Philippe Forest, Il romanzo, il reale e altri saggi

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Il romanzo risponde all’appello del reale – l’appello rivolto a chiunque si trovi confrontato all’esperienza dell’impossibile, allo strazio del desiderio e del lutto. Succede in quel momento qualcosa che chiede di essere detto e che non può esserlo se non nella lingua del romanzo, perché è la sola a restare fedele alla vertigine che si apre allora nel tessuto del senso, nella rete delle apparenze, per lasciare che vi si intraveda lo scintillio di una minuscola rivelazione. È questo il realismo del romanzo che proviene dall’esistenza vissuta e da cui si deduce una verità, dato che il lavoro dello scrittore consiste nel riprenderla senza sosta, nel tornare incessantemente verso di lei. 

Visto che risponde all’appello del reale, che scaturisce dall’impossibile e che un protocollo di questo genere esige l’esperienza che gli dia senso e lo giustifichi, il romanzo si scrive sempre in prima persona singolare, ma l’io di cui rende conto è esattamente il contrario di quello su cui poggia il principio opposto dell’impresa autobiografica: non presuppone alcuna identità personale da esprimere positivamente ma conduce verso l’orizzonte estatico in cui il soggetto si compie negativamente nel faccia a faccia con l’impossibile. Colui che scrive la sua vita si sdoppia e diventa per sé stesso un altro, una figura fittizia di cui il romanzo dice le avventure e le trasformazioni. Per questo non è necessario dedurre il romanzo dalla realtà dalla quale peraltro proviene ma che esso soprattutto restituisce alla sua verità inventata. Troppo spesso ricondotta a un neonaturalismo dell’intimo, la nozione di autofiction deve essere superata al fine di restituire al “romanzo dell’io” la sua vera dimensione. 

Ogni testo è in costante interazione col lettore, senza lettori il testo è incompleto e l’atto creativo un atto imperfetto. Il lettore mette in moto la “macchina pigra” che è il testo e procede per “sentieri narrativi” che l’autore ha o non ha definito, come in un bosco dove ogni strada è nuova.1 Il lettore compie delle scelte perché costituisce la trama stessa del tessuto narrativo. L’autore, a sua volta, ha operato progressivamente una “fuga” dalle sue narrazioni, una fuga che al principio si configura come evoluzione, trasformazione. Si è trasformato, da creatore di personaggi, in personaggio egli stesso grazie alla narrazione in prima persona.2 È questo il caso de La familia de Pascual Duarte di Camilo José Cela, pubblicato nel 1941, il primo romanzo significativo del panorama letterario del dopoguerra spagnolo. Fin dalle prime pagine il libro si presenta “votato” alla verosimiglianza e al rispetto del patto letterario: i sentieri sono perfettamente tracciati dall’autore, impegnato a mettere in atto le strategie narrative che il lettore riconosce. Sottolinea Cela che i punti cardine assolutamente da perseguire sono: sincerità, verità, lealtà, chiarezza.3

Il romanzo della seconda decade del post-dopoguerra mostra già i segni di un graduale allontanamento dell’autore dalla creatura narrativa. 

Da una parte ci sono gli autori che inventano le storie, la cui abilità consiste nel congegnarle bene, scriverle in buona lingua, dopo averle affidate a personaggi accattivanti e persuasivi, non senza aver dosato con sapienza i sentimenti. Dall’altro lato ci sono gli autori che non scrivono storie ma vita, quella di cui loro stessi sono i protagonisti, e nel farlo scoprono che il romanzo, la finzione narrativa che nasce dal racconto di certe esperienze, è l’unico luogo in cui l’io esiste. L’alternativa è tra una narrativa di consumo e un romanzo del reale. La forma narrativa che rende possibile l’esistenza di un romanzo contemporaneo, al di là e separatamente da quello commerciale, è la scrittura dell’io. Se realismo è resoconto minuzioso della realtà, del suo possibile, romanzo del reale al contrario è quello che mira a dire, del reale, l’impossibile. 

Chiunque racconti la propria vita, inevitabilmente, dandole forma di racconto, la trasforma in finzione. Poiché la verità ha struttura di finzione, la finzione deve raddoppiarsi, diventare finzione di sé stessa, se vuole sperare di ricondurre autore e lettore verso il luogo eventuale della verità.4

La possibilità odierna di vita per un genere come quello del romanzo, infinitamente e reiteratamente dato per morto, risiede per Philip Forest nella sua capacità di farsi scrittura per l’esperienza estrema, quella cui è legata la nostra vera vita, emotiva e intellettuale, ma che il discorso sociale non integra per la sua scomodità. L’esperienza estrema è la parte maledetta delle nostre vite, tutto ciò per cui l’universo della ragione vacilla e viene meno: il riso, l’ebrezza, l’efferatezza erotica o mistica, il male, infine la morte. 

Filosoficamente parlando, la verità risiede nell’accordo tra il linguaggio e il reale. Se il reale, come afferma Lacan, si presenta come impossibile, cercare il vero – questo il romanzo per Forest dovrebbe fare – consiste nel cercare l’impossibile, l’insostenibile, il limite, il momento in cui il senso viene meno. Il romanzo risponde al reale, ma risponde anche del reale, attraverso lo smantellamento dell’identità in quanto certezza, esso si fa testimoniale. Rende conto di ciò che avviene nelle sue dinamiche interne e di rapporto con l’esperienza vissuta, in modo tale che lo scandalo, l’osceno, l’indicibile ne siano salvaguardati, e non cada nell’oblio ciò che essa rappresenta. Nasce con Forest un nouvel engagementper il terzo millennio, che sdogana il sentimento, il pathos, forma moderna di un osceno che il puritanesimo contemporaneo si rifiuta di considerare.5

Foscolo ha sempre avuto una visione austera e appassionata del mondo, che non è retto dalla Provvidenza bensì dalla forza, tuttavia l’amore, la libertà, la giustizia non vi sono del tutto impossibili (altrimenti la società tutta intera si disfacerebbe), e si può anche mostrare come operano e dove. Senza mai ammettere esplicitamente di averli imitati, Foscolo riconosce in Nouvelle Héloïse (Jean-Jacques Rousseau) e Werther (Johann Wolfgang von Goethe) i capostipiti di un filone narrativo contemporaneo cui anche lui si è ispirato. Per lui l’opera d’arte non è una totalità autosufficiente, retta da leggi immanenti, un sistema simbolico, come avevano iniziato a teorizzare in Germania, intorno al 1875 Moritz e Goethe. Essa è piuttosto la rappresentazione di un “fatto”, di un “vero”, cioè di una storia, di una serie di eventi fra loro connessi che un primo scrittore ha colto nella sua verità e da cui gli autori successivi, i suoi imitatori, non potranno più dipartirsi. Due scrittori, pur trattando lo stesso argomento, lo possono svolgere in modo diverso, e con diverso successo, uno per esempio sorpassando gli altri nel grado di “realtà” che conferisce ai suoi personaggi, un altro invece rendendosi meritevole per il grado di bellezza ideale che ha infuso in essi. Foscolo rimane dunque fedele a una concezione classicista della letteratura, che gli permette fra l’altro di distinguere l’invenzione di un particolare contenuto narrativo dal grado di perfezione raggiunto nella sua rappresentazione.6

Il novel nasce in Inghilterra come reazione al fantastico dei romanzi cavallereschi e all’eroico dei romanzi eroici, specialmente francesi, del Seicento: dai generi precedenti, dotti o popolari che siano, dalle novelle, dal romanzo picaresco, dal saggio di costume, dalle biografie dei criminali, il novel assorbe soltanto ciò che non sia eroico né fantastico, tutto ciò che abbia almeno parvenza di verità. E il rifiuto dell’eroico e del fantastico porta con sé il rifiuto dello stile pseudoepico e pseudopoetico, roboante e ornato. Il che significa un mutamento di gusto nei lettori, e viene naturale attribuirlo al mutamento sociale avvenuto in Inghilterra con la rivoluzione del 1688 e la presa di potere della borghesia. Quel predominio di classe non durò e con esso cadde anche il predominio di gusto. I puritani borghesi e aristocratici per le loro ore d’ozio non vogliono più romanzi cavallereschi, come non vogliono più né drammi eroici né commedie immorali. Bisognava quindi istruirli offrendo testi loro graditi: romanzi che possano dare l’illusione di verità. Ovvero il novel

Oltre al realismo, il romanzo del Settecento inglese ha, infatti, un suo fine educativo. Puritanesimo e borghesismo si mescolano. O meglio, l’istruzione che il romanzo del Settecento dà dipende da un’interpretazione borghese del puritanesimo.7

Il puritanesimo come costante culturale, come indispensabile anello di congiunzione tra espressione letteraria del Seicento e del Settecento, si muove tra le due personalità complesse e prolifiche di Milton e Defoe, per andare poi a compiersi, e per il momento a esaurirsi, in Richardson. Milton è innanzitutto e principalmente l’esempio morale, la manifestazione vivente di come sia possibile per una coscienza puritana, preoccupata in primo e fondamentale luogo di tenersi lontana dalla menzogna, esprimersi nelle forme letterarie più raffinate che la tradizione europea abbia elaborato, senza con ciò venir meno al proprio rigore e alla propria onestà. 

La letteratura moderna è ricca di utopie in cui l’autore di volta in volta proietta le sue speranze e i suoi progetti per una convivenza umana più giusta e più civile. Anche Defoe, erede al tempo stesso della tradizione puritana e degli esperimenti coloniali inglesi, ne propone una nella seconda parte del Robinson Crusoe, le Farther Adventures. L’interesse di questa utopia non sta tanto nelle soluzioni trovate, ma soprattutto nel fatto che egli arriva a configurarla per gradi, quando è posto dinanzi alla necessità di descrivere la vita che si svolge sull’isola dopo che essa ha cominciato a popolarsi. L’originalità di Defoe sta nell’aver introdotto la dimensione del tempo nell’utopia.  Farther Adventures si caratterizza come una “utopia narrativa”. Il divenire di questa colonia modello non solo permette una costruzione progressivamente aderente alle mutate esigenze dei suoi abitanti, ma anche porta a una definizione e a un progressivo sviluppo del loro mondo morale e psicologico, trasformandoli da strumenti di un esperimento sociale in veri e propri personaggi narrativi.8

Nella visione di Forest, questa è la morale del romanzo moderno: presuppone che rispondendo al reale, non rinunci a rispondere anche di lui, a farsene garante in modo che, attraverso le finzioni che costruisce, il romanzo ci faccia comunicare ancora con la parte ormai sottrattaci delle nostre vite, ci trasformi nei testimoni di un’esperienza che ha fatto di noi quello che siamo e che la scrittura, inevitabilmente colpevole, non può tradurre se non a condizione di tradirla. E se il romanzo, in tali condizioni, diventa in effetti il luogo in cui è sospeso qualunque giudizio morale, questa formula, ben lungi dal significare una qualunque resa al nichilismo, deve essere capita come invito a un movimento singolare in direzione dell’assoluto di una verità nella quale risiede l’esclusiva e sufficiente possibilità dell’impegno letterario, a sua volta diretto verso l’orizzonte perpetuo di un eventuale giorno successivo. Potrebbe sembrare una tesi priva di qualsivoglia ambizione e originalità, invece rivendica di non essere altro che la ripresa di una certa concezione della letteratura, accontentandosi di ricordarla in tempi di unanime oblio, di generale degenerazione. 

Il libro è una visione polemica dello stato attuale di una letteratura post-moderna dalla quale la nozione di reale viene censurata due volte. Da un altro, il neo-naturalismo (che domina nelle forme egemoniche del romanzo commerciale e della world-fiction) sfugge al reale pretendendo di poter offrire del mondo una rappresentazione positiva dalla quale si trova a essere evinta qualunque riflessione del testo su sé stesso e sull’impossibile da cui procede. Dall’altro, il neo-formalismo (che tutta una parte di creazione romanzesca e poetica attuale rivendica), coerente con un’estetica della simulazione e del virtuale, congeda quello stesso reale in nome di una concezione della letteratura distaccata dal mondo, che si autocompiace e si presenta come un esercizio ludico e ironico che basta a sé stesso. Il romanzo del reale non costituisce quindi in alcun modo una sorta di “nuovo romanzo” che la letteratura attuale dovrebbe inventare per sostituirsi alle forme fossili della creazione e aggiungere un capitolo molto contingente alla storia delle avanguardie. All’opposto, il romanzo del reale aspira semplicemente all’espressione costante di una verità intonsa dell’esperienza letteraria quale essa appare delineata dalle grandi opere del passato e sempre attiva oggi nel romanzo vivo. 

La tesi di Forest è questa: la possibilità romanzesca dipende dalla capacità che ha il testo di rispondere all’appello inaudito del reale. È doveroso distinguere da una parte il reale, spazio di negatività da cui il testo procede e verso il quale avanza, dall’altra, la realtà, trappola che il realismo sostituisce al reale per sbarrarne l’accesso, impedirne l’esperienza. La realtàcome brutto romanzo che si sostituisce al sentimento proprio della nostra esistenza. La realtà: sedimentazione di sogni fatti da altri, pesante accumulo di finzioni fossili. 

Il realismo romanzesco, in effetti (in quanto finzione immaginaria, oggi affiancata se non sostituita dal cinema), è ciò che programma il modo in cui noi pensiamo la nostra esistenza, lo schema che determina la possibilità dei nostri pensieri, dei nostri gesti, delle nostre emozioni apparentemente più intime o più singolari. In altre parole, sono i romanzi a insegnarci che cosa può essere la realtà, sono loro a modellare la forma del verosimile ai nostri occhi, a determinare i ruoli stereotipati che potremo interpretare credendo di viverli, a concepire gli intrighi intercambiabili di cui avremo l’illusione che costituiscono il corso uguale a nessun altro della nostra storia personale più segreta. Così, per l’autore, ciò che viene fatto passare per realtà e che, inizialmente, accettiamo come tale, non è mai altro che finzione. Per cui il romanzo che egli costruisce è la finzione della finzione, che è la realtà e che, annullandola tramite questo raddoppiamento, consente di giungere a quel punto di reale nel quale esso si rinnova e attraverso il quale ci comunica il senso vero della nostra vita. 

Il libro

Philippe Forest, Il romanzo, il reale e altri saggi, Rosenberg & Sellier, Torino, 2024.

Traduzione di Gabriella Bosco.

Titolo originale: Le roman, le réel et autres essais.


1U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Bompiani, Milano, 1994.

2J.M. Castellet, L’ora del lettore, Einaudi, Torino, 1962.

3R. Pignataro, La fuga dell’Io narrativo nel romanzo del dopoguerra spagnolo, in L’analisi linguistica e letteraria, Anno XXII – 1-2/2014, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 2014.

4G. Bosco, Nella vertigine dell’identità, in Il romanzo, il real e altri saggi.

5G. Bosco, op.cit.

6E. Neppi, Le origini del romanzo “moderno” secondo Foscolo: la Julie, il Werther e… Jacopo Ortis, in C. Berra, P. Borsa, G. Ravera (a cura di), Foscolo critico – XV Convegno internazionale di Letteratura italiana “Gennaro Barbarisi”, Quaderno di Gargnano – Università degli Studi di Milano, 2012. 

7S. Baldi, Letteratura inglese – Romanzi inglesi del Settecento, in C. Guerrieri Crocetti, C. Pellegrini, Storia delle letterature moderne d’Europa e d’America, Vallardi, Milano, 1958. 

8ML. Bignami, Daniel Dedoe, Dal saggio al romanzo, La Nuova Italia – Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, Firenze, 1984.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Rosenberg&Sellier per la disponibilità e il materiale.

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Alessio Ricci, La lingua di Leopardi

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Una delle qualità fondamentali della lingua e dello stile di Leopardi è senza dubbio la varietà. Una varietà linguistica e stilistica che è in primo luogo il riflesso della varietà di generi letterari che egli ha sperimentato: dalla lirica suprema dei Canti alla poesia narrativa e corrosiva dei Paralipomeni, dalla prosa fantastica e metafisica delle Operette a quella monolitica ed “europea” dei Pensieri, fino all’Epistolario e lo Zibaldone. Esperimenti che hanno avuto la forza di innovare in profondità, talora dalle fondamenta, il modo di fare letteratura in Italia e fuori da essa.

«La lingua italiana è piuttosto un complesso di lingue che una lingua sola, potendo tanto variare secondo i vari soggetti, e stili, e caratteri degli scrittori che quei diversi stili paiono quasi diverse lingue, non avendo presso che alcuna relazione scambievole.»1

Leopardi era consapevole dello stretto rapporto che lega la lingua alla cultura e alla nazione: «La storia di ciascuna lingua è la storia di quelli che la parlarono o la parlano, e la storia delle lingue è la storia della mente umana».2 Ma nel momento in cui egli sposta il problema teorico della lingua a quello dei parlanti e alla storia delle idee veicolate appunto tramite la lingua s’imbatte nella dicotomia categoriale insita nella prospettiva sociolinguistica di ogni idioma: da una parte il punto di vista che privilegia l’uniformità e l’omogeneità e dall’altra quello che sottolinea la varietà e la molteplicità. Il prevalere di una delle caratteristiche sull’altra è strettamente connesso al tipo di organizzazione sociale di cui la lingua è uno strumento comunicazionale.3

In Italia, l’assenza di unità della nazione ha affidato un ruolo fondamentale, nella omogeneità normativa linguistica, al primato artistico e letterario svolto tra il quattordicesimo e il sedicesimo secolo da Firenze e dalla Toscana. Ma questa omogeneità, secondo Leopardi, sarebbe «cosa ridicola che in un paese privo affatto di unità, e dove nessuna città, nessuna provincia sovrasta all’altra, si voglia introdurre questa tirannia nella lingua».4 In comune con Manzoni eglilamenta la mancanza di un’unità nazionale e di una capitale che possa aver favorito la standardizzazione della lingua ma, a differenza dello scrittore lombardo, non accetta come soluzione linguistica unificante quella di «risciacquar i panni in Arno», scelta adottata da Manzoni a partire dal 1827. In qualche modo Leopardi anticipa il concetto di sistema, che è alla base del Cours de linguistique générale di De Saussure, quando affronta la dinamica che ogni poeta dovrebbe tener presente tra adozione di una lingua “comune e nazionale” e riutilizzo di forme antiche che favoriscono nel lettore l’accesso all’evocazione del passato e la proiezione nell’immaginario.5

Nell’ottica di Leopardi, tutto ciò che è umano ha a che fare in qualche modo con la lingua: letteratura, politica, storia nazionale, sistema delle idee.6 Per il poeta recanatese la lingua andrebbe a incidere anche sulla memoria.

«La poca memoria de’ bambini e de’ fanciulli, che si conosce anche dalla dimenticanza in cui tutti siamo de’ primi avvenimenti della nostra vita, e giù giù proporzionatamente e gradatamente, non potrebbe attribuirsi (almeno in gran parte) alla mancanza di linguaggio ne’ bambini, e alla imperfezione e scarsezza di esso ne’ fanciulli?»7

La parola costituisce l’uomo, ma costituisce l’uomo perché essa crea il mondo nel quale vive e opera l’uomo. La parola, intesa come capacità di dare un nome alle cose, di verbalizzare le esperienze presenti, di ricordare quelle passate, di progettarne altre e, infine, di fare una serie di operazioni con esse, come operazioni di selezione e di combinazione di parole, creando nuovi significati. Privo della parola, l’uomo non avrebbe mai potuto intendere e volere una qualunque cosa, avere memoria e ricordare eventi passati, programmare la sua esistenza e progettare il futuro. Non si sarebbe mai neanche posto tutti questi interrogativi.8

Leopardi ha speso “la favola della vita” a ragionare sulla natura, sull’uomo, sulle letterature e sulle lingue, e lo ha fatto nel solo modo possibile: attraverso le parole. 

Il panorama della situazione linguistica e culturale dell’Italia della Restaurazione è caratterizzato dal problema della costruzione di una lingua nazionale moderna che non aveva ancora trovato una soluzione soddisfacente, e dalla scissione tra lingua parlata e scritta. In questo contesto egli assume una posizione originale, dettata dal suo personale modo di considerare le lingue, alternativa sia al purismo che ai suoi detrattori. Mancando letteratura, la lingua è rimasta quella illustre del tempo antico, che non è idonea a esprimere nuove idee. Per uscire da questa situazione, Leopardi propone in un certo senso di rimettere in cammino la lingua italiana, di ridarle nuova linfa culturale e vigore, tenendo conto però della sua ricca, variegata e inestimabile storia.9

Un letterato di primo Ottocento aveva a disposizione una quantità di varianti fonologiche e morfologiche davvero notevole. Se questa spiccata varietà di forme – nei secoli precedenti era ancora maggiore, mentre oggi è ridottissima – per uno scrittore come Manzoni, sensibile alla funzione sociale del linguaggio, poteva persino rappresentare un ostacolo al processo di unificazione linguistica ancora di là da venire, era invece linfa vitale per alimentare l’impegno creativo di un autore come Leopardi, costantemente alla ricerca di forme di lingua e di stile sempre diverse, che potessero esprimere tutta la varietà del suo “pensiero in movimento”.10

In realtà, sottolinea Ricci, non sempre la scelta tra un’opzione e l’altra era in effetti libera: spesso era invece condizionata da fattori legati al tipo di testo che si stava scrivendo oppure alle caratteristiche di un certo genere di scrittura. Però è innegabile che avere a disposizione due o più alternative per uno stesso referente moltiplica le soluzioni in relazione sia alla variatio lessicale sia alla metrica. 

L’aggettivo solitario viene utilizzato da Leopardi in due titoli (La vita solitaria e Il passero solitario) e in altre dieci occasioni. Accanto a esso, il poeta si serve anche dei più lirici ermoromito solingo. La scelta è dipesa, di volta in volta, dalla varia modulazione sia delle implicazioni metriche (si va dalle due sillabe di ermo che, iniziando in vocale, può legarsi in sinalefe anche con la parola precedente, alle quattro di solitario) sia delle distribuzioni interne al singolo canto o al libro intero. 

Quando il poeta, per esprimere la stessa cosa, ha a disposizione due o più risorse lessicali, la sua opzione sarà dettata dal livello stilistico del componimento. Nei Canti incontriamo otto volte un verbo di uso comune come prendere, mentre solo due volte il più familiare pigliare e sempre in contesti stilisticamente umili: nella prima lassa della Quiete (caratterizzata da “modestia di registro”).11 Anche quando Leopardi ricorre a un accostamento non inedito, la pregnanza e la “leopardianità” dell’attributo rendono quell’accostamento nuovo e originale. È stato preso in esame il celeberrimo “lenta ginestra” dell’attacco dell’ultima strofa della canzone: «E tu, lenta ginestra, / Che di selve odorate / Queste campagne dispogliate adorni».12 La ginestra leopardiana, stante la condizione di pieghevolezza, diventa un’allegoria di chi non si oppone alla sua sorte con vano orgoglio o con vili lamenti, ma accetta la legge della natura e la propria morte con consapevolezza e dignità.13

La ricerca di un adeguato strumento linguistico è collegata sempre alla scelta dei contenuti da esprimere, ai sistemi di idee che le parole rappresentano e fanno circolare. La posizione di Leopardi è piuttosto isolata nel dibattito del tempo dove, dopo l’esperienza riformatrice, la discussione sulla questione della lingua tendeva a ripresentarsi solo come ricerca linguistica fine a sé stessa, sterile e inutile, o come espressione retorica priva dello spessore culturale e molto distante, quindi, dai modelli di eloquenza che erano operanti a metà Settecento. Il dissenso che egli manifesta nei confronti della cultura del tempo è molto forte: «Tutte le opere letterarie italiane d’oggidì sono inanimate, esangui, senza moto, senza calore, senza vita».14 La mancanza di una lingua e di una società moderna in Italia dipende dalla mancanza di una nazione, dalla sua nullità politica e militare, dal fatto che è priva di una capitale, una letteratura, un teatro, una conversazione sociale, cioè di quelle istituzioni che assicurano una uniformità di opinioni e di costumi che è poi alla base della coesione sociale.15

La diagnosi di Leopardi della società italiana e delle forze politiche e culturali che governano l’opinione pubblica ricalca quel nesso tra letteratura e lingua, collegato a sua volta a quello, altrettanto centrale, tra nazione e lingua, e che si risolve nella reciproca determinazione fra condizioni linguistiche, condizioni politiche e forme della produzione culturale, il cui intreccio può ricordare l’impostazione che Gramsci avrebbe considerato molto tempo dopo la questione della lingua.16 Sul fatto che Leopardi cercasse consapevolmente e tenacemente la propria lingua poetica non c’è dubbio. La ricerca di lingua e di stile è orgogliosamente dichiarata nelle Annotazioni alle dieci canzoni. Le fittissime pagine delle annotazioni linguistiche sono un duello col Vocabolario della Crusca e coi reali o supposti critici puristi, volto a denunciare le lacune di quel dizionario e a integrarle coi testi canonici, a dimostrare la propria ortodossia alla tradizione sancita da quel dizionario stesso e insieme ad affermare la propria libertà e creatività.17 I grandi poeti sono anche grandi architetti.18Leopardi architetto si vede sia nelle microstrutture (disposizione delle parole o vari fenomeni microsintattici) sia nelle macrostrutture (dalla creazione della singola strofa o del singolo periodo alla composizione dell’intero testo). E allora, come evidenzia Ricci, al pari di una partitura musicale, le poesie e le prose leopardiane si configurano in una poliedrica varietà di soluzioni, dove costanti e varianti vengono intessute e dosate per inseguire, di volta in volta, la lingua e lo stile che Leopardi riteneva più adatti alle cose da dire. 


Il libro

Alessio Ricci, La lingua di Leopardi, Società Editrice Il Mulino, Bologna, 2024.


1G. Leopardi, Zibaldone.

2G. Leopardi, Zibaldone.

3A. Luzi, Le mythe repensé dans l’œuvre de Giacomo Leopardi, Presses universitaires de Provence, Aix-en-Provence, 2016.

4G. Leopardi, Zibaldone

5A. Luzi, op.cit.

6F. D’Intino, L. Maccioni, Leopardi: guida allo Zibaldone, Carocci, Roma, 2016.

7G. Leopardi, Zibaldone.

8R. Pititto, Processi linguistici e processi cognitivi. Verso una teoria della mente, Unina – Università degli Studi di Napoli, 2004.

9A. Prato, Il rapporto tra linguaggio e società nella filosofia di Leopardi, in Natura Società Letteratura, Atti del XXII Congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti, Bologna, 2018.

10S. Solmi, La vita e il pensiero di leopardi, in G. Pacchiano (a cura di), Studi leopardiani, Adelphi, Milano, 1987.

11P.V. Mengaldo, Leopardi antiromantico. E altri saggi sui Canti, Il Mulino, Bologna, 2012.

12G. Leopardi, La ginestra, o il fiore del deserto.

13P.V. Mengaldo, L’epistolario di Nievo: un’analisi linguistica, Il Mulino, Bologna, 2006.

14G. Leopardi, Zibaldone.

15A. Prato, op.cit.

16S. Gensini, Leopardi «filosofo linguista italiano», XLIX-L.

17G. Nencioni, La lingua del leopardi lirico, in Id., La lingua dei “Malavoglia” e altri scritti di prosa, poesia e memoria, Morano, Napoli, 1988.

18P.V. Mengaldo, Leopardi antiromanticoop.cit.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa de Il Mulino per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Giuliano Brenna, L’odore dei cortili

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Nel 1926 un colpo di Stato militare diede inizio a un lungo periodo di dittatura. Il Portogallo fu dominato, a partire dal 1932, da Antonio de Oliveira Salazar, il quale diede vita a uno Stato di stampo fascista, corporativo e molto legato alle gerarchie della Chiesa cattolica, per diversi aspetti assimilabile al franchismo spagnolo. Salazar rimase al potere sino al 1968, in un contesto di persistente arretratezza economica e sociale. Ma la dittatura, seppure con alcune moderate aperture, sopravvisse fino al 1974, quando fu abbattuta, nel contesto delle difficoltà poste dal processo di decolonizzazione, dalla rivoluzione dei garofani (un colpo di Stato messo in atto da forze militari progressiste).1

Quello appena descritto è esattamente il Portogallo che fa da sfondo all’intera vicenda narrata da Brenna ne L’odore dei cortili. Un intenso romanzo nel quale si intreccia la storia di un intero Paese con quella di umili cittadini i quali subiscono scelte non proprie e accadimenti tragici che cambiano il corso delle loro vite, le modificano, le distruggono e, proprio quando sembra che tutto sia perduto, ecco la speranza che nasce silenziosa e cresce come un piccolo fiore sbucato dal cemento. Improbabile eppure reale. 

Nella prima parte del libro protagonisti sono Mattia e sua madre, Serena, una donna segnata dalla vita e dal tempo.

«Le sembra che le sue giornate siano diventate come le foglie di tiglio (per la tisana, ndr), all’inizio fragranti, dense di profumo e promettenti un gusto delizioso, ma col trascorrere delle ore le acque della vita ne sottraggono l’essenza, fino a che, giunta la sera, si ritrova con una poltiglia tiepida e amarognola.»

Serena trasmette un senso di angoscia esistenziale che sembra l’opposto di quello del figlio. Ella sembra svegliarsi pronta ad accogliere la vita per poi ritrovarsi, a fine giornata, stremata da eventi e sentimenti. Mattia sembra avere, invece, come unico obiettivo quello di nascondersi, agli altri, alla vita e finanche a sé stesso. Un atteggiamento che manterrà fino all’età adulta, allorquando all’isolamento volontario sostituirà una certa voglia di autopunirsi per colpe non sue. L’inquietudine esistenziale di Mattia, rimpolpata da un vortice altalenante di emozioni, lo porterà a cercare il brivido della vita in situazioni dove la stessa è, in realtà, in grave pericolo. 

«Il dolore ha finito per sopraffarla, si sente come un corpo che ha galleggiato su di una superficie di acqua gelida e lentamente, giorno dopo giorno, impregnata del liquidi è affondata. Invece il dolore ha fatto la cosa opposta nella vita di Mattia che, al di là della parete, sembra ora sfuggirgli dopo una lunga immobilità, quasi una reclusione volontaria. Il nipote usa la terribile sofferenza, con cui ha imparato a convivere, come forza interiore che lo spinge a cercare la sua strada.»

O meglio, questo è quello che pensa Clara, sua zia. In realtà Mattia non ha proprio idea di cosa significhi una vita senza dolore. Ma Clara non è obiettiva, guarda e cerca di capire il suo dolore attraverso gli occhi del proprio. Quello mostrato da Clara sembra un vero e proprio disagio empatico. La paura che il dolore di Mattia possa aggravare il proprio la blocca al punto che sminuisce il primo altrimenti non riuscirebbe mai a reggere il peso emotivo di entrambi. 

Serena e Mattia sono vittime del regime dittatoriale, del clima di sospetto che questi ha ingenerato nell’intera popolazione, sono vittime perché privati delle libertà alla base dei diritti umani. 

«Serena pensa alla dittatura che rende tutto ciò così difficile, la censura filtra ogni cosa che giunge da fuori, e trova mille giustificazioni al silenzio dell’amato scomparso, per quanto ne sa, nel ventre di Parigi, città che lei immagina bellissima ma temibile, come una piovra che imprigiona che le si avvicina con tentacoli invincibili e al contempo deliziosi

Per anni Serena si è nutrita di un amore che forse ha solamente “nutrito” il suo cuore e tormentato Mattia per la cui assenza ha sempre vissuto come un paria. Il diverso senza un padre. Una diversità che poi non è neanche tale, ma nella dittatura in cui vivono diventa un vero flagello. 

«Il regime ha talmente avvelenato gli animi delle persone che anche i semplici cittadini, nel tentativo, perlopiù vano, di essere risparmiati dalle angherie della polizia politica, diventano delatori, al punto che tutti sospettano di tutti, in un gioco al massacro di informazioni reali o fittizie, dove anche banali sospetti vengono comunicati agli incaricati della repressione

La dittatura colpisce tutti i cittadini, anche quelli che pensano di essere dalla parte dei “forti”, dei “giusti”. Ecco allora che Brenna costruisce il personaggio del capitano Green proprio intorno a questo concetto. Una persona molto diversa da Mattia ma che con questi ha in comune la ricerca di sé stesso. 

La trama e il suo sviluppo del romanzo di Brenna hanno una direzione propria, tuttavia le scelte compiute da HoraceGreen ricordano, per alcuni versi, quelle di Adriano Meis ne Il fu Mattia Pascal di Pirandello. Anche se, a dirla tutta, è un altro l’aspetto della poetica pirandelliana che sembra più affine alle tematiche trattate da Brenna. In particolare il tema del doppio. Fin dall’inizio, le opere di Pirandello sono il frutto dello spirito del tempo in cui è vissuto, e testimoniano il passaggio dal naturalismo alla modernità. Anche i personaggi de L’odore dei cortili vivono in un periodo di grande cambiamento politico, economico, ma soprattutto sociale. E questi stravolgimenti per certo hanno influito e influenzato le scelte e i comportamenti sia di Mattia che di Green. Tuttavia, mentre quest’ultimo non reggerà il peso per lui troppo ingombrante dell’io privato sull’io pubblico, Mattia invece attraverso l’estremizzazione dell’io pubblico riuscirà a trovare l’equilibrio nel suo io privato. 

Un altro aspetto interessante del libro è la presenza di un narratore esterno il quale in più occasioni sembra dialogare direttamente con il lettore. È un corretto espediente per coinvolgerlo non solo nella lettura ma nelle stesse vicende raccontate, soprattutto nei punti in cui cambia la scena e più alto è il rischio di perdere concentrazione e attenzione. 

L’odore dei cortili è un romanzo intenso perché non si limita a raccontare una storia. Parla dell’esistenza dei personaggi i quali fin da subito assumono, agli occhi del lettore, valenza di persone.


Il libro

Giuliano Brenna, L’odore dei cortili, Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2024.


1Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani.


Articolo pubblicato su LuciaLibri


Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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© 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Diluvio: l’opera-mondo che riflette sul futuro dell’umanità

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Fenomeni meteorologici sempre più estremi e governi sempre più divisi e impotenti contro il pericolo che aleggia sul destino dell’umanità. Diluvio di Stephen Markley indaga a fondo la crisi ecologica che è già realtà.

Sulle montagne del Wyoming, Kate Morris, una giovane attivista, dà vita a un progetto che potrebbe cambiare il corso della storia mentre la politica rimane impantanata nei suoi riti stanchi. Intorno a lei, le vita, le speranze e l’impegno di un climatologo, un giovane sbandato e un gruppo di ecoterroristi.

L’approccio costruttivista ha enfatizzato i mutamenti culturali avvenuti nella percezione della sicurezza e del rischio o nella fiducia nel progresso tecnologico. Da una prospettiva realista-materialista, invece, l’accresciuta centralità dei disastri è stata connessa all’intensificarsi di processi economici i cui impatti ecologico-materiali hanno aumentato la vulnerabilità di intere popolazioni e territori. C’è un’accresciuta possibilità di eventi “improbabili” ma dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche (i cosiddetti “cigni neri”) o di raggiungere i tipping point – punti di svolta , ovvero punti di accelerazione repentina di catastrofi o emergenze “lente” (L. Pellizzoni (a cura di), Introduzione all’ecologia politica, Il Mulino, Bologna, 2023).

Negli ultimi cinquanta anni, l’impatto economico degli eventi estremi si è moltiplicato a causa di un aumento sostanziale nei danni causati da ciascuno di questi disastri: alluvioni, tempeste, uragani, ondate di calore estreme, incendi, frane. Si stima che rispetto all’anno precedente, il costo di ogni evento catastrofico tra il 5% dei più dannosi aumenti di circa 5 milioni di dollari (Sant’Anna Magazine, 2021). 

Markley immagina un mondo nel quale uno sparuto gruppo di cittadini dimostra l’importanza della capacità di credere nella natura e nelle abilità dell’essere umano il quale, contrariamente a tutte le altre specie di animali, non ha un habitat proprio, tuttavia, pur privo di un suo habitat specifico, ha fatto di qualsiasi ambiente il suo ambiente (M.T. Pansera, Natura e Cultura in Arnold Gehlen, in Il Tema di B@bel, RomaTre Press, 2020). Ed è proprio in questa sua capacità di adattamento che, forse, l’uomo deve ricercare e ritrovare la capacità di sopravvivenza, di sé stesso e dell’ambiente scelto per vivere. 

Se si accetta la tassonomia luhmanniana, attributiva e costruttivistica, allora è evidente come la nostra epoca si caratterizzi per due fenomeni: lo spostamento progressivo dal pericolo al rischio e l’aumento oggettivo delle situazioni di danno potenziale e di incertezza. Nella società attuale l’accrescimento delle capacità tecniche e scientifiche consente un incremento della possibilità di decisione e quindi innesca un progressivo passaggio da una società del pericolo a una società del rischio. Per cui assumono grande rilevanza le scelte con cui vengono ripartiti rischi e possibilità decisionali tra i diversi attori sociali (R. Sibilio, Alcuni aspetti sociologici dei rischi ambientali: il caso Vesuvio, in Quaderni di Sociologia, 2001). 

Perché allora non vengono messe in campo tutte le risorse possibili e potenziali per preservare l’ambiente e i suoi abitanti? 

Questo sembra essere il quesito alla base del libro di Markley, un’epopea distopica sul cambiamento climatico che abbraccia un lungo arco temporale che va dal 2013 al 2030. Il romanzo è ambientato in Wyoming, nella parte occidentale degli Stati Uniti, caratterizzato da vaste pianure, dalle Montagne Rocciose e dal famosissimo Parco nazionale di Yellowstone, conosciuto come il Cowboy State, dove si contano più cervi che abitanti. Ed è proprio in questo stato che, simbolicamente, l’autore sceglie di ambientare la sua storia tutta incentrata sul tema della natura, dell’ambiente, dell’uomo e dei disastri generati dall’incuria di quest’ultimi e dalla forza dirompente della prima. Pur narrando di argomenti di stretta attualità, il taglio dato al romanzo da Markley rende i protagonisti sempre un po’ borderline, ai margini di una società che sembra rigettarli forse proprio per la loro resilienza, costanza e tenacia nel portare avanti un progetto di vita “globale”. 

La lotta per salvare e salvaguardare l’ambiente dalle minacce incombenti, dai cambiamenti estremi, dalle speculazioni e dall’inerzia, vera o presunta, della politica ha sempre ingenerato opinioni contrastanti tra chi ritiene i problemi e le minacce reali e chi invece le derubrica a mere contestazioni al sistema. Markley ha inserito nella sua storia anche una tra le figure più controverse in questo sistema: l’ecoterrorista

La criminalizzazione delle proteste non violente per il clima e il “talismano” del terrorismo finiscono per diventare una profezia che si autoadempie perché serrano in una morsa il dissenso legittimo e pacifico favorendo il ricorso a metodi più aggressivi e financo violenti. Anche per gli ambientalisti/animalisti può verificarsi quel processo di radicalizzazione che poggia sulla constatazione del fallimento dei metodi non violenti per raggiungere gli scopi prefissi, e alcuni studiosi affermano che recenti riscontri hanno mostrato la propensione a intraprendere azioni sempre più aggressive. I movimenti ambientalisti sono stati paragonati alle angurie: verdi fuori e rossi dentro. Che alcuni gruppi ambientalisti siano in contatto, e pure in accordo, con formazioni che invocano una maggiore giustizia sociale è dovuto alla constatazione che i più danneggiati dal disastro ambientale sono i meno abbienti, anche nel senso che i peggiori cataclismi si sono verificati nei paesi del sud del mondo. L’ecoterrorismo può essere indicato come una “criminalità” di tipo ideologico, motivata da ideali politici e di cambiamento sociale, ma difficilmente identificabile come movimento terroristico in senso stretto (I. Merzagora, G. Traviani, P. Caruso, Ecoterrorismo tra conoscenza e percezione sociale, Rassegna Italiana di Criminologia, 2024).

Già sul finire dell’Ottocento, le testimonianze di letterati come Giocosa e Ojetti, oltre a confermare i progressi dell’America moderna, introducono anche una serie di giudizi ostili, determinando una costante compresenza di mito e antimito, di sentimenti contrastanti che rispecchiano la faticosa ricerca di identità della società italiana, che, proprio nell’altro, il diverso, esplicita le proprie paure e le proprie speranze. I narratori americani, portando sulla scena temi e problemi propri delle classi subalterne con un linguaggio fortemente radicato nella parlata comune, sembrano instaurare la democrazia nella letteratura (Beniscelli, Marini, Surdich (a cura di), La Letteratura degli Italiani. Rotte Confini Passaggi, Associazione degli Italianisti, Genova, 2010). L’opera di Stephen Markley sembra il continuum contemporaneo di questo filone letterario.


Il libro

Stephen Markley, Diluvio, Einaudi, Torino, 2024. Traduzione di Manuela Francescon e Cristiana Mennella. Titolo originale: The Deluge.


Articolo pubblicato sul numero di dicembre 2024 della rivista cartacea Leggere:Tutti


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Einaudi per la disponibilità, il materiale e l’invio preprint.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Nikolai Prestia, La coscienza delle piante

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Smarrimento, confusione, incredulità, paura. Sono questi i sentimenti che il protagonista del libro, Marco, lascia trasparire, fin dalle prime battute, al lettore che legge il resoconto di un ricovero in pronto soccorso attraverso gli occhi e la mente di colui che, fin da subito, realizza di essere uno dei tanti. Dei troppi in realtà. Marco si trova ancora sulla barella dell’ambulanza perché i posti letto sono finiti, o meglio sono tutti occupati. È ancora incredulo ed evita l’interazione con gli altri degenti. Cerca di fare scudo e si isola, di nuovo. Perché, in fondo, è proprio la solitudine ad averlo condotto in quel luogo. Una solitudine che ha origine non dall’essere o dal sentirsi realmente solo, bensì dal sentirsi inadeguato. Un disagio che non è solo di Marco ma di tutti, perché si tratta di un vero e proprio disagio generazionale e sociale. Un disagio che diventa rabbia allorquando si realizza di vivere un’epoca in cui il risultato vale più del percorso, e dove la velocità è l’unico parametro con il quale tutti, più o meno consapevolmente, giudichiamo il successo.

Quando la fase acuta del suo attacco di panico è rientrata, Marco comprende di dover fare i conti con la propria coscienza, affrontare i traumi del passato. L’unico vero modo per poter guardare con certezza e sicurezza al futuro. Ma per farlo, ha bisogno non dell’ultima bensì delle ultime quattro sigarette, dopodiché si ripromette di smettere di fumare. Questo passaggio non può non sollecitare la mente del lettore al ricordo del celeberrimo personaggio alle prese con la propria coscienza e con l’ultima sigaretta.

Il problema di fondo del protagonista de La coscienza di Zeno di Italo Svevo non sembra essere il vizio del fumo in sé ma l’incapacità di tenere fede ai buoni propositi. Così egli acquista i tratti dell’inetto sofferente di una malattia morale, incapace di assumersi alcuna responsabilità, un antieroe, un perdente, come indica il suo atteggiamento rinunciatario.1 Ma il romanzo scritto da Svevo non è la storia di Zeno Cosini, bensì la storia che egli racconta. La coscienza di Zeno include dure racconti: quello dell’analista e quello di Zeno. Ma il primo, incastonando il secondo, dà all’insieme un senso particolare: il libro ci dice questa è la storia che Zeno racconta e non questa è la storia di Zeno.2 Un esempio di metanarrativa le cui regole interpretative si possono utilizzare anche nell’analisi del libro di Prestia: La coscienza delle piante non è il racconto della vita di Marco bensì il racconto che egli fa della sua vita attraverso la sua coscienza. 

Svevo si è spesso rivolto alla letteratura non come semplice mezzo di evasione dalla realtà, ma come vero e proprio strumento conoscitivo con il quale esplorare e spiegare la natura umana e la vita. Egli è convinto che la mente e il comportamento umani abbiano molte caratteristiche universali che si osservano in tutti gli individui a prescindere dalle contingenze storiche, sociali e culturali delle loro vite, e che molte dinamiche sociali umani riflettano la competizione (che egli chiama “lotta”) per la sopravvivenza e per la riproduzione.3 Una competizione difficile da affrontare per il protagonista del romanzo di Prestia al punto che egli si nasconde dietro una vita immaginata, sognata, mentita, perché costruita intorno alle menzogne che racconta allo scopo di nascondere i fallimenti. O meglio quelli che la società identifica come tali e che ricadono su di lui come macigni. 

Zeno Cosini aveva scelto il distacco ironico come terapia per l’ineludibilità della natura umana, Marco tenta invece la strada della confessione e, dinanzi al suo terapeuta, si apre al racconto vero della sua coscienza.

L’adolescente ha fame di esperienza, è animato da una voracità psicologica che lo spinge a vivere la sua realtà esistenziale con irruenza, con la percezione di non esserne mai sazio; l’adulto, invece, ha bisogno di digerire, ovvero di accettare la sua dose di esperienza assimilata per renderla conforme a una realtà che scopre essere “altro da sé”, una realtà di cui non può disporre in modo indiscriminato, onnivoro: l’adulto che non riesce in questo adattamento, restando adolescente, ancora affamato, rientra nell’ambito del patologico. Gli adolescenti di un secolo fa, pur apparendo ribelli agli occhi degli adulti, venivano da questi ridotti alla sottomissione, al rispetto della volontà dei padri imposto con la forza. Oggi le dinamiche sono cambiate. Da alcuni decenni il mito dominante in Occidente, e ormai si può dire in tutto il pianeta, è quello di Narciso. L’Ideale dell’Io ha più spazio nella dimensione psichica della persona rispetto al Super-Io. L’adolescente, distratto da uno scontro con un adulto che non si oppone alla sua individuazione con la forza, si specchia nel confronto intenso con i suoi pari. Vivono insieme la loro crescita, non più ristretti nel contesto familiare, danno sfogo alla loro fame di esistenza, vivono emozioni e sentimenti, condividono la loro energia vitale senza più le forme repressive dell’epoca precedente, eppure la frattura resta, resta l’incomprensione fra adulti e adolescenti, e persiste un disagio evidente vissuto dagli adolescenti.4

Le trasformazioni sociali e culturali che, da oltre un trentennio, stanno caratterizzando la struttura delle società occidentali hanno contribuito, tra le altre cose, ad accentuare la rilevanza del cosiddetto “disagio giovanile”, la cui diffusione è stata favorita sia dai profondi mutamenti intervenuti nella struttura delle relazioni sociali (in larga parte legati all’avvento della società digitale), sia dalle difficoltà che, in seguito alla crisi economico-finanziaria della fine degli anni duemila, hanno interessato alcune parti della popolazione, con accentuazione delle diseguaglianze e amplificazione delle incertezze, non solo lavorative, legate al passaggio dei giovani all’età adulta. Le cause sociali (come quella del disagio giovanile) sono a volte strumentalizzate per legittimare cambiamenti che di fatto potrebbero inasprire le disuguaglianze, anziché ridurle.5Gli studenti universitari sembrano sentire sempre più la pressione sociale, le aspettative familiari e la paura del fallimento. «Non siamo più disposti ad accettare senso di inadeguatezza, depressione o persino suicidi a causa delle condizioni imposte da un sistema malato che baratta la persona con la performance», sono state le parole di una studentessa all’inaugurazione dell’anno accademico all’Università di Ferrara nel 2023. Un aspetto evidenziato dagli studenti, in termini negativi, è la percezione che all’Università si faccia riferimento a un modello di prestazione che fa sentire molto a disagio chi è fuori corso.6

Isolamento volontario o indotto, aspettative reali o presunte dei genitori, senso di vergogna e inadeguatezza sono tra i sintomi principali del malessere provato dagli studenti che vivono il percorso universitario come un vero e proprio insuccesso. Ed è esattamente intorno a queste tematiche che Nikolai Prestia ha costruito la struttura portante de La coscienza delle piante. Un libro che parla di un percorso interrotto e poi ripreso (quello universitario) e di un altro percorso (quello terapeutico) che Marco intraprende per analizzare non tanto il primo quanto il suo essere interiore, il tutto in un libro che è esso stesso un percorso che conduce il lettore ad analizzare luci ed ombre di una società che progredisce è vero ma che a volte lo fa nel verso sbagliato.

Il libro

Nikolai Prestia, La coscienza delle piante, Marsilio, Venezia, 2024. 


1I. Svevo, La coscienza di Zeno, Dall’Oglio, Milano, 1981.

2P. Jedlowski, R. Màdera, Racconti di racconti. Una conversazione, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2014.

3F. Suman, Scienza e letteratura: la natura umana nei romanzi di Italo Svevo, IlBoLive – Università di Padova, 2019.

4P. Di Biagio, L’eterna storia del disagio giovanile nell’era di Internet. Come evolvono le dipendenze patologiche, link – Rivista Scientifica di Psicologia, volume ½ 2019.

5CNG, Il disagio giovanile oggi – Report del Consiglio Nazionale dei Giovani, Sapienza Università Editrice, 2022.

6L. Mannino, Stress da università, STATE OF MIND di inTHERAPY, 2023.



Articolo pubblicato su LuciaLibri


Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Caterina Perali, Come arcipelaghi

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Con proposta di modifica all’articolo 12 della legge 40/2004, il Parlamento italiano ha dichiarato la maternità surrogata, già vietata da detta legge, reato universale. Ciò significa che è perseguibile come reato non solo se praticata in Italia ma anche all’estero, da cittadini italiani ovviamente. Il dibattito che ha preceduto e seguito la votazione in Parlamento è stato connotato da toni molto accesi e posizioni dualistiche che non si incontreranno mai. In base ai dati raccolti nel RapportoItalia 2024 Eurispes, il 62.9% degli italiani si dichiara contrario alla maternità surrogata, con una percentuale in crescita rispetto al 2021, allorquando era favorevole il 59.8% dei rispondenti. Per quanto riguarda, invece, la fecondazione eterologa che richiede l’utilizzo dei gameti donati da individui esterni alla coppia, 6 italiani su 10 si dichiarano favorevoli. Lo sono soprattutto i cittadini italiani di età compresa tra i 18 e i 44 anni. Aumentando l’età degli intervistati progressivamente cala la percentuale di consenso. 

In Italia, sia la fecondazione omologa che quella eterologa sono consentite. A disciplinarle è la medesima legge, ovvero la 40/2004. I requisiti per accedere alla fecondazione eterologa sono chiari, è necessario che si tratti di una coppia eterosessuale e convivente, anche se non coniugata, e che l’età della partner femminile sia ancora in epoca fertile, orientativamente al di sotto dei cinquanta anni. 

«Mi basta il tuo sperma!» è la frase che apre il romanzo di Caterina Perali centrato sul tema della fecondazione assistita. Il racconto preciso di un percorso che la medicina oggi può offrire a chiunque voglia avere dei figli. 

Da sempre la maternità è stata considerata un evento naturale da ascriversi al destino femminile; se la collochiamo tra i comportamenti naturali rischiamo di non cogliere il senso profondo della sua essenza e ne appiattiamo la sua molteplicità storica e antropologica. D’altra parte, se le attribuiamo una esclusiva valenza sociale, rinneghiamo il suo radicamento corporeo e inconscio. La donna è sempre stata ritenuta la depositaria dell’amore materno; questo affetto incondizionato presuppone l’annullamento del sé in funzione del figlio e l’abbandono di qualsiasi aspetto individualista che non sia in armonia con le cure del proprio bambino. Tale concezione, tuttavia, se trascura il contesto culturale, i vissuti e la fragilità connessi alla trasformazione psichica della donna, durante la gravidanza, perde di vista tutta la complessità della situazione. Attualmente, le donne si confrontano con nuovi fantasmi che influenzano, inevitabilmente, il processo che le conduce a divenire madre. In passato la maternità “come destino” era determinata dall’impossibilità di controllare le nascite. Oggi il progresso biomedico e le trasformazioni sociali e culturali hanno prodotto nell’immaginario femminile nuove possibilità e nuove configurazioni di genitorialità, conducendo le donne alla sublimazione del desiderio e all’assunzione della responsabilità della scelta.1

Il confronto delle donne con la nuova idea di maternità, caratterizzata dal controllo della fecondità e dalla possibilità di intervenire medicalmente su di essa attraverso la procreazione assistita le pone al cospetto di scelte un tempo impensabili. Scelte che le costringono a confrontarsi con nuovi fantasmi che possono condurre a forti vissuti depressivi. La nascita psicologica della madre corrisponde a quella situazione psichica in cui la donna si trova a creare in sé uno spazio mentale nel quale riorganizzare la nuova identità e contenere l’idea del proprio bambino.2 Infatti, alla metamorfosi corporea corrisponde una crisi di identità che la conduce a ridefinire il proprio assetto mentale. Perdere il confine della propria identità, diventando doppia, è un passaggio evolutivo molto complesso che dovrebbe concludersi, dopo la nascita, con il ritorno alla propria individualità. Il cambiamento dell’identità, presente nella maternità, implica un grande lavoro psichico che dovrebbe condurre le donne a pro-seguire nell’itinerario della propria esistenza, inoltrandosi nel presente, separandosi dal passato e camminando verso il futuro. In questo complesso percorso esistenziale è necessario attuare delle reti di sostegno, che siano capaci di accogliere le silenziose richieste di aiuto delle madri sia nel periodo gestazionale sia dopo la nascita del bambino.3

La protagonista del romanzo di Caterina Perali è una donna single che ha scelto di diventare madre con la fecondazione assistita. La sua storia viene raccontata attraverso lo sguardo, prima incredulo poi indagatore, di un’altra donna, sua coetanea, la quale sulle prime non comprende la scelta di Chiara ma poi sembra addirittura entrare in piena sintonia con la stessa. L’ambiente in cui il tutto si svolge è uno stabile di ringhiera che evoca immagini da vecchia Milano, quasi una location dei tempi che furono. E invece la vicenda narrata dall’autrice è molto attuale. Questo contrasto sembra quasi incarnare il dualismo che aleggia sempre intorno a tematiche del genere, delicate sensibili e complesse. Il percorso che Chiara deve seguire per portare avanti la sua scelta di sottoporsi alla fecondazione eterologa non è semplice e sarà proprio una iniziale scettica Jean ad assistere la donna, addirittura accompagnandola fino a Valencia, perché in Italia non le viene consentito di accedere a tale procedura.

La natura come realtà biologica e il sistema sociale e culturale, ciascuno con le proprie regole, sin dall’inizio dell’età moderna sono stati soggetti a un processo, al tempo stesso di distanziamento e di compenetrazione, in continuo divenire: di volta in volta, la natura è stata vissuta come amica o come sfida per la razionalità dell’uomo. In questa prospettiva, se è vero che il ricorso alle tecniche di riproduzione assistita è un procedimento fondamentalmente culturale, è altrettanto vero che anche le norme che configurano il rapporto di filiazione naturale sono, nelle diverse società, profondamente influenzate dalla cultura propria di ciascuna di esse e rappresentano, quindi elaborazioni culturali dei diversi sistemi sociali. La contrapposizione tra natura e artificio, allora, costituisce sotto alcuni aspetti un falso problema, mentre sotto altri si rivela inidonea a descrivere esaurientemente il rapporto che intercorre tra dato naturale e dato culturale (artificiale) in molti ambiti dell’esistenza umana, tra i quali non si può certo non ricordare la procreazione. In effetti, naturale e artificiale sono sempre stati separati solo dalla convenzione sociale. 

Nella procreazione oggi prevale l’aspetto della scelta volontaria. Tuttavia detta “scelta” se da un lato contiene positivi aspetti di libertà (individuabili in una migliore possibilità di raccordo tra tempo biologico, tempo psicologico e tempo sociale personale e di coppia) e di responsabilizzazione dell’uomo e della donna, dall’altro porta con sé il rischio di un’eccessiva soggettivizzazione e privatizzazione del vissuto genitoriale. In senso più generale lo spostamento del confine tra natura e artificio appare strettamente correlato alla progressiva medicalizzazione dell’esistenza che caratterizza la nostra società e che comporta una sorta di delega all’apparato sanitario scientifico riguardo ad ambiti e momenti decisivi della vita umana, tra i quali appunto la procreazione.4

È inevitabile domandarsi cosa spinga le coppie sterili che si rivolgono alle tecnologie di procreazione assistita a cercare un figlio “proprio” a tutti i costi, piuttosto che ricorrere all’adozione. Quest’ultima, che rinuncia al legame biologico, pone il partner fecondo e quello sterile sullo stesso piano nei riguardi del bambino e maschera la responsabilità della sterilità all’esterno della coppia. L’adozione inoltre sembra riproporsi, per il soggetto sterile ma soprattutto per l’uomo, come permanente verità del proprio limite. D’altro canto, però, le tecniche eterologhe costringono i partner a confrontarsi, seppur solo a livello psicologico, con la figura del donatore. Si è constatato che il significato immaginario di cui il donatore può essere investito innesca frequentemente, nei soggetti che devono ricorrere a pratiche eterologhe, complessi meccanismi di difesa, che si esprimono, per esempio, nei timori per le reali condizioni di salute del donatore o nel dubbio sulla possibilità della trasmissione di malattie ereditarie non riconosciute o non riconoscibili all’atto della donazione. 

La procreazione assistita non può essere affrontata unicamente sul piano di realtà. Esiste un altro registro, quello dell’inconscio, che non può essere in alcun modo disconosciuto. Basti pensare alle fantasie relative al significato profondo che le varie procedure assumono agli occhi dei pazienti, agli investimenti emotivi di tutte le persone coinvolte, compresi i donatori, gli operatori, il bambino concepito. Gli effetti di ciascuno vanno valutati nel tempo, soprattutto per quanto concerne il nascituro.5

Caterina Perali racconta la storia di una donna single che si approccia alle pratiche di procreazione assistita eterologa. Una donna quindi che ha scelto di far nascere e crescere un bambino senza la figura paterna. 

L’assenza del padre nella scena psicologica del bambino compromette gravemente la risoluzione della relazione simbiotica con la madre e il graduale transito verso una condizione di separazione-individuazione. Il rischio è quello che il bambino resti imprigionato in una relazione fusionale con la madre (il che può implicare anche la sua assunzione di identità di genere). Per la madre il rischio è quello di vivere il figlio come proprio prodotto, un figlio fatto da sola, con un’accentuazione delle aree narcisistiche.6

La struttura del libro di Perali sembra voler invitare il lettore a riflettere su cosa sia veramente egoistico e narcisista tra il desiderare un figlio a ogni costo e il non desiderarlo affatto.

La voce narrante di Come arcipelaghi è Jean, donna che vive di rendita e che per sentirsi utile al mondo conduce una trasmissione radiofonica, una sorta di melting pot nel quale chiunque può intervenire e dire la sua riguardo qualunque argomento, e coltiva sonnecchiante una relazione d’amore con Carlo. Jean è una donna la quale, nonostante le innumerevoli domande intorno alle quali ruota la sua professione, sembra non volersi interrogare sulla vita. Questo almeno fino all’incontro con Chiara che diventa un vero e proprio scontro con i costrutti sociali metabolizzati negli anni e che le erano sempre sembrati, fino a quel momento, certezze assolute. 

Il libro

Caterina Perali, Come arcipelaghi, Neo Edizioni, Castel di Sangro (AQ), 2024.


  • 1T. Schirone, Identità e trasformazione di identità: la maternità, in Journals UniUrb, 2010.

2D.N. Stern, Il mondo imterpersonale del bambino, Bollati Boringhieri, Torino, 1985.

3T. Schirone, op.cit.

4CNB – Comitato Nazionale per la Bioetica, La fecondazione assistita, Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria, Roma, 1995.

5CNB – Comitato Nazionale per la Bioetica, op.cit.

6CNB – Comitato Nazionale per la Bioetica, op.cit.


Articolo pubblicato su LuciaLibri


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Proprio ora che ci sarebbe bisogno di un protagonismo dei valori migliori che il mondo occidentale ha saputo produrre, l’Occidente si sente perduto e sotto attacco. Perché? 

All’inizio del XXI secolo la Storia ha svoltato, ma l’Occidente ancora si rifiuta di ammetterlo e di adattarsi a questa nuova epoca storica. La quota occidentale dell’economia globale si riduce e continuerà a farlo. Il processo è ormai inarrestabile, perché sempre più nuove società imparano ed emulano le best practices dell’Occidente. 

Nella fine della Guerra Fredda l’Occidente ha voluto vedere il trionfo indiscusso della sua supremazia. Sbagliando. Innanzitutto perché la vittoria non è imputabile a una supremazia reale dell’Occidente ma al collasso dell’economia sovietica, ovvero di uno stato che, mentre il suo nemico gongolava, si è pian piano ripreso fino a ritornare a occupare il posto che aveva come potenza mondiale. La fine della Guerra Fredda non è stato altro che la svolta verso una nuova fase storica. Un altro evento assolutamente sottovalutato dall’Occidente è stato l’entrata, nel 2001, della Cina nel WTO – World Trade Organization. L’ingresso di quasi un miliardo di lavoratori nel sistema mondiale di scambi avrebbe per forza di cose avuto come risultato una massiccia distruzione creativa e la perdita di molti posti di lavoro in Occidente.1

I valori dell’Occidente di democrazia, libertà, diritti alla persona devono essere ridiscussi, ripensati e non certo rinunciati o dimenticati se davvero si vuole mantenere viva la speranza di un ritorno alla politica “buona” ma anche a una economia regolata e a una finanza che guardi alle comunità e non al profitto del singolo individuo. Molti gli interrogativi che il mondo occidentale e, in particolare, la “vecchia” Europa si pongono. Primo fra tutti: verso quali drammatici scenari stiamo andando?

Il mondo dei nostri giorni non può essere letto come un ritorno agli anni Venti e Trenta, con annesse argomentazioni su fascismi e deriva burocratica dell’Unione Sovietica. La fase storica che stiamo vivendo è, di fatto, analoga a quella di fine Ottocento – inizi Novecento. Circa centoventi anni fa la globalizzazione negli scambi commerciali raggiunse livelli analoghi agli attuali. In quel periodo la crisi dell’Impero ottomano preparò la crisi dell’Impero asburgico e di quello russo. A caratterizzare quella fase storica fu l’esaurirsi dei compromessi diplomatici, politicamente regolatori delle potenze europee. Alla guerra si arrivò da sonnanbuli, considerandola al massimo un piccolo incidente, che re e imperatori, tutti cugini tra loro, avrebbero sbrigato rapidamente, magari disciplinando anche un po’ i ceti popolari che avanzano troppe pretese. 

Il periodo che va dalla fine della Guerra Fredda fino ai nostri giorni è un percorso caratterizzato, nella sua fase iniziale, da Stati Uniti che considerano superato ogni problema di leadership globale grazie alla finanza, a un ruolo non più militare ma da polizia planetaria, a istituzioni sovranazionali che sostituiscono la politica e a una Mosca che vede accompagnare la liquidazione del suo impero non da uno sforzo politico per integrare la società russa in quella europea, ma da una spoliazione, dal taglio sostanzialmente colonialistico, delle sue risorse. Pesa l’entrata della Cina nella storia del mondo ma il principale fattore di destabilizzazione della leadership unilaterale degli Stati Uniti è stato dopo il 1989 – 1991 (caduta del Muro di Berlino, scioglimento dell’Urss) ancora quello provocato dai movimenti interni al mondo islamico, che pesano sia direttamente in Europa (Bosnia, Cecenia, Turchia) sia grazie alla questione dello strategico approvvigionamento di risorse energetiche. A questa crisi statunitense va aggiunta poi quella europea.2

Sapelli sottolinea quanto gli Usa non sanno più a che santo votarsi ora che l’acume e il buon senso e la capacità diplomatica li hanno completamente abbandonati. E come noi, cittadini di uno dei tanti e diversi stati del continente europeo che li abbiamo seguito con disciplina, subiamo la stessa sorte. 

Tre diverse tipologie di rivoluzioni silenziose hanno determinato e al contempo spiegano lo straordinario successo di molte società non occidentali. 

La prima rivoluzione è politica. Per millenni, le società asiatiche sono state profondamente feudali. La ribellione contro ogni genere di mentalità feudale che ha preso impulso a partire dalla seconda metà del XX secolo è stata enormemente liberatoria per tutte le società asiatiche. Milioni di persone hanno smesso di sentirsi spettatori passivi e si sono trasformati in agenti attivi del cambiamento, evidente nelle società che hanno accettato forme democratiche di governo (India, Giappone, Corea del Sud, Sri Lanka), ma anche in società non democratiche (Cina, Birmania, Bangladesh, Pakistan, Filippine), che lentamente e costantemente stanno progredendo. E diversi paesi africani e latino-americani guardano ai successi asiatici. La seconda rivoluzione è psicologica. Gli abitanti del resto del mondo si stanno liberando dall’idea di essere passeggeri impotenti di una vita governata dal “fato”, per giungere alla convinzione di poter assumere il controllo delle proprie esistenze e produrre razionalmente risultati migliori. La terza rivoluzione è avvenuta nel campo delle capacità di governo. Cinquanta anni fa, pochi governi asiatici credevano che una buona governance razionale potesse trasformare le loro società. Oggi questa è la convinzione prevalente. Gli asiatici hanno appreso dall’Occidente le virtù della governance razionale, eppure mentre i livelli di fiducia asiatici stanno risalendo molti occidentali stanno invece perdendo la fiducia nei loro governi.3

L’America ha costruito il più grande ceto medio che il mondo abbia mai conosciuto e lo hanno fatto gli stessi americani, con il duro lavoro e il supporto di politiche governative volte a creare maggiori opportunità per milioni di persone. Ma ora tutta questa gente è, giustamente, preoccupata. Preoccupata e arrabbiata. Lo è perché, nonostante si ammazzi di lavoro, non vede praticamente crescere il proprio reddito. L’attuale situazione sta impoverendo sempre più il ceto medio e distruggendo la democrazia.4 Una condizione che risulta essere molto simile a quanto sta accadendo in altri paesi occidentali, Italia compresa. Per Mahbubani queste sono tra le principali cause per cui si è arrivati all’elezione di Trump a Presidente degli Stati Uniti d’America (primo mandato) e alla Brexit. Le classi lavoratrici hanno percepito e subito direttamente ciò che le classi dirigenti e politiche non sono riuscite o non hanno voluto captare per tempo. 

Il Nord globale sta assumendo alcuni dei tratti un tempo caratteristici del “Terzo Mondo”, come la crescente diversità interna, la conflittualità su base etnica e razziale, l’aumento di povertà e disuguaglianza, la crescita degli insediamenti informali e di una gioventù sotto-proletarizzata. Molte caratteristiche della modernità africana sembrano investire progressivamente il resto il mondo: crescita di un’economia neoliberista accompagnata da un forte aumento della disuguaglianza, insorgenza di pandemie e catastrofi naturali che talvolta stimolano il sorgere di movimenti di resistenza popolare, concezioni innovative della democrazia che si ispirano a strutture di politica partecipativa del passato. Come hanno ben compreso molti investitori internazionali, non da ultimi i cinesi, l’Africa è entrata in una fase totalmente nuova in cui lo sviluppo dei suoi mercati sta aprendo enormi possibilità economiche. Ma questa trasformazione continua a essere percepita da molti come una mera imitazione di sviluppo occidentale. Liberandosi di questa prospettiva ottocentesca, si scopre invece che i fenomeni osservabili in Africa sembrerebbero addirittura anticipare e non seguire taluni processi che stanno investendo l’Europa e il Nordamerica.5

Può un sistema istituzionale come quello europeo, fondato sull’euro e sullo stop al debito, sopravvivere alla guerra che lo ha investito in pieno? No, non può. La vicenda energetica, la quale altro non è che una destrutturazione delle relazioni di potenza, dimostra, per Sapelli, che l’Europa è destinata a soccombere. A Washington lo hanno capito benissimo, e infatti con la guerra in Ucraina ottengono ora due obiettivi: la distruzione del capitalismo tedesco e la rottura tra economia tedesca e imperialismo cinese. Ovviamente la distruzione di potenza trascinerà con sé l’economia italiana del Nord, da La Spezia a Rimini, che è legata a doppio filo a quella tedesca, così da destrutturare l’Europa, oggi che la sfida si gioca altrove, nell’Indo-Pacifico contro la Cina, e là vanno investite le risorse di potenza.

La guerra di aggressione imperialistica e imperiale della Russia all’Ucraina è giunta rapidamente al suo esito che già si manifestava sin dall’inizio, dopo le guerre siriane e mesopotamiche. La Turchia, nell’agosto 2022, ha riconosciuto la Crimea come entità storica costitutiva della nazione ucraina, scardinando tutta la costruzione neo-imperiale russa che aveva posto le basi ideologiche della guerra di aggressione. Fallito il tentativo di rivitalizzare l’ala anti-islamista dell’armata turca e della sua intelligentsija, fallito Gülen e il colpo di stato, non rimaneva agli Usa che ricercare l’alleanza con la Turchia, accarezzandone i disegni neoimperiali. Le guerre libiche e siriane erano fatte apposta per consentire la realizzazione di un nuovo genocidio turco, ora nei confronti dei curdi, dando a esso addirittura una rilevanza internazionale con l’annessione della Svezia e della Finlandia alla Nato, del resto preparata da anni e anni. Fermare il rischio di escalation sarebbe possibile solo con un sussulto di realismo, con Kiev che rinuncia alla Crimea e al Donbass, ma non se ne vedono i presupposti. Si è davanti a due ideologie “risorgimentali” contrapposte: gli ucraini si considerano giustamente ucraini; i russi, invece, li considerano russi. Mosca non accetta che l’Ucraina sia separata dal nouyi mir, dal mondo russo. L’errore di Kiev è sempre stato quello di escludere l’ipotesi di un’Ucraina neutrale tra Occidente e Russia. 

Tuttavia, la situazione si complicò perché non solo gli Usa intendevano mortificare la Russia, ma anche la Cina, unico possibile soggetto di mediazione, mentre gli Stati Uniti non hanno mai voluto che la guerra finisse. Ne avevano e ne hanno bisogno per continuare ad avere un’influenza forte in Europa e mettere in crisi la Germania. 

Una delle possibili vie d’uscita dal conflitto è trasformare la competizione militare in competizione economica grazie all’azione diplomatica congiunta dei “Paesi latini” europei: Spagna, Portogallo che, insieme alla Germania, trovino un accordo per controbilanciare gli Usa, che vogliono la guerra intermittente, per destabilizzare i Balcani e la Russia. L’Italia resterebbe fuori da questo gruppo di lavoro perché condizionata da esponenti politici locali troppo subalterni agli americani.

Guardare il mondo dal Giappone e dall’Indo-Pacifico consente di comprendere profondamente la nuova era che si apre dinanzi a noi. Il contesto delle relazioni internazionali sta mutando profondamente. Come la trasformazione della stessa Nato e delle sue direttive strategiche, con la penetrazione internazionale sia nell’arco baltico sia in quello Indo-Pacifico che attribuisce una nuova importanza strategica all’Australia la quale, unitamente a Nuova Zelanda e isole Tonga, è il cuore della nuova “anglosfera”, che vede affiancate agli Usa e al Regno Unito le due medie potenze antipodali: la Nuova Zelanda che costituisce una base di profondità verso il Polo Sud, mentre l’Australia è l’antimurale contro la Cina. Un’area geopolitica su cui influisce anche il riarmo atomico del Giappone che va così verso la rinuncia alla totale supplenza nordamericana e si propone di fiancheggiare gli Usa e l’Australia con forze militari proprie.

La “Nuova Via del Cotone”, un progetto di corridoio economico tra India, Medio oriente ed Europa, annunciato a New Delhi nel corso dei lavori del G20, veniva presentato come l’alternativa alla Via della Seta cinese. Il memorandum d’intesa fu firmato tra Stati Uniti, India, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Germania, Francia, Italia e Unione Europea. Un disegno per il cui sviluppo la non conflittualità cooperativa tra Israele e i Paesi arabi era essenziale. Un disegno che vedeva nella cooperazione tra gli Usa e l’Unione Europea la possibilità di competere con la Cina e così di contrastare l’enorme sfera di influenza raggiunta da Pechino nei paesi in via di sviluppo con il suo progetto infrastrutturale della Nuova Via della Seta. 

Dopo aver creato il forum I2U2 nell’ottobre 2021, Israele India Usa Emirati Arabi Uniti hanno intrapreso importanti percorsi di cooperazione sui temi delle risorse idriche, energia e trasporti, spazio, salute e sicurezza alimentare. Viene così a comporsi un quadro più ampio in cui collocare il progetto di Washington di potenziare il prolungamento di potenza del Quad, accordo che unisce Australia India Giappone e Stati Uniti, sempre diretto a contenere in forma competitiva la crescente influenza cinese nel Pacifico. Prolungamento che si sostanziava, nel settembre 2023, dell’acquisizione del porto di Haifa con un partner israeliano locale, così da rafforzare le rotte commerciali con i porti indiani e incrementare i rapporti tra Europa e Grande Medio Oriente. Ma questo prolungamento di potenza inusitato non poteva non provocare una risposta delle potenze ostili a questo disegno: Cina Turchia Russia Iran. 

Si mette così in moto un processo già visto nel tempo che precedette la Prima guerra mondiale, quando lo zarismo utlizzò i nazionalismi balcanici per contrastare sia l’influenza ottomana nei Balcani, sia quella austriaca e franco-tedesca. Ancora una volta il rapporto tra grandi potenze e nazionalismi in armi: i nazionalismi aggressivi armati e terroristici di massa divengono lo strumento idoneo per condizionare – con l’emergere delle piccole e medie potenze – il più grande gioco delle relazioni internazionali. Oggi un meccanismo simile si ripropone nel Medio Oriente, dove i nazionalismi palestinesi sono sempre crescenti e sempre più influenzati dal terrorismo islamico fondamentalista. 

Lo Stato ebraico avrebbe dovuto divenire il centro di una Nuova Via del Cotone in funzione anti-cinese. Per distruggere questa nuova articolazione del plesso del potere mondiale del Grande medio Oriente si è sviluppato l’attacco iraniano-saudita-terroristico di Hamas a Israele

Gli occidentali sembrano essere diventati dipendenti dalle news, prestando attenzione solamente agli eventi e non ai trend. La Malaysia, per esempio, è un paese raccontato dai media occidentali soprattutto o prevalentemente attraverso “news” tragiche (faide e scandali politici, attentati e disastri aerei, scandali finanziari, assassini e via discorrendo). Il risultato è che poche persone si rendono conto che, in termini di sviluppo umano, la Malaysia è uno dei paesi di maggior successo nel mondo in via di sviluppo. Il suo tasso di povertà è sceso dal 51.2% del 1958 all’1.7% del 2012.6 La tante volte ideologicamente negata competizione tra nazioni passa anche e soprattutto attraverso la comunicazione, l’informazione, l’immagine che viene data del paese opposto o concorrente. Una comunicazione distorta che non si ferma neanche davanti a difficoltà e malattie.

«Rileggete le gazzette moderne e postmoderne e scoprirete che pare sia la Germania la fonte di un focolaio da coronavirus ben più potente di quanto si pensasse. Eppure nulla si disse per giorni. L’Italia, invece, si configura nel landscape simbolico mondiale come l’untore del mondo terracqueo.»7

E che dire allora della Cina? Cosa sappiamo di ciò che veramente accade ed è accaduto nell’Impero di Mezzo?

La Cina appare a molti osservatori nazionali e internazionali come una nazione che esce vittoriosa dalla crisi pandemica. I dati che furono diffusi sul prodotto interno lordo mondiale sembravano nel 2020 confermare questa convinzione. Molti osservatori internazionali gioivano leggendo che il Pil cinese aumentava dell’1%, non leggendo nulla di ciò che di interessante si può e si poteva leggere nel mondo su questo tema. 

Dopo la svolta teorizzata da una moltitudine di studiosi sia civili sia militari, si assiste oggi a una sorda battaglia scatenata dall’esercito. Esso ha presidiato la nazione durante la pandemia. E forte di questo torna a levarsi contro il predominio economico e burocratico della marina e dell’aviazione, per così ritornare al potere che deteneva quando la politica estera era difensiva e anti-russa e anti-indiana e comportava quindi guerre di terra a differenza della Via della Seta tutta fondata sul dominio dei mari, come documentano le violazioni del diritto marittimo nei Mari della Cina del Sud e nell’Oceano Indiano. Quell’1% di Pil era di “trascinamento” in una nazione che prima saliva del 6%. 

«Il coronavirus, se guardiamo a questo pericolo terribile per la salute umana in questo inusitato contesto, può contenere in sé una virtù e questa virtù è quella dell’umiltà: l’umiltà di riconoscere che la crescita inarrestabile della globalizzazione finanziaria e della Cina – che è a essa intimamente legata – possono entrambe subite una battuta d’arresto.»8

Sottolinea Sapelli quanto il crollo dell’economia mondiale si stia rapidamente avvicinando, conseguenza di ben tre crisi exogene, una all’altra susseguente: pandemia, aggressione imperialistica della Russia all’Ucraina, ferita genocidiaria nazionalistica palestino-islamico-fondamentalista inflitta a Israele. 

L’evento pandemico e l’evento genocidiario richiamano entrambi alla consapevolezza della caducità – insieme alla vita mortale – di una ragione illuministica che voglia non solo curare sanitariamente il male, ma rispondere all’interrogativo tragico che da esso promana.9


Il libro

Giulio Sapelli, Verso la fine del mondo. Lo sgretolarsi delle relazioni internazionali, Guerini e Associati, Milano, 2024. Prefazione di Lodovico Festa.


1K. Mahbubani, Occidente e Oriente. Chi perde e chi vince, Bocconi Editore, Milano, 2019.

2L. Festa, introduzione a Verso la fine del mondo.

3K. Mahbubani, op.cit.

4E. Warren, Questa lotta è la nostra lotta, Garzanti, Milano, 2020.

5J. e J. L. Comaroff,  Teoria dal Sud del mondo. Ovvero, come l’Euro-America sta evolvendo verso l’Africa, Rosenberg&Sellier, Torino, 2019.

6K. Mahbubani, op.cit.

7G. Sapelli, Verso la fine del mondo.

8G. Sapelli, op.cit.

9M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 1996.



Articolo pubblicato su LuciaLibri


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Guerini e Associati per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Chi perde e chi vince nella nuova epoca storica? “Occidente e Oriente” di Kishore Mahbubani (Bocconi Editore, 2019)

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Nobili, Grimaldi, Coppola, Abitare città sicure. Politiche strumenti metodi

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Lo spazio pubblico ben progettato corrisponde ai bisogni dei cittadini, degli abitanti e degli utilizzatori. La sua sicurezza è affidata a molteplici figure professionali e a mestieri che contribuiscono a definirne la pianificazione, il funzionamento o l’animazione. Certi spazi pubblici, a causa di una pianificazione inadeguata o di un’occupazione non condivisa, sono esposti a severi problemi di sicurezza, inciviltà e criminalità, oppure generano una sensazione di insicurezza e sono fonti di conflitto tra i loro utilizzatori. La domanda di protezione avanzata dai cittadini richiede dunque di prendere in seria considerazione le sfide in materia di sicurezza fin dal momento della progettazione dello spazio pubblico, studiare la prevenzione in termini di pianificazione e prevedere a tal fine un dialogo tra il progettatore e l’utilizzatore/gestore dello spazio, fondandolo sull’idea della condivisione e dell’appropriazione dei luoghi.

La presenza di fenomeni di criminalità e, ancor di più, di inciviltà negli spazi pubblici determina un impatto molto forte sul senso di insicurezza dei cittadini. Per le città del XXI secolo, la gestione di tali spazi nell’obiettivo di diminuire l’allarme e la paura rimane una sfida prioritaria. La risposta più utilizzata per ridurre la criminalità, la violenza e l’insicurezza, è stata troppo spesso limitata all’azione dei servizi di polizia, alla giustizia penale e al carcere. 

La società è convinta che la gente che entra in carcere ne esca migliore. Spesso però è l’esatto opposto. Cosa significa riabilitare una persona facendola tornare quella di prima, se essere quella persona vuol dire vivere in uno stato di povertà (educativa oltre che economica), razzismo, disoccupazione, precarietà di alloggio e/o violenza? Può davvero una persona essere riabilitata se non è mai stata “abilitata” o resa adatta o in grado di vivere in società? Numerosi studi dimostrano che la migliore forma di riabilitazione in carcere è l’istruzione.1

L’istruzione dovrebbe rappresentare un’opportunità formativa capace di offrire al detenuto gli strumenti per ripensare la propria realtà e la “speranza” che potrà o saprà riprogettarsi in modo nuovo e rendere significativa la propria presenza al mondo.2 Il diritto all’istruzione assume rilievo in ambito penitenziario sotto un duplice profilo: da un lato, quale diritto costituzionalmente riconosciuto alla generalità dei consociati; dall’altro quale elemento del trattamento penitenziario finalizzato al reinserimento sociale della persona in vinculis.3 Le persone detenute che accedono ai corsi, e gli stessi corsi, sono nel tempo in costante aumento. 

Il bisogno di scuola è innegabile, basta analizzare i dati sulla scolarizzazione per rilevare quanto influisca lo studio sul percorso deviante; troviamo analfabeti, analfabeti di ritorno e sempre più stranieri, quindi, la popolazione carceraria di età adulta è in maggioranza connotata dal basso grado culturale e di scolarizzazione, spesso appartenente a insiemi subculturali specifici rappresentati dalle organizzazioni criminali, e non solo. Nel carcere dove entra la “Scuola”, la logica dell’istituzione totale cede il passo a quella educativa-formativa, per dare vita a una partecipazione corale dentro e fuori dalle mura, rendendo credibile il trattamento ri-educativo.4

Gli amministratori locali sono chiamati dai cittadini a proporre credibili strategie preventive, che devono necessariamente basarsi su un lavoro congiunto di équipe pluridisciplinari, sulla collaborazione tra chi progetta e chi gestisce i diversi luoghi di una città, e sul coinvolgimento degli attori delle politiche di sicurezza e di residenti e utilizzatori. L’urbanistica e l’architettura hanno del resto un impatto riconosciuto sulla sicurezza: possono essere strumenti per risolvere conflitti esistenti, evitare l’insorgere di problemi futuri, ricucire le fratture presenti e creare una relazione di reciprocità tra i diversi spazi della città. 

Rischio e fiducia si compenetrano e assumono significati particolari alla luce della riflessività della vita sociale moderna perché, come osserva Giddens, in condizioni di modernità la fiducia esiste nel contesto della generale consapevolezza che l’attività umana è socialmente creata piuttosto che essere data dalla natura delle cose o determinata dall’influenza divina.5

Per Platone l’uomo non può ricorrere, per garantirsi la sopravvivenza, a un elaborato sistema di istinti innati, ma deve far conto solo sulla sua azione intelligente, sulla sua “sapienza tecnica”. E anche Kant riconosce all’essere umano da un lato la carenza istintuale e dall’altro l’autonomia della ragione nel ricavare tutto da se stessa. L’essere umano risulta, quindi, biologicamente inadatto all’ambiente, in quanto la sua dotazione organico-istintuale è “primitiva”, “incompiuta”, “non specializzata”. Inoltre, poiché non dispone di meccanismi selettivi che entrano automaticamente in funzione secondo le circostanze, è esposto a una “profusione di stimoli” da cui sono esonerati gli animali, sensibili soltanto a quegli stimoli che corrispondono ai loro istinti specializzati. Ma a questa concezione dell’uomo come essere carente, che ce lo presenta in maniera negativa come “un errore della natura” o come “la negazione della finalità naturale”, segue il riconoscimento positivo che, nonostante tutte le sue carenze, primitivismi e inadeguatezze, l’uomo è riuscito a sopravvivere, adattandosi all’ambiente: privo di un suo habitat specifico, ha fatto di qualsiasi ambiente il suo ambiente.6

L’Alto Medioevo coincide con il periodo di massima decadenza economica e sociale. Alla società profondamente urbanizzata dell’Impero se ne sostituisce un’altra in cui la città perde il suo ruolo dominante. Il centro della vita economica è la curtis, la più grande unità produttiva autosufficiente, capace di svolgere quasi in completa autonomia le funzioni di produzione e consumo necessarie alla sussistenza. Dopo l’anno Mille, durante il Basso Medioevo, si registra una rapida ripresa economica che avrà come conseguenza un più diffuso benessere e notevoli trasformazioni sociali e culturali. Le città cominciano a ripopolarsi, si ampliano e diventano i nuovi centri della vita economica, sociale e politica.7

In un contesto altamente globalizzato e interdipendente, la nostra consapevolezza del rischio che determina le nostre percezioni di insicurezza, è influenzata da macro-eventi, come la presenza di guerre sia vicine sia lontane, e da ricorrenti crisi, siano esse di natura sanitaria, climatica, economica o politica. L’insicurezza, però, è anche frutto di micro-eventi, e quindi anche del nostro quotidiano abitare urbano. Negli ultimi decenni, la domanda di maggiore sicurezza (di sentirsi più sicuri) negli spazi urbani è entrata con forza nel dibattito pubblico e negli ambiti di policy. Questa domanda si è spesso intersecata con l’esigenza di migliorare la qualità della vita. 

Contrariamente alla narrazione diffusa fatta di case a un euro e lavori agili in contesti tra l’idilliaco e l’agreste, la reale vita nei borghi rurali italiani, per esempio, è diversa, fatta di rinunce e compromessi.8

Molte amministrazioni hanno promosso un’idea unitaria e monolitica di spazio urbano, in cui solo le aspettative comportamentali ed estetiche dei più fortunati hanno trovato giusto riconoscimento. Ma le città trascendono l’idea di “ordine” imposta dall’alto e coniugano diverse esperienze, modi di vivere e di interagire con l’urbano, e anche modi di comprendere l’urbanità.

Viviamo oggi in una delle società più sicure della storia dell’uomo ma, nonostante questo, il senso di insicurezza che avvolge le nostre vite pare essere progressivamente crescente. Le nuove ansie collettive sono collegate alla crisi moderna e configurano una incertezza esistenziale tipica dell’uomo moderno occidentale. La risposta locale ai problemi della sicurezza può essere letta come conseguenza della condizione sociale contemporanea: l’incertezza nei confronti del futuro (insecurity), l’incertezza sulle scelte da compiersi (uncertainty) che hanno origine in luoghi remoti, fuori dalle possibilità del controllo individuale e della stessa governance locale e nazionale. Da qui la tendenza a concentrarsi verso obiettivi più vicini, verso i timori nei confronti della incolumità fisica (unsafety), quel genere di timori, che a sua volta si condensa in spinte segregazioniste/esclusiviste, portando inesorabilmente a guerre per gli spazi urbani. 

La letteratura sociologica relativa alla paura della criminalità ha evidenziato come il senso di insicurezza urbana sia relativamente indipendente dal rischio di esposizione a eventi criminali, ma sia spesso legato a percezioni di disordine, caos e degrado. La maggiore diffusione dell’informazione e le caratteristiche stesse della comunicazione contemporanea (insistenza sull’immagine, stili semplificatori e spesso sensazionalistici, tendenza alla spettacolarizzazione) creano una relazione del tutto particolare tra cittadini e spazi pubblici, in cui nella formazione del giudizio conta sempre meno il peso dell’esperienza diretta. 

Il nuovo trend planetario che si è affermato dai primi anni Novanta è la crescita inarrestabile di quartieri esclusivi, in particolare alle periferie delle città. Il mondo va verso comunità “blindate” e la conseguente segmentazione e militarizzazione delle città per far fronte a una criminalità predatoria e violenta. Si moltiplicano i metal detector agli ingressi di edifici sensibili o le telecamere a circuito chiuso, che ormai costituiscono l’arredo urbano della contemporaneità. Si tratta di una forma di autodisgregazione urbana che non crea una divisione tra i buoni e i cattivi, ma tra chi possiede e chi non possiede determinate opportunità economiche e di status.

Nel mondo occidentale, gli anni Settanta e Ottanta del Novecento furono caratterizzati da concomitanti fenomeni di deindustrializzazione, aumento della criminalità, moltiplicazione delle dismissioni immobiliari nelle grandi città, dispersione della forza-lavoro, nonché dalla crescita del settore dei servizi alle persone e dalla informatizzazione della produzione capitalistica. Per rendere le città più accoglienti e liberarle delle ingombranti eredità della fase di deindustrializzazione, furono messi in campo progetti di rigenerazione urbana volti, da un lato, a rimuovere la minaccia del crimine, dall’altro, a mettere a frutto il potenziale di consumo e intrattenimento offerto dalle città in una varietà di spazi urbani come lungomari, centri storici, aree ex-industriali e quartieri bohemien, con la mobilitazione di strategie discorsive sulle virtù della creatività, della convivialità, dell’ospitalità allo scopo di attrarre investimenti e consumatori. L’idea di città creativa prende forma quindi nell’ambito di esperimenti di rigenerazione fisica degli ambienti urbani messi in campo in situazioni di deindustrializzazione manifatturiera e vera e propria “crisi urbana”. Nei primi anni Duemila, il patto sociale fondato sulla creatività sembra candidarsi a diventare il principio organizzatore delle società capitalistiche contemporanee. Lungi dal costituire un repertorio stabile di istituzioni, organizzazioni e relazioni contrattuali, la governance urbana è utilizzata quale base operativa, duttile e flessibile, volta a trasformare i residenti urbani in “cittadini” in grado si provvedere da sé al proprio benessere e di agire responsabilmente e creativamente nella sfera pubblica. A partire dalla crisi del 2008 il modello di città socializzata incarnato dalla città creativa inizia a mostrare segni di esautoramento.9

Negli anni scorsi, le città si sono trovate al centro della dialettica tra politiche della crescita e politica dell’austerità che ha caratterizzato le economie dei paesi occidentali a partire dalla crisi del 2008. La proliferazione di un numero crescente in grandi centri urbani e metropolitani di imprese start-up tecnologiche è particolarmente esemplificativo del “ritorno alla vita” delle città contemporanee e con esse del capitalismo globale, considerata la diffusione del fenomeno in diverse aree del mondo. Le economie urbane start-up sono dunque rivelatrici del movimento di rembeddedness, ossia di nuovo radicamento, del capitalismo globale negli ambienti urbani. I sentimenti di euforia e comunanza che contraddistinguono le modalità di rappresentazione delle comunità di imprenditori tecnologici sono rivelatori del più ampio sforzo di rianimazione del capitalismo come “industria della felicità” in atto nelle società occidentali. Per le imprese start-up tecnologiche così come per le grandi imprese del “capitalismo delle piattaforme” i centri urbani e metropolitani non offrono soltanto ambienti istituzionali e socio-culturali dinamici dove potersi affermare, ma funzionano anche da veri e propri “laboratori viventi” dai quali estrarre un’ingente massa di dati relativi ai comportamenti, alle abitudini, alle preferenze di consumo e ai movimenti delle persone che vi abitano o vi transitano. Per cui si può affermare che il capitalismo utilizza le “crisi organiche” come occasioni per ricercare un nuovo radicamento nelle relazioni sociali, reinventando la propria promessa di felicità e le relative forme di vita. Le città hanno acquistato o riacquistato centralità in questo quadro perché offrono il capitale cognitivo, comunicativo e relazionale necessario a realizzare un siffatto modello sociale. Allo stesso tempo, le città sono spazi persistentemente caratterizzati da diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza e processi di esclusione sempre meno alleviati dall’intervento dello Stato e delle altre istituzioni pubbliche o semipubbliche preposte alla fornitura dei servizi di protezione sociale. In tale contesto, ancora resta da comprendere il reale effetto che ha avuto l’avvento delle nuove economie urbane a base tecnologica sulla vita delle persone.10

Negli ultimi dieci anni si è passati, in molti paesi occidentali, dal paradigma della prevenzione del crimine a quello della sicurezza collettiva. Il primo vedeva innanzitutto lo Stato quale ente monopolizzatore della questione di ordine pubblico. Il paradigma della sicurezza diviene modello locale, vicino alle aspettative dei cittadini, e non astrattamente vincolato a politiche generali di cambiamento dell’uomo e delle istituzioni sociali. La teoria del modello criminale (crime pattern theory) spiega il coinvolgimento nell’attività criminale attraverso lo studio della conformazione geografica dell’ambiente, e quindi attraverso lo studio della distribuzione spaziale delle attività criminali. Questa teoria fa da sfondo a molti studi riguardanti l’impatto di un determinato design urbanistico a politiche di prevenzione della criminalità. Questa prospettiva che fa da sfondo alla cosiddetta prevenzione ambientale prende in esame i “nodi” (stazioni, fermati degli autobus, dislocamento delle abitazioni pubbliche, scuole, luoghi di svago) e i “percorsi” urbani che portano gli individui a spostarsi ai margini delle aree, di lavoro scolastiche ricreative, frequentate da soggetti che spesso non si conoscono. La teoria del modello criminale risente delle elaborazioni evidence-based di due ricercatori, Paul e Patricia Brantingham i quali sostengono in via molto generale come i luogo possano generare e attrarre criminalità. 

Un’altra serie di contributi interessanti riguardanti il rapporto tra urbanistica e architettura viene dagli studi di Psicologia Ambientale. In particolare, per quanto attiene al senso d’insicurezza si fa riferimento a due modelli teorici mutuati da questa specifica branca della psicologia: la territorialità e il setting comportamentale. La prima è definita come un’area geografica che è in qualche modo personalizzata o contrassegnata e difesa dall’invadenza altrui attraverso segni di demarcazione sia fisici che sociali. Il secondo concetto definisce invece uno specifico luogo-situazione le cui caratteristiche fisiche o sociali stimolano particolari schemi di comportamento. Studiare questi luoghi e le loro caratteristiche può rivelarsi più utile per predire i comportamenti delle persone che lo studio delle loro caratteristiche personali, in quanto le strade e gli isolati costituiscono spazi definiti che possono essere visti come luoghi che sviluppano comportamenti e programmi di relazioni stabili.11

Le città proibite si moltiplicano come esito dei processi di individualizzazione e di dissolvimento dei legami sociali. Si tratta di comunità fluide, flessibili, basate su impegni contingenti e non su relazioni a lungo termine. La vita in questi contesti non sembra accompagnarsi a un miglioramento per la comunità dei residenti stessi: non ci sono evidenze di un aumento del capitale sociale interno e della costituzione di comunità più unite o sicure. Per molti studiosi, l’effetto di queste soluzioni urbanistiche potrebbe essere, paradossalmente, proprio la paura. Questo perché la diffusione di zone protette determina una frammentazione del tessuto urbano che si traduce in una riduzione degli spazi pubblici di fruizione e d’interazione. L’idea più suggestiva di vicinato è quella in cui la costante interazione tra numerosi abitanti diviene fonte di rassicurazione. 

L’ossessione per la sicurezza tradisce un rifiuto della vita, mentre dichiara di proteggerla pretendendo di azzerare il rischio. Esprime una diffidenza e un rifiuto totale per tutto ciò che sfugge al controllo. Poiché, come insegna la psicoanalisi, per il nevrotico vale solo la ripetizione e ciò che è conosciuto: l’inedito, tutto ciò che può interferire con le abitudini, diventa intollerabile.12

Sono diversi gli studiosi che legano il futuro delle città alla necessità di un rovesciamento della spinta regressiva verso la sicurezza. 

L’universo relazionale che caratterizza il rapporto con gli altri alimenta un sentimento di sicurezza ontologico.13 Giddens enfatizza il rapporto tra sicurezza ontologica e il valore della tradizione, un processo di ritrovamento di sé stessi che vive nella tensione tra pulsione all’autenticità e apertura al mondo determinata dai sistemi astratti che ci circondano e definiscono. 

L’alterità è esperita sempre in un contesto sociale e culturale, che influenza il rapporto interpersonale introducendo elementi di regolazione e, in molti casi, di ineguaglianza. In sostanza, l’incontro con l’Altro è una relazione nella quale i soggetti entrano avendo già, in modo reciproco, una rappresentazione dell’Altro che deriva dalla propria formazione culturale e da esperienze pregresse. In essa influiscono – in modo consapevole e anche inconsapevole – immagini, attese, preoccupazioni e talora anche pregiudizi. Tutti questi aspetti interagiscono con le dinamiche endogene e propriamente psicologiche della relazione, facendo sì che ciascuna di esse sia dotata di grande complessità e, spesso, di un qualche grado di ambiguità. Il richiamo all’identità ha un effetto negativo non solo nei confronti dell’Altro esterno, ma anche nei confronti delle differenze interne a quella che viene presentata coma una “nostra” identità. L’identità ci impone un certo modo di essere e di pensare. La rappresentazione dell’Alterità come espressione di una supposta partizione dell’umanità in comparti omogenei è, prima di tutto, espressione di rapporti di potere, di processi di dominazione e subordinazione, che portano a una vera e propria costruzione sociale dell’Altro, ovvero a una sua manipolazione in ambito socio-politico come pure in quello culturale, psichico e persino corporeo, tendenti a far corrispondere l’Altro alla rappresentazione che ne ha il detentore del potere.14

Rischio e sicurezza non sono dati oggettivi in sé, ma percezioni culturalmente connotate, potenziali contenitori di significati diversi quando non contrapposti, valori al centro di processi di negoziazione quando non di scontro. Il fatto che il tema della sicurezza sia ab origine un tema urbano, chiama direttamente in causa l’interesse dell’antropologia urbana: è lecito chiedersi quale idea di città vi sia al fondo di questa questione, quali le ragioni, storiche e ideologiche, che giustificano il binomio città/insicurezza, tale da averlo reso ormai autoevidente, quali le ragioni che di conseguenza hanno reso il tema della sicurezza centrale nell’agenda amministrativa di molte città. Circa l’associazione tra città e insicurezza, l’immagine della città come contesto problematico, minaccioso, potenziale coacervo di pericoli, può in qualche modo essere considerata un filo rosso della letteratura “classica”.15 Va sottolineato come al fondo vi sia un processo di selezione operato dalla sociologia della devianza, che si ferma ai sentimenti di insicurezza e tralascia invece, nel più ampio quadro della sociologia classica, le problematiche del conflitto sociale e del cambiamento e il loro legame con la devianza, finendo col generare una vera e propria sociologia della paura.16

Il paradosso attuale è che le nuove élite globali hanno operato un crescente distacco dalla località in senso stretto: esse si muovono in uno spazio globale che sposta anche l’origine o la controllabilità degli eventi su un piano “globale”. Al contempo le città divengono sempre più le “discariche” della globalizzazione, i terreni su cui cortocircuitano i problemi della globalizzazione, mentre l’origine di questi esula in maniera crescente dai confini urbani: i cittadini, con i loro rappresentanti, si trovano quindi davanti al difficile compito di trovare soluzioni locali a contraddizioni globali. Come conseguenza della costante crescita dei rischi su scala globale, si accresce la tendenza a convogliare i problemi esistenziali dell’endemica insicurezza tipica dell’età tardo-moderna nella sola preoccupazione per le garanzie della sicurezza personale.17 Per cui, la questione della sicurezza urbana, soprattutto nei termini che assume oggi di difesa da rischi sociali, sembra potersi leggere proprio come una specifica intersezione tra globale e locale: cioè la sicurezza diviene una risposta locale all’incremento della società del rischio, sempre più globale e diffuso, a fronte del quale un ampliamento delle politiche di sicurezza agisce su ciò che emerge nell’immediato. 

Molti degli interventi urbanistici finalizzati alla sicurezza non fanno altro che riprodurre i fossati e le torri difensive medievali, e mirano a dividere gli abitanti per rispondere a quella mixofobia che costituisce la reazione oggi più diffusa alla varietà di tipi umani che affolla le città.18

Le città del passato, con le loro mura e la loro vita sociale, rappresentavano un luogo di maggiore tranquillità e sicurezza rispetto all’incertezza e i pericoli delle campagne. Negli ultimi decenni si è assistito a un ribaltamento: la sensazione di pericolo è stata identificata con la città, mentre le zone rurali sono state investite di un immaginario di pace e tranquillità. 


Il libro

Gian Guido Nobili, Michele Grimaldi, Francesca Coppola (a cura di), Abitare città sicure. Politiche, Strumenti, Metodi, Franco Angeli, Milano, 2024.


1V. Law, Le prigioni rendono la società più sicura. E altri venti miti da sfatare sull’incarcerazione di massa, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2023.

2R. Caldin, Università e carcere: una sfida pedagogica, in V. Friso, L. Decembrotto (a cura di), Università e carcere. Il diritto allo studio tra vincoli e progettualità, Edizioni Guerini, Milano, 2018.

3A. Maratea, Il diritto all’istruzione in carcere tra (in)effettività e prassi problematiche: uno sguardo all’istruzione universitaria nelle carceri per adulti e secondaria negli istituti penali per minorenni, in Osservatorio Costituzionale – AIC Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Fasc. 3/2023.

4C. Cardinali, R. Craia, Istruzione e ri-educazione: quale ruolo per la scuola in carcere?, in Formazione & Insegnamento XIV – 2 – 2016.

5S. Gherardi, D. Nicolini, F. Odella, Dal rischio alla sicurezza: il contributo sociologico alla costruzione di organizzazioni affidabili, in Quaderni di Sociologia, 13 – 1997.

6M.T. Pansera, Natura e Cultura in Arnold Gehlen, in Il tema di B@bel, RomaTre Press, 2020.

7R. Zordan, Lettura Oltre. Letteratura. Teatro, Fabbri Editori, Milano, 2022.

8A. Rizzo, I paesi invisibili. Manifesto sentimentale e politico per salvare i borghi d’Italia, Il Saggiatore, Milano, 2022.

9U. Rossi, Biopolitica della condizione urbana: Forme di vita e governo sociale nel tardo neoliberalismo, in Rivista Geografica Italiana, 126 (2017).

10U. Rossi, op.cit.

11V. Mastronardi, S. Ciappi, Urbanistica e Criminalità (Parte Prima). Alle origini di un rapporto, in Urbe et Ius – Rivista de Estudios de Criminología y Ciencias Penales,  2020.

12M. Magatti, Sicurezza/Insicurezza: come si resiste alla città, in P. Piscitelli (a cura di), Atlante delle città. Nove (ri)tratti urbani per un viaggio planetario, Feltrinelli, Milano, 2020.

13A. Giddens, The consequences of modernity, Oxford Polity Press, Oxford, 1990.

14A. Mela, Alterità e transculturalità, 2023.

15F. D’Aloisio, Sentirsi insicuri in città. Etnografia e approccio antropologico al problema della sicurezza urbana, in M. Callari Galli (a cura di), Mappe urbane. Per un’etnografia della città, Guaraldi Universitaria, Rimini, 2007.

16V. Ruggiero, I vuoti delle politiche di sicurezza, in R. Selmini, La sicurezza urbana, Il Mulino, Bologna, 2004.

17Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Bari, 2001.

18F. D’Aloisio, op.cit.



Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Franco Angeli Editore per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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© 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Il tempo tra vita e letteratura

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Il tempo è una categoria fondamentale in letteratura. Gli scrittori riflettono sullo scorrere della vita e raccontano le emozioni del tempo. Non dovrebbero anche gli altri umani riflettere sulla reale importanza del tