La digitalizzazione ha cambiato il nostro modo di comunicare, ma anche di recepire le informazioni, e dunque di trasmettere la conoscenza. Questa pervasività riguarda sempre più da vicino il mondo della cultura, inteso nell’accezione più ampia del termine e nella duplice dimensione di materialità e immaterialità. La rivoluzione digitale è stata un vero e proprio cambio di paradigma.
Il cuore del sistema oggi è la rete ma è il concetto stesso di cultura a essere molto diverso. La sua trasformazione è iniziata già a partire dal secondo dopoguerra, allorquando andava a inglobare attività umane sino ad allora ritenute non legittimate a far parte della famiglia dell’arte in senso tradizionale. Ma la rivoluzione digitale sta trasformando la cultura in un bene globale oppure stiamo inconsciamente assistendo a una rifeudalizzazione dei saperi?

Per i filosofi greci la cultura consiste nella paidéia, termine che fa esplicito riferimento all’apprendimento delle belle arti, come la poesia, la filosofia, la retorica. Tramite lo studio di queste ultime, l’uomo acquisisce la conoscenza di sé e del mondo, e allo stesso tempo viene guidato nella ricerca della verità. Per i classici, la cultura è un valore, un obiettivo che l’individuo deve raggiungere: non riflette quindi uno stato di cose, quanto piuttosto un ideale da conquistare, uno stato da realizzare, un progetto, una tensione verso qualcosa di migliore.
I latini, successivamente, sintetizzano il concetto di cultura in un altro termine, humanitas, intendendo con esso una formazione dell’uomo che sia la più complessa possibile, da cui però vengono escluse tutte le forme di attività utilitaristica, tra cui il lavoro manuale o l’applicazione delle arti. Il termine humanitas ha quindi un’accezione più estesa rispetto al passato, dato che in senso metaforico essa racchiude in sé aspetti come la coltivazione dello spirito. Cicerone, nelle Disputationes Tusculanae (45 a.C.), parla ad esempio di una cultura animi, nel senso di una cultura sinonimo di crescita e di affinamento interiori, che produce un cambiamento radicale tale da trasformare la persona. Ciò significa che chi si accultura riesce a separarsi dalla “massa”. Si vengono così a formare élites di dotti che posseggono conoscenze precluse ai più.
Similmente, il Medioevo accetta il carattere elitario della cultura e affida alla filosofia il compito di far comprendere all’uomo il mondo soprasensibile. In questo periodo il termine cultura si caratterizza in maniera ancora più estesa arrivando a comprendere anche lo studio delle lingue, dell’arte, delle lettere e delle scienze.
L’Illuminismo delinea l’evoluzione umana nei termini di progresso, dove il più alto gradino della scala culturale è occupato dalla società che aveva raggiunto un alto livello di civilizzazione. Arnold vede la cultura come «il meglio che sia stato pensato e detto ovunque nel mondo contemporaneo».
Questa nozione di cultura come affinamento dello spirito e delle conoscenze, prerogativa delle classi dirigenti, e la sua connotazione come fattore di distinzione (e/o discriminazione) sociale, rimangono immutate fino a quando entra in crisi l’immagine del mondo classico come età dell’oro e in quanto civiltà depositaria della perfezione.
A partire dalla fine dell’Ottocento, si passa da una concezione della cultura umanistico-classsico a una concezione di tipo socio-antropologico. Herder afferma che ogni nazione ha la sua cultura «egualmente meritevole». La cultura ora non si riferisce più unicamente a un ideale di realizzazione, formazione del singolo individuo, ma si arriva a concepirla secondo un aspetto più multiforme che riguarda l’intera società; la cultura diventa qualcosa che gli individui acquisiscono in quanto membri di una società, socialmente.
Nei decenni successivi al secondo dopoguerra, le società occidentali hanno una rivoluzione dei consumi che ha contribuito non poco a modificare contenuti e forme dell’informazione culturale. L’aumento del benessere e del tempo libero nonché lo sviluppo macroscopico dell’industria dell’intrattenimento hanno cambiato radicalmente le abitudini di vita delle persone. Sono cresciute moltissimo domanda e offerta di prodotti culturali che riguardano la sfera “estetica” o del tempo libero degli individui.
Ecco allora che la cultura sembra diventare la bussola di orientamento di una intera società preda dell’entusiasmo.
