsi del fatto evidente che ogni situazione ha un significato diverso.3
«Noi mettiamo le persone in contatto. Può essere una cosa buona se fanno qualcosa di positivo. Magari qualcuno troverà l’amore o salverà la vita di un potenziale suicida. Ma può essere una cosa cattiva se fanno qualcosa di negativo. Magari qualcuno dovrà affrontare il bullismo e ci rimetterà la vita. Il lato brutto della faccenda è che per noi qualunque cosa ci consenta di connettere più persone di fatto è positiva. Non sono i prodotti migliori a vincere. Sono quelli che usano tutti.»4
L’indifferenza radicale ritiene equivalenti i fattori positivi e negativi, malgrado i loro diversi esiti e significati morali. Il solo obiettivo razionale non è più realizzare i prodotti “migliori”, ma quelli che intrappolano “tutti”. Una conseguenza rilevante dell’uso dell’indifferenza radicale è che il primo testo diviene corruttibile da contenuti che normalmente sarebbero ritenuti ripugnanti: bugie, disinformazione sistematica, violenza, odio. Basta che i contenuti aiutino a “crescere”. Di norma, la corruzione dell’informazione non viene ritenuta problematica finché non allontana gli utenti o attira l’attenzione della legge. Per questo, la “moderazione dei contenuti” è al massimo una tattica difensiva non una presa di responsabilità.5
L’esasperata ricerca di un remunerativo sistema finanziario mondiale ci ha immessi in sistemi sociali ed economici sempre più complessi che non tengono conto, però, di una visione comune globalizzata e di una prospettiva che vada oltre gli interessi delle singole parti. Ciò a cui ci stiamo maggiormente abituando è il fatto di vivere quasi esclusivamente in una dimensione orizzontale, sia individuale che collettiva, senza aspirazioni alte e profonde, senza aneliti lontani, senza visioni nobili e di ampio respiro. Il problema principale nasce dall’illusione, alimentata dalla postmodernità, dell’onnipotenza individuale supportata da protesi tecnologiche sempre più sofisticate ed efficienti e rafforzata dallo sganciamento dagli altri, dal rifiuto del “noi”, dal volersi pensare indipendenti da tutto e da tutti.6 La grande apertura al mondo promessa dal web ha esaltato l’io e probabilmente l’ha anche illuso, ma certamente l’ha spaesato ancor di più.7
Il capitalismo della sorveglianza sta segmentando miliardi di casi. Possono indirizzarci in base a un articolo letto o a un recente acquisto online. Possono identificarci in base al fatto che riceviamo e-mail o messaggi relativi a un determinato prodotto o argomento. Tutto questo è ovviamente inquietante ma, nell’analisi di Cory Doctorow, non si tratta di un controllo mentale. La vulnerabilità di piccoli segmenti della popolazione all’efficacia della manipolazione commerciale sistematica è una preoccupazione reale che merita attenzione ma non è una minaccia mortale per la società.
Il monitoraggio degli utenti è diventato molto più efficiente grazie alle major dell’IT. Nel 1989, la Stasi, la polizia segreta della Germania dell’Est, teneva sotto controllo l’intero Paese, un’impresa massiccia che ha reclutato una persona su sessanta come informatore o agente dell’intelligence. Oggi l’NSA (National Security Agency) spia una frazione significativa dell’intera popolazione mondiale e il rapporto tra agenti di sorveglianza e utenti sorvegliati è più o meno uno ogni diecimila. E ciò è stato possibile grazie all’ausilio delle aziende tecnologiche. I dispositivi e le app raccolgono la maggior parte dei dati che l’NSA estrae per il suo progetto di monitoraggio.
Doctorow sottolinea come il controllo di massa da parte dello Stato sia possibile solo grazie al capitalismo della sorveglianza e ai suoi sistemi di targeting pubblicitario a bassissimo rendimento, che richiedono un’alimentazione costante di dati personali per dirsi sufficientemente redditizi.
Per cui, sottolinea l’autore, il problema principale del capitalismo della sorveglianza è rappresentato dagli annunci pubblicitari fuori tema, mentre il problema principale della sorveglianza di massa è rappresentato dalle palesi violazioni dei diritti umani, che tendono al totalitarismo. La sorveglianza di Stato non è un mero parassita delle Big Tech, che succhia loro dati senza fornire nulla in cambio. In realtà, le due cose sono in simbiosi. Le grandi industrie stoccano i nostri dati per le agenzie di intelligenze, e le agenzie di intelligence si assicurano che i governi non limitino le attività dell’IT. Doctorow sostiene non vi sia una distinzione netta tra sorveglianza di Stato e capitalismo della sorveglianza; dipendono l’una dall’altro.
Quando si è osservati, succede che qualcosa dentro di noi cambia. Per crescere, per migliorare, per evolvere, per realizzarsi, è necessario esporre il proprio sé autentico. I tessuti teneri e non protetti esposti in questi momenti sono troppo delicati per rivelarli in presenza di un’altra persona. Nell’era dell’informatica il sé autentico è inestricabilmente legato alla vita digitale. La cronologia delle ricerche è un registro delle domande su cui si è riflettuto. La cronologia degli spostamenti è un registro dei luoghi cercati o vissuti. Il grafico sociale rivela le diverse sfaccettature della propria identità e delle persone con cui si è stati in contatto. Per Doctorow, essere osservati in queste attività significa perdere il riparo del proprio sé autentico.
La condizione dell’utente 2.0 è di doppia esistenza che oscilla di continuo tra l’essere e il poter essere, ossia tra una realtà fisica di cui l’uomo fa biologicamente parte e una realtà virtuale che, lungi dall’essere assorbente e parallela, è oggi piuttosto tangente e in continuo divenire. La maggior parte degli utenti online non si interroga su quale sia il proprio stato in rete e vive inconsapevolmente la condizione interattiva. Esattamente come il processo identitario reale, l’individuo necessita di uno spazio di riconoscimento e di rappresentazione del sé in rete. A giudicare dagli ambienti di condivisione e di discussione, l’esigenza di riconoscimento sociale in rete occupa oggi un posto preponderante nei desideri del singolo utente. In particolare nei social network avviene un continuo raffronto tra un mondo personale – quello del proprio diario – e un mondo collettivo – quello della rete sociale in cui l’utente si esprime e compie le azioni. Esattamente come nella realtà fisica, anche nella virtualità ibrida l’io proietta il proprio sé in un insieme, un “altro generalizzato”, ossia in una forma con cui la comunità esercita il suo controllo sulla condotta dei singoli membri. Perciò è in questo modo che il processo sociale o la comunità si inseriscono come fattore determinante nel modo di pensare dell’individuo. Esiste quindi una relazione dialettica tra l’individuo e il gruppo sociale di cui è parte che consente al primo di modellarsi e di modificarsi a seconda del ruolo e delle esigenze espresse dalla comunità. Il rispecchiarsi nell’atteggiamento universale dell’altro generalizzatosignifica fondare in qualche modo il processo identitario su una logica riflessiva, cioè basata sul rimando della propria immagine nello specchio sociale del gruppo. In pratica, l’individuo vede se stesso tramite il suo riflesso negli altri, avendo quindi la percezione e la visione di un suo doppio. L’io parla con se stesso come se si relazionasse con un altro, rispecchiandosi così nell’insieme del gruppo.8
C’è anche un altro modo in cui, nell’analisi di Doctorow, il capitalismo della sorveglianza priva gli utenti della capacità di essere autentici: rendendoli ansiosi.
I linguaggi digitali hanno avuto la capacità di aprire spazi inediti per la nostra identità, di cui sono riusciti a illuminare e rendere operative parti d’ombra, sempre censurate dalla dimensione sociale e civile del nostro vivere quotidiano. La fase attuale si caratterizza per un nuovo modo di intendere la Rete. I primi studi sul web hanno decantato l’effervescenza ricreativa dell’ambiente digitale, sottolineando come la configurazione del medium consentisse di ospitare e favorire nuove forme dell’abitare, irregolari e alternative, vie di fuga dal grigiore delle esistenze altrimenti ingabbiate nei meccanismi sociali. Tale dimensione ludico-ricreativa è, oggi, sempre più evanescente perché oppressa da tre tendenze: la normalizzazione etica, l’istituzionalizzazione del medium, le criticità legate alla privacy.9 Nella fase iniziale, alla rete è stata riconosciuta la potenzialità di dare forma a una ricreazione digitale: quella attività creativa e dissacrante che il prosumer, ossia l’utente non più consumatore passivo ma inventore di un nuovo linguaggio, ha potuto innescare grazie al nuovo medium reticolare. Oggi, le criticità legate alla potenza invasiva raggiunta dalle tecnologia possono essere sintetizzate nell’espressione black mirror, lo schermo digitale può rappresentate metaforicamente la superficie su cui scorgere la catastrofe ossia, etimologicamente, il rovesciarsi dell’originaria percezione delle tecnologie digitali, da opportunità creativa a inquietanti e incontrollabili strumenti capaci di incidere profondamente nelle nostre scelte esistenziali.10
Un utilizzo eccessivo e disfunzionale degli strumenti tecnologici può avere un impatto negativo su atteggiamenti, pensieri, comportamenti. Sono due i principali fattori di tecnostress individuati: il primo legato alla imponente quantità di informazioni provenienti da più fonti che possono portare a una eccessiva stimolazione e a un affaticamento; il secondo è riferito alla durata della connessione che a sua volta ha ripercussione su mente e fisico.11 Oggi essere collegati è quasi la norma. Essere offline è invece diventata un’eccezione. Quando siamo connessi siamo “al sicuro” perché potenzialmente o effettivamente viviamo una condizione di collegamento con le nostre reti sociali, mentre l’assenza di questa condizione provoca un senso di mancanza. L’ansia da disconnessione, ovvero la persistente e spiacevole condizione caratterizzata da preoccupazione e disagio, causata da periodi di disconnessione tecnologica dagli altri.12
Doctorow ritiene la tecnologia essere solo un’altra industria, cresciuta in assenza di obblighi monopolitstici reali. Maconsidera gli strumenti online la chiave per superare problemi molto più urgenti della monopolizzazione: il cambiamento climatico, la disuguaglianza, la misoginia e la discriminazione sulla base della razza, dell’identità di genere e di altri fattori. Internet è il mezzo con cui recluteremo le persone per combattere queste battaglie e il come coordineremo il loro lavoro. La tecnologia non sostituisce la responsabilità democratica, lo stato di diritto, l’equità o la stabilità, ma è un mezzo per raggiungere questi obiettivi. Internet rende più facile che mai trovare persone che vogliono collaborare a un progetto e più facile che mai anche coordinare il lavoro da svolgere. Per cui, sottolinea l’autore, la migliore speranza di risolvere i grandi problemi è una tecnologia libera, equa e aperta.
