Pietro Roberto Goisis, Noi imperfetti. Quando pensiamo di non farcela

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Tutto inizia nel momento esatto in cui veniamo al mondo. È come un big bang nel quale ci rendiamo conto che da soli non ce la faremo, che siamo in uno stato di bisogno assoluto. Scopriamo la dipendenza da nostra madre; poi da chiunque si prenda cura di noi.

Il modo in cui rispondiamo a questa esperienza originaria di attaccamento influenza relazioni e comportamenti. Qui spesso inizia la sfida tra la perfezione (ambita e impossibile) e tutte le umane fragilità. Pietro Roberto Goisis analizza le imperfezioni e le crepe nel fisiologico funzionamento della mente cercando di dare loro un senso. 

Di certo, per la crescita e lo sviluppo individuale e gruppale sono necessari errori e rotture, oltre che una spinta inesauribile verso il nuovo e il cambiamento.

L’imperfezione in natura nasce proprio dall’esigenza di trovare compromessi tra interessi diversi, tra spinte selettive antagoniste. E ancora, la selezione naturale non è un agente che perfeziona e ottimizza gli organismi in ogni loro parte. Non può farlo, perché lavora in circostanze contingenti, quindi è sempre relativa a un contesto cangiante, e soprattutto è condizionata dai vincoli storici, fisici, strutturali e di sviluppo.1 La consapevolezza delle nostre imperfezioni, ancor più la loro accettazione, si intreccia in maniera articolata con il tema della autenticità, che vuol dire essere davvero quelli che si è, e si realizza svelandosi. Goisis ricorda l’esistenza di un termine specifico per definire il sentimento di inadeguatezza che si associa frequentemente alla percezione delle nostre imperfezioni: atelofobia. Ovvero la paura di non essere perfetti o di non essere mai abbastanza. 

Quasi tutti ne soffriamo in maniera più o meno intensa e diversa a seconda dei periodi della vita. È frequente in adolescenza, nelle fasi di cambiamento, nel momento in cui subiamo perdite o delusioni. Quando prende una forma continuativa, associata a sintomi veri e propri (ansia, somatizzazioni varie, depressione, ideazione con inquietudine e così via) può interferire in maniera significativa con la qualità della nostra vita. 

Il bisogno è la tensione generata dalla mancanza di qualcosa di necessario per soddisfare esigenze fisiologiche, psicologiche o sociali. Il bisogno è anche in continua evoluzione attraverso le varie fasi del ciclo della vita, principalmente tra spinta allo sviluppo e necessità di stabilizzazione. La risposta positiva al bisogno produce un’esperienza concreta significativa sul piano emotivo e di sostegno e guida strutturale per la persona che la vive. Ecco perché il rapporto tra i nostri bisogni e il loro più o meno felice soddisfacimento diventa così importante nello sviluppo e nelle relazioni durante l’intera esistenza. La sintomatizzazione affettiva ci porta a comprendere e condividere il mondo. Se non è presente o è inefficace durante i primi anni di vita, può creare un senso di isolamento e la convinzione che in generale i nostri bisogni affettivi siano in qualche modo inaccettabili. Quello dei bisogni è un sistema complesso e articolato intorno al quale si organizza, cerca un senso e subisce frustrazioni gran parte della nostra esistenza e delle nostre esperienze relazioni. Sottolinea Goisis come il bisogno originario sia assoluto e attivi il sistema motivazionale dell’attaccamento. Da cui poi nasce il desiderio. Il bisogno non nasce solo come conseguenza di una mancanza ma può uscire dal suo ambito autoreferenziale e diventare uno dei motori relazionali. 

Inoltre l’autore analizza a fondo uno degli equivoci in cui in tanti incorrono, ovvero ritenere i bisogni dei diritti. Quest’ultimi sono gli aspetti basilari che regolano e governano le relazioni tra gli esseri umani. I bisogni nascono invece dalle nostre necessità, legittime quanto si vuole, ma soggettive e individuali. Se una persona confonde i due concetti, può succedere che esprima i propri bisogni come se fossero diritti e si senta vittima di ingiustizia se i primi non vengono soddisfatti. Oppure è possibile che, nella confusione delle lingue e dei concetti, i bisogni primari (fame, sete, sonno, accudimento, cura, salute, sicurezza – anche amore e riconoscimento) diventino in qualche modo i nostri diritti. E fin qui va bene. Il problema nasce quando non si considerano “solo” bisogni quelli secondari e quelli superiori (educazione, relazioni, stima, realizzazione, divertimento, svago, benessere economico), ma diventano a loro volta dei diritti. Avviene così una oscillazione tra bisogni che vengono occultati e negati (espressione della vergogna di aver bisogno) o dall’altro lato esibiti con tono pretenzioso (come se fossero un diritto appunto). Cosa che confonde sia chi li esprime, sia chi li potrebbe soddisfare. 

Goisis ritiene fondamentale accettare la propria vulnerabilità, considerandola condizione necessaria, altrimenti il rischio è cercare altre cose, sostanze, comportamenti, relazioni malate da cui dipendere, per mettere a tacere la nostra sensibilità. 

Il punto, o meglio il problema è che viviamo immersi in una cultura e una struttura sociale nella quale non è accettabile essere ordinari, normali. Bisogna essere speciali, perfetti, giusti. A risentirne sono maggiormente i giovani della cui condizione, secondo l’autore, non si parla mai abbastanza. 

Oggi, un ampio segmento dei giovani tra i diciotto e i trentaquattro anni si trova in condizioni di deprivazione, intesa come il mancato raggiungimento di una pluralità di fattori, individuali e di contesto, che agiscono nella determinazione del benessere. Sottolinea più volte Goisis quanto i millennial, cresciuti in un periodo di rapido cambiamento tecnologico e sociale, sono spesso associati a una crescente sensazione di impotenza e incertezza. Uno dei principali motivi di impotenza è la situazione finanziaria in cui si trovano. Un altro aspetto che contribuisce all’incertezza è proprio il mercato il lavoro. I millennial sono la prima generazione a essere cresciuta con l’ascesa della tecnologia digitale e l’esplosione di internet. Novità che, sebbene abbiano aperto nuove opportunità, hanno avuto un impatto significativo sulla loro vita. Sono anche la prima generazione a essere cresciuta con la consapevolezza diffusa della crisi climatica. Ma per l’autore c’è un altro aspetto che li caratterizza: avere relazioni sentimentali relativamente poco stabili. Le storie affettive sono spesso precarie, poco investite, raramente suggellate da matrimoni e figli. 

Ci sono state epoche e generazioni negli anni e nei secoli che hanno voluto, saputo o dovuto trovare una risposta alle difficoltà che stavano vivendo. È possibile quindi, per Goisis, che la condizione di impotenza e di incertezza che questa generazione sta vivendo possa prefigurare un nuovo cambiamento culturale ed epocale. Certamente, rispetto al passato, si sta declinando molto più sul piano individuale che su quello collettivo, ma sembra comunque essere in atto. 

Il ’68 sancisce l’ingresso sulla scena pubblica di una nuova identità collettiva: le/i giovani. È una questione, quella della gioventù, marcatamente simbolica, più che materiale. Certo, la rivolta segue una linea di frattura generazionale, ma non mancano le figure adulte nel ’68 e il dato poi non vale per il movimento operaio. È soprattutto sui repertori simbolico-estetici che si gioca l’associazione ’68/gioventù. La teatralità della protesta, l’irrisione, l’irriverenza, quel po’ di narcisismo indispensabile per volere tutto e subito, l’urgenza di essere sempre e comunque dentro le cose, le giornate senza sonno e le vite nomadi: è il puer aeternusil fanciullo mitico-magico che abita i singoli movimenti e che si è conservato un angoletto nella testa di molti ex. Forse nessuna epoca è stata più propizia al puer. Nella cultura del XX secolo la giovinezza è un valore che si ama, si odia, si invidia, si imita, si vende sul mercato degli oggetti e delle idee. L’età simbolica del ’68 è senza dubbio quella viscerale, idealista, traboccante di eros e thanatos dell’adolescenza. È una condizione giovanile che trascende ogni età anagrafica e che risiede in una viscerale domanda di senso e di un’altra vita, individuale e collettiva, così come nel terrore di ogni finitudine.2

È l’Italia dell’americanizzazione di costumi e consumi, della pubblicità, del cinema e della televisione, ma anche delle “mani sulla città” delle speculazioni urbane e suburbane. Tra le/i giovani, oggetto del crescente interesse del mercato, serpeggiano malessere e insoddisfazione, una implicita critica ai sogni di vita piccolo-borghese e consumista. Un malessere che non si traduce però in azione politica organizzata, ma più spesso in forme di ribellione erratiche verso la società dei padri e le sue regole. La rivolta dello stato delle cose inizia dentro le case, e con il nodo politico della famiglia faranno i conti, seppur diversamente, tanto il ’68 quanto il femminismo. Un rito di passaggio quasi archetipo nelle biografie giovanili del periodo è la fuga da casa, atto di ribellione e strappo per eccellenza specie per chi, dal profondo di una provincia apparentemente immobile, riesce a presentire il palpitare delle trasformazioni e desidera esserne parte. L’enfasi sul gesto teatrale, sulla protesta come rottura simbolica, sulla politica come vita e comportamento, centrale per gli sviluppi del ’68 deve molto agli stimoli portati da nuovi media, cultura e subcultura nei due decenni precedenti. Una funzione primaria della “società dello spettacolo” che il situazionismo, con la nota capacità di guardare lontano, individua come dimensione non solo dello spirito di rivolta, ma anche della sua sussunzione nel sistema capitalistico. Questa graduale incorporazione prende dal ’68 i processi di soggettivazione e di espressione di sé e li trasforma in dispositivi di disciplinamento, annullandone la spinta critica ed eversiva. Si pensi, a titoli d’esempio di più ampi processi, al narcisismo solipsistico alimentato dai social media, iperfetazione impolitica dell’espressione di sé. O, ancora, all’enorme sviluppo del settore pubblicitario (in cui tanti ex sessantottini si impiegheranno), che oggi varca una nuova frontiera, in cui la distanza fra prodotto e persona che lo pubblicizza si annulla nell’ambigua e affascinante figura dell’influencer.3

La teoria della rivoluzione silenziosa di Inglehart individua una stretta correlazione tra benessere economico, consolidamento della democrazia e mutamento valoriale. Alti livelli di sicurezza economica, fisica ed esistenziale sono positivamente legati a un mutamento culturale che porta dai valori materialisti – che enfatizzano sicurezza fisica ed economica e la conformità alle norme del gruppo – ai valori postmaterialisti. Questi enfatizzano la libertà individuale di scegliere i propri modi di vita, la libertà di espressione, l’uguaglianza e la partecipazione ai processi decisionali nella vita economica e politica. La teoria inglehartiana sul mutamento dei valori si fonda su due ipotesi chiare: scarsità e socializzazione. La prima ci dice che gli individui tendono a dare più valore ai bisogni ritenuti più rilevanti, una volta garantiti la loro utilità marginale è decrescente e si presta più valore agli altri. La seconda afferma che la struttura valoriale degli individui si forma nelle prime fasi di socializzazione (adolescenza e giovinezza), dopo di che sono difficilmente modificabili. 

Per cui la generazione dei padri, socializzata in un periodo di profonda insicurezza esistenziale, aveva posto al vertice del proprio sistema valoriale valori prettamente materialistici, al cui centro c’erano le cosiddette “tre emme”: mestiere, marito/moglie, macchina. I loro figli, i sessantottini, hanno vissuto una dinamica di mobilità ascendente, sul piano economico, sociale e culturale. In questo contesto maturano una insoddisfazione nei confronti di un modello sociale che garantisce sicurezza, ma che è ancora profondamente intriso di autoritarismo e paternalismo, che si appoggia su istituzioni gerarchiche, burocratiche e verticistiche, che limitano l’autonomia e le libertà individuali.4

Per decenni, seppur con l’alternarsi di crisi e momenti di incertezza, è stata predominante la convinzione che i figli avrebbero goduto di livelli di benessere almeno pari a quelli dei genitori. Il venir meno di questa certezza sta contribuendo a modificare gli orientamenti valoriali. Il diffuso senso di insicurezza esistenziale conduce a un “riflesso autoritario” che porta a ridurre l’enfasi sui valori postmaterialisti e riportare al centro i valori materialisti. La crisi economica e sociale alimenta il supporto per i leader forti, molta solidarietà interna al gruppo, un rigido conformismo alle norme del gruppo stesso e un rifiuto degli estranei o stranieri. 

Ciò significa che se per la generazione del Sessantotto non una condizione di insicurezza e di deprivazione, ma proprio il suo superamento ha gettato le basi della contestazione, le generazioni che si sono succedute a partire dagli anni Ottanta non hanno instaurato particolari rapporti di conflitto con le generazioni precedenti che condividevano con loro, nei tratti essenziali, una costellazione valoriale postmaterialista. Tradottasi in rapporti orizzontali in ambito familiare, in una propensione al dialogo e al confronto, in rapporti fondati sul riconoscimento e la reciprocità, più che su ruoli e strutture verticali di comando. La percezione di un peggioramento radicale nelle prospettive di vita si è riflessa in un prepotente ritorno dei valori materialisti, che ha trovato espressione nell’ascesa del populismo.5

Rispetto al passato, quindi, i giovani affrontano numerose difficoltà per rendersi economicamente indipendenti, raggiungere la piena maturità sociale e condizioni di vita soddisfacenti. Ma cosa vogliono i loro genitori? Si chiede Pietro Roberto Goisis.

HPI – Haut Potentiel Intellectuel (Alto potenziale intellettivo) è un fenomeno analizzato in Francia e descrivibile come la tendenza a considerare i propri figli come tali al primo buon voto e la smania di poterli classificare con quell’acronimo che conta ormai come un diploma. 

Il meglio, si pensa, è destinato ai più dotati, ai più intelligenti, ai migliori. E se i figli non lo sono? Si chiede ancora Goisis. 

Ecco l’inghippo: HPI non solo narcisismo, ma strumento di una competizione sempre più dura e precoce. Infatti le persone con un QI oltre 130 sono il 2.3% del totale, quindi pochissimi. 