Già Durkheim aveva parlato della funzione orientativa dell’agire sociale posto in essere dalla cultura. Egli conferisce alla cultura importanza soprattutto nei momenti in cui entra in crisi un determinato sistema culturale. Poiché ciclicamente le situazioni sociali sono soggette a mutamento e poste in discussione, si renderebbe necessario un continuo aggiustamento delle forme culturali ai bisogni che la società esprime di volta in volta; la cultura in simili circostanze orienta invece l’agire sociale poiché rappresenta «qualcosa di sempre già dato che si impone agli individui».
Simmel, al pari di Weber, sottolinea invece la dimensione creativa di idee e cultura, che non possono essere considerate mero riflesso delle condizioni sociali. La cultura inoltre non è solo consuetudine, ossia abitudini trasmesse da una generazione all’altra in maniera passiva, ma anche innovazione e in questo giocano un ruolo attivo proprio le idee.
Burnett definisce la cultura o civiltà «intesa nel suo ampio senso etnografico, come quell’insieme complesso che include la conoscenza, la credenza, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società». Uno dei tratti innovativi di questa definizione è l’allargamento dell’etichetta culturale a dimensioni che non sono propriamente intellettuali.
A differenza della tradizione umanistica, che poneva l’accento sull’esclusività aristocratica della cultura, Tylor riconosce che ogni soggetto ha libero accesso alla cultura e ciò è possibile perché ogni individuo è membro di una società. La connessione tra cultura e società diviene così imprescindibile: non vi è apprendimento della cultura senza un’azione socializzatrice, e allo stesso tempo non c’è cultura senza l’appartenenza a una società. Ma questo può esser veritiero per le società piccole, omogenee, isolate.
La società attuale è continuamente oggetto di trasformazioni e cambiamenti che ne mutano la fisionomia. Le tessere del mosaico culturale non sono più separate fra loro, anzi si mescolano fino a comporre nuovi puzzle culturali. All’interno di un singolo Stato non troviamo unità di religione, lingua, consuetudini, ma una amalgama disomogenea composta dalla sommatoria delle diverse fotografie culturali.

Si assiste quindi a una sorta di “globalizzazione culturale” che riflette quella economica, la medesima che, per Screpanti, sta dando origine a una forma di imperialismo fondamentalmente diverso da quello affermatosi nell’Ottocento e nel Novecento. La novità più importante consiste nel fatto che le grandi imprese capitalistiche, diventando multinazionali, hanno rotto l’involucro spaziale entro cui si muovevano e di cui si servivano nell’epoca dei grandi imperi coloniali. Oggi il capitale si accumula su un mercato che è mondiale. Perciò ha un interesse predominante l’abbattimento di ogni barriera, di ogni remora, di ogni condizionamento politico che gli stati possono porre ai suoi movimenti. Un’ulteriore novità è che nell’impero delle multinazionali cambia la natura della relazione tra stato e capitale. Sta venendo meno quel rapporto simbiotico basato sulla convergenza dell’interesse statale alla costruzione della potenza politica e dell’interesse capitalistico alla creazione di un mercato imperiale protetto. Oggi il grande capitale si pone al di sopra dello stato nazionale, nei confronti del quale tende ad assumere una relazione strumentale e conflittuale.
All’interno di questo sistema di “costruzione e conquista” del mercato globale non può non aver un ruolo determinante la cultura, in particolare nell’accezione di significato a essa attribuita da Grossberg.
Parafrasando Marx, se le persone fanno la storia ma in condizioni che non dipendono da loro, i cultural studies esplorano il modo in cui ciò avviene entro e attraverso le pratiche culturali, e il posto di queste ultime entro specifiche formazioni storiche. La cultura, da questo punto di vista, è il luogo dove si produce e si lotta per il potere; non un potere necessariamente inteso come dominio, quanto piuttosto come un rapporto sbilanciato di forze che tendono al controllo di determinate fasce di popolazione.
Metabolizzare il ruolo dominante della cultura per la sopravvivenza sociale di un popolo aiuta a meglio comprendere anche gli attacchi perpetrati al suo patrimonio.