La trasformazione dello spazio nel quale i comportamenti umani possono trovare collocazione e svolgimento, rappresentata dall’avvento della Rete, è stata osservata attraverso tre possibili lenti:
Ottimistica o utopica.
Distopica, conservativa, a tratti apocalittica.
Razionale, rappresentata da quei cyber-realist che si sono posti e si pongono soprattutto il problema della regolazione.
Tutte le riflessioni sulla Rete prendono in fondo le mosse da un’esigenza di tutelare la libertà, sia in una prospettiva che legge la tecnologia come strumento per una piena realizzazione della libertà d’informazione (libertà di informare e libertà di essere informati), sia nella prospettiva che si potrebbe definire maggiormente oppositiva, o protettiva, che si concentra sul diritto di controllare il trattamento informatizzato dei propri dati personali.
Il tema centrale, per chi intenda investigare la possibilità per le tecnologie di contribuire alla realizzazione di una società più giusta ed equa, dove sono garantiti tutti i diritti fondamentali, non è solo o tanto quello dell’algoritmo ma quello dei dati, e dunque della creazione di condizioni che consentano all’AI, per esempio, di utilizzare basi di dati costruite correttamente.
Se nell’approccio tecnologico il bias rappresenta un errore di valutazione, un concetto che rischia di minare la correttezza e l’affidabilità dei risultati di un’analisi, nella prospettiva giuridica il bias rappresenta lo stereotipo pronto a trasformarsi in scelta discriminatoria.13
Per cui la questione è quella della riflessività degli stereotipi e delle discriminazioni nel passaggio dalla generazione dei dati, spesso frutto dell’intelligenza e del comportamento umano, alla costruzione degli algoritmi. L’errore di derivare dall’essere il dover essere14 diviene particolarmente grave quando l’essere è fatto da una realtà ingiusta, che tende a perpetrare diseguaglianze, e che quindi la cristallizzazione dell’ingiustizia nelle maglie dell’algoritmo rischia di normativizzare.15
Il progetto gendershades.org16 ha mostrato come le tecniche di machine learning utilizzate per la classificazione di genere da parte di tre compagnie (IBM, Microsoft e Face++) presentano evidenti bias etnici e di genere. Se l’AI è in grado di fallire così come lo è l’intelligenza naturale, il problema è che essa è altrettanto in grado di discriminare.17 Studi dimostrano come gli algoritmi dei motori di ricerca tendano a rafforzare ideologie e sentimenti razzisti.18
Il principio di eguaglianza costituisce la pietra angolare degli ordinamenti democratici occidentali al punto che, per quanto i tempi storici stiano sottoponendo i sistemi giuridici a nuove pressioni e compressioni ideologiche, sarebbe impossibile pensare di rigettarlo. Eppure, l’unanimità normativa sopra questo consenso, per come essa sembra emergere in particolare dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 e dalla Dichiarazione di Vienna del 1993, è non solo affatto recente ma anche difficile da articolare in termini concreti. Riprendendo le tesi di Peter Sloterdijk, Silvia Vida ha recentemente sostenuto che l’humanitas dipende direttamente dallo stato della tecnica. È però interessante chiedersi se la diversità dei cosiddetti “soggetti tecnologici” sia stata davvero superata, a cominciare da quella tra uomini e donne. I dati statistici mostrano l’esistenza di un “digital gender divide” quale conseguenza di già consolidate differenze socio-economiche tra i sessi. Il gap sembra altresì supportato da “nuovi” stereotipi di genere, che influenzerebbero le attitudini personali dei “soggetti tecnologici”, indirizzando gli uni verso una maggiore propensione alla tecnologia, le altre verso una “fuga” dalla stessa.19
Se è vero che le nostre vite sono regolate da quattro forze (la legge – ciò che è legale, il codice – ciò che è tecnologicamente possibile, le norme – ciò che è socialmente accettabile, i mercati – ciò che è redditizio)20 lo è anche che per risolvere il problema delle major sarà necessario un grande lavoro di iterazione. Per aiutare le persone a riflettere sui monopoli sarebbero opportuni non solo degli interventi legislativi ma anche tecnologici che le aiutino a vedere come potrebbe essere un mondo libero dalle Big Tech. Doctorow ipotizza e sogna un mondo virtuale scevro dal ritmo ansiogeno degli algoritmi e libero dalla continua sorveglianza. Le aziende spiano perché i governi glielo permettono. Lo fanno anche perché qualsiasi vantaggio derivante dall’attività di controllo è così effimero e marginale che devono aumentare sempre di più la loro attività solo per riuscire a rimanere sul mercato. Si interroga allora l’autore su quale possa essere il motivo per cui le cose sono così incasinate. La risposta è: il capitalismo. In particolare la circolarità con cui il monopolio crea disuguaglianza e la disuguaglianza crea monopolio. È una forma di capitalismo che premia i sociopatici che distruggono l’economia reale per gonfiare i profitti, e la fanno franca per lo stesso motivo per cui le aziende sono libere di spiare.
La sorveglianza non rende il capitalismo disonesto. Il capitalismo sregolato genera sorveglianza. La sorveglianza non è negativa perché permette di manipolare le persone, ma perché schiaccia la nostra capacità di essere autentici.
Il libro
Cory Doctorow, Come distruggere il capitalismo della sorveglianza, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2024.
Traduzione del Gruppo Ippolita.
Titolo originale: How to destroy surveillance capitalism.
1S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019.
2Dichiarazione del 2010 di Eric Schmidt, amministratore delegato di Google dal 2001 al 2011.
4R. Mac, C. Warzel, A. Kantrowitz, Growth at Any Cost: Top Facebook Executive Defended Data Collection in 2016 Memo and Warned That Facebook Could Get People Killed, Buzzfeed, 29 marzo 2018.
6R.G. Romano, Tramonto del “noi”, individualismo e nuovi poteri globali, in Quaderni di Intercultura, Anno IX/2017.
7R.G. Romano, Nuove povertà globali, virtualità e manipolazioni comunicative, in Quaderni di Intercultura, Anno X/2018.
8L. Denicolai, Riflessioni del sé. Esistenza, identità e social network, in Media Education – Studi, Ricerche e Buone pratiche, Vol. 5, anno 2014, Edizioni Centro Studi Erickson, Trento, 2014.
9G.N. Bovalino, La Katastrophé del Capitalismo. Da Black Mirror a Squid Game: la religione capitalista alla “fine dei giochi”, in IM@GO – A journal of the social imaginary, n°18 – year X / December 2021.
10C. Attimonelli, V. Susca, Un oscuro riflettere. Black mirror e l’aurora digitale, Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni (Milano), 2020.
11F. Bosco, Tecnostress, gli effetti collaterali legati a una vita davanti allo schermo, in Sanità informazione, 18 gennaio 2022.
12C. Galimberti, F. Gaudioso, Tecnostress: stato dell’arte e prospettive d’intervento. Il punto di vista psicosociale, in Tutela e Sicurezza del Lavoro – Rivista di Ateneo, Università degli Studi Milano-Bicocca, numero 1 anno 2015, Milano, 2015.
13E. Stradella, Stereotipi e discriminazioni: dall’intelligenza umana all’intelligenza artificiale, in Liber Amicorum per Pasquale Costanzo, Consulta online, 30 marzo 2020.
14A. Simoncini, L’algoritmo incostituzionale: intelligenza artificiale e il futuro delle libertà, in Rivista di BioDiritto, n°1/2019.
16J. Buolamwini – T. Gebru, Gender Shades: Intersectional Accuracy Disparities in Commercial Gender Classfication, in Proceedings of Machine Learning Research 81/2018.
18S.U. Noble, Algorithms of Oppression. How Search Engines Enforce Racism, New York University Press, New York, 2018. P. Costanzo, Motori di ricerca: un altro campo di sfida tra logiche del mercato e tutela dei diritti?, in Diritto all’internet, 2006.
19S. Vantin, L’eguaglianza di genere tra mutamenti sociali e nuove tecnologie, Pacini Giuridica, Pisa, 2018.
20L. Lessig, Code and Other Laws of Cyberspace, Basic Book, New York, 1999.
Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Mimesis Edizioni per la disponibilità e il materiale.
Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com
Tutto inizia nel momento esatto in cui veniamo al mondo. È come un big bang nel quale ci rendiamo conto che da soli non ce la faremo, che siamo in uno stato di bisogno assoluto. Scopriamo la dipendenza da nostra madre; poi da chiunque si prenda cura di noi.
Il modo in cui rispondiamo a questa esperienza originaria di attaccamento influenza relazioni e comportamenti. Qui spesso inizia la sfida tra la perfezione (ambita e impossibile) e tutte le umane fragilità. Pietro Roberto Goisis analizza le imperfezioni e le crepe nel fisiologico funzionamento della mente cercando di dare loro un senso.
Di certo, per la crescita e lo sviluppo individuale e gruppale sono necessari errori e rotture, oltre che una spinta inesauribile verso il nuovo e il cambiamento.
L’imperfezione in natura nasce proprio dall’esigenza di trovare compromessi tra interessi diversi, tra spinte selettive antagoniste. E ancora, la selezione naturale non è un agente che perfeziona e ottimizza gli organismi in ogni loro parte. Non può farlo, perché lavora in circostanze contingenti, quindi è sempre relativa a un contesto cangiante, e soprattutto è condizionata dai vincoli storici, fisici, strutturali e di sviluppo.1La consapevolezza delle nostre imperfezioni, ancor più la loro accettazione, si intreccia in maniera articolata con il tema della autenticità, che vuol dire essere davvero quelli che si è, e si realizza svelandosi. Goisis ricorda l’esistenza di un termine specifico per definire il sentimento di inadeguatezza che si associa frequentemente alla percezione delle nostre imperfezioni: atelofobia. Ovvero la paura di non essere perfetti o di non essere mai abbastanza.
Quasi tutti ne soffriamo in maniera più o meno intensa e diversa a seconda dei periodi della vita. È frequente in adolescenza, nelle fasi di cambiamento, nel momento in cui subiamo perdite o delusioni. Quando prende una forma continuativa, associata a sintomi veri e propri (ansia, somatizzazioni varie, depressione, ideazione con inquietudine e così via) può interferire in maniera significativa con la qualità della nostra vita.