Quello degli “iperdotati” è un tema estremamente delicato e problematico. Anche in Italia è stato piuttosto di moda alla fine del Novecento. Ora sta tornando di attualità, un po’ per necessità narcisistiche, un po’ per le difficoltà a riconoscere le fatiche degli adolescenti post Covid. Con la nefasta conseguenza di non riuscire a capire le reali problematiche di un ragazzo o ragazza e la necessità di aiuti specialistici e necessari.

Si chiede l’autore se, in questo continuo guardare fuori alla ricerca del meglio, non vadano perduti elementi ben più importanti: la relazione affettiva e la capacità di riconoscere davvero chi è la persona che si ha di fronte. 

Relazionarsi in maniera corretta in famiglia è certamente un modo per imparare a farlo anche fuori da essa. Pensiero diffuso è che, per impararlo a fare bene, bisogna innanzitutto riuscire a stare bene con se stessi, ritagliandosi magari degli spazi in solitudine. Ma Goisis ricorda che vi è una sostanziale differenza che separa i “momenti di solitudine” trascorsi con sé stessi e la vera solitudine.

Ci sono infinite situazioni a causa delle quali si vive e si sperimenta la solitudine. Secondo un’indagine condotta da Ipsos in ventinove Paesi, il 39% degli adulti prova sentimenti di solitudine e l’Italia è al quinto posto con un dato del 41%. Questi numeri sono sicuramente peggiorati dopo la pandemia, ma già nel 2015 uno studio condotto da Eurostat evidenziava che un italiano su otto si sentiva solo. Percentuali che salgono vertiginosamente con l’abbassarsi dell’età degli intervistati. Il 93% del campione compreso tra i tredici e i ventitré anni ha dichiarato di sentirsi solo, il 48% di aver sperimentato la solitudine molto spesso. 

La solitudine è una condizione psichica e sociale. Non è una malattia in senso letterale, ma può generare malessere. Non è soltanto la questione di essere fisicamente da soli, piuttosto un senso di mancanza di connessione emotiva o sociale con gli altri. Può essere sperimentata sia in situazioni di isolamento fisico sia in contesti sociali affollati. 

Ungaretti definitiva “solitudine senza scampo” lo stato emotivo di Leopardi6 che egli stesso aveva indicato come una condizione esistenziale con effetti particolarmente nefasti sulla sua salute mentale e fisica, che favorisce l’isolamento e l’incessante attività cerebrale, snervante e debilitante.7 La solitudine di Giacomo Leopardi è un’esperienza personale e intensa di isolamento e di estraniazione vissuti in modo drammatico come progressiva separazione dal mondo e dal contesto sociale e come un lento e ineluttabile sprofondamento nelle sabbie mobili dell’esclusione, nel deserto delle emozioni e nella malinconia più nera e rovinosa. Nell’isolamento si diventa estranei agli altri ma anche a sé stessi.8

Norbert Elias riflette su come le emozioni e le loro manifestazioni siano strettamente correlate agli ambiti sociali in cui nascono. In tale senso società diverse generano culture emozionali differenti e ogni società è animata dalle sue regole emozionali. Nella società contemporanea, la cultura emozionale di riferimento è quella dei media digitali che rappresentano delle vere e proprie dimensioni sociali in cui è possibile conoscere qualcuno, divulgare notizie o informazioni, commentare in totale libertà, condividere, vivere emozioni e sentimenti. Negli spazi sociali contemporanei sono cambiati i sistemi di comunicazione perché la persona non è più destinataria del messaggio ma è anche divulgatrice del proprio pensiero. La cultura emozionale nella quale giovani e adulti vivono, dunque, complica l’approccio emotivo che guida le pratiche quotidiane, anche perché la conoscenza che si acquisisce in Rete è una sorta di continua frammentazione del sapere legittimata da un insieme di opinioni emotive che finiscono con il disorientare la persona. L’avvento della cultura digitale ha modificato in termini di spazio, tempo e memoria il bagaglio formativo dei giovani e degli adulti, che si trovano così a vivere e a consumare esperienze di vita in un ambiente emotivo che sembra aver logorato il concetto di verità. L’individuo contemporaneo è come se fosse incapace di affrontare il proprio mondo emozionale e quello dell’altro, un mondo non più guidato dalla relazione interpersonale, ma mediato da dispositivi tecnologici. La persona, in altri termini, è come se fosse inadeguata nel riuscire a nominare le emozioni che prova, trovandosi impreparata a gestire sia ciò che prova sia ciò che l’altro sente. Ne consegue un analfabetismo affettivo che sempre più spesso determina la rottura delle relazioni tanto desiderate quanto consumate e deturpate.

Gli adulti inoltre oggi vivono in uno stato di “adultescenza”nell’ambito del quale rimangono eternamente giovani, continuando a ignorare le responsabilità, prima fra tutte quella di crescere e acquisire una forma che sia unica e irripetibile.9

Secondo Aristotele, la condizione della vita solitaria non è naturale nell’uomo, che è zoon politikon, cioè animale sociale, o per meglio dire socievole, in virtù proprio dell’essenza della sua anima razionale.10 E l’uomo sociale ha delle responsabilità. Responsabilità che derivano anche dalle relazioni interpersonali, utili e necessarie per gli individui. 

Molti adulti, spesso genitori, sono incapaci di assumersi le proprie sacrosante responsabilità di fronte ai figli. Lasciandole a loro. 

Il permanere di atteggiamenti infantili in età adulta sembra essere diventato quasi uno stile di vita associato alla leggerezza, al divertimento e alla rinuncia degli obblighi sociali. Se, come spesso accade, i modelli di riferimento adulti si vestono delle caratteristiche del “bonsai”, cioè di una sorta di genitori in miniatura, diventa difficile, per questi adulti bonsai, indirizzare i giovani nel diventare a loro volta adulti.11

Il rapporto fra adulti e giovani evidenzia oggi una deconflittualizzazione delle relazioni. Il conflitto nel recente passato ha costituito la modalità più frequente con cui le generazioni più giovani si contrapponevano a quelle adulte per affermare la propria indipendenza e la propria identità. Se, fino agli anni Ottanta, i conflitti intergenerazionali di natura culturale caratterizzavano i rapporti genitori-figli e insegnanti-alunni, i decenni successivi hanno evidenziato una progressiva e generale deconflittualizzazione che, tuttavia, non si è accompagnata a una maggiore coesione sociale. Gli adulti di riferimento, tradizionalmente individuabili nelle figure parentali e in quelle dei docenti, sembrano essere venuti a far parte, nella percezione generalizzata dei giovani, di una massa quasi indistinta di soggetti poco significativi e con quasi nessuna capacità di influenzare, di orientare, tanto meno di incidere stabilmente attraverso i meccanismi di socializzazione secondaria sulle loro esistenze.

Un effetto della erosione delle certezze e degli orizzonti di senso collettivi è il diffondersi della violenza reiteratamente agita nei gruppi – reali o virtuali – dei pari. Si evidenzia inoltre una qualche sommaria accettazione acritica della violenza nel suo espressivizzarsi routinario contro coetanei più facilmente stigmatizzabili – stranieri, omosessuali, diversamente abili ecc. – da parte delle giovani generazioni, che sfocia in una banalizzazione delle condotte violente nel mondo quotidiano dei più giovani. La soglia di accettazione della violenza, nel suo plurimo riprodursi (materiale e immateriale, agito o esperito), va però messa in relazione con la scarsa, quando non addirittura inesistente, consapevolezza della natura effettivamente violenta di quell’azione. Ecco allora che in questo Zeitgeist caratterizzato da una generale incertezza sul presente e sul futuro, la violenza di gruppo diviene una modalità sostitutiva del conflitto, proprio perché è il micro-rituale violento a definire ruoli e funzioni altrimenti inaccessibili a un numero sempre più grande di adolescenti.12


Il libro

Pietro Roberto Goisis, Noi imperfetti. Quando pensiamo di non farcela, Enrico Damiani Editore, Brescia, 2024.


1T. Pievani, Imperfezione: una storia naturale, Raffaello Cortina, Milano, 2019.

2E. Bellè, L’altra rivoluzione, Rosenberg&Sellier, Torino, 2021.

3E. Bellè, op.cit.

4L. Raffini, Le nuove generazioni e il Sessantotto. Tra mito e contro-mito, SocietàMutamentoPolitica, gennaio 2018, Vol. 9 (18), Firenze University press, Firenze, 2018.

5L. Raffini, op.cit.

6G. Ungaretti, Viaggi e lezioni, Mondadori, Milano, 2000.

7G. Leopardi, Lettere (a cura di R. Damiani), Mondadori, Milano, 2006.

8R. Arqués, Dialogo di Leopardi e la Solitudine, Quaderns d’Italià 22, Barcellona, 2017

9S. Perfetti, Adulti e giovani allo specchio tra crisi emozionale e cultura digitale. L’educazione affettiva come scommessa formativa, Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education, Vol. 27 n° 63, Bologna, 2023.

10R. Arquès, op.cit.

11S. Perfetti, op.cit.

12I. Batholini, L’opacizzarsi del conflitto tra giovani e adulti e l’affermarsi della violenza tra pari, Studi di Sociologia, Anno 51, Fasc. ¾ (Luglio – Dicembre 2013), V&P – Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 2013.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Enrico Damiani Editore per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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© 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Mika Biermann, Tre donne nella vita di Vincent van Gogh

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Un libro. Un artista. Tre capitoli. Tre donne. Non sono però solo questi i numeri del breve romanzo di Mika Biermann dedicato alla figura emblematica di Vincent van Gogh. A tratti, l’opera di Biermann sembra un conto alla rovescia, laddove sottolinea il tempo che rimane da vivere all’artista e il tanto lavoro ancora da ultimare, i quadri da dipingere. 

«Gli restano trentasette anni da vivere e ottocentosettantuno quadri da dipingere. Un quadro ogni quindici giorni. Un gioco da ragazzi.»

Un’espressione che può sembrare inquietante ma che sembra servire, in realtà, per sottolineare l’inquietudine di fondo che accompagna l’intera esistenza del van Gogh narrato dall’autore. Un uomo descritto in tre fasi distinte della sua esistenza, attraverso la narrazione dei suoi incontri o delle sue relazioni con tre delle donne che maggiormente hanno segnato la sua vita, indirizzandone o deviandone il cammino. 

L’incontro con Saskia simboleggia anche il primo contatto di Vincent con l’altro sesso, con la nudità femminile, la provocazione e, in un certo qual modo, l’erotismo. Non accade nulla di fisico nell’incontro descritto da Biermann nel primo capitolo del libro ma da quel giorno il giovane van Gogh non sarà più lo stesso. Custodirà un segreto che pesa come un macigno. Figlio del pastore, Vincent ha ricevuto un’educazione molto rigida e religiosa e la sfrontatezza della ragazza lo mette in seria difficoltà, soprattutto per il timore che in famiglia possano scoprire quanto accaduto, quello che i suoi occhi hanno visto, e la certezza di non essere in grado di spiegarlo con razionalità e distacco.

«Suo padre gli ha spiegato che Dio ha creato la terra, il cielo, le piante, gli animali e gli uomini rigorosamente in bianco e nero, e che è stato il diavolo, in seguito, ad aggiungere i colori, l’azzurro di un lago, il verde di una prateria, l’arancione di un tramonto, il rosa sulle guance delle donne, il rosso sulle labbra, l’oro sui capelli, affinché i poveri uomini sedotti si allontanassero dall’Onnipotente, smettessero di cercare la salvezza nell’aldilà e si occupassero soltanto delle cose terrene.»

E allora il lettore si chiede come sia stato possibile, per un artista, conciliare una simile educazione con la vocazione alla pittura? 

I dipinti di Vincent van Gogh trasmettono la grande capacità dell’artista di cogliere l’anima delle cose semplici e quotidiane: le banchine sul Tamigi o le distese di campi di grano. «L’arte è sublime quando è semplice», scrive in una lettera indirizzata al fratello Théo. Un’arte che esprime il quotidiano e la sua bellezza ma anche un’estrema solitudine, quella dell’artista, una tristezza che non gli ha impedito di continuare a produrre bellezza: «all’epoca in cui preparavo i fiori di mandorlo. Se avessi potuto continuare a lavorare, avrei realizzato altri alberi da fiore, come potete immaginare. Ora gli alberi da fiore sono quasi finiti.» L’artista sembrava nutrire un profondo desiderio di conoscere se stesso, oltre che il mondo, affrontando i turbamenti dell’anima e le passioni che lo assalivano soprattutto durante i primi tempi nei quali l’amore per Dio era il suo rifugio.1 Sono i tempi dei primi approcci alla pittura, allorquando viveva un vero e propriomisticismo religioso, coltivato sul modello del padre. Tra il 1879 e il 1880 van Gogh visse la sua prima grande crisi spirituale dalla quale scaturì anche il primo punto di svolta della sua esistenza: si convinse di poter servire Dio anche come artista.2

L’incontro con l’ex modella Agostina avviene invece quando l’artista è ormai un uomo maturo e consapevole se non del proprio potenziale, quantomeno della propria indole. Una fase dell’esistenza di van Gogh nella quale egli ha raggiunto degli obiettivi e delle certezza, accanto alle quali però persistono i turbamenti di un uomo inquieto, irrequieto, malinconico e perennemente insoddisfatto anche della propria esistenza. Biermann dà voce a questi turbamenti immaginando per l’artista e l’ex modella un futuro diverso, una vita differente da quella che poi invece è stata, in Italia e non a Parigi. Ma è solo la fantasia dell’autore che vola al pari, forse, di quella dello stesso artista. L’italienne è il nome del ritratto dipinto da van Gogh e che sembra racchiudere tutto il contrasto di questo amore presto finito e della vita insieme mai veramente vissuta.