La cultura riveste una notevole importanza per ogni gruppo umano, etnia o nazione. L’espressione genocidio culturale indica proprio quei fenomeni di annichilimento della cultura che diventano lo strumento con cui distruggere un gruppo umano. Esso è attuato senza attacchi diretti, fisici o biologici, alle persone. Il patrimonio culturale è la parte visibile della cultura e il suo valore risiede nel significato. La cultura è simbolica e rappresenta cose intangibili. Il patrimonio culturale, pertanto, è costituito dal valore che i beni cultuali e del paesaggio assumono in seno alla società e alla comunità cui appartengono. Essi riflettono l’identità di una comunità. Il patrimonio culturale può essere identificato come espressione di quella identità culturale propria di un popolo. Esso diviene la stessa rappresentazione di un popolo, del modo di agire, dell’interiorità composta da affetti, della concezione etica ed estetica e, più in generale, manifesta l’essere di tale comunità e degli individui che sono e si sentono parte della medesima.
Nei primi anni Settanta, Abruzzese parlava dei principali cambiamenti che cominciavano a intravedersi nella cultura delle società avanzate. In quell’epoca pre-digitale, l’immaginario sociale era fortemente dominato dal linguaggio cinematografico, ma Abruzzese indicava che si era avviata una fase sociale di superamento del modello della società dello spettacolo. Affermava infatti che «la tecnologia dell’informazione distrugge finalmente ogni vecchio discorso sull’immagine spettacolare».
Ancora agli inizia degli anni Sessanta del Novecento la cultura di massa veniva socialmente considerata un fenomeno di scarsa rilevanza rispetto alla cultura tradizionale, cioè alla letteratura, al teatro oppure alla filosofia. D’altronde, la sua immagine era notevolmente influenzata da quella posizione radicalmente critica che era stata adottata nei suoi confronti, a partire dagli anni Quaranta, dagli autori della Scuola di Francoforte. In particolare Horkheimer e Adorno i quali hanno esplicitamente accusato la produzione culturale di adottare un modello tipicamente industriale basato sull’omogeneizzazione e sulla standardizzazione.
Assolutamente degna di critica era invece per Eco la cultura di massa, tale perché doveva essere considerata con il massimo rispetto e interesse. Negli anni Sessanta non erano in tanti a pensarla così. Pochissimi intellettuali, tra i quali Morin, che riteneva necessario adottare una visione dialettica del rapporto esistente tra il sistema di produzione culturale e i bisogni degli individui, poiché la produzione ha la necessità vitale di sfruttare l’esistenza di una relazione costante tra la ripetizione e l’innovazione, la standardizzazione e la creatività. Ciò fondamentalmente avviene perché le industrie culturali non possono fare a meno di mantenere vive delle aree d’innovazione e creatività dalle quali attingere di volta in volta idee e talenti per le loro attività commerciali. Hanno costantemente bisogno di nuove energie da riversare all’interno dei loro prodotti.

Dagli anni Sessanta a oggi, è trascorso un periodo piuttosto lungo nel quale si è presentato il rilevante fenomeno della diffusione delle tecnologie digitali, che hanno profondamente cambiato la condizione di vita delle persone.
La digitalizzazione sta influendo sul mondo reale, come già fatto in passato dal cinema. Si assiste all’indebolimento della capacità di elaborare spiegazioni, ragionamenti razionali e concetti astratti, con la successione di immagini che vanno a sostituirsi progressivamente alle parole e alle frasi che, invece, richiedono impegno e attenzione. Il “capitalismo digitale” semplifica, facilità e rende comodo l’uso di prodotti e servizi che, però, sono volti alla creazione di posizioni monopolistiche che mirano a carpire l’attenzione degli utenti, tramite i loro stessi dati, per indurli sempre più a rimanere sulle piattaforme e acquistare tramite le pubblicità mirate in esse inserite. Codeluppi sottolinea i problemi legati al sovraccarico informativo, alla produzione e all’elaborazione dei dati attraverso algoritmi con attenzione al comportamento online delle persone, appiattimento e superficialità di contenuti e relazioni, con omologazione dei gusti e di quello che viene considerato di successo. A conclusioni differenti erano giunti invece Lash e Lury nel 2007.
Affrontando l’analisi della cultura di massa contemporanea con una prospettiva di tipo globale e dinamico, il loro studio ha confermato che i beni culturali, più che essere interessati da quel processo di omogeneizzazione evidenziato in passato anche da Horkheimer e Adorno, tendono a produrre delle forme di differenziazione che sono particolarmente intense.