Il bisogno è la tensione generata dalla mancanza di qualcosa di necessario per soddisfare esigenze fisiologiche, psicologiche o sociali. Il bisogno è anche in continua evoluzione attraverso le varie fasi del ciclo della vita, principalmente tra spinta allo sviluppo e necessità di stabilizzazione. La risposta positiva al bisogno produce un’esperienza concreta significativa sul piano emotivo e di sostegno e guida strutturale per la persona che la vive. Ecco perché il rapporto tra i nostri bisogni e il loro più o meno felice soddisfacimento diventa così importante nello sviluppo e nelle relazioni durante l’intera esistenza. La sintomatizzazione affettiva ci porta a comprendere e condividere il mondo. Se non è presente o è inefficace durante i primi anni di vita, può creare un senso di isolamento e la convinzione che in generale i nostri bisogni affettivi siano in qualche modo inaccettabili. Quello dei bisogni è un sistema complesso e articolato intorno al quale si organizza, cerca un senso e subisce frustrazioni gran parte della nostra esistenza e delle nostre esperienze relazioni. Sottolinea Goisis come il bisogno originario sia assoluto e attivi il sistema motivazionale dell’attaccamento. Da cui poi nasce il desiderio. Il bisogno non nasce solo come conseguenza di una mancanza ma può uscire dal suo ambito autoreferenziale e diventare uno dei motori relazionali.
Inoltre l’autore analizza a fondo uno degli equivoci in cui in tanti incorrono, ovvero ritenere i bisogni dei diritti. Quest’ultimi sono gli aspetti basilari che regolano e governano le relazioni tra gli esseri umani. I bisogni nascono invece dalle nostre necessità, legittime quanto si vuole, ma soggettive e individuali. Se una persona confonde i due concetti, può succedere che esprima i propri bisogni come se fossero diritti e si senta vittima di ingiustizia se i primi non vengono soddisfatti. Oppure è possibile che, nella confusione delle lingue e dei concetti, i bisogni primari (fame, sete, sonno, accudimento, cura, salute, sicurezza – anche amore e riconoscimento) diventino in qualche modo i nostri diritti. E fin qui va bene. Il problema nasce quando non si considerano “solo” bisogni quelli secondari e quelli superiori (educazione, relazioni, stima, realizzazione, divertimento, svago, benessere economico), ma diventano a loro volta dei diritti. Avviene così una oscillazione tra bisogni che vengono occultati e negati (espressione della vergogna di aver bisogno) o dall’altro lato esibiti con tono pretenzioso (come se fossero un diritto appunto). Cosa che confonde sia chi li esprime, sia chi li potrebbe soddisfare.
Goisis ritiene fondamentale accettare la propria vulnerabilità, considerandola condizione necessaria, altrimenti il rischio è cercare altre cose, sostanze, comportamenti, relazioni malate da cui dipendere, per mettere a tacere la nostra sensibilità.
Il punto, o meglio il problema è che viviamo immersi in una cultura e una struttura sociale nella quale non è accettabile essere ordinari, normali. Bisogna essere speciali, perfetti, giusti. A risentirne sono maggiormente i giovani della cui condizione, secondo l’autore, non si parla mai abbastanza.
Oggi, un ampio segmento dei giovani tra i diciotto e i trentaquattro anni si trova in condizioni dideprivazione, intesa come il mancato raggiungimento di una pluralità di fattori, individuali e di contesto, che agiscono nella determinazione del benessere. Sottolinea più volte Goisis quanto i millennial, cresciuti in un periodo di rapido cambiamento tecnologico e sociale, sono spesso associati a una crescente sensazione di impotenza e incertezza. Uno dei principali motivi di impotenza è la situazione finanziaria in cui si trovano. Un altro aspetto che contribuisce all’incertezza è proprio il mercato il lavoro. I millennial sono la prima generazione a essere cresciuta con l’ascesa della tecnologia digitale e l’esplosione di internet. Novità che, sebbene abbiano aperto nuove opportunità, hanno avuto un impatto significativo sulla loro vita. Sono anche la prima generazione a essere cresciuta con la consapevolezza diffusa della crisi climatica. Ma per l’autore c’è un altro aspetto che li caratterizza: avere relazioni sentimentali relativamente poco stabili. Le storie affettive sono spesso precarie, poco investite, raramente suggellate da matrimoni e figli.
Ci sono state epoche e generazioni negli anni e nei secoli che hanno voluto, saputo o dovuto trovare una risposta alle difficoltà che stavano vivendo. È possibile quindi, per Goisis, che la condizione di impotenza e di incertezza che questa generazione sta vivendo possa prefigurare un nuovo cambiamento culturale ed epocale. Certamente, rispetto al passato, si sta declinando molto più sul piano individuale che su quello collettivo, ma sembra comunque essere in atto.
Il ’68 sancisce l’ingresso sulla scena pubblica di una nuova identità collettiva: le/i giovani. È una questione, quella della gioventù, marcatamente simbolica, più che materiale. Certo, la rivolta segue una linea di frattura generazionale, ma non mancano le figure adulte nel ’68 e il dato poi non vale per il movimento operaio. È soprattutto sui repertori simbolico-estetici che si gioca l’associazione ’68/gioventù. La teatralità della protesta, l’irrisione, l’irriverenza, quel po’ di narcisismo indispensabile per volere tutto e subito, l’urgenza di essere sempre e comunque dentro le cose, le giornate senza sonno e le vite nomadi: è il puer aeternus, il fanciullo mitico-magico che abita i singoli movimenti e che si è conservato un angoletto nella testa di molti ex. Forse nessuna epoca è stata più propizia al puer. Nella cultura del XX secolo la giovinezza è un valore che si ama, si odia, si invidia, si imita, si vende sul mercato degli oggetti e delle idee. L’età simbolica del ’68 è senza dubbio quella viscerale, idealista, traboccante di eros e thanatos dell’adolescenza. È una condizione giovanile che trascende ogni età anagrafica e che risiede in una viscerale domanda di senso e di un’altra vita, individuale e collettiva, così come nel terrore di ogni finitudine.2
È l’Italia dell’americanizzazione di costumi e consumi, della pubblicità, del cinema e della televisione, ma anche delle “mani sulla città” delle speculazioni urbane e suburbane. Tra le/i giovani, oggetto del crescente interesse del mercato, serpeggiano malessere e insoddisfazione, una implicita critica ai sogni di vita piccolo-borghese e consumista. Un malessere che non si traduce però in azione politica organizzata, ma più spesso in forme di ribellione erratiche verso la società dei padri e le sue regole. La rivolta dello stato delle cose inizia dentro le case, e con il nodo politico della famiglia faranno i conti, seppur diversamente, tanto il ’68 quanto il femminismo. Un rito di passaggio quasi archetipo nelle biografie giovanili del periodo è la fuga da casa, atto di ribellione e strappo per eccellenza specie per chi, dal profondo di una provincia apparentemente immobile, riesce a presentire il palpitare delle trasformazioni e desidera esserne parte. L’enfasi sul gesto teatrale, sulla protesta come rottura simbolica, sulla politica come vita e comportamento, centrale per gli sviluppi del ’68 deve molto agli stimoli portati da nuovi media, cultura e subcultura nei due decenni precedenti. Una funzione primaria della “società dello spettacolo” che il situazionismo, con la nota capacità di guardare lontano, individua come dimensione non solo dello spirito di rivolta, ma anche della sua sussunzione nel sistema capitalistico. Questa graduale incorporazione prende dal ’68 i processi di soggettivazione e di espressione di sé e li trasforma in dispositivi di disciplinamento, annullandone la spinta critica ed eversiva. Si pensi, a titoli d’esempio di più ampi processi, al narcisismo solipsistico alimentato dai social media, iperfetazione impolitica dell’espressione di sé. O, ancora, all’enorme sviluppo del settore pubblicitario (in cui tanti ex sessantottini si impiegheranno), che oggi varca una nuova frontiera, in cui la distanza fra prodotto e persona che lo pubblicizza si annulla nell’ambigua e affascinante figura dell’influencer.3
La teoria della rivoluzione silenziosa di Inglehart individua una stretta correlazione tra benessere economico, consolidamento della democrazia e mutamento valoriale. Alti livelli di sicurezza economica, fisica ed esistenziale sono positivamente legati a un mutamento culturale che porta dai valori materialisti – che enfatizzano sicurezza fisica ed economica e la conformità alle norme del gruppo – ai valori postmaterialisti. Questi enfatizzano la libertà individuale di scegliere i propri modi di vita, la libertà di espressione, l’uguaglianza e la partecipazione ai processi decisionali nella vita economica e politica. La teoria inglehartiana sul mutamento dei valori si fonda su due ipotesi chiare: scarsità e socializzazione. La prima ci dice che gli individui tendono a dare più valore ai bisogni ritenuti più rilevanti, una volta garantiti la loro utilità marginale è decrescente e si presta più valore agli altri. La seconda afferma che la struttura valoriale degli individui si forma nelle prime fasi di socializzazione (adolescenza e giovinezza), dopo di che sono difficilmente modificabili.
Per cui la generazione dei padri, socializzata in un periodo di profonda insicurezza esistenziale, aveva posto al vertice del proprio sistema valoriale valori prettamente materialistici, al cui centro c’erano le cosiddette “tre emme”: mestiere, marito/moglie, macchina. I loro figli, i sessantottini, hanno vissuto una dinamica di mobilità ascendente, sul piano economico, sociale e culturale. In questo contesto maturano una insoddisfazione nei confronti di un modello sociale che garantisce sicurezza, ma che è ancora profondamente intriso di autoritarismo e paternalismo, che si appoggia su istituzioni gerarchiche, burocratiche e verticistiche, che limitano l’autonomia e le libertà individuali.4
Per decenni, seppur con l’alternarsi di crisi e momenti di incertezza, è stata predominante la convinzione che i figli avrebbero goduto di livelli di benessere almeno pari a quelli dei genitori. Il venir meno di questa certezza sta contribuendo a modificare gli orientamenti valoriali. Il diffuso senso di insicurezza esistenziale conduce a un “riflesso autoritario” che porta a ridurre l’enfasi sui valori postmaterialisti e riportare al centro i valori materialisti. La crisi economica e sociale alimenta il supporto per i leader forti, molta solidarietà interna al gruppo, un rigido conformismo alle norme del gruppo stesso e un rifiuto degli estranei o stranieri.