Molti elementi richiamano le stampe giapponesi: il bordo asimmetrico, la stilizzazione del personaggio in un ritratto privo di ombra e di prospettiva e lo sfondo monocromatico. Tuttavia, alla raffinatezza dell’estetica orientale, van Gogh sostituisce una lavorazione energica, che restituisce un’impressione di potenza quasi primitiva. I neoimpressionisti giustappongono i colori complementari per intensificarne la percezione. In questo caso l’artista fa lo stesso, unendo i rossi e i verdi, i blu e gli arancio. Tuttavia, egli non ricorre alla tecnica puntinista di Signac o di Seurat. La sua modella è raffigurata tramite tratteggi nervosi che si incastrano e si separano. I colori sono violenti, espressivi e mostrano in van Gogh un precursore del fauvismo. Il viso di Agostina Segatori, dove predominano il rosso e il verde, illustra il progetto formulato dal pittore un anno dopo ad Arles, ovvero essere capace di esprimere le terribili passioni dell’umanità per mezzo del rosso e del verde.3

«Questo dipinto è uno dei più brutti che abbia mai realizzato». A dirlo, anzi a scriverlo è lo stesso Vincent van Gogh, in una lettera indirizzata al fratello Théo nel settembre del 1888. «Ho cercato di dipingere le terribili passioni umane con il rosso e con il verde. È ovunque una lotta e un’antitesi dei verdi e dei rossi più diversi, nei personaggi di piccoli teppisti che dormono, nella sala vuota e triste. Nel mio quadro ho cercato di esprimere l’idea che il caffè è un posto dove ci si può rovinare, diventare pazzi, commettere dei crimini». Si tratta di una bruttezza coscientemente ricercata: van Gogh sfrutta la potenza emotiva del colore, soprattutto attraverso l’uso dei complementari rosso e verde, per comporre un’immagine angosciante e allucinata, descrivendo il bar come un luogo di sofferenza e disagio.4

Il terzo capitolo del libro di Biermann, che è anche quello conclusivo dell’esistenza di van Gogh, vede come co-protagonista, insieme all’artista, una giovane donna incontrata per caso. Gabrielle è una ragazza determinata che ha anche imparato il lavoro del padre, il maniscalco, e lo pratica di nascosto perché vietato alle donne. Gabrielle ha appena perso il suo amato cane quando incontra il moribondo Vincent, lo riconosce e si intenerisce alla vista di quell’uomo ormai in fin di vita. È il momento in cui entrambi sembrano realizzare che tutto ciò che nella vita è stato ormai non conta più. Non serve. Non cambierà di una virgola ciò che sta per accadere. È la caducità della vita certo, ma anche la forza di portare avanti le proprie scelte, non guardarsi mai indietro, non avere rimorsi ma solo ricordi. 

I colori che l’autore utilizza per descrivere la natura, ciò che van Gogh osserva nei suoi ultimi istanti di vita, sono l’azzurro del cielo e bianco delle nuvole, il giallo dei campi e la ruggine dei tetti. 

È il “dipinto” di un paesaggio noto, ordinario, confortevole e rassicurante come solamente ciò che ci è caro nella mente può essere. 


Il libro

Mika Biermann, Tre donne nella vita di Vincent van Gogh, L’orma Editore, Roma, 2024.

Traduzione dal francese di Chiara Licata.

Titolo originale: Trois femmes dans la vie de Vincent van Gogh.


1J. Nubiola, Van Gogh, alla ricerca dei colori di Dio, in Omnes, 13 maggio 2016.

2Vincent van Gogh, vita e opere del pittore olandese da record, in Finestre sull’arte, categorie AB Arte Base.

3Analisi estetica de L’italienne del M’O – Musée d’Orsay: www.musee-orsay.fr

4E. Puschak, video-saggio Il caffè di notte. Il “quadro più brutto” di Vincent van Gogh, su Artribune 1 aprile 2019.


Articolo pubblicato su LuciaLibri.it


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Lavoro, fatica, resilienza. E ancora riscatto, passione, dignità. Sono solo alcune delle caratteristiche della famiglia Labò, piccoli coloni che, nel dopoguerra, con la Riforma agraria, diventano coltivatori diretti, piantando filari di vigne e mettendo anima e cuore nella produzione di vini pregiati. 

Il periodo storico raccontato da Nunzio Primavera in Gibildonna è certamente rappresentativo ed emblematico di un grande cambiamento avvenuto in Italia all’epoca della ricostruzione, allorquando la terra fu redistribuita ai contadini con la più grande redistribuzione di ricchezza mai avvenuta in Italia.1 Cessate le ostilità il 25 aprile del 1945 l’Italia era liberata, ma restavano gli effetti della guerra in un Paese che tra il settembre 1943 e l’aprile 1945 conosceva il peso della distruzione prodotta sia dalle truppe tedesche in ritirata, sia dai numerosi e violenti bombardamenti alleati. L’agricoltura era sconvolta.2 Scarseggiavano, o mancavano del tutto, fertilizzanti, carburante, macchinari per la ripresa del settore agricolo. Di fronte alla situazione generale e alla difficoltà di ripresa della produzione, i governi postbellici guidati da De Gasperi tra il dicembre 1945 e l’agosto 1953, impostarono una serie di provvedimenti per ricondurre con relativa rapidità il Paese fuori dall’emergenza. In agricoltura le scelte per la ripresa del settore si posero tre obiettivi principali: il raggiungimento dei livelli prebellici, il recupero della normalità sociale e la definizione di un differente assetto del rapporto tra terra e proprietà. La nascita della Confederazione nazionale dei coltivatori diretti nel 1944 e la serie nutrita di provvedimenti a favore della piccola proprietà coltivatrice, nel giro di qualche anno riuscirono con fatica a contenere i vasti fermenti del mondo rurale.3

In alcune zone del Paese, in particolare in Sicilia, alla protesta per motivi contrattuali si sovrapponeva lo scontro politico per l’autonomia dell’isola e il punto più elevato delle ostilità fu rappresentato dagli episodi delittuosi di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947, apice di altri episodi di scontro violento protrattisi per anni. La mediazione del presidente del Consiglio attenuò la fase violenta e sanguinosa della lotta nelle campagne sia attraverso l’accordo tra proprietari e coloni pattuito nel “lodo” e definito “tregua mezzadrile”, sia nella successiva attivazione della legge di proroga dei contratti di mezzadria in cui venivano stabilite le nuove percentuali di divisioni tra le parti. La spinta alla formazione della piccola proprietà coltivatrice era dunque una caratteristica delle scelte politiche.4

Ma il racconto di Primavera non è solo un resoconto della situazione storica o politica, è la storia di una famiglia. Nel baglio Labò, nucleo da cui tutto ha origine e a cui tutto ritorna, nascono e tramontano amori lunghi e travagliati. È la storia di un luogo attraverso i suoi abitanti. Come tutti i coltivatori, nel corso degli anni, la famiglia Labò si troverà ad affrontare ogni tipo di ostacolo: dalla crisi energetica alla siccità e ai cambiamenti climatici, confrontandosi con le emergenze alimentari, l’allarme metanolo, il caporalato e l’integrazione degli immigrati. 

Le crisi petrolifere del 1973 prima e del 1979 poi sono considerate la scintilla e il comburente della deindustrializzazione dell’Occidente, ivi compresa l’Italia. In Sicilia si presenta uno scenario caratterizzato per lo più da dismissione degli impianti, disimpegno delle grandi imprese industriali, tentativi di riconversione e accenni di bonifica. Le zone investite dall’insediamento di poli industriali nel secondo dopoguerra vengono inserite tra le aree ad alto rischio di crisi ambientale e in conseguenza di ciò si apre la stagione, partita a stento e lungi dall’essere conclusa, delle bonifiche come intervento ambientale tardivo, solo perché l’industria arretra senza neanche rimettere a posto ciò che aveva scombinato.Ma il lascito dell’industria cosiddetta pesante, con ritmi elevati di crescita economica, la ricchezza dovuta a migliaia di posti di lavoro e investimenti pubblici mai visti primi, è ancora più controverso perché nel complesso tutto ciò ha finito per plasmare un ambiente sfavorevole allo sviluppo autonomo, cioè l’ubriacatura da tanto benessere improvviso ha limitato la capacità di pensare a percorsi di crescita alternativi e capaci di autosostenersi.5

Non si può costruire nulla di solido che sia esule o estraneo al territorio nel e sul quale si intende portare avanti un progetto. È esattamente quello che sembra voler trasmettere al lettore Primavera con il suo racconto della famiglia dell’anziano Nino e di sua moglie Rosa. Due mondi che si incontrano e si fondono con il territorio, con il terreno sul quale si trova il vigneto primigenio da cui nascerà il loro vino, fulcro dell’intera azienda. Le conoscenze e le capacità di Rosa, piemontese di origine, si uniscono alla passione e alla tenacia di Nino. Insieme all’azienda i due costruiscono anche la loro famiglia. Ed è sulle vicende di quest’ultima che ruota il secondo fulcro del libro, intrecciato al primo. Cosicché Gibildonna risulta una vera e propria saga familiare che racconta le storie dei vari componenti la famiglia in un lasso temporale che va dal secondo Novecento ai nostri giorni. 

I componenti la famiglia Labò sono riusciti a cambiare le loro vite, passando dall’essere coloni a coltivatori diretti, grazie alla Riforma agraria del dopoguerra. Hanno vissute numerose difficoltà e affrontato diversi problemi interni ed esterni all’azienda fino ad arrivare a oggi. Un periodo storico in cui il problema dello sfruttamento dei lavoratori della terra si ripropone con più forza che mai. 

Il caporalato è un fenomeno che nel dibattito politico italiano è collegato esclusivamente all’immigrazione nel Mezzogiorno, ma di fatto è una pratica che esiste in Italia, almeno dagli anni ’70, e riguarda tutto il territorio nazionale. 

Il tema della Riforma fondiaria, della distribuzione della terra ai contadini, ha attraversato tutto il Novecento. Lo smembramento del latifondo appare lo strumento principale per trasferire le terre dai grandi proprietari che ne utilizzavano le rendite senza occuparsi di migliorare quantità e qualità dei prodotti, verso la piccola proprietà terriera, ritenuta più dinamica e interessata alla modernizzazione dell’agricoltura, preferita a soluzioni di tipo cooperativistico ritenute meno affidabili dal punto di vista politico.6

I dati forniti da ISTAT-RCFL rivelano che l’indicatore di irregolarità complessivo è pari all’11.3%, ma sale al 23.2% in ambito agricolo mentre nel lavoro domestico raggiunge addirittura il 51.8%. I lavoratori stranieri sono inseriti in settori in cui è più frequente il ricorso a forme di irregolarità e sfruttamento.7 Per cui è abbastanza chiaro che, all’incirca settanta anni dopo la Riforma, i terreni e l’agricoltura in Italia hanno visto una redistribuzione e un ammodernamento eppure sfruttamento lavorativo e caporalato persistono. 

Ma dietro e al di là di queste storture c’è tutto un mondo contadino che lavora, giorno dopo giorno, la terra e lo fa da generazioni. Come la famiglia Labò raccontata da Nunzio Primavera. Quattro generazioni che hanno sempre lavorato e lottato contro le avversità principalmente per restare nella legalità. Una determinazione che non conosce limiti, esattamente come la forza delle donne raccontate dall’autore, che hanno una tempra tale da riuscire a farsi artefici del proprio destino. Una forza silenziosa. Una marea che avanza e può cambiare il mondo. Per contro poi, ci sono i giovani, le nuove generazioni che invece urlano a gran voce la loro voglia di emergere. Due mondi opposti che, alla fin fine, a ben guardare, viaggiano sullo stesso binario. 

Il sottotitolo del libro di Primavera enuncia quello che sembra essere il fine ultimo del libro: raccontare l’evoluzione dell’agricoltura in Italia attraverso quanto accaduto a una famiglia molto legata alla terra e al vigneto e farlo per sottolineare l’importanza e l’utilità delle “vecchie” generazioni, la necessità della loro saggezza, la tenacia e la forza di una terza età che non desiste. E che non può proprio permettersi di farlo in un Paese, come l’Italia, dove il tasso di natalità è sotto i minimi storici e l’età media della popolazione è salita a livelli mai visti finora. Una terza età che proprio non può permettersi di mollare perché sulle cui spalle ancora grava il peso di buona parte del Paese. 


Il libro

Nunzio Primavera, Gibildonna. La terza età che non desiste, Laurana Editore, Milano, 2024.


1N. Primavera, La terra restituita ai contadini, Laurana Editore, Milano, 2020. 

2M. Ferrari Aggradi, La svolta economica della resistenza. Primi atti della politica di programmazione, Forni, Bologna, 1975. 

3T. Fanfani, La ricostruzione in Italia nel secondo dopoguerra. Provvedimenti e linee guida per la ripresa dell’agricoltura, Rivista di storia dell’agricoltura, vol.44, n°2, 2004.

4T. Fanfani, op.cit.

5G. Petino, Il tardo industrialismo in Sicilia, tra coesistenze e conflitti, AGEI – Geotema, 69, aprile 2023.

6F.C. Nigrelli, I paesaggi della riforma agraria dalla storia al progetto, in Quaderni 13 – I paesaggi della riforma agraria. Storia, pianificazione e gestione, F.C. Nigrelli e G. Bonini (a cura di), Edizioni Istituto Alcide Cervi, Gattatico (RE), 2017.

7Dati e info del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.



Articolo pubblicato su LuciaLibri.it


Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Domenico Starnone, Il vecchio al mare

Massimiliano Città, Agatino il guaritore


© 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Domenico Starnone, Il vecchio al mare

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Riflettere sulla vecchiaia è un resoconto di se stessi o dell’umanità? Per Domenico Starnone sembra ruotare tutto intorno alla fragilità umana.

Leggendo il titolo del romanzo di Starnone non si può non pensare all’opera quasi omonima di Ernest Hemingway (The old man and the sea – Il vecchio e il mare). Presumibilmente ci deve essere stato un rimando a quella letteratura, di cui Hemingway è stato un grande esponente, che molta importanza dava alle riflessioni, alle considerazioni, ai sentimenti e alle emozioni che sono tutti fattori importanti e determinanti dell’esistenza umana. Ne vanno a determinare, al contempo, la forza e la fragilità. Ed è proprio intorno a quest’ultima che l’autore sembra aver costruito il suo romanzo, il quale vede come protagonista uno scrittore ottuagenario alle prese con due tra i maggiori misteri dell’esistenza umana: la relazione con se stessi e quella con l’umanità. 