Una frammentazione tale da portare l’universo culturale verso quel “culto del banale” di cui si è interessato Jost, evidenziato anche dal filosofo americano Danto: il forte orientamento dell’arte del ventesimo secolo verso il tentativo di trasfigurare il banale in un’opera d’arte. Anche nel mondo dei media si è sviluppato qualcosa del genere, basti pensare al grande successo dei reality show. Da “finestra sul mondo” la televisione si è così trasformata in una finestra sullo spazio intimo di vita delle persone. Poi è iniziato il periodo, tutt’ora in corso, dei social network.
Evidentemente, ci troviamo di fronte a un fenomeno che non è più un processo di trasmissione di messaggi dotati di un contenuto, ma una pura forma di circolazione. Cioè una connessione costante basata su un flusso ininterrotto di contenuti irrilevanti e finalizzati solamente a ottenere questo risultato.
Guardando al passato, si può suddividere la cultura in diverse fasi: la cultura dell’oralità, la cultura della scrittura e della stampa, la cultura dei mass media, la cultura digitale. Ognuna di queste grandi stagioni culturali ha sviluppato il proprio immaginario, in stretta relazione con le concrete potenzialità offerte dal relativo contesto di comunicazione. L’età dell’oralità si basava soprattutto sul racconto del mito il quale rimane centrale anche nell’età della scrittura manuale, condensandosi però in opere più strutturate. Durante l’età della stampa compare un fattore destinato a diventare sempre più rilevante: la diversificazione della tradizione culturale. Un fenomeno, quello della frantumazione culturale, che diventa macroscopico con l’età dei mass media. La cultura digitale poi porta all’estremo la diversificazione delle voci e dei soggetti di produzione culturale. Dal punto di vista dell’immaginario, la cultura digitale presenta un duplice aspetto: da una parte vi è l’immaginario digitale “derivato”, ovvero quello ripreso dal patrimonio culturale del passato grazie a processi sempre più avanzati di digitalizzazione di musei, biblioteche, foto- e cinte-teche, archivi musicali, raccolte di documenti; dall’altra c’è l’immaginario digitale “originale”, quello generato dalle potenzialità tecnologiche specifiche dei linguaggi digitali, che hanno creato configurazioni mentali e culturali impossibili da realizzare – e anche solo da pensare – nel mondo analogico.
La diversificazione delle fonti e la grande flessibilità degli strumenti digitali hanno dato luogo alla remix culture: la ripresa di elementi dell’immaginario tradizionale che vengono reinterpretati e rielaborati per costruire nuovi prodotti. Una modalità tipica dei videogiochi, i quali spesso incorporano elementi della mitologia, del folklore, della cinematografia e della letteratura, adattandoli ad ambienti digitali interattivi. A rappresentare questo nuovo assetto culturale sembra esserci una profonda ibridazione di linguaggi, generi, contenuti, tuttavia va rilevata la persistenza – proprio nel digitale – di alcuni ben determinati generi e stili novecenteschi. Una persistenza che sembra quasi voler mantenere un legame tra i media analogici del secolo scorso e l’età digitale, così da costituire una sorta di “classicità del contemporaneo”.
Basti pensare alla fantascienza e al profondo impatto che ha avuto sulla cultura digitale. Molti progressi tecnologici e concetti rappresentati nella letteratura e nei film di fantascienza sono serviti da ispirazione per i nuovi scenari del mondo digitale. Opere come 1984 di Orwell, Neuromancer di Gibson e i film Blade Runner e Matrix, diretti rispettivamente da Scott e Wachowski, hanno influenzato sia lo sviluppo di narrazioni distopiche, sia l’estetica cyberpunk, sia gli sviluppi dell’intelligenza artificiale, della realtà virtuale e delle tecnologie futuribili, evidenziando anche le problematiche legate alla stessa intelligenza artificiale, alle riflessioni filosofiche e psicologiche sulle realtà virtuali, sul potere degli hacker, sulla fusione di corpi umani con la tecnologia.
Una delle questioni più discusse, lungo l’intera storia della ricerca sui media, è il rapporto tra la quantità dei contenuti in circolazione e la loro qualità. Da un lato, infatti, la rete rende disponibile al consumo una quantità di immagini, contenuti e informazioni enormemente maggiore rispetto al passato; e dall’altro, soprattutto, la comunicazione a due vie propria del Web abbassa anche le soglie di accesso alla produzione, rendendo possibile, per la prima volta in termini tanto ampi, una partecipazione diffusa alla scrittura e alla pubblicazione dei contenuti. L’innovazione fondamentale della rete va ricercata proprio nella pratica mash-up o remix, ovvero nella produzione e/o nel riuso attivo dei materiali che può tradursi in mille forme, come il ritocco delle fotografie digitali, il montaggio video su YouTube, la scrittura e la revisione di testi su Wikipedia e via discorrendo.
Mentre Lessig considerava le pratiche mash-up emblematiche di una nuova sensibilità culturale, per Lanier il Web attuale non concede più spazio alcuno alla produzione originale, ma costringe gli utenti a operare all’interno di parametri di composizione particolarmente rigidi, limitandone la creatività e imponendo pratiche di riscrittura continua degli stessi contenuti.
Le applicazioni diffuse sul Web non fanno altro che nascondere le reali potenzialità del computer, così che l’utente è costretto a rispettare le regole dettate dalla combinazione dei diversi software, anziché piegare la macchina ai propri scopi. La condizione definita da Lanier loch-in: l’utente è imprigionato in una struttura di senso rigida e chiusa, imposta dai software, e vincolato al rispetto di regole di esecuzione che paradossalmente limitano le possibilità stesse dell’hardware a disposizione. Le pratiche di remix dei contenuti sono viste in una prospettiva critica perché contrapposte all’unico vero esercizio di creatività, che è il controllo dei codici di programmazione che consentono di modificare concretamente la struttura di rete.
Ancora più radicale è stata la critica di Keen, per l’immissione in circolo di elementi culturali rozzi, reportage informativi poco curati, notizie non verificate e tentativi artistici velleitari. Questa sorta di rivolta dei dilettanti contro i professionisti della cultura ha ispirato una pericolosa tendenza di pensiero, avversa allo specialismo e fautrice di un’equivoca democrazia dell’eccesso.
La produzione amatoriale ha avuto però anche il merito di aver fatto emergere la cultura del quotidiano, quel sottofondo di attività che le persone hanno sempre svolto nel corso del tempo – gli hobby, i giochi e l’artigianato, il riuso spontaneo delle forme culturali, i modi del folk – e che attraverso il Web guadagnano oggi una visibilità inedita. In questo senso, il remix digitale non va valutato come atto artistico, soggetto di conseguenza a giudizi estetici e di valore, ma come fenomeno di massa puro e semplice, che affonda le sue radici nel vuoto del tempo libero e nelle pratiche di imitazione e di bricolage che lo hanno storicamente riempito.
Eppure, nella critica di Carr, questa enorme quantità di stimoli messa in circolo dalla rete rende impossibile la concentrazione, e produce una forma mentale meno capace di esercitare ragionamenti in profondità.

Il cervello umano viene di continuo equiparato a una Macchina di Turing, capace di elaborare una quantità enorme di dati e di “trarre conclusioni” a partire dall’utilizzazione degli algoritmi e del programma incorporato. Ma il cervello umano è altro. Innanzitutto questo è legato e strutturato al corpo che lo contiene e la deterritorializzazione imposta dalla digitalizzazione sta creando una vera e propria distanza fra l’uomo e il mondo, e fra l’uomo e sé stesso.
Stiamo assistendo a una frammentazione eccessiva, a una deterritorializzazione selvaggia e a una rifeudalizzazione del sapere oppure stiamo semplicemente valutando la cultura emergente con parametri vecchi?
In quest’ottica, quello che il Web sta facendo non è aumentare la quantità di informazione ma mostrare, in modo definitivo e più onesto, il fatto che il mondo è sempre stato too big to know, troppo grande per essere conosciuto.
Prima si filtra e poi si pubblica, era la regola dell’industria culturale moderna; nella rete, all’opposto, prima si pubblica e poi si filtra. Per cui questo surplus cognitivo risulterebbe essere tipico di tutte le fasi in cui l’innovazione cambia i metodi di produzione, abbatte i costi e sommerge il mercato con una quantità ingovernabile di contenuti.
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