Ciò significa che se per la generazione del Sessantotto non una condizione di insicurezza e di deprivazione, ma proprio il suo superamento ha gettato le basi della contestazione, le generazioni che si sono succedute a partire dagli anni Ottanta non hanno instaurato particolari rapporti di conflitto con le generazioni precedenti che condividevano con loro, nei tratti essenziali, una costellazione valoriale postmaterialista. Tradottasi in rapporti orizzontali in ambito familiare, in una propensione al dialogo e al confronto, in rapporti fondati sul riconoscimento e la reciprocità, più che su ruoli e strutture verticali di comando. La percezione di un peggioramento radicale nelle prospettive di vita si è riflessa in un prepotente ritorno dei valori materialisti, che ha trovato espressione nell’ascesa del populismo.5
Rispetto al passato, quindi, i giovani affrontano numerose difficoltà per rendersi economicamente indipendenti, raggiungere la piena maturità sociale e condizioni di vita soddisfacenti. Ma cosa vogliono i loro genitori? Si chiede Pietro Roberto Goisis.
HPI – Haut Potentiel Intellectuel (Alto potenziale intellettivo) è un fenomeno analizzato in Francia e descrivibile come la tendenza a considerare i propri figli come tali al primo buon voto e la smania di poterli classificare con quell’acronimo che conta ormai come un diploma.
Il meglio, si pensa, è destinato ai più dotati, ai più intelligenti, ai migliori. E se i figli non lo sono? Si chiede ancora Goisis.
Ecco l’inghippo: HPI non solo narcisismo, ma strumento di una competizione sempre più dura e precoce. Infatti le persone con un QI oltre 130 sono il 2.3% del totale, quindi pochissimi.
Quello degli “iperdotati” è un tema estremamente delicato e problematico. Anche in Italia è stato piuttosto di moda alla fine del Novecento. Ora sta tornando di attualità, un po’ per necessità narcisistiche, un po’ per le difficoltà a riconoscere le fatiche degli adolescenti post Covid. Con la nefasta conseguenza di non riuscire a capire le reali problematiche di un ragazzo o ragazza e la necessità di aiuti specialistici e necessari.
Si chiede l’autore se, in questo continuo guardare fuori alla ricerca del meglio, non vadano perduti elementi ben più importanti: la relazione affettiva e la capacità di riconoscere davvero chi è la persona che si ha di fronte.
Relazionarsi in maniera corretta in famiglia è certamente un modo per imparare a farlo anche fuori da essa. Pensiero diffuso è che, per impararlo a fare bene, bisogna innanzitutto riuscire a stare bene con se stessi, ritagliandosi magari degli spazi in solitudine. Ma Goisis ricorda che vi è una sostanziale differenza che separa i “momenti di solitudine” trascorsi con sé stessi e la vera solitudine.
Ci sono infinite situazioni a causa delle quali si vive e si sperimenta la solitudine. Secondo un’indagine condotta da Ipsos in ventinove Paesi, il 39% degli adulti prova sentimenti di solitudine e l’Italia è al quinto posto con un dato del 41%. Questi numeri sono sicuramente peggiorati dopo la pandemia, ma già nel 2015 uno studio condotto da Eurostat evidenziava che un italiano su otto si sentiva solo. Percentuali che salgono vertiginosamente con l’abbassarsi dell’età degli intervistati. Il 93% del campione compreso tra i tredici e i ventitré anni ha dichiarato di sentirsi solo, il 48% di aver sperimentato la solitudine molto spesso.
La solitudine è una condizione psichica e sociale. Non è una malattia in senso letterale, ma può generare malessere. Non è soltanto la questione di essere fisicamente da soli, piuttosto un senso di mancanza di connessione emotiva o sociale con gli altri. Può essere sperimentata sia in situazioni di isolamento fisico sia in contesti sociali affollati.
Ungaretti definitiva “solitudine senza scampo” lo stato emotivo di Leopardi6 che egli stesso aveva indicato come una condizione esistenziale con effetti particolarmente nefasti sulla sua salute mentale e fisica, che favorisce l’isolamento e l’incessante attività cerebrale, snervante e debilitante.7 La solitudine di Giacomo Leopardi è un’esperienza personale e intensa di isolamento e di estraniazione vissuti in modo drammatico come progressiva separazione dal mondo e dal contesto sociale e come un lento e ineluttabile sprofondamento nelle sabbie mobili dell’esclusione, nel deserto delle emozioni e nella malinconia più nera e rovinosa. Nell’isolamento si diventa estranei agli altri ma anche a sé stessi.8
Norbert Elias riflette su come le emozioni e le loro manifestazioni siano strettamente correlate agli ambiti sociali in cui nascono. In tale senso società diverse generano culture emozionali differenti e ogni società è animata dalle sue regole emozionali. Nella società contemporanea, la cultura emozionale di riferimento è quella dei media digitali che rappresentano delle vere e proprie dimensioni sociali in cui è possibile conoscere qualcuno, divulgare notizie o informazioni, commentare in totale libertà, condividere, vivere emozioni e sentimenti. Negli spazi sociali contemporanei sono cambiati i sistemi di comunicazione perché la persona non è più destinataria del messaggio ma è anche divulgatrice del proprio pensiero. La cultura emozionale nella quale giovani e adulti vivono, dunque, complica l’approccio emotivo che guida le pratiche quotidiane, anche perché la conoscenza che si acquisisce in Rete è una sorta di continua frammentazione del sapere legittimata da un insieme di opinioni emotive che finiscono con il disorientare la persona. L’avvento della cultura digitale ha modificato in termini di spazio, tempo e memoria il bagaglio formativo dei giovani e degli adulti, che si trovano così a vivere e a consumare esperienze di vita in un ambiente emotivo che sembra aver logorato il concetto di verità. L’individuo contemporaneo è come se fosse incapace di affrontare il proprio mondo emozionale e quello dell’altro, un mondo non più guidato dalla relazione interpersonale, ma mediato da dispositivi tecnologici. La persona, in altri termini, è come se fosse inadeguata nel riuscire a nominare le emozioni che prova, trovandosi impreparata a gestire sia ciò che prova sia ciò che l’altro sente. Ne consegue un analfabetismo affettivo che sempre più spesso determina la rottura delle relazioni tanto desiderate quanto consumate e deturpate.
Gli adulti inoltre oggi vivono in uno stato di “adultescenza”nell’ambito del quale rimangono eternamente giovani, continuando a ignorare le responsabilità, prima fra tutte quella di crescere e acquisire una forma che sia unica e irripetibile.9
Secondo Aristotele, la condizione della vita solitaria non è naturale nell’uomo, che è zoon politikon, cioè animale sociale, o per meglio dire socievole, in virtù proprio dell’essenza della sua anima razionale.10 E l’uomo sociale ha delle responsabilità. Responsabilità che derivano anche dalle relazioni interpersonali, utili e necessarie per gli individui.
Molti adulti, spesso genitori, sono incapaci di assumersi le proprie sacrosante responsabilità di fronte ai figli. Lasciandole a loro.
Il permanere di atteggiamenti infantili in età adulta sembra essere diventato quasi uno stile di vita associato alla leggerezza, al divertimento e alla rinuncia degli obblighi sociali. Se, come spesso accade, i modelli di riferimento adulti si vestono delle caratteristiche del “bonsai”, cioè di una sorta di genitori in miniatura, diventa difficile, per questi adulti bonsai, indirizzare i giovani nel diventare a loro volta adulti.11
Il rapporto fra adulti e giovani evidenzia oggi una deconflittualizzazione delle relazioni. Il conflitto nel recente passato ha costituito la modalità più frequente con cui le generazioni più giovani si contrapponevano a quelle adulte per affermare la propria indipendenza e la propria identità. Se, fino agli anni Ottanta, i conflitti intergenerazionali di natura culturale caratterizzavano i rapporti genitori-figli e insegnanti-alunni, i decenni successivi hanno evidenziato una progressiva e generale deconflittualizzazione che, tuttavia, non si è accompagnata a una maggiore coesione sociale. Gli adulti di riferimento, tradizionalmente individuabili nelle figure parentali e in quelle dei docenti, sembrano essere venuti a far parte, nella percezione generalizzata dei giovani, di una massa quasi indistinta di soggetti poco significativi e con quasi nessuna capacità di influenzare, di orientare, tanto meno di incidere stabilmente attraverso i meccanismi di socializzazione secondaria sulle loro esistenze.
Un effetto della erosione delle certezze e degli orizzonti di senso collettivi è il diffondersi della violenza reiteratamente agita nei gruppi – reali o virtuali – dei pari. Si evidenzia inoltre una qualche sommaria accettazione acritica della violenza nel suo espressivizzarsi routinario contro coetanei più facilmente stigmatizzabili – stranieri, omosessuali, diversamente abili ecc. – da parte delle giovani generazioni, che sfocia in una banalizzazione delle condotte violente nel mondo quotidiano dei più giovani. La soglia di accettazione della violenza, nel suo plurimo riprodursi (materiale e immateriale, agito o esperito), va però messa in relazione con la scarsa, quando non addirittura inesistente, consapevolezza della natura effettivamente violenta di quell’azione. Ecco allora che in questo Zeitgeist caratterizzato da una generale incertezza sul presente e sul futuro, la violenza di gruppo diviene una modalità sostitutiva del conflitto, proprio perché è il micro-rituale violento a definire ruoli e funzioni altrimenti inaccessibili a un numero sempre più grande di adolescenti.12
Il libro
Pietro Roberto Goisis, Noi imperfetti. Quando pensiamo di non farcela, Enrico Damiani Editore, Brescia, 2024.
1T. Pievani, Imperfezione: una storia naturale, Raffaello Cortina, Milano, 2019.
4L. Raffini, Le nuove generazioni e il Sessantotto. Tra mito e contro-mito, SocietàMutamentoPolitica, gennaio 2018, Vol. 9 (18), Firenze University press, Firenze, 2018.
6G. Ungaretti, Viaggi e lezioni, Mondadori, Milano, 2000.
7G. Leopardi, Lettere (a cura di R. Damiani), Mondadori, Milano, 2006.
8R. Arqués, Dialogo di Leopardi e la Solitudine, Quaderns d’Italià 22, Barcellona, 2017
9S. Perfetti, Adulti e giovani allo specchio tra crisi emozionale e cultura digitale. L’educazione affettiva come scommessa formativa, Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education, Vol. 27 n° 63, Bologna, 2023.
12I. Batholini, L’opacizzarsi del conflitto tra giovani e adulti e l’affermarsi della violenza tra pari, Studi di Sociologia, Anno 51, Fasc. ¾ (Luglio – Dicembre 2013), V&P – Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 2013.
Un libro. Un artista. Tre capitoli. Tre donne. Non sono però solo questi i numeri del breve romanzo di Mika Biermann dedicato alla figura emblematica di Vincent van Gogh. A tratti, l’opera di Biermann sembra un conto alla rovescia, laddove sottolinea il tempo che rimane da vivere all’artista e il tanto lavoro ancora da ultimare, i quadri da dipingere.
«Gli restano trentasette anni da vivere e ottocentosettantuno quadri da dipingere. Un quadro ogni quindici giorni. Un gioco da ragazzi.»
Un’espressione che può sembrare inquietante ma che sembra servire, in realtà, per sottolineare l’inquietudine di fondo che accompagna l’intera esistenza del van Gogh narrato dall’autore. Un uomo descritto in tre fasi distinte della sua esistenza, attraverso la narrazione dei suoi incontri o delle sue relazioni con tre delle donne che maggiormente hanno segnato la sua vita, indirizzandone o deviandone il cammino.
L’incontro con Saskia simboleggia anche il primo contatto di Vincent con l’altro sesso, con la nudità femminile, la provocazione e, in un certo qual modo, l’erotismo. Non accade nulla di fisico nell’incontro descritto da Biermann nel primo capitolo del libro ma da quel giorno il giovane van Gogh non sarà più lo stesso. Custodirà un segreto che pesa come un macigno. Figlio del pastore, Vincent ha ricevuto un’educazione molto rigida e religiosa e la sfrontatezza della ragazza lo mette in seria difficoltà, soprattutto per il timore che in famiglia possano scoprire quanto accaduto, quello che i suoi occhi hanno visto, e la certezza di non essere in grado di spiegarlo con razionalità e distacco.
«Suo padre gli ha spiegato che Dio ha creato la terra, il cielo, le piante, gli animali e gli uomini rigorosamente in bianco e nero, e che è stato il diavolo, in seguito, ad aggiungere i colori, l’azzurro di un lago, il verde di una prateria, l’arancione di un tramonto, il rosa sulle guance delle donne, il rosso sulle labbra, l’oro sui capelli, affinché i poveri uomini sedotti si allontanassero dall’Onnipotente, smettessero di cercare la salvezza nell’aldilà e si occupassero soltanto delle cose terrene.»
E allora il lettore si chiede come sia stato possibile, per un artista, conciliare una simile educazione con la vocazione alla pittura?
I dipinti di Vincent van Gogh trasmettono la grande capacità dell’artista di cogliere l’anima delle cose semplici e quotidiane: le banchine sul Tamigi o le distese di campi di grano. «L’arte è sublime quando è semplice», scrive in una lettera indirizzata al fratello Théo. Un’arte che esprime il quotidiano e la sua bellezza ma anche un’estrema solitudine, quella dell’artista, una tristezza che non gli ha impedito di continuare a produrre bellezza: «all’epoca in cui preparavo i fiori di mandorlo. Se avessi potuto continuare a lavorare, avrei realizzato altri alberi da fiore, come potete immaginare. Ora gli alberi da fiore sono quasi finiti.» L’artista sembrava nutrire un profondo desiderio di conoscere se stesso, oltre che il mondo, affrontando i turbamenti dell’anima e le passioni che lo assalivano soprattutto durante i primi tempi nei quali l’amore per Dio era il suo rifugio.1 Sono i tempi dei primi approcci alla pittura, allorquando viveva un vero e propriomisticismo religioso, coltivato sul modello del padre. Tra il 1879 e il 1880 van Gogh visse la sua prima grande crisi spirituale dalla quale scaturì anche il primo punto di svolta della sua esistenza: si convinse di poter servire Dio anche come artista.2
L’incontro con l’ex modella Agostina avviene invece quando l’artista è ormai un uomo maturo e consapevole se non del proprio potenziale, quantomeno della propria indole. Una fase dell’esistenza di van Gogh nella quale egli ha raggiunto degli obiettivi e delle certezza, accanto alle quali però persistono i turbamenti di un uomo inquieto, irrequieto, malinconico e perennemente insoddisfatto anche della propria esistenza. Biermann dà voce a questi turbamenti immaginando per l’artista e l’ex modella un futuro diverso, una vita differente da quella che poi invece è stata, in Italia e non a Parigi. Ma è solo la fantasia dell’autore che vola al pari, forse, di quella dello stesso artista. L’italienne è il nome del ritratto dipinto da van Gogh e che sembra racchiudere tutto il contrasto di questo amore presto finito e della vita insieme mai veramente vissuta.
Molti elementi richiamano le stampe giapponesi: il bordo asimmetrico, la stilizzazione del personaggio in un ritratto privo di ombra e di prospettiva e lo sfondo monocromatico. Tuttavia, alla raffinatezza dell’estetica orientale, van Gogh sostituisce una lavorazione energica, che restituisce un’impressione di potenza quasi primitiva. I neoimpressionisti giustappongono i colori complementari per intensificarne la percezione. In questo caso l’artista fa lo stesso, unendo i rossi e i verdi, i blu e gli arancio. Tuttavia, egli non ricorre alla tecnica puntinista di Signac o di Seurat. La sua modella è raffigurata tramite tratteggi nervosi che si incastrano e si separano. I colori sono violenti, espressivi e mostrano in van Gogh un precursore del fauvismo. Il viso di Agostina Segatori, dove predominano il rosso e il verde, illustra il progetto formulato dal pittore un anno dopo ad Arles, ovvero essere capace di esprimere le terribili passioni dell’umanità per mezzo del rosso e del verde.3
«Questo dipinto è uno dei più brutti che abbia mai realizzato». A dirlo, anzi a scriverlo è lo stesso Vincent van Gogh, in una lettera indirizzata al fratello Théo nel settembre del 1888. «Ho cercato di dipingere le terribili passioni umane con il rosso e con il verde. È ovunque una lotta e un’antitesi dei verdi e dei rossi più diversi, nei personaggi di piccoli teppisti che dormono, nella sala vuota e triste. Nel mio quadro ho cercato di esprimere l’idea che il caffè è un posto dove ci si può rovinare, diventare pazzi, commettere dei crimini». Si tratta di una bruttezza coscientemente ricercata: van Gogh sfrutta la potenza emotiva del colore, soprattutto attraverso l’uso dei complementari rosso e verde, per comporre un’immagine angosciante e allucinata, descrivendo il bar come un luogo di sofferenza e disagio.4
Il terzo capitolo del libro di Biermann, che è anche quello conclusivo dell’esistenza di van Gogh, vede come co-protagonista, insieme all’artista, una giovane donna incontrata per caso. Gabrielle è una ragazza determinata che ha anche imparato il lavoro del padre, il maniscalco, e lo pratica di nascosto perché vietato alle donne. Gabrielle ha appena perso il suo amato cane quando incontra il moribondo Vincent, lo riconosce e si intenerisce alla vista di quell’uomo ormai in fin di vita. È il momento in cui entrambi sembrano realizzare che tutto ciò che nella vita è stato ormai non conta più. Non serve. Non cambierà di una virgola ciò che sta per accadere. È la caducità della vita certo, ma anche la forza di portare avanti le proprie scelte, non guardarsi mai indietro, non avere rimorsi ma solo ricordi.
I colori che l’autore utilizza per descrivere la natura, ciò che van Gogh osserva nei suoi ultimi istanti di vita, sono l’azzurro del cielo e bianco delle nuvole, il giallo dei campi e la ruggine dei tetti.
È il “dipinto” di un paesaggio noto, ordinario, confortevole e rassicurante come solamente ciò che ci è caro nella mente può essere.
Il libro
Mika Biermann, Tre donne nella vita di Vincent van Gogh, L’orma Editore, Roma, 2024.
Traduzione dal francese di Chiara Licata.
Titolo originale: Trois femmes dans la vie de Vincent van Gogh.
1J. Nubiola, Van Gogh, alla ricerca dei colori di Dio, in Omnes, 13 maggio 2016.
2Vincent van Gogh, vita e opere del pittore olandese da record, in Finestre sull’arte, categorie AB Arte Base.
3Analisi estetica de L’italienne del M’O – Musée d’Orsay: www.musee-orsay.fr
4E. Puschak, video-saggio Il caffè di notte. Il “quadro più brutto” di Vincent van Gogh, su Artribune 1 aprile 2019.
Lavoro, fatica, resilienza. E ancora riscatto, passione, dignità. Sono solo alcune delle caratteristiche della famiglia Labò, piccoli coloni che, nel dopoguerra, con la Riforma agraria, diventano coltivatori diretti, piantando filari di vigne e mettendo anima e cuore nella produzione di vini pregiati.
Il periodo storico raccontato da Nunzio Primavera in Gibildonna è certamente rappresentativo ed emblematico di un grande cambiamento avvenuto in Italia all’epoca della ricostruzione, allorquando la terra fu redistribuita ai contadini con la più grande redistribuzione di ricchezza mai avvenuta in Italia.1 Cessate le ostilità il 25 aprile del 1945 l’Italia era liberata, ma restavano gli effetti della guerra in un Paese che tra il settembre 1943 e l’aprile 1945 conosceva il peso della distruzione prodotta sia dalle truppe tedesche in ritirata, sia dai numerosi e violenti bombardamenti alleati. L’agricoltura era sconvolta.2 Scarseggiavano, o mancavano del tutto, fertilizzanti, carburante, macchinari per la ripresa del settore agricolo. Di fronte alla situazione generale e alla difficoltà di ripresa della produzione, i governi postbellici guidati da De Gasperi tra il dicembre 1945 e l’agosto 1953, impostarono una serie di provvedimenti per ricondurre con relativa rapidità il Paese fuori dall’emergenza. In agricoltura le scelte per la ripresa del settore si posero tre obiettivi principali: il raggiungimento dei livelli prebellici, il recupero della normalità sociale e la definizione di un differente assetto del rapporto tra terra e proprietà. La nascita della Confederazione nazionale dei coltivatori diretti nel 1944 e la serie nutrita di provvedimenti a favore della piccola proprietà coltivatrice, nel giro di qualche anno riuscirono con fatica a contenere i vasti fermenti del mondo rurale.3
In alcune zone del Paese, in particolare in Sicilia, alla protesta per motivi contrattuali si sovrapponeva lo scontro politico per l’autonomia dell’isola e il punto più elevato delle ostilità fu rappresentato dagli episodi delittuosi di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947, apice di altri episodi di scontro violento protrattisi per anni. La mediazione del presidente del Consiglio attenuò la fase violenta e sanguinosa della lotta nelle campagne sia attraverso l’accordo tra proprietari e coloni pattuito nel “lodo” e definito “tregua mezzadrile”, sia nella successiva attivazione della legge di proroga dei contratti di mezzadria in cui venivano stabilite le nuove percentuali di divisioni tra le parti. La spinta alla formazione della piccola proprietà coltivatrice era dunque una caratteristica delle scelte politiche.4
Ma il racconto di Primavera non è solo un resoconto della situazione storica o politica, è la storia di una famiglia. Nel baglio Labò, nucleo da cui tutto ha origine e a cui tutto ritorna, nascono e tramontano amori lunghi e travagliati. È la storia di un luogo attraverso i suoi abitanti. Come tutti i coltivatori, nel corso degli anni, la famiglia Labò si troverà ad affrontare ogni tipo di ostacolo: dalla crisi energetica alla siccità e ai cambiamenti climatici, confrontandosi con le emergenze alimentari, l’allarme metanolo, il caporalato e l’integrazione degli immigrati.