A tormentare lo scrittore ottandaduenne Nicola c’è anche il suo rapporto con i propri scritti che vorrebbe potessero sparire, essere cancellati e dimenticati. Ha sempre annotato tutte le sue riflessioni su dei quaderni con la matita ma la certezza, tale fino a poco tempo prima, di poter cancellare le sue parole è ormai labile. L’ennesima illusione disattesa che genera in lui uno sconforto profondo.

Da giovane, il suo maggior desiderio, la sua più grande illusione era scrivere le pecche di questo mondo per riuscire a cambiarlo, a migliorarlo. Ora lui è invecchiato e il mondo non ha fatto che peggiorare, diventando sempre più imperfetto. 

Imperfetto proprio come la spiaggia che fa da sfondo alla narrazione, vuota di turisti e di tutto il circo che ne deriva, appare a Nicola e al lettore luogo perfetto dove cercare e trovare i piccoli segni della vita nascosti tra i granelli di sabbia, sotto i sassi, tra le rocce o in mezzo al mare. Questo stesso mare che, nel libro di Starnone, appare al contempo come l’orizzonte verso cui tendere e l’immensa distesa d’acqua nella quale perdersi. 

Il racconto che l’autore affida al suo anziano protagonista è confuso come lui, è spossato come il suo corpo, annebbiato come la sua mente. Oggetti che diventano simboli e simboli che diventano emozioni in questo solitario gioco che coinvolge Nicola e la sua mente, sia quando è sveglio sia quando è sopito. Il dualismo sembra essere stata una componente predominante nella scrittura di Nicola, nella quale egli sempre inseriva uno sguardo rivolto al passato e, contemporaneamente, al futuro. Il tempo della narrazione sembra però quello della resa dei conti. Di Nicola con la vita. Un processo descritto da Starnone con dovizia di particolari, senza veli e senza remore mettendo a nudo l’anima di questo anziano scrittore rassegnato e combattivo, che mantiene in ogni fibra del suo essere il dualismo che lo caratterizza e che ha segnato la sua scrittura. Il suo essere scrittore. Narratore della vita. Che ha cercato di rappresentare la grandezza dell’esistenza umana attraverso la banalità del viver quotidiano. 

Il libro di Starnone si apre al lettore con il racconto di un accadimento che vede il protagonista rincorrere una carta dorata, una sorta di figurina. Prosegue con la narrazione di fatti e pensieri lungo una spiaggia fatta di nuvole, sabbia, spruzzi, schizzi, vento… Appare chiaro fin da subito che si tratta di simboli, utilizzati dall’autore per trasmettere al lettore il suo racconto. Il suo messaggio.

La corsa della figurina scintillante sulla rena asciutta ha determinato il destino, almeno quello nell’immediato lasso temporale, di Nicola. L’illusione di essere ancora agile e vigoroso lo ha riportato alla realtà, al suo essere annichilito.

Quando le carte affiancate a caso mi davano una storia in cui riconoscevo un senso, mi mettevo a scriverla; accumulai così parecchio materiale. Bastava lasciare che prendessero forma altre storie che s’incrociavano tra loro e ottenni così una specie di cruciverba fatto di figure anziché di lettere, in cui per di più ogni sequenza si può leggere nei due sensi” (I. Calvino, Il castello dei destini incrociati).

Le numerose storie raccontate o ascoltate dal protagonista possono essere lette e interpretate in mille modi che vanno dalla disfatta alla contemplazione della bellezza assoluta della vita.

L’evocazione del mare costituisce, nella produzione letteraria italiana delle Origini, un elemento inserito in un insieme spesso metaforico o, per lo meno, in un insieme di tropi che puntualmente consentono all’autore di indicare uno spazio, un limite o un confine. 

In numerose tradizioni religiose un’amorfa estensione d’acqua precede l’esistenza delle molteplici sostanze che riempiono l’universo, quasi che tutte le forme non siamo altro che la manifestazione di un liquido primordiale. L’acqua non è semplicemente il primo elemento: per il pensiero simbolico essa è una forza capace di sciogliere e unificare in sé ogni determinazione, come nei diari di viaggio le immagini della comunione dei beni non rivelano soltanto il desiderio del venir meno dell’ingiustizia, ma costituiscono anche lo schema dinamico in grado di fluidificare tutte le distinzioni, non solo nella società ma nell’intera materia del cosmo. Quando il tempo ha reso esauste le forze della natura, esse hanno bisogno di sciogliersi nel loro principio, per attingere di nuovo la potenza vitale dalla sostanza liquida di un sogno divino. Una pozza d’acqua è stata il primo specchio in cui l’uomo ha osservato tutto all’inverso. Il riflesso è un fattore di rovesciamento. Guardando il riverbero in superficie potremmo vedere il mondo come lo vede Dio e accorgerci che la più autentica ascesi è, in realtà, una discesa, forse una discesa nel profondo dell’acqua. A questo allude il simbolismo del battesimo. È l’acqua, infatti, a insegnare la reversibilità della morte. Nella fonte battesimale muore l’uomo vecchio e nasce l’uomo nuovo. Il simbolismo indica il dissolversi di un ente corrotto perché riemerga un essere incontaminato (G. Bossi,  Il simbolismo dell’acqua tra immaginario di viaggio e dimensione del sacro, DIALEGESTHAI – Rivista di Filosofia, 25 aprile 2007). 

Il protagonista del libro sembra un anziano-bambino che osserva il mondo per la prima volta, o quantomeno sembra essere la prima volta che riesce a guardarlo con occhi disincantati, liberi. 

Il racconto di Starnone è un viaggio intimistico nell’anima, nei ricordi e nei desideri di Nicola ma anche un viaggio intenso nelle persone da lui ricordate, incontrate, forse immaginate. Un viaggio simbolico certo ma non per questo meno rischioso di quello intrapreso davvero per mare.

Secondo Auden, uno degli elementi che caratterizzano in modo più netto la cultura della modernità, e la differenziano rispetto a quelle dei secoli precedenti, è costituito dall’atteggiamento assunto nei confronti del viaggio per mare. Se fin dall’età classica, per arrivare ai secoli immediatamente precedenti la “rivoluzione romantica”, il viaggio per mare è considerato un male necessario, l’attraversamento di ciò che separa ed estrania, l’uomo moderno, al contrario, sa che il mare è il luogo in cui avvengono gli eventi decisivi, i momenti di eterna scelta, la tentazione, la caduta e la redenzione (V. Di Martino, Figure del moderno: il viaggio per mare. Da Baudelaire a Gozzano, XII Congresso nazionale dell’ADI – Associazione degli italianisti, Roma, 17-20 settembre 2008).

Il libro di Starnone sembra raccontare il viaggio di Nicola nel suo “mare” mentale, senza spostarsi per luoghi e limiti ma non per questo privo di ostacoli, insidie e pericoli.


Il libro

Domenico Starnone, Il vecchio al mare, Einaudi, Torino, 2024


Articolo pubblicato sul numero 179 – agosto/settembre 2024 della rivista cartacea Leggere:Tutti.


Disclosure: Per l’immagine in evidenza, credits www.pixabay.com


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Ordine e caos: “Il castello dei destini incrociati” di Italo Calvino


© 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Massimiliano Città, Agatino il guaritore

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Un antico adagio afferma che la necessità aguzza l’ingegno. Di necessità il protagonista del libro di Città ne ha tanta. Fin dalla prima infanzia ha dovuto imparare a cavarsela da solo e, unitamente all’autonomia, ha imparato quanto può essere difficile stare al mondo se non si ha una rete di protezione. Senza l’affetto e la tutela di una vera famiglia, Agatino inizia a diventare sempre più creativo. Si inventa una vita e trova il suo posto nella società. Un piccola realtà quella che lo ospita. Un paesino di provincia non meglio identificato che, banalmente, può trovarsi in qualunque parte del mondo. Ed essere anche reale. Nel libro è una piccola realtà di provincia siciliana.

Nel libro l’autore racconta molte vite in realtà, ovvero quelle di tutti gli abitanti di Boschetto che intrecciano la loro con quella di Agatino. Persone che hanno difficoltà economiche o sociali, ferventi credenti o donne e uomini che hanno assoluto bisogno di credere in qualcosa, o in qualcuno. E Agatino riesce a capire le loro necessità, a essere ciò di cui hanno bisogno. Amico, confidente, usuraio, manipolatore, guaritore, santone… egli è tutto questo ma in realtà è tutt’altro che questo. 

Se molti credono di conoscerne il presente, del suo passato si sono perse le tracce. Chi è davvero Agatino il guaritore? Egli riesce sempre a trovare la soluzione ai problemi che le persone gli sottopongono. Ma cosa accade allorquando non ci riesce? Ecco allora che si intravede l’Agatino vero. Il personaggio che Massimiliano Città voleva raccontare e intorno al quale ha costruito la sua storia. Una narrazione intrecciata, come le vicende narrate, come le realtà piccole dove le vite, le storie sono legate le une alle altre, esattamente come le stesse esistenze. Man mano che nel libro si conoscono gli accadimenti di coloro che cercano l’aiuto di Agatino diventa sempre più evidente quanto poco si sa di lui. E se da un lato ciò contribuisce a creare un’aura di mistero intorno alla sua persona, dall’altro si insinua il sospetto o la paura che qualcosa di oscura possa accadere o sia accaduto. Dove condurranno questi presagi? Al male o al miracolo? Soccomberà Agatino sotto il peso delle responsabilità da lui stesso volute? Oppure riuscirà a essere all’altezza del compito e del risultato che tutti ormai si aspettano da lui? 

La trama del libro è molto fitta, intrecciata come le storie narrate. Riesce l’autore a tenere tutto insieme con uno stile narrativo chiaro e tutto sommato lineare, se si considerano anche i continui salti temporali che portano la narrazione ripetutamente avanti e indietro nel tempo. 

La funzione taumaturgica delle azioni di Agatino sembra servire soprattutto a lui e solo in seconda analisi alle persone che si dichiarano bisognose del suo aiuto. Alla fine tutti sembrano trarre beneficio dalle “guarigioni” di Agatino ma è un benessere non tanto e non solo fisico e/o mentale quanto “sociale”. Per questo egli diviene ben presto una necessità all’interno della piccola comunità nella quale si è rifugiato e dalla quale è stato il primo a trovare giovamento. Perché se è vero che tutti i suoi clienti/amici ricevono il suo aiuto e si illuminano di una luce nuova, lo è anche che Agatino stesso sembra illuminarsi attraverso le loro storie e brillare ancor di più all’interno della storia, del romanzo. La vicenda che Città ha voluto narrare parte senza dubbio da Agatino ma, quando sembra distaccarsene per parlare della vita e delle vicende degli altri personaggi, è sempre verso di lui che converge, grazie anche o forse proprio per le storie di vita narrate che si intrecciano con la storia di Agatino e la arricchiscono. 

Eppure, proprio nel loro essere interconnesse le storie di vita raccontate da Città potrebbero benissimo essere separate le une dalle altre, e funzionare egualmente bene. In questo il libro ricorda pubblicazioni di un genere caro a Strout o Steinbeck. Un intreccio di storie che sembrano funzionare perché legate insieme ma che, in realtà, singolarmente potrebbero funzionare anche meglio. O egualmente bene. Tutte insieme però contribuiscono a creare quell’atmosfera tipica e caratterizzante il libro, quasi fiabesca, surreale seppur molto concreta e verosimile alla realtà. 

Ed è proprio intorno alle riflessioni sulla realtà che Massimiliano Città sembra aver studiato i tratti del suo romanzo, un libro sociale, scritto raccontando una comunità con uno sguardo vagamente antropologico che ha messo in evidenza l’aspetto folkloristico dei luoghi e dei personaggi. 


Il libro

Massimiliano Città, Agatino il guaritore, Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2024.


Articolo pubblicato su LeggereTutti.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa de Il ramo e la foglia edizioni per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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“L’imperfetta” di Carmela Scotti

“L’appartamento del silenzio” di Gianni Verdoliva


© 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Eraldo Affinati, Le città del mondo

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Un viaggio alla scoperta del mondo attraverso trecento città vissute immaginate sognate amate odiate pensate. Questo è il libro di Affinati. Un percorso che il lettore potrà compiere insieme all’autore oppure inventarne uno proprio. 

Simbolicamente Affinati ha scelto di partire da New York, matrice urbana della modernità sfregiata e ricostruita, e concludere con Gerusalemme, una città in grado di riassumere tutti i grovigli irrisolti del mondo. Ogni descrizione di città è un romanzo in miniatura e si è quasi tentati di pensare di poterli leggere singolarmente, isolandoli gli uni dagli altri. Ma in questo risiede la grandezza di questo libro, nella consapevolezza di quanto ogni luogo sia legato all’altro, in un’interconnessione che unisce siti e persone in questo enorme fragile e incasinato pianeta. 

Il ventunesimo secolo si è aperto con nuove forme di lotta armata: attacchi terroristici che hanno confini labili sia all’interno dei perimetri di guerra che al di fuori. L’esempio più noto è stato l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, simbolo di questa nuova forma di violenza liquida che ha rivelato in modo drammatico l’esistenza di una consistente rete terroristica globale. Lo scopo non è tanto e non solo l’occupazione di territori e il controllo di essi, quanto la distruzione delle ideologie religiose storiche e culturali di un popolo. Una vera e propria “pulizia culturale”. L’identificazione di una comunità con il proprio patrimonio culturale è stata sempre un fondamentale fattore di coesione sociale.

Si è pensato che questo sarebbe stato il nuovo modo di combattere le guerre e invece sono tornate anche le guerre combattute tra stati. Il viaggio di Affinati da New York giunge a Charkiv dove incombe il fantasma della seconda guerra mondiale. 

Molti studiosi hanno sostenuto che notevole influenza sulla genesi e la crescita dell’imperialismo ebbero lo sviluppo e la larga diffusione nei principali paesi europei del nazionalismo, considerato un elemento inscindibile dall’idea stessa di imperialismo (Bruna Bagnato, L’Europa e il mondo. Origini, sviluppo e crisi dell’imperialismo coloniale, Le Monnier Università, Firenze, 2006).

A Bruxelles, nella città dove si decidono i destini dell’Europa, ho avuto la sensazione di ascoltare il battito del cuore di tenebra del Vecchio Continente: man mano che scendevo lungo le strade che dalla stazione conducono in centro, dove ci sono i palazzi del potere, gli alberghi più lussuosi e i centri commerciali sempre attivi, scrutinavo dentro me stesso la storia tormentata di questo piccolo paese, la cui tragica avventura coloniale, soprattutto congolese, è scritta a caratteri indelebili nelle fisionomie di molti cittadini belgi, i cui genitori giunsero qui, provenienti da Kinshasa e dintorni, alla ricerca di lavoro e dignità, come fecero molti italiani, compreso mio nonno, che circa cent’anni fa vennero ingaggiati nelle miniere di carbone, a rischio della loro stessa vita. Dall’atmosfera turistica e festante della Grand Place feci presto a raggiungere Molenbeck, il quartiere di origine dei terroristi che nel novembre 2015 compirono le stragi di Parigi. Se non fosse stato per la pulizia delle strade, avrei potuto essere a Rabat o Algeri. Donne col velo, uomini barbuti, bancarelle di frutta e dolci.

Tra le strade di Bruxelles Affinati sembra incontrare il volto storico dell’imperialismo e quello contemporaneo dei flussi migratori. 

I migranti sono letteralmente prodotti dall’ordine del nostro legiferare sul mondo e ridotti a un fattore esclusivamente economico o legati a una crisi politica. I migranti, affermando il loro diritto di muoversi migrare fuggire spostarsi, non solo rompono gli schemi e si oppongono al rispetto del posto assegnato loro dalla storia, ma segnalano anche la modalità precaria della vita planetaria. La nascita della modernità non sta unilateralmente nella storia dell’espansione europea e nelle modalità di rifacimento del mondo a sua immagine e somiglianza, ma anche e nella stessa misura nella cruda repressione dell’alterità etnica religiosa culturale, nella brutalità della diaspora nera africana, nello schiavismo razzista atlantico, nei pogrom etnici e nel saccheggio imperiale del globo. Quando l’immaginario dell’Occidente, per dirla con Edward Said, non sta più fisicamente altrove ma migra dalla periferia per eleggere il proprio domicilio nella metropoli contemporanea, allora la nostra storia cambia, è costretta a farlo (Iain Chambers, Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’era postcoloniale, Meltemi, Sesto San Giovanni – Milano, 2018). 

Washington è la capitale degli Usa e, come tale, potrebbe simbolicamente esserlo del mondo intero. Percorrerla a piedi significa riflettere sulla potenza e la fragilità del potere. Washington è la clinica dell’inconscio contemporaneo. Se volessi psicoanalizzare l’America, dovresti venire qui, davanti ai cancelli della Casa Bianca: anche architettonicamente, il più grande computer portatile della Terra.”

L’America, figlia dell’imperialismo più sentito, patria del capitalismo più estremo eppure identificata come simbolo della libertà, della democrazia. Un Paese che della lotta agli estremismi e al terrorismo ne ha fatto una vera e propria crociata. Anzi una guerra. Una città che, per Affinati, ci porta nell’inconscio contemporaneo. “il più grande computer portatile della Terra”, ha definito l’autore la Casa Bianca e la sua famigerata stanza dei bottoni. Ma cosa rappresenta davvero l’America per il mondo intero in questo Terzo Millennio?

All’inizio del XXI secolo, la Storia ha svoltato, ma l’Occidente ancora si rifiuta di ammetterlo e di adattarsi a questa “nuova epoca storica”. La quota occidentale dell’economia globale si riduce e continuerà a farlo. Fino a tempi recenti, gran parte della crescita globale è venuta dalle economie del G7 ma, negli ultimi due decenni, la situazione si è invertita. Nel 2015 le economie del G7 hanno contribuito alla crescita globale per il 31.5% mentre quelle degli E7 per il 36.3% (Kishore Mahbubani, Occidente e Oriente. Chi vince e chi perde, Bocconi Editore, Milano, 2019). 

L’America ha costruito il più grande ceto medio che il mondo abbia mai conosciuto e lo hanno fatto gli stessi americani, con il duro lavoro e il supporto di politiche governative volte a creare maggiori opportunità per milioni di persone. Ma ora tutta questa gente è, giustamente, arrabbiata e preoccupata. L’attuale situazione sta impoverendo il ceto medio e distruggendo la democrazia. Una condizione analoga a quella di tanti altri paesi occidentali, compresa l’Italia. Ovvero in tutte o quasi le potenze del vecchio mondo (Elizabeth Warren, Questa lotta è la nostra lotta, Garzanti, Milano, 2020). 

Nel mondo post-bipolare del XXI secolo, lo stato nazionale continua a essere l’incarnazione istituzionale dell’autorità politica, l’attore chiave delle relazioni internazionali e il contesto dato per scontato della vita quotidiana degli individui nella maggior parte del mondo. Non c’è quindi da stupirsi se la sua ideologia, il nazionalismo, sia altrettanto viva e vitale e costituisca uno strumento potente di creazione di identità, mobilitazione collettiva e criterio di giudizio dell’agire politico. La questione del nazionalismo è al centro delle due principali contraddizioni della odierna politica dell’Unione Europea: costruire un’unione sovranazionale usando gli stati nazionali come elementi costitutivi ma liberandosi dei nazionalismi e trasferire porzioni crescenti di sovranità nazionale dal livello statale a quello sopranazionale senza avere dei cittadini consapevoli e consenzienti di ciò che sta o dovrebbe accadere (Alberto Martinelli, I nazionalismi e l’unità europea, Istituto lombardo (Rend. Lettere) 147, Milano, 2013). 

Norimberga è oggi un gioiellino conservativo in bacheca per turisti che viaggiano in torpedone. Molte città tedesche assomigliano a questa che tuttavia resta unica a causa dello straordinario processo che vi si svolse a conclusione della seconda guerra mondiale quando le potenze vincitrici misero alla sbarra quella sconfitta secondo un procedimento giuridico anomalo ma necessario, vista la dimensione inaudita della Shoah.”

Dal Nuovo Mondo al Sudafrica, dalla Germania a Israele, fino al Sudan, gli stati coloniali e gli stati-nazione si sono costituiti sulla politicizzazione di una maggioranza religiosa o etnica e a spese delle minoranze. Oggi il mondo può essere governato tanto dalle reti sovranazionali e internazionali quanto dai governi degli stati-nazione, ma ciò che queste reti tengono unito sono ancora i cittadini degli stati-nazioni. Abbracciare la modernità ha significato abbracciare la condizione epistemica che gli europei hanno creato per definire una nazione come civilizzata e, quindi, giustificare l’espansione della nazione a spese degli “incivili”. La sostanza di questa condizione epistemica risiede nelle soggettivazioni politiche che essa impone (Anthony Pagden, Oltre gli stati. Poteri, popoli e ordine globale, Il Mulino, Bologna, 2023).

Il XX secolo è stato un periodo di straordinarie conquiste civili sociali scientifiche, ma è stato anche un secolo in cui più volte il potere politico, per pure esigenze di dominio, ha schiacciato i diritti umani fondamentali. All’inizio del secolo gli inglesi segregarono in Sudafrica più di 120mila boeri. Negli stessi anni gli Stati Uniti davano avvio a campagne di sterilizzazione di persone portatrici di handicap e di malati di mente. Nel 1923 Lenin inaugura in Unione Sovietica le attività dei Gulag. Le democrazie scandinave, tra gli anni ’30 e gli anni ’70 realizzano pratiche di sterilizzazione dei “diversi”. Nel 1939 Hitler dà il via allo sterminio di oltre 10milioni di persone. A partire dal 1910, in Sudafrica i bianchi, soprattutto boeri, segregano i neri con una feroce legislazione razziale. Questo breve e incompleto elenco quadro di sintesi serve a capire quale sia la dimensione dei fenomeni di sopraffazione dell’uomo sull’uomo (La deformazione dell’Altro nelle ideologie politiche del XX secolo e la sua attualità nel secolo che si apre, I Corso multidisciplinare di educazione allo sviluppo, Firenze, 3/9/2000). 

La stazione di Kyoto è fatta di vetro e cemento armato, cubi rifrangenti nella città che il segretario di guerra statunitense Henry Stimson decise di risparmiare dal disastro atomico dopo averla ammirata nel 1926 insieme alla moglie. Tornando in albergo ripenso alla guerra americana contro il Giappone: si fronteggiavano, usando le stesse armi, due soldati dalle opposte concezioni. Gli dei, o chi per loro, avranno sghignazzato, seduti a gambe larghe sui gloriosi scanni, assistendo a questo strano spettacolo.”


Il libro

Eraldo Affinati, Le città del mondo, Feltrinelli, Milano, 2024


Articolo pubblicato sul numero di luglio 2024 della rivista cartacea Leggere:Tutti.


Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com



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Mahmood Mamdani, Né coloni né nativi. Lo Stato-nazione e le sue minoranze permanenti

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Anthony Pagden, Oltre gli stati. Poteri, popoli e ordine globale

L’occidentalizzazione del mondo non significa che l’Occidente sta diventando il mondo. “Paesaggi migratori” di Iain Chambers (Meltemi, 2018)

Chi perde e chi vince nella nuova epoca storica? “Occidente e Oriente” di Kishore Mahbubani (Bocconi Editore, 2019)

La lotta per salvare la classe media è la nostra lotta? “Questa lotta è la nostra lotta” di Elizabeth Warren (Garzanti, 2020)

Simon Winchester, Terra. Da bene comune a proprietà privata, da luogo di dominio a spazio di lotta

È mai davvero esistita la fine del colonialismo?


© 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Duilio Scalici, Ore cutanee

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Una favola moderna dal sapore retrò e con risvolti contemporanei. Così potrebbe essere definito il libro di Duilio Scalici. Un libro particolare, per genere e stile, che per essere compreso forse va riletto oppure letto lentamente, intervallando la lettura con pause utili a districare i nodi del racconto e della scrittura.

Quasi come se il lettore stesse percorrendo anch’egli il lungo corridoio dalle porte grigie. Anche a lui quindi serve tempo per assaporare le potenzialità della porta rossa, ovvero del libro di Scalici. Non che debba diventare un’ossessione anche per il lettore ma, a ben guardare, può rappresentare un’apertura su un mondo diverso, inaspettato, incompreso e spesso equivocato. 

Duilio Scalici ha scritto la sua storia intorno a un unico tema principale: l’unicità. Delle persone. Dell’amore. Per laprotagonista, seguire questa strada, ha rappresentato la scoperta di nuovi mondi ma, soprattutto, la possibilità dell’incontro che ha cambiato la sua vita e forse anche il suo destino. 

Scalici inizia la narrazione introducendo la porta rossa ma raccontando anche nel dettaglio l’ambiente lavorativo dellaprotagonista. Una casa di riposo dove soggiornano degli anziani. La panoramica sulla vita e sul mondo e, per forza di cose, osservata da un’ottica di decadimento. Ed è proprio in queste anse buie che si insinua ben presto l’interesse verso la porta rossa, sempre chiusa, volutamente tenuta chiusa a celare un qualcosa che diviene l’interesse maggiore di Ninfa.

Quella attuale è una modernità che in un tempo limitato ha conosciuto molteplici trasformazioni. Alle disuguaglianze tradizionali, definite in termini di potere e di risorse materiali e simboliche, si aggiungono altre fragilità, spesso legate alle risorse relazionali dell’individuo e alla capacità di utilizzare tali risorse come contrasto alle difficoltà e come chance per migliorare le proprie condizioni di vita. Questo accade perché le appartenenze – quelle relazioni che danno a ognuno la dimensione del senso e costituiscono un sistema di orientamento, quelle ascritte e quelle che si cercano – si sono modificate e possono produrre effetti imprevisti. Per un verso infatti aumentano: nel senso che l’individuo moderno non si inserisce più in una sola comunità o in un unico gruppo di riferimento, ma anche nel senso che la multiaffiliazione risponde a un’utilità o a un’opportunità. Piuttosto che confermare l’accresciuta libertà individuale, questo modo di esperire l’appartenenza crea frammentazione. Per altro verso, a volte, le relazioni più autentiche possono diventare delle legature, dei vincoli, degli ostacoli rispetto alle possibilità che la vita moderna offre.1

Esattamente come accade al personaggio di Scalici, intrappolato tra le strette maglie di un’esistenza e di un ruolo costruiti per lei da una società precostituita e nei quali proprio non si riconosce. Osserva il mondo con gli occhi di chi ancora vuole inventarsela la propria esistenza. Simbolico a tale riguardo è il dialogo con il partigiano, ospite della struttura, il quale invece non avverte più l’esigenza di indagare per cambiare consigliando addirittura anche a Ninfa di lasciar perdere la porta rossa. Consiglio che ovviamente lei non segue. A vincere è la curiosità così, tassello dopo tassello, scopre il mistero che si cela dietro la porta rossa. Chiusa e misteriosa.

Le mura urbiche hanno avuto sempre il senso e il significato di una cesura, di un rapporto interrotto tra territorio e insediamento racchiuso. Questo valore più generale e di partenza, per quanto filtrato e quasi interpolato dalla funzionalità militare e difensiva che tali strutture dovevano per lo più istituzionalmente avere, lo si ritrova costante ovunque, si può dire in ogni epoca, esasperato poi nel fenomeno dell’incastellamento medioevale e delle cittadelle fortificate coeve. Ma le cortine di cinta non potevano essere di per sé solo diversità ed esclusione, separatezza. Significano anche, necessariamente, un termine di mediazione e di correlazione, evidente per la stessa indispensabile presenza delle aperture degli ingressi, che si pongono come un riferimento naturale e “determinato” di scambio e di rapporto. La porta si carica in questo senso, oltre che del semplice ruolo funzionale di passaggio, pure di un valore traslato, di occhio e di diaframma rivolti a inquadrare e a fornire, quasi fotografandola, l’immagine della realtà interno/esterno nella doppia sua direzione.2

Anche nella simbologia cristiana la porta ha una valenza molto caratterizzante: «Io sono la porta, se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (capitolo 10 del vangelo secondo Giovanni). Per la comunità cristiana, la Porta Santa non è solo lo spazio del sacro, al quale accostarsi con rispetto, con comportamenti e con vestiti adeguati, ma è segno della comunione che lega ogni credente a Cristo: è il luogo dell’incontro e del dialogo, della riconciliazione e della pace che attende la visita di ogni pellegrino, lo spazio della Chiesa come comunità dei fedeli.

Nel romanzo di Scalici la porta rossa sembra condurre la protagonista alla riconciliazione con se stessa. Ma prima ancora di questo, ciò che ha ingenerato è un vortice emotivo che neanche lei riusciva a spiegare.

«La vista dell’anonima porta di vetro e metallo della palazzina dove si trovava il mio appartamento fu la prima cosa che mi distrasse da quanto accaduto quel giorno, Era anch’essa una porta, ma non mi suscitava alcuna emozione. Nessun mistero celava, se oltrepassata. Non so perché, ma un vuoto si aggrappò ai miei pensieri.»

L’oscurità rappresenta una paura fondamentale dell’esistenza. Il buio è la manifestazione dell’ignoto, e questo è ciò che l’uomo teme sopra ogni cosa: la consapevolezza di non sapere cosa si annidi nello spazio appena più in là. Superare l’incertezza e prevedere l’utilità a partire da dati apparentemente inutili è verosimilmente il compito fondamentale che il cervello umano, come pure quello di altre specie, si è evoluto per assolvere, ragione per cui il fatto di stare nell’incertezza è esattamente ciò che il nostro cervello si è evoluto per evitare. Non è soltanto l’oscurità vera e propria che si cerca di evitare, ma anche il timore che assale quando si entra nell’incertezza, quando cioè si è all’oscuro in senso metaforico.3

Scalici immagina che la paura mista a curiosità per l’ignoto e l’incertezza, rappresentati dalla porta rossa, ingenerino nella ragazza un turbinio di emozioni tali da ripercuotersi sul corpo, sul fisico provato già di primo mattino. Stanco, spossato. Dubbioso e intimorito. 

«L’ossessione per la porta rossa e il programma di fantasmi che mi aveva conciliato il sonno erano più che sufficienti. Era meglio non pensarci più. La sensazione che mi aveva lasciato in corpo non era affatto piacevole.»

Il malessere fisico e psichico di Ninfa continua fino al momento in cui varca la soglia della stanza fino a quel momento chiusa dalla porta rossa. 

Il ritmo della narrazione di Ore cutanee è lento. Scalici scandisce ogni gesto della protagonista come anche ogni suo pensiero. Ogni azione segue un ordine cronologico ben definito, il ritmo della vita quotidiana di Ninfa. Ordinario. Abitudinario. Eppure il tutto appare sempre indefinito, sospeso. Come appartenente a un ordine fuori dall’ordinario, lontano dal quotidiano. Esule finanche dalla stessa vita. Esattamente come appaiono Zoe e le sue storie. 

Il libro racconta dell’amore certo ma non è una semplice storia d’amore. È la narrazione della bellezza, in tutte le sue forme, del tempo e, soprattutto, del coraggio. Di scegliere. Di vivere

La bellezza non basta. È questa la grande scoperta del Rinascimento. Gli artisti e gli scrittori rinascimentali scavano il marmo, stendono la pittura, infilano collane di parole. Ma il loro segreto non è fatto di pietra, di colori, d’inchiostro. Assieme alla bellezza, impastano emozioni. E le mettono per iscritto. Le dipingono. Le disegnano. Le modellano.4 Duilio Scalici le ha raccontate queste tanto necessarie emozioni.


Il libro

Duilio Scalici, Ore cutanee, Augh Edizioni, Viterbo, prima edizione 2022. Prefazione di Marina Rei.


1S. Licursi, Gli anziani nella modernità, in P. Fantozzi, S. Licursi, G. Marcello, A partire dagli anziani, Liberetà, Roma, 2013.

2G. Rosada, Mura, porte e archi nella decima regio: significati e correlazioni areali, Atti del convegno di Trieste (13-15 marzo 1987), Publications de l’École Française de Rome, Roma 1990.

3B. Lotto, Percezioni. Come il cervello costruisce il mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 2017.

4G. Busi, S. Greco, Amarsi. Seduzione e desiderio nel Rinascimento, Il Mulino, Bologna, 2022.


Disclosure: Per l’immagine in evidenza, credits www.pixabay.com


Articolo pubblicato su LuciaLibri.it


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Il racconto delle occasioni di vita perdute in “Manuale di fisica e buone maniere” di Daniele Germani (D&M, 2016)

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“L’imperfetta” di Carmela Scotti


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Franz Kafka, Max Brod, Un altro scrivere. Lettere 1904-1924

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Franz Kafka e Max Brod si conobbero, non ancora ventenni, nel 1902. Da quel primo incontro nacque un’amicizia. Un rapporto asimmetrico: da un lato un intellettuale – Brod – che andava riscuotendo un crescente successo fino ad apparire agli occhi dei suoi contemporanei una figura di prima grandezza nella cultura praghese di lingua tedesca, dall’altro uno scrittore che viveva con un misto di vergogna e orgogliosa consapevolezza il proprio straordinario talento. 

In un fitto intreccio di confidenze, aneddoti, riflessioni, Kafka condivide con Brod ogni aspetto della sua esistenza, dalla composizione dei romanzi fino alle sue tormentate storie d’amore. Nelle reciproche incomprensioni, nelle differenze del modo di guardare alla vita e alla scrittura, la disparità tra i due autori affiora di continuo, tanto che davvero potrebbe sembrare, come osservò Walter Benjamin, che Kafka abbia voluto porre con questa amicizia un punto di domanda accanto alla sua vita.

Kafka e Brod concepiscono la vita, la scrittura e il legame fra esse in maniera radicalmente contrapposta. Brod era cresciuto in una famiglia alto-borghese nella quale l’offerta culturale era ricca e variegata. Socievole, spigliato, estroverso e con i tratti particolari e stereotipi del letterato decadente, egli suscita nel ritroso Kafka un sentimento misto di sincero apprezzamento e di avversione, che resterà una costante nel loro ventennale rapporto di amicizia. 

La preghiera che Kafka rivolge a Brod in momenti particolarmente critici della sua malattia, chiedendogli per ben due volte di bruciare ogni suo scritto, la volontà di scomparire totalmente dalla memoria dell’umanità, non è tanto legata al sentimento di vergogna che accompagna la sua intera esistenza, tanto meno è segnata dalla implicita consapevolezza che l’amico farà l’esatto contrario, come alcuni commentatori hanno rilevato (E. Heller, S. Fisher). Si tratta piuttosto di un’esigenza profondamente legata a una concezione della scrittura come discesa negli abissi, come condanna e redenzione, come concezione pervasa da uno spiccato narcisismo spinto fino al limite dell’autocommiserazione. 

Sottolineano Rispoli e Zenobi nella introduzione quanto è a questa vanità, a questa necessità scaturita da una sfrenata ansia di godimento che Kafka non vuole soccombere, perché se in vita ciò significa combattere la paura della morte e cioè, sostanzialmente, rinunciare a vivere nello scrivere, tale funzione resta indissolubilmente legata alla vita terrena dello scrittore e non può che finire con essa. 

Max Brod avrebbe tracciato una netta separazione tra le proprie espressioni pubbliche (opere) e quelle private (il diario e le lettere). Di qui il minor valore letterario delle sue lettere.1 Quelle di Kafka testimoniano invece di continuo il trionfo della letteratura sulla vita, il trionfo dello scrittore sull’uomo. Per questo esse sono a tutti gli effetti parte dell’opera.2

In Kafka questo trionfo si traduce nella tendenza a fare di ogni lettera l’occasione per creare un brano letterario, attraverso un processo in cui ogni cosa, ogni esperienza – e da questo non sono esclusi il proprio corpo e la propria persona – diventa segno e metafora. 

A Praga Kafka vive a diretto contatto con le teorie che andavano rivoluzionando la realtà del mondo scientifico e che, grazie alla fenomenologia e alla psicologia, riflettono sulle percezioni e sulla vita cosciente autoconsapevole. Le indagini che intrecciano fisica e riflessione filosofica pongono dinanzi ai paradossi di una realtà che smentisce i sensi non solo scoprendo nuove leggi fisiche ma pure zone di latenza che fanno segno a un mondo che sfugge alla psicologia descrittiva. Kafka ha sempre mostrato interesse per tutte le manifestazioni di vita interiore e diffidenza per le costruzioni onnivore e macchinose. La sua letteratura, le annotazioni di diario, le missive, i frammenti, gli aforismi non fanno che esplorare il divenire cosciente di fatti ed eventi, distinti dalle percezioni sensoriali come pure dal processo rappresentativo e generati altrove.

La complementarità che nella fisica del Novecento travolge ogni aspettativa legata ai sensi erode il fondamento di ciò che comunemente chiamiamo realtà esterna poiché comporta l’impossibilità di determinare la natura di un fenomeno in maniera univoca. Se saltano causalità, non-contraddizione, località, simultaneità di spazio e tempo, il soggetto che conosce perde le coordinate di riferimento del suo proprio orizzonte fisico e interiore. Greenberg considera la complementarità uno strumento adatto allo studio della letteratura di Kafka. Alla complementarità si potrebbe aggiungere la prospettiva psicoanalitica per cui il soggetto della conoscenza si trova incagliato in una situazione paradossale e indecidibile. Bisogna indagare come questa complementarità, estranea all’Io corporeo, ai sensi, alla nostra immagine allo specchio, costituisca lo sfondo irrappresentabile dei processi creativi.3

Vi è un aspetto che ha particolarmente colpito Rispoli e Zenobi del carteggio tra Kafka e Brod, ovvero l’assenza. L’opera letteraria di Kafka, una pur minima discussione su di essa, risulta del tutto esclusa, salvo brevi accenni, dallo scambio epistolare. In realtà sono poco numerose anche le lettere in cui si affronta il tema della letteratura. È dunque molto probabile che Kafka abbia voluto costruire una sorta di muro. Un simile processo di preservazione agisce non solo riguardo le opere concluse, ma anche in merito al proprio processo di creazione letteraria. Il suo scrivere è un lavoro notturno, una discesa agli inferi che in una condivisione con l’altro non potrebbe trovare che il proprio annientamento. 

«Io non ho un interesse letterario, ma sono fatto di letteratura, non sono e non posso essere altro.» (Franz Kafka)

Per Kafka è lo stile a far parlare il corpo in una sua verità, a conferirgli ritmo e pause. Nel momento della scrittura il cogito deve essere tenuto a bada per non interferire con il godimento. Il ricorso alla punteggiatura come ad altri segni paragrafematici, l’attenzione per gli elementi prosodici, i tratti sovrasegmentali, l’abitudine di illustrare le sue scritture con schizzi a penna ha funzione pittogrammatico-auditiva. Parlare di rappresentazione tenendo conto del soggetto dell’inconscio e delle sue interferenze nella vita vigile comporta pertanto una torsione logica che mette in discussione i concetti. La realtà psichica è attraversata da parte a parte non solo dalla mancanza, dal senso della perdita ma proprio per questo, e soprattutto, dalla tendenza allucinatoria a negare, denegare o forcludere il vuoto costitutivo della soggettività. L’apertura verso l’oggetto di soddisfacimento allucinatorio non può aver luogo se non in condizioni particolari, quali lo stato di sonno o quegli stati semi-oniroidi che strutturano i processi creativi. Ne consegue che l’esame di realtà consiste in un incessante lavoro di filtraggio, atto a raggiungere un grado di omeostasi, una sorta di bilanciamento tollerabile tra stimoli endogeni ed esogeni. Fin dalle prime scritture si misura l’inadeguatezza del limite imposto dal principio di realtà che è sempre frutto di un accomodamento. Si tratta di stare nelle cose prima che l’Io dell’appercezione cominci a raccontarsi. Addirittura stare nelle cose prima di esistere per farle esistere. Dismettere il narcisismo del controllo auto-consapevole per stare presso le cose e guadagnare quella stabilità che rende pervie, elastiche e porose le sinapsi di connessione nel reticolo del paraeccitazione. Si tratta, infine, di stare appena un poco fuori di sé presso di sé per incontrarsi là dove non ci si aspetta ed è questo il lavoro dell’artista, dello psicoanalista e del poeta.4

Mentre per Brod la letteratura e il sionismo sono una cosa sola, per Kafka al contrario la letteratura, la propria solitaria attività di scrittore, è esattamente ciò che lo preserva fin da principio da un’adesione al sionismo, facendosi piuttosto momento di resistenza a ogni propaganda nazionalistica e a ogni strumentalizzazione della parola. 

Fin dal 1911, abbandonate le posizioni del cosiddetto «indifferentismo», Max Brod aveva risposto al richiamo di Martin Buber e del suo sionismo culturale. Ciò significava guardare con riprovazione o quantomeno con sospetto a quegli intellettuali ebraici avviati a un’assimilazione in cui ogni identità e ogni appartenenza a una patria e a un popolo andavano confondendosi in un atteggiamento cosmopolita. Sottolineano Rispoli e Zenobi quanto il difficile tentativo di delineare il profilo degli scrittori ebraici di lingua tedesca, dando vita a uno spazio letterario idealmente separato dalla cultura germanica, fu naturalmente anche un tentativo di risposta al montante antisemitismo. Tuttavia, per molti versi le tesi sostenute dal sionismo culturale finivano per essere tutt’altro che incompatibili con certe forme di nazionalismo germanico radicalmente antisemita: comune a entrambe le tendenze era il rifiuto di un cosmopolitismo in cui venissero meno le tradizionali identità, si trattava cioè della radicale affermazione di uno spirito nazionale che doveva mantenersi distinto da ogni contaminazione. 

Simili affinità erano tutt’altro che segrete se si pensa che nella stessa «Selbstwehr» (la rivista con cui collaborava Brod) si parlava di un patto di alleanza con gli ambienti culturali più conservatori, il cui fine era appunto quello di stanare gli ebrei ormai impregnati di cultura tedesca, spingendoli a riconoscere le proprie origini.5

Soffermarsi sulla parabola della scrittura kafkiana consente di accorgersi che quanto più si fa enigmatica tanto più diventa la cifra della solitudine dell’ebreo occidentale senza memoria e senza radici, della stanchezza dell’intellettuale nei confronti di un tempo avvertito come rassegnato perché incapace di trovare un riscatto, della inesausta ricerca della verità del proprio tempo che passa attraverso la scrittura. E, in particolare, la lotta contro la modernità dispiegata, contro i suoi apparati burocratici e i meccanismi di controllo e di potere, che avvinghiano l’uomo facendolo sentire «nessuno», come avviene nell’opera il Processo, diventa l’espressione di quella ebraicità ai margini, su cui tanto ha insistito Arendt quando l’ha esemplificata nella figura del paria.

È nel mettere a tema l’esclusione e l’isolamento che Kafka intercetta la via per una nuova consapevolezza dell’ebraicità, dopo le stagioni dell’assimilazione e del ghetto, quella che passa attraverso l’adesione a un difficile sionismo e a una letteratura militante che celebra il valore dell’arte quando resiste alla barbarie del proprio tempo. Del resto, appartenere a quella “età ebraico-occidentale”, la westjüdische Zeit, che comprende i primi decenni del Novecento, significa percepire sulla propria pelle la negatività del proprio tempo e della propria condizione. Con questa espressione lo scrittore descrive la situazione umana e morale degli ebrei di lingua tedesca, ovvero gli ebrei di Praga e di lui stesso, il “più occidentale” dei suoi stessi correligionari e per questo incapace di sentirsi pienamente a casa, sospeso com’era tra l’ebraicità occidentale e la cultura assimilata, fra l’ebraicità orientale e il sionismo.6

Ciò che ha costretto Kafka a tradurre nella scrittura l’atmosfera ambigua della città e ad avvertire il peso di una storicità decaduta o assente è il vivere non tanto dentro un crogiuolo di culture, ma dentro un ebraismo circoscritto e isolato. 

Lontano dalla realtà difficile dell’assimilazione e tuttavia investito dalla urgenza di farsi carico della crisi della identità ebraica, ancor prima dell’esplosione drammatica della follia nazista, lo scrittore traduce questa realtà antinomica dentro una prosa lucida, pulita, razionale che non cede mai all’innamoramento della parola o della prosa epica. La tensione che si instaura tra la pulizia formale del testo e l’ermeticità di una rappresentazione che immobilizza il lettore nella esperienza dell’assurdo e di figure senza tempo rivela la lotta dello scrittore contro il caos e il disordine della storia. Una scrittura che nel prendersi in carico la paura di chi non riesce a comprendere cosa sta accadendo, preferisce differire parlando lo stesso linguaggio razionale ed efficiente che la modernità occidentale aveva inventato insieme al treno, alla macchina e all’aereo. Opere con cui si cerca di dissolvere le inquietudini e le menzogne, mentre la scrittura ingaggia con esse una lotta simile a quella “con gli spettri”, necessitata da un interno bisogno di verità che ricerca parole in grado di accoglierla.7

Uno dei tanti spettri indagati da Kafka è per certo la tubercolosi. Proprio lo sgomento davanti alla mancanza di senso di questo evento scatena la ricerca di una interpretazione, la ricerca dunque di fare della malattia una metafora.8 Kafka fin da principio si adopra a ricercarvi un significato e per questo vuole vedere nella lesione polmonare “soltanto” un Sinnbild, un simbolo, tanto che la malattia viene interpretata in un passo del diario come «la possibilità, se pure questa esiste, di incominciare». La malattia diviene quindi per molti versi espressione somatica dell’incapacità di aderire ai valori della comunità. Essa è simbolo dell’inadeguatezza alla vita borghese nel seno della comunità ed è anche dolorosa e palese confutazione di una propaganda, quella sionista, che – sul modello del culto del corpo e dell’attività fisica portato avanti dalla pedagogia legata alla Jugendbewegung e alle organizzazioni nazionalistiche europee (dalle Turngesellschaftengermaniche ai Sokol cechi) – era tra le altre cose volta a coltivare il vigore fisico del popolo ebraico. 

In questo Rispoli e Zenobi suggeriscono la possibilità di osservare una qualche forma di convergenza tra Kafka e Brod: per entrambi infatti la tubercolosi non è solo affezione che colpisce i polmoni, ma diviene sintomo di qualcosa di diverso. Solo che mentre per Brod essa va superata, per Kafka la malattia è anche ciò che gli consente di affrontare i propri fallimenti e la pressione che ne deriva, l’incapacità di fare parte del popolo e della nazione. 

Ecco allora che la tubercolosi che ha colpito Kafka diventa metafora, manifestazione fisica di un più ampio disagio, dell’inadeguatezza a rientrare in seno a una comunità attraverso il matrimonio e la rinuncia alla propria solitaria esistenza.9

L’impegno di vivere e rappresentare il negativo del proprio tempo emerge in ogni piega dell’opera di Franz Kafka. Del negativo, del nulla, dell’assurdo, del senso e del paradossale assurgere del negativo Kafka fu l’interprete e il poeta.10Mentre per Kafka Max Brod costituisce uno straordinario medium di accesso diretto a tutto ciò che nella realtà egli esperiva come mediato, per Brod l’amico era capace, come un sensibilissimo reagente chimico, di portare alla luce i moventi, anche più reconditi, del suo agire. 

Il libro

Franz Kafka, Max Brod, Un altro scrivere. Lettere 1904-1924, Neri Pozza Editore, Vicenza, seconda edizione 2024.

Traduzione e Introduzione di Marco Rispoli e Luca Zenobi. 

Titolo originale: Max Brod – Franz Kafka. Eine freundschaft. Briefwechsel

1M. Pasley, Nachwort in Max Brod – Franz Kafka, eine freundschaft. Briefwechsel ( a cura di M. Pasley), S. Fisher, Frankfurt, 1989.

2G. Deleuze e F. Guattari, Kafka – Per una letteratura minore, Quodilibet, Macerata, 1996.

3R. Maletta, Franz Kafka: la letteratura tra serie complementare freudiana e meccanica quantistica, IRIS – Institutional Research Information System – AIR – Archivio Istituzionale della Ricerca, Università degli Studi di Milano, Milano, 2018

4R. Maletta, Sopra un frammento del giovane Kafka. Modi della Vorstellung, Materiali di Estetica, N. 4.2, Università degli Studi di Milano, Milano, 2017.

5G. Baioni, Kafka: letteratura ed ebraismo, Einaudi, Torino, 1984.

6G. Costanzo, Franz Kafka: la metafora della “tana” come rifugio e come scavo,  Itinerari – Mimesis Journals, N° LXII, 2024.

7G. Costanzo, op.cit.

8S. Sontag, Malattia come metafora, Einaudi, Torino, 1992.

9F. Kafka, W. Haas (a cura di), Lettere a Milena, Mondadori, Milano, 1988.

10G. Bruno, Scrittura ed ebraismo in Franz Kafka, ESE Publications – UniSalento, Volume )/10, Lecce, 1988.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di neri Pozza Editore per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com



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© 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Antonia Arslan e Aldo Ferrari, Un genocidio culturale dei nostri giorni

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Il Nakhichevan ha avuto a lungo un ruolo molto importante nella storia e nella cultura dell’Armenia, in particolare nell’ambito della nascita del commercio armeno in epoca moderna. Attualmente, però, la millenaria presenza armena è stata completamente cancellata in questa regione che costituisce una repubblica autonoma dell’Azerbaigian. Non solo, infatti, gli armeni hanno completamente cessato di vivere nel Nakhichevan, ma il loro imponente patrimonio artistico è stato completamente distrutto dalle autorità azere negli ultimi decenni. Ed è altissimo il rischio che lo stesso possa avvenire nel Nagorno-Karabakh, ormai anch’esso privo della sua popolazione armena. 

Un genocidio culturale di cui si parla veramente troppo poco, forse anche per l’importanza crescente dell’Azerbaigian nell’approvvigionamento energetico di molti paesi, a partire dal nostro.

In seguito al crollo dell’Unione Sovietica e al conflitto con gli armeni, l’Azerbaigian aveva perso il controllo di un’ampia area situata all’interno dei suoi confini internazionalmente riconosciuti: a partire dal 1994 gli armeni locali erano riusciti a stabilire un governo che de facto controllava non solo l’area dell’ex regione autonoma del Nagorno Karabakh, una enclave in cui gli armeni erano storicamente maggioranza, ma anche ampi territori adiacenti abitati prevalentemente da azeri. Nel 2020 l’Azerbaigian è riuscito a riprendere il controllo dei territori adiacenti Nagorno-Karabakh nonché parte dei territori storicamente abitati da armeni con una guerra-lampo durata 44 giorni. Un cessate-il-fuoco raggiunto con la mediazione di Mosca prevedeva il dispiego di forze di pace russe che avevano il compito di garantire la sicurezza della popolazione armena locale e proteggere il corridoio di Lachin, ovvero la principale linea di comunicazione tra il Nagorno-Karabakh e l’Armenia. A dicembre 2022 il corridoio di Lachin fu bloccato dall’Azerbaigian senza che ciò comportasse un reale intervento dei peacekeeper russi o dei principali attori internazionali. L’impotenza dell’Armenia in questo contesto è in parte dovuta alla sua stessa vulnerabilità. L’Azerbaigian ha infatti preso iniziativa per far capire che, in caso di nuova guerra, a rischio non sarebbe solo la popolazione armena del Nagorno-Karabakh ma anche l’Armenia stessa. 

Secondo accordi bilaterali e multilaterali in vigore, la Russia avrebbe l’obbligo di accorrere in aiuto dell’Armenia in caso di minacce alla sua integrità territoriale. Ciononostante, non è intervenuta quando l’Azerbaigian ha condotto attacchi contro l’Armenia nell’autunno 2022 e neanche per quelli del settembre 2023. I  peacekeeper si sono limitati a registrare le numerose violazioni del cessate il fuoco e facilitare l’evacuazione di migliaia di civili locali dalle zone più esposte a pericolo dall’intervento militare. 

Da parte dell’Unione Europea si è cercato di mantenere un tono circospetto e sostanzialmente privo di critiche esplicite alla leadership di Baku. Nelle dichiarazioni del presidente del Consiglio europeo non ci sono state condanne ferme per Baku ma solo un impersonale riferimento alla necessità di riaprire il corridoio di Lachin e procedere con i negoziati.1

Molto chiara invece invece è stata la condanna espressa dalla Risoluzione del Parlamento europeo del 10 marzo 2022 sulla distruzione del patrimonio culturale nel Nagorno Karabakh, a proposito del fatto che «negli ultimi 30 anni l’Azerbaigian ha causato la distruzione irreversibile del patrimonio religioso e culturale, in particolare nella Repubblica autonoma del Naxçivan, dove sono state distrutte 89 chiese armene, 20mila tombe e oltre 5mila lapidi». Inoltre il Parlamento europeo collega che questa politica distruttiva di Baku posta in essere nel Nakhichrvan possa ripetersi anche nel Nagorno-Karabakh. 

E non si può tacere neanche la situazione disperata del patrimonio artistico armeno in Turchia, dove al genocidio fisico è seguito e continua a seguire quello culturale.2

La cultura riveste una notevole importanza per ogni gruppo umano, etnia o nazione. L’espressione genocidio culturale indica proprio quei fenomeni di annichilimento della cultura che diventano lo strumento con cui distruggere un gruppo umano. Esso è attuato senza attacchi diretti, fisici o biologici, alle persone.3 Il patrimonio culturale è la parte visibile della cultura e il suo valore risiede nel significato. La cultura è simbolica e rappresenta cose intangibili.4 Il patrimonio culturale, pertanto, è costituito dal valore che i beni culturali e del paesaggio assumono in seno alla società e alla comunità cui appartengono. Essi riflettono l’identità di una comunità. Rappresentano tutto il carico simbolico di una comunità, gli stili di vita, le abitudini e lo stesso modo di essere delle persone che compongono tale comunità. Il patrimonio culturale può essere identificato come espressione di quella identità culturale propria di un popolo. Esso diviene la stessa rappresentazione di un popolo, del modo di agire, dell’interiorità composta da affetti, della concezione etica ed estetica e, più in generale, manifesta l’essere di tale comunità e degli individui che sono e si sentono parte della medesima comunità.5

Il Nakhichevan è una regione piccola, circa 5mila kmq, compresa amministrativamente nell’Azerbaigian ma geograficamente e culturalmente nell’Armenia nelle cui regioni storiche occupa una posizione centrale. In Nakhichevan ha avuto luogo, tra il 1998 e la fine del 2005, la completa distruzione di tutti i manufatti armeni: a cominciare dal vasto cimitero medievale di Giulfa nell’omonima città la quale, pur essendo in rovina e ormai disabitata da tempo, all’inizio del XX secolo era ancora ricca di diciotto chiese, un caravanserraglio, un ponte, un mercato coperto, case e soprattutto conservava la straordinaria necropoli medievale, ricca di pietre-croci, quasi tutte finemente intagliate con il caratteristico motivo della croce-albero della vita. Queste pietre vi erano state poco a poco elevate tra il V e il XVI secolo, durante la fioritura economica e culturale della città, e molte di esse erano dotate di iscrizioni storicamente rilevanti. Nel 1998, le autorità azere decidono di cancellare totalmente Giulfa e, nonostante le proteste inoltrate all’Unesco, il processo procede, a fasi alterne, fino al 2005. 

È legittimo domandarsi come mai tanto accanimento distruttivo abbia avuto luogo per così dire “a freddo”, in un momento apparentemente qualunque, lontano dalla guerra.6

«Le prime cose che un armeno costruisce in un paese sono la chiesa e la scuola. È la difesa della propria identità attraverso la religione e la cultura. Uno dei segreti dell’unità è proprio l’unità religiosa, ma non fanatica, e la difesa della cultura e del libro.»7

Nei territori dell’Armenia storica rimasti in Turchia ci si muove sostanzialmente in uno spazio “vuoto”, creato da un genocidio e ormai centenario, che purò essere solo parzialmente riempito ricostruendo con strumenti culturali di vario genere – opere storiografiche di autori armeni e non armeni, libri di viaggio, memorie, fotografi e via discorrendo – un mondo vitale sino al 1915 e poi completamente spazzato via. Alla politica di distruzione premeditata dei primi decenni è seguita una fase di sostanziale disinteresse da parte delle autorità turche nei confronti del patrimonio artistico di un popolo la cui memoria storica è stata ampiamente deformata o rimossa.8 Se si esclude la capitale Istanbul, dove ancora esiste una comunità armena consistente anche se molto ridotta rispetto all’epoca ottomana, e il villaggio di Vakif, l’unico dei sette del Mussa Dagh ancora esistente e abitato da Armeni, la popolazione che ha profondamente segnato il territorio anatolico, soprattutto orientale, è stata quasi completamente cancellata, anche topograficamente.9 Del vasto territorio abitato per millenni dagli Armeni oggi solo una piccola parte è inserita all’interno della repubblica indipendente. Persino il principale simbolo della terra armena si trova interamente in territorio turco. L’Armenia, infatti è anche il paese dell’Ararat, il Monte di Noè, il Monte dell’Arca, dal quale la vita riprese dopo il Diluvio Universale. 

Raramente le agenzie internazionali, gli organismi di controllo e di pace, hanno reagito riportando l’attenzione ai fatti accaduti, sull’annichilimento dell’eredità culturale e artistica armena. A cominciare dall’UNESCO, rappresentato nell’area del Naxijewan dalla moglie del presidente azero, Mehriban Aliyeva, designata UNESCO Goodwill Ambassador nel 2004 e mai sollevata dall’incarico.10

Dopo la resa da parte delle forze separatiste armene in Artsakh e l’ormai esodo quasi totale da parte della popolazione locale armena del Nagorno-Karabakh, in Caucaso, le paure, in particolare per quanto riguarda Yerevan, non sembrano tuttavia essere cessate. In aggiunta al problema dell’ondata di “profughi connazionali” in Armenia, con la necessità di reperire ingenti risorse finanziarie, c’è la questione della futura collocazione della popolazione scappata dall’Artsakh e la questione relativa alla Repubblica del Nagorno-Karabakh e che cosa ne sarà di questa, o ancora meglio cosa ne sarà del patrimonio culturale armeno in Karabakh e dei leader separatisti arrestati dal governo di Baku. Che la fine dell’Artsakh fosse alle porte era intuibile ed era ormai anche pacifico, tuttavia non lo sono le conseguenze e, soprattutto, è difficile da giustificare il silenzio assordante da parte della comunità internazionale. In uno scenario in cui l’Azerbaigian non intravede e non percepisce alcuna possibilità di intervento deciso da parte della comunità internazionale o possibilità di una qualche interruzione o rottura dei rapporti con i paesi occidentali, lo stato del Caucaso meridionale adotta una politica tesa a perseguire i propri obiettivi geoeconomici in uno stile di realpolitik che ha sempre caratterizzato il modus operandi del governo di Aliyev. 

La Russia sta sostanzialmente osservando passivamente e non sembra intenzionata ad aggravare i rapporti con Baku. Il Cremlino ha firmato un accordo con l’Iran per la costruzione di una ferrovia che passerà lungo la costa del mar Caspio e aiuterebbe a collegare i porti russi sul mar Baltico con i porti iraniani nell’Oceano Indiano e nel Golfo Persico. 

Il Parlamento Europeo ha firmato una risoluzione che chiede sanzioni all’Azerbaigian a causa dell’operazione in Karabakh. Dal punto di vista economico, però, quasi due terzi delle importazioni dell’Azerbaigian provengono dall’Unione Europea e quindi sarà difficile pensare che verrano adottate vere e proprie sanzioni.11

Il libro

Antonia Arslan e Aldo Ferrari (a cura di), Un genocidio culturale dei nostri giorni. Nakhichevan: la distruzione della cultura e della storia armena, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2023

1G. Comai, Conflitto Armenia-Azerbaigian: la fine di Nagorno Karabakh, Osservatorio Balcani Caucaso, 21/09/2023.

2A. Ferrari, L’Armenia perduta. Viaggio nella memoria di un popolo, Salerno Editrice, Roma, 2019.

3L. Perra, Il genocidio culturale, Il Sileno Edizioni, Lago (CS), 2022.

4J. Santacana Mestre, F.X.H. Cardona, Museologia Critica, Ediciones Trea, Gijón, 2006.

5L. Perra, op.cit.

6M. Corgnati, Anche le pietre muiono. La distruzione di monumenti, siti storici e memorie culturali armene in Naxijewan: un modello per il Nagorno-Karabakh passato sotto il controllo dell’Azerbaigian?” in A. Arslan, A. Ferrari (a cura di), Un genocidio culturale dei nostri giorni. 

7B. Sivazliyan, Del Veneto dell’Armenia e degli Armeni, Regione Veneto, Edizioni Canova, Dosson di Casier – TV, 2000; C. Aznavour, I giorni prima, Rizzoli Editore, Milano, 2004.

8A. Ferrari, Viaggio nei luoghi della memoria armena in Turchia e Azerbaigian, LEA – Lingue e letterature d’Oriente e d’Occidente, UNIVE – Università Cà Foscari, Venezia, n° 5 2016.

9L. Sahakyan, Turkification of the Toponysm in the Ottoman Empire and the Republic of Turkey, Arod Books, Montreal, 2010.

10M. Corgnati, op.cit.

11C. Busini, Oltre il Nagorno-Karabakh, a rischio l’integrità armena, Eάst Journal, 14 ottobre 2023.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa delle Edizioni Angelo Guerini e Associati per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Conoscere l’abuso psicologico narcisista per combatterlo: Voce per dirlo di Mina Rienzo

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Un libro pensato e scritto per le vittime di abuso narcisistico, per chi ha subito l’abuso senza nemmeno rendersene conto, per chi ha sofferto a causa di un inganno scientemente perpetrato. Un libro che parla delle conseguenze su esseri umani ignari causate da individui a cui nessuna azione, per quanto immorale, è preclusa. Individui che usano tecniche di seduzione per agganciare una persona sana al fine di ottenere gratificazioni personali, causare dolore, esercitare controllo e potere, sentirsi migliori.

Uno strumento per fare chiarezza su un fenomeno ancora poco conosciuto e sottostimato come l’abuso narcisistico e le relazioni sentimentali patologiche.

Uno degli errori in cui più comunemente si incorre è confondere l’abuso psicologico narcisista con la violenza domestica.Quest’ultima è tipicamente fisica, ha come caratteristica “il ciclo della violenza” introdotto dalla psicologa americana Leonore E. Walker nel 1979 caratterizzato da tre fasi in successione e che si ripetono: origine della tensione, aggressione e maltrattamento, riconciliazione. L’abuso psicologico narcisista è manipolazione attraverso precise tecniche volte a sottomettere e controllare.

Gli individui narcisisti patologici o maligni tendono ad assomigliarsi per il modo insensibile in cui sfruttano gli altri ed entrambi ottengono un piacere sadico nel ferire. Tutti gli abusanti cercano potere e controllo. Essi costituiscono un falso sé per nascondere il vero sé. Questo falso sé è quello che presentano a chiunque: affascinante, intelligente, di successo, generoso e gentile. È una maschera. In privato, e in particolare al partner, si mostrano egoisti, crudeli, abusanti, dimostrano un irrazionale senso di diritto, sono privi di empatia, inclini all’infedeltà. Le personalità totalmente egosintomiche del narcisismo e della psicopatia, sono sadiche e psicologicamente violente.

L’abuso narcisistico/psicopatico è attuato da individui dalla personalità gravemente disturbata, i quali non guariscono. Molti esperti concordano nel dire che solo di rado possono verificarsi piccoli cambiamenti in grado di renderli meno “patologici”. Sottolinea l’autrice come nella psiche di alcune persone ci sono caratteristiche genetiche o biologiche talmente radicate da rendere impossibile la loro guarigione, anche se sottoposte a terapie o sommerse d’amore. Un disturbo della personalità è da considerarsi permanente e quindi pericoloso. La violenza delle personalità narcisista e psicopatica è psicologica. 

Il soggetto patologico fa parte di quella che viene definita in psicopatologia e nella scienza della personalità danger zone personalities, questo perché, sottolinea Rienzo, i tratti di personalità di questi soggetti sono altamente dannosi e traumatizzanti per gli altri e sono noti per il loro comportamento correlato a bassa coscienza e rischio di causare sofferenza. 

Seppur la violenza da abuso narcisistico è psicologica i danni e i traumi a essa correlata sono anche fisici. L’autrice elenca tutta una serie di malattie e disturbi diagnosticati alle vittime, come diabete, ipertensione, artrite, fibromalgia, fatica cronica, sindrome del colon irritabile, coliti, problemi cardiaci. Rienzo sottolinea quanto l’organismo dica sulla qualità del vivere e, nella fattispecie, sulla qualità di una relazione. Con i suoi sintomi e risposte il sistema nervoso cerca aiuto per uscire da un rapporto patologico. 

Altro punto fondamentale su cui Mina Rienzo si sofferma è la definizione di vittima di abuso psicologico narcisista. Per un soggetto narcisista la preda “difficile” da conquistare è ricercata perché pone una sfida e ciò determina un aumento di adrenalina e di nutrimento narcisistico per l’abusante. Nelle vittime spesso si riscontrano queste caratteristiche: delicatezza d’animo, forti capacità ematiche, impegno nel sociale, buona autostima, integrità, capacità di resilienza, elevata cultura. Si tratta spesso di donne colte, in carriera, indipendenti, realizzate. 

«Come può essere così spietato? Come può farmi tutto questo senza alcun rimorso?»

Queste sono solo alcune delle domande che le vittime di abuso psicologico narcisistico rivolgono a sé stesse e ai terapeuti. 

Il rimorso è uno stato tipico di una persona empatica e compassionevole che non ha alcuna difficoltà nello scusarsi con gli altri e nell’esprimere rammarico per qualcosa che è successo. Un narcisista patologico non è in grado di esprimere rimorso perché è incapace di provare empatia. I maltrattamenti, i silenzi, la manipolazione e l’intimidazione sono tutti metodi per tenere la preda sotto controllo e garantirsi rifornimento narcisistico. L’unica occasione in cui si può vedere un narcisista patologico esprimere rimorso è quando finge. Il rimorso viene abitualmente simulato al fine di raggiungere uno scopo. 

I narcisisti (indipendentemente dal fatto si tratti di una madre, un padre, un fratello, sorella, amico, capo, amante, marito, moglie, partner) richiedono rifornimento come fossero tossicodipendenti e, per ottenerlo, non esitano a calpestare emozioni e bisogni altrui. Per il narcisista patologico è un insulto il riuscire a costruirsi o ricostruirsi una vita senza di lui/lei (Saccà, 2019). 

Per Rienzo troppo spesso in Italia e non solo si tende a cercare nelle donne un passato che giustifichi l’aver subito violenza. Continuare a voler spiegare i comportamenti umani a partire dalle sole esperienze infantili è un grosso errore. Inoltre è forse la vita, il passato dell’abusante che andrebbe meglio indagato.

Il narcisismo come tratto dimensionale sembra essere presente fin dall’infanzia, anche se gli studi al riguardo sono pochi e tutti di recente pubblicazione. Quel che è certo è che una grandiosa, irrealistica e aumentata visione di sé, caratteristica del narcisismo, è parte del normale sviluppo del bambino. Solo quando la visione che il bambino ha di sé incomincia a basarsi su confronti sociali, e diviene quindi più realistica e confrontabile con elementi esterni, il narcisismo diviene identificabile. Alla base dello sviluppo dei tratti narcisistici ci sono funzioni temperamentali ed esperienze di socializzazione; queste ultime, quando sono maladattive, vanno ad attivare determinati fattori temperamentali, innescando così un circolo che permette lo sviluppo dei tratti e le conseguenti disfunzioni comportamentali. Un filone di studi sostiene che la sopravvalutazione dei genitori e l’eccessiva indulgenza instillino tratti narcisistici nei bambini. In particolare, le lodi incondizionate fanno gonfiare l’opinione che il bambino ha di sé. Secondo questa teoria, i bambini arrivano ad avere grandi opinioni di sé e un senso di diritto a ricevere sempre di più. Si ritiene, inoltre, che in questo contesto familiare i bambini siano abituati a ricevere una convalida esterna continua, che successivamente è difficile trovare in ambienti extra-familiari. Al contrario, un approccio diverso sostiene che la freddezza dei genitori, le aspettative estremamente elevate e la mancanza di supporto e calore possano portare a un narcisismo maladattivo. Un terzo filone di studi, infine, ritiene ci possa essere un collegamento fra abuso e maltrattamento durante l’infanzia e lo sviluppo di tratti narcisistici. Scarsa autostima in combinazione con alti tratti narcisistici risultano essere il profilo maggiormente implicato nello sviluppo di più gravi problematiche comportamentali. Non avendo vissuto altre epoche all’infuori di quella che stiamo vivendo, non possiamo decretare la nostra un’epoca più narcisistica rispetto ad altre, ma di sicuro viviamo in un’epoca nella quale l’autocelebrazione e l’esaltazione delle proprie capacità e del proprio ego sono fulcro centrale nella vita una persona.1

L’abuso narcisistico è una forma di trauma ripetuto e pervasivo, che si accumula lentamente come una valanga. Mina Rienzo sottolinea come è al trauma che i terapeuti devono guardare, un trauma complesso. Ma attuale. Per cui è al presente che occorre guardare e considerare chi ha superato una relazione patologica traumatica un sopravvissuto. L’infanzia non c’entra, il passato non c’entra perché, come per uno stupro, la violenza è accaduta adesso e indipendentemente dalla personalità dell’abusata/o.

Il libro

Mina Rienzo, Voce per dirlo. Relazioni sentimentali patologiche abuso narcisistico, Edizioni Sanpino, Pecetto Torinese, Torino, 2024

1P. Muratori, A. Milone, C. Buonanno, S. Ianni, E. Inguaggiato, V. Levantini, S. Pisano, E. Valente, G. Masi, Eziopatogenesi e valutazione dei tratti narcisistici in età evolutiva, Rivista di Psichiatria, Marzo-Aprile 2020, Vol. 55, N°2. 


Articolo pubblicato su LuciaLibri.it


Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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© 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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