Le crisi petrolifere del 1973 prima e del 1979 poi sono considerate la scintilla e il comburente della deindustrializzazione dell’Occidente, ivi compresa l’Italia. In Sicilia si presenta uno scenario caratterizzato per lo più da dismissione degli impianti, disimpegno delle grandi imprese industriali, tentativi di riconversione e accenni di bonifica. Le zone investite dall’insediamento di poli industriali nel secondo dopoguerra vengono inserite tra le aree ad alto rischio di crisi ambientale e in conseguenza di ciò si apre la stagione, partita a stento e lungi dall’essere conclusa, delle bonifiche come intervento ambientale tardivo, solo perché l’industria arretra senza neanche rimettere a posto ciò che aveva scombinato.Ma il lascito dell’industria cosiddetta pesante, con ritmi elevati di crescita economica, la ricchezza dovuta a migliaia di posti di lavoro e investimenti pubblici mai visti primi, è ancora più controverso perché nel complesso tutto ciò ha finito per plasmare un ambiente sfavorevole allo sviluppo autonomo, cioè l’ubriacatura da tanto benessere improvviso ha limitato la capacità di pensare a percorsi di crescita alternativi e capaci di autosostenersi.5
Non si può costruire nulla di solido che sia esule o estraneo al territorio nel e sul quale si intende portare avanti un progetto. È esattamente quello che sembra voler trasmettere al lettore Primavera con il suo racconto della famiglia dell’anziano Nino e di sua moglie Rosa. Due mondi che si incontrano e si fondono con il territorio, con il terreno sul quale si trova il vigneto primigenio da cui nascerà il loro vino, fulcro dell’intera azienda. Le conoscenze e le capacità di Rosa, piemontese di origine, si uniscono alla passione e alla tenacia di Nino. Insieme all’azienda i due costruiscono anche la loro famiglia. Ed è sulle vicende di quest’ultima che ruota il secondo fulcro del libro, intrecciato al primo. Cosicché Gibildonna risulta una vera e propria saga familiare che racconta le storie dei vari componenti la famiglia in un lasso temporale che va dal secondo Novecento ai nostri giorni.
I componenti la famiglia Labò sono riusciti a cambiare le loro vite, passando dall’essere coloni a coltivatori diretti, grazie alla Riforma agraria del dopoguerra. Hanno vissute numerose difficoltà e affrontato diversi problemi interni ed esterni all’azienda fino ad arrivare a oggi. Un periodo storico in cui il problema dello sfruttamento dei lavoratori della terra si ripropone con più forza che mai.
Il caporalato è un fenomeno che nel dibattito politico italiano è collegato esclusivamente all’immigrazione nel Mezzogiorno, ma di fatto è una pratica che esiste in Italia, almeno dagli anni ’70, e riguarda tutto il territorio nazionale.
Il tema della Riforma fondiaria, della distribuzione della terra ai contadini, ha attraversato tutto il Novecento. Lo smembramento del latifondo appare lo strumento principale per trasferire le terre dai grandi proprietari che ne utilizzavano le rendite senza occuparsi di migliorare quantità e qualità dei prodotti, verso la piccola proprietà terriera, ritenuta più dinamica e interessata alla modernizzazione dell’agricoltura, preferita a soluzioni di tipo cooperativistico ritenute meno affidabili dal punto di vista politico.6
I dati forniti da ISTAT-RCFL rivelano che l’indicatore di irregolarità complessivo è pari all’11.3%, ma sale al 23.2% in ambito agricolo mentre nel lavoro domestico raggiunge addirittura il 51.8%. I lavoratori stranieri sono inseriti in settori in cui è più frequente il ricorso a forme di irregolarità e sfruttamento.7 Per cui è abbastanza chiaro che, all’incirca settanta anni dopo la Riforma, i terreni e l’agricoltura in Italia hanno visto una redistribuzione e un ammodernamento eppure sfruttamento lavorativo e caporalato persistono.
Ma dietro e al di là di queste storture c’è tutto un mondo contadino che lavora, giorno dopo giorno, la terra e lo fa da generazioni. Come la famiglia Labò raccontata da Nunzio Primavera. Quattro generazioni che hanno sempre lavorato e lottato contro le avversità principalmente per restare nella legalità. Una determinazione che non conosce limiti, esattamente come la forza delle donne raccontate dall’autore, che hanno una tempra tale da riuscire a farsi artefici del proprio destino. Una forza silenziosa. Una marea che avanza e può cambiare il mondo. Per contro poi, ci sono i giovani, le nuove generazioni che invece urlano a gran voce la loro voglia di emergere. Due mondi opposti che, alla fin fine, a ben guardare, viaggiano sullo stesso binario.
Il sottotitolo del libro di Primavera enuncia quello che sembra essere il fine ultimo del libro: raccontare l’evoluzione dell’agricoltura in Italia attraverso quanto accaduto a una famiglia molto legata alla terra e al vigneto e farlo per sottolineare l’importanza e l’utilità delle “vecchie” generazioni, la necessità della loro saggezza, la tenacia e la forza di una terza età che non desiste. E che non può proprio permettersi di farlo in un Paese, come l’Italia, dove il tasso di natalità è sotto i minimi storici e l’età media della popolazione è salita a livelli mai visti finora. Una terza età che proprio non può permettersi di mollare perché sulle cui spalle ancora grava il peso di buona parte del Paese.
Il libro
Nunzio Primavera, Gibildonna. La terza età che non desiste, Laurana Editore, Milano, 2024.
1N. Primavera, La terra restituita ai contadini, Laurana Editore, Milano, 2020.
2M. Ferrari Aggradi, La svolta economica della resistenza. Primi atti della politica di programmazione, Forni, Bologna, 1975.
3T. Fanfani, La ricostruzione in Italia nel secondo dopoguerra. Provvedimenti e linee guida per la ripresa dell’agricoltura, Rivista di storia dell’agricoltura, vol.44, n°2, 2004.
5G. Petino, Il tardo industrialismo in Sicilia, tra coesistenze e conflitti, AGEI – Geotema, 69, aprile 2023.
6F.C. Nigrelli, I paesaggi della riforma agraria dalla storia al progetto, in Quaderni 13 – I paesaggi della riforma agraria. Storia, pianificazione e gestione, F.C. Nigrelli e G. Bonini (a cura di), Edizioni Istituto Alcide Cervi, Gattatico (RE), 2017.
7Dati e info del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Riflettere sulla vecchiaia è un resoconto di se stessi o dell’umanità? Per Domenico Starnone sembra ruotare tutto intorno alla fragilità umana.
Leggendo il titolo del romanzo di Starnone non si può non pensare all’opera quasi omonima di Ernest Hemingway (The old man and the sea – Il vecchio e il mare). Presumibilmente ci deve essere stato un rimando a quella letteratura, di cui Hemingway è stato un grande esponente, che molta importanza dava alle riflessioni, alle considerazioni, ai sentimenti e alle emozioni che sono tutti fattori importanti e determinanti dell’esistenza umana. Ne vanno a determinare, al contempo, la forza e la fragilità. Ed è proprio intorno a quest’ultima che l’autore sembra aver costruito il suo romanzo, il quale vede come protagonista uno scrittore ottuagenario alle prese con due tra i maggiori misteri dell’esistenza umana: la relazione con se stessi e quella con l’umanità.
A tormentare lo scrittore ottandaduenne Nicola c’è anche il suo rapporto con i propri scritti che vorrebbe potessero sparire, essere cancellati e dimenticati. Ha sempre annotato tutte le sue riflessioni su dei quaderni con la matita ma la certezza, tale fino a poco tempo prima, di poter cancellare le sue parole è ormai labile. L’ennesima illusione disattesa che genera in lui uno sconforto profondo.
Da giovane, il suo maggior desiderio, la sua più grande illusione era scrivere le pecche di questo mondo per riuscire a cambiarlo, a migliorarlo. Ora lui è invecchiato e il mondo non ha fatto che peggiorare, diventando sempre più imperfetto.
Imperfetto proprio come la spiaggia che fa da sfondo alla narrazione, vuota di turisti e di tutto il circo che ne deriva, appare a Nicola e al lettore luogo perfetto dove cercare e trovare i piccoli segni della vita nascosti tra i granelli di sabbia, sotto i sassi, tra le rocce o in mezzo al mare. Questo stesso mare che, nel libro di Starnone, appare al contempo come l’orizzonte verso cui tendere e l’immensa distesa d’acqua nella quale perdersi.
Il racconto che l’autore affida al suo anziano protagonista è confuso come lui, è spossato come il suo corpo, annebbiato come la sua mente. Oggetti che diventano simboli e simboli che diventano emozioni in questo solitario gioco che coinvolge Nicola e la sua mente, sia quando è sveglio sia quando è sopito. Il dualismo sembra essere stata una componente predominante nella scrittura di Nicola, nella quale egli sempre inseriva uno sguardo rivolto al passato e, contemporaneamente, al futuro. Il tempo della narrazione sembra però quello della resa dei conti. Di Nicola con la vita. Un processo descritto da Starnone con dovizia di particolari, senza veli e senza remore mettendo a nudo l’anima di questo anziano scrittore rassegnato e combattivo, che mantiene in ogni fibra del suo essere il dualismo che lo caratterizza e che ha segnato la sua scrittura. Il suo essere scrittore. Narratore della vita. Che ha cercato di rappresentare la grandezza dell’esistenza umana attraverso la banalità del viver quotidiano.
Il libro di Starnone si apre al lettore con il racconto di un accadimento che vede il protagonista rincorrere una carta dorata, una sorta di figurina. Prosegue con la narrazione di fatti e pensieri lungo una spiaggia fatta di nuvole, sabbia, spruzzi, schizzi, vento… Appare chiaro fin da subito che si tratta di simboli, utilizzati dall’autore per trasmettere al lettore il suo racconto. Il suo messaggio.
La corsa della figurina scintillante sulla rena asciutta ha determinato il destino, almeno quello nell’immediato lasso temporale, di Nicola. L’illusione di essere ancora agile e vigoroso lo ha riportato alla realtà, al suo essere annichilito.
“Quando le carte affiancate a caso mi davano una storia in cui riconoscevo un senso, mi mettevo a scriverla; accumulai così parecchio materiale. Bastava lasciare che prendessero forma altre storie che s’incrociavano tra loro e ottenni così una specie di cruciverba fatto di figure anziché di lettere, in cui per di più ogni sequenza si può leggere nei due sensi” (I. Calvino, Il castello dei destini incrociati).
Le numerose storie raccontate o ascoltate dal protagonista possono essere lette e interpretate in mille modi che vanno dalla disfatta alla contemplazione della bellezza assoluta della vita.
L’evocazione del mare costituisce, nella produzione letteraria italiana delle Origini, un elemento inserito in un insieme spesso metaforico o, per lo meno, in un insieme di tropi che puntualmente consentono all’autore di indicare uno spazio, un limite o un confine.
In numerose tradizioni religiose un’amorfa estensione d’acqua precede l’esistenza delle molteplici sostanze che riempiono l’universo, quasi che tutte le forme non siamo altro che la manifestazione di un liquido primordiale. L’acqua non è semplicemente il primo elemento: per il pensiero simbolico essa è una forza capace di sciogliere e unificare in sé ogni determinazione, come nei diari di viaggio le immagini della comunione dei beni non rivelano soltanto il desiderio del venir meno dell’ingiustizia, ma costituiscono anche lo schema dinamico in grado di fluidificare tutte le distinzioni, non solo nella società ma nell’intera materia del cosmo. Quando il tempo ha reso esauste le forze della natura, esse hanno bisogno di sciogliersi nel loro principio, per attingere di nuovo la potenza vitale dalla sostanza liquida di un sogno divino. Una pozza d’acqua è stata il primo specchio in cui l’uomo ha osservato tutto all’inverso. Il riflesso è un fattore di rovesciamento. Guardando il riverbero in superficie potremmo vedere il mondo come lo vede Dio e accorgerci che la più autentica ascesi è, in realtà, una discesa, forse una discesa nel profondo dell’acqua. A questo allude il simbolismo del battesimo. È l’acqua, infatti, a insegnare la reversibilità della morte. Nella fonte battesimale muore l’uomo vecchio e nasce l’uomo nuovo. Il simbolismo indica il dissolversi di un ente corrotto perché riemerga un essere incontaminato (G. Bossi, Il simbolismo dell’acqua tra immaginario di viaggio e dimensione del sacro, DIALEGESTHAI – Rivista di Filosofia, 25 aprile 2007).
Il protagonista del libro sembra un anziano-bambino che osserva il mondo per la prima volta, o quantomeno sembra essere la prima volta che riesce a guardarlo con occhi disincantati, liberi.
Il racconto di Starnone è un viaggio intimistico nell’anima, nei ricordi e nei desideri di Nicola ma anche un viaggio intenso nelle persone da lui ricordate, incontrate, forse immaginate. Un viaggio simbolico certo ma non per questo meno rischioso di quello intrapreso davvero per mare.
Secondo Auden, uno degli elementi che caratterizzano in modo più netto la cultura della modernità, e la differenziano rispetto a quelle dei secoli precedenti, è costituito dall’atteggiamento assunto nei confronti del viaggio per mare. Se fin dall’età classica, per arrivare ai secoli immediatamente precedenti la “rivoluzione romantica”, il viaggio per mare è considerato un male necessario, l’attraversamento di ciò che separa ed estrania, l’uomo moderno, al contrario, sa che il mare è il luogo in cui avvengono gli eventi decisivi, i momenti di eterna scelta, la tentazione, la caduta e la redenzione (V. Di Martino, Figure del moderno: il viaggio per mare. Da Baudelaire a Gozzano, XII Congresso nazionale dell’ADI – Associazione degli italianisti, Roma, 17-20 settembre 2008).
Il libro di Starnone sembra raccontare il viaggio di Nicola nel suo “mare” mentale, senza spostarsi per luoghi e limiti ma non per questo privo di ostacoli, insidie e pericoli.
Il libro
Domenico Starnone, Il vecchio al mare, Einaudi, Torino, 2024
Articolo pubblicato sul numero 179 – agosto/settembre 2024 della rivista cartacea Leggere:Tutti.
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Un antico adagio afferma che la necessità aguzza l’ingegno. Di necessità il protagonista del libro di Città ne ha tanta. Fin dalla prima infanzia ha dovuto imparare a cavarsela da solo e, unitamente all’autonomia, ha imparato quanto può essere difficile stare al mondo se non si ha una rete di protezione. Senza l’affetto e la tutela di una vera famiglia, Agatino inizia a diventare sempre più creativo. Si inventa una vita e trova il suo posto nella società. Un piccola realtà quella che lo ospita. Un paesino di provincia non meglio identificato che, banalmente, può trovarsi in qualunque parte del mondo. Ed essere anche reale. Nel libro è una piccola realtà di provincia siciliana.
Nel libro l’autore racconta molte vite in realtà, ovvero quelle di tutti gli abitanti di Boschetto che intrecciano la loro con quella di Agatino. Persone che hanno difficoltà economiche o sociali, ferventi credenti o donne e uomini che hanno assoluto bisogno di credere in qualcosa, o in qualcuno. E Agatino riesce a capire le loro necessità, a essere ciò di cui hanno bisogno. Amico, confidente, usuraio, manipolatore, guaritore, santone… egli è tutto questo ma in realtà è tutt’altro che questo.
Se molti credono di conoscerne il presente, del suo passato si sono perse le tracce. Chi è davvero Agatino il guaritore? Egli riesce sempre a trovare la soluzione ai problemi che le persone gli sottopongono. Ma cosa accade allorquando non ci riesce? Ecco allora che si intravede l’Agatino vero. Il personaggio che Massimiliano Città voleva raccontare e intorno al quale ha costruito la sua storia. Una narrazione intrecciata, come le vicende narrate, come le realtà piccole dove le vite, le storie sono legate le une alle altre, esattamente come le stesse esistenze. Man mano che nel libro si conoscono gli accadimenti di coloro che cercano l’aiuto di Agatino diventa sempre più evidente quanto poco si sa di lui. E se da un lato ciò contribuisce a creare un’aura di mistero intorno alla sua persona, dall’altro si insinua il sospetto o la paura che qualcosa di oscura possa accadere o sia accaduto. Dove condurranno questi presagi? Al male o al miracolo? Soccomberà Agatino sotto il peso delle responsabilità da lui stesso volute? Oppure riuscirà a essere all’altezza del compito e del risultato che tutti ormai si aspettano da lui?
La trama del libro è molto fitta, intrecciata come le storie narrate. Riesce l’autore a tenere tutto insieme con uno stile narrativo chiaro e tutto sommato lineare, se si considerano anche i continui salti temporali che portano la narrazione ripetutamente avanti e indietro nel tempo.
La funzione taumaturgica delle azioni di Agatino sembra servire soprattutto a lui e solo in seconda analisi alle persone che si dichiarano bisognose del suo aiuto. Alla fine tutti sembrano trarre beneficio dalle “guarigioni” di Agatino ma è un benessere non tanto e non solo fisico e/o mentale quanto “sociale”. Per questo egli diviene ben presto una necessità all’interno della piccola comunità nella quale si è rifugiato e dalla quale è stato il primo a trovare giovamento. Perché se è vero che tutti i suoi clienti/amici ricevono il suo aiuto e si illuminano di una luce nuova, lo è anche che Agatino stesso sembra illuminarsi attraverso le loro storie e brillare ancor di più all’interno della storia, del romanzo. La vicenda che Città ha voluto narrare parte senza dubbio da Agatino ma, quando sembra distaccarsene per parlare della vita e delle vicende degli altri personaggi, è sempre verso di lui che converge, grazie anche o forse proprio per le storie di vita narrate che si intrecciano con la storia di Agatino e la arricchiscono.
Eppure, proprio nel loro essere interconnesse le storie di vita raccontate da Città potrebbero benissimo essere separate le une dalle altre, e funzionare egualmente bene. In questo il libro ricorda pubblicazioni di un genere caro a Strout o Steinbeck. Un intreccio di storie che sembrano funzionare perché legate insieme ma che, in realtà, singolarmente potrebbero funzionare anche meglio. O egualmente bene. Tutte insieme però contribuiscono a creare quell’atmosfera tipica e caratterizzante il libro, quasi fiabesca, surreale seppur molto concreta e verosimile alla realtà.
Ed è proprio intorno alle riflessioni sulla realtà che Massimiliano Città sembra aver studiato i tratti del suo romanzo, un libro sociale, scritto raccontando una comunità con uno sguardo vagamente antropologico che ha messo in evidenza l’aspetto folkloristico dei luoghi e dei personaggi.
Il libro
Massimiliano Città, Agatino il guaritore, Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2024.
Un viaggio alla scoperta del mondo attraverso trecento città vissute immaginate sognate amate odiate pensate. Questo è il libro di Affinati. Un percorso che il lettore potrà compiere insieme all’autore oppure inventarne uno proprio.
Simbolicamente Affinati ha scelto di partire da New York, matrice urbana della modernità sfregiata e ricostruita, e concludere con Gerusalemme, una città in grado di riassumere tutti i grovigli irrisolti del mondo. Ogni descrizione di città è un romanzo in miniatura e si è quasi tentati di pensare di poterli leggere singolarmente, isolandoli gli uni dagli altri. Ma in questo risiede la grandezza di questo libro, nella consapevolezza di quanto ogni luogo sia legato all’altro, in un’interconnessione che unisce siti e persone in questo enorme fragile e incasinato pianeta.
Il ventunesimo secolo si è aperto con nuove forme di lotta armata: attacchi terroristici che hanno confini labili sia all’interno dei perimetri di guerra che al di fuori. L’esempio più noto è stato l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, simbolo di questa nuova forma di violenza liquida che ha rivelato in modo drammatico l’esistenza di una consistente rete terroristica globale. Lo scopo non è tanto e non solo l’occupazione di territori e il controllo di essi, quanto la distruzione delle ideologie religiose storiche e culturali di un popolo. Una vera e propria “pulizia culturale”. L’identificazione di una comunità con il proprio patrimonio culturale è stata sempre un fondamentale fattore di coesione sociale.
Si è pensato che questo sarebbe stato il nuovo modo di combattere le guerre e invece sono tornate anche le guerre combattute tra stati. Il viaggio di Affinati da New York giunge a Charkiv dove incombe il fantasma della seconda guerra mondiale.
Molti studiosi hanno sostenuto che notevole influenza sulla genesi e la crescita dell’imperialismo ebbero lo sviluppo e la larga diffusione nei principali paesi europei del nazionalismo, considerato un elemento inscindibile dall’idea stessa di imperialismo (Bruna Bagnato, L’Europa e il mondo. Origini, sviluppo e crisi dell’imperialismo coloniale, Le Monnier Università, Firenze, 2006).
“A Bruxelles, nella città dove si decidono i destini dell’Europa, ho avuto la sensazione di ascoltare il battito del cuore di tenebra del Vecchio Continente: man mano che scendevo lungo le strade che dalla stazione conducono in centro, dove ci sono i palazzi del potere, gli alberghi più lussuosi e i centri commerciali sempre attivi, scrutinavo dentro me stesso la storia tormentata di questo piccolo paese, la cui tragica avventura coloniale, soprattutto congolese, è scritta a caratteri indelebili nelle fisionomie di molti cittadini belgi, i cui genitori giunsero qui, provenienti da Kinshasa e dintorni, alla ricerca di lavoro e dignità, come fecero molti italiani, compreso mio nonno, che circa cent’anni fa vennero ingaggiati nelle miniere di carbone, a rischio della loro stessa vita. Dall’atmosfera turistica e festante della Grand Place feci presto a raggiungere Molenbeck, il quartiere di origine dei terroristi che nel novembre 2015 compirono le stragi di Parigi. Se non fosse stato per la pulizia delle strade, avrei potuto essere a Rabat o Algeri. Donne col velo, uomini barbuti, bancarelle di frutta e dolci.”
Tra le strade di Bruxelles Affinati sembra incontrare il volto storico dell’imperialismo e quello contemporaneo dei flussi migratori.
I migranti sono letteralmente prodotti dall’ordine del nostro legiferare sul mondo e ridotti a un fattore esclusivamente economico o legati a una crisi politica. I migranti, affermando il loro diritto di muoversi migrare fuggire spostarsi, non solo rompono gli schemi e si oppongono al rispetto del posto assegnato loro dalla storia, ma segnalano anche la modalità precaria della vita planetaria. La nascita della modernità non sta unilateralmente nella storia dell’espansione europea e nelle modalità di rifacimento del mondo a sua immagine e somiglianza, ma anche e nella stessa misura nella cruda repressione dell’alterità etnica religiosa culturale, nella brutalità della diaspora nera africana, nello schiavismo razzista atlantico, nei pogrom etnici e nel saccheggio imperiale del globo. Quando l’immaginario dell’Occidente, per dirla con Edward Said, non sta più fisicamente altrove ma migra dalla periferia per eleggere il proprio domicilio nella metropoli contemporanea, allora la nostra storia cambia, è costretta a farlo (Iain Chambers, Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’era postcoloniale, Meltemi, Sesto San Giovanni – Milano, 2018).
“Washington è la capitale degli Usa e, come tale, potrebbe simbolicamente esserlo del mondo intero. Percorrerla a piedi significa riflettere sulla potenza e la fragilità del potere. Washington è la clinica dell’inconscio contemporaneo. Se volessi psicoanalizzare l’America, dovresti venire qui, davanti ai cancelli della Casa Bianca: anche architettonicamente, il più grande computer portatile della Terra.”
L’America, figlia dell’imperialismo più sentito, patria del capitalismo più estremo eppure identificata come simbolo della libertà, della democrazia. Un Paese che della lotta agli estremismi e al terrorismo ne ha fatto una vera e propria crociata. Anzi una guerra. Una città che, per Affinati, ci porta nell’inconscio contemporaneo. “il più grande computer portatile della Terra”, ha definito l’autore la Casa Bianca e la sua famigerata stanza dei bottoni. Ma cosa rappresenta davvero l’America per il mondo intero in questo Terzo Millennio?
All’inizio del XXI secolo, la Storia ha svoltato, ma l’Occidente ancora si rifiuta di ammetterlo e di adattarsi a questa “nuova epoca storica”. La quota occidentale dell’economia globale si riduce e continuerà a farlo. Fino a tempi recenti, gran parte della crescita globale è venuta dalle economie del G7 ma, negli ultimi due decenni, la situazione si è invertita. Nel 2015 le economie del G7 hanno contribuito alla crescita globale per il 31.5% mentre quelle degli E7 per il 36.3% (Kishore Mahbubani, Occidente e Oriente. Chi vince e chi perde, Bocconi Editore, Milano, 2019).
L’America ha costruito il più grande ceto medio che il mondo abbia mai conosciuto e lo hanno fatto gli stessi americani, con il duro lavoro e il supporto di politiche governative volte a creare maggiori opportunità per milioni di persone. Ma ora tutta questa gente è, giustamente, arrabbiata e preoccupata. L’attuale situazione sta impoverendo il ceto medio e distruggendo la democrazia. Una condizione analoga a quella di tanti altri paesi occidentali, compresa l’Italia. Ovvero in tutte o quasi le potenze del vecchio mondo (Elizabeth Warren, Questa lotta è la nostra lotta, Garzanti, Milano, 2020).
Nel mondo post-bipolare del XXI secolo, lo stato nazionale continua a essere l’incarnazione istituzionale dell’autorità politica, l’attore chiave delle relazioni internazionali e il contesto dato per scontato della vita quotidiana degli individui nella maggior parte del mondo. Non c’è quindi da stupirsi se la sua ideologia, il nazionalismo, sia altrettanto viva e vitale e costituisca uno strumento potente di creazione di identità, mobilitazione collettiva e criterio di giudizio dell’agire politico. La questione del nazionalismo è al centro delle due principali contraddizioni della odierna politica dell’Unione Europea: costruire un’unione sovranazionale usando gli stati nazionali come elementi costitutivi ma liberandosi dei nazionalismi e trasferire porzioni crescenti di sovranità nazionale dal livello statale a quello sopranazionale senza avere dei cittadini consapevoli e consenzienti di ciò che sta o dovrebbe accadere (Alberto Martinelli, I nazionalismi e l’unità europea, Istituto lombardo (Rend. Lettere) 147, Milano, 2013).
“Norimberga è oggi un gioiellino conservativo in bacheca per turisti che viaggiano in torpedone. Molte città tedesche assomigliano a questa che tuttavia resta unica a causa dello straordinario processo che vi si svolse a conclusione della seconda guerra mondiale quando le potenze vincitrici misero alla sbarra quella sconfitta secondo un procedimento giuridico anomalo ma necessario, vista la dimensione inaudita della Shoah.”
Dal Nuovo Mondo al Sudafrica, dalla Germania a Israele, fino al Sudan, gli stati coloniali e gli stati-nazione si sono costituiti sulla politicizzazione di una maggioranza religiosa o etnica e a spese delle minoranze. Oggi il mondo può essere governato tanto dalle reti sovranazionali e internazionali quanto dai governi degli stati-nazione, ma ciò che queste reti tengono unito sono ancora i cittadini degli stati-nazioni. Abbracciare la modernità ha significato abbracciare la condizione epistemica che gli europei hanno creato per definire una nazione come civilizzata e, quindi, giustificare l’espansione della nazione a spese degli “incivili”. La sostanza di questa condizione epistemica risiede nelle soggettivazioni politiche che essa impone (Anthony Pagden, Oltre gli stati. Poteri, popoli e ordine globale, Il Mulino, Bologna, 2023).
Il XX secolo è stato un periodo di straordinarie conquiste civili sociali scientifiche, ma è stato anche un secolo in cui più volte il potere politico, per pure esigenze di dominio, ha schiacciato i diritti umani fondamentali. All’inizio del secolo gli inglesi segregarono in Sudafrica più di 120mila boeri. Negli stessi anni gli Stati Uniti davano avvio a campagne di sterilizzazione di persone portatrici di handicap e di malati di mente. Nel 1923 Lenin inaugura in Unione Sovietica le attività dei Gulag. Le democrazie scandinave, tra gli anni ’30 e gli anni ’70 realizzano pratiche di sterilizzazione dei “diversi”. Nel 1939 Hitler dà il via allo sterminio di oltre 10milioni di persone. A partire dal 1910, in Sudafrica i bianchi, soprattutto boeri, segregano i neri con una feroce legislazione razziale. Questo breve e incompleto elenco quadro di sintesi serve a capire quale sia la dimensione dei fenomeni di sopraffazione dell’uomo sull’uomo (La deformazione dell’Altro nelle ideologie politiche del XX secolo e la sua attualità nel secolo che si apre, I Corso multidisciplinare di educazione allo sviluppo, Firenze, 3/9/2000).
“La stazione di Kyoto è fatta di vetro e cemento armato, cubi rifrangenti nella città che il segretario di guerra statunitense Henry Stimson decise di risparmiare dal disastro atomico dopo averla ammirata nel 1926 insieme alla moglie. Tornando in albergo ripenso alla guerra americana contro il Giappone: si fronteggiavano, usando le stesse armi, due soldati dalle opposte concezioni. Gli dei, o chi per loro, avranno sghignazzato, seduti a gambe larghe sui gloriosi scanni, assistendo a questo strano spettacolo.”
Il libro
Eraldo Affinati, Le città del mondo, Feltrinelli, Milano, 2024
Articolo pubblicato sul numero di luglio 2024 della rivista cartacea Leggere:Tutti.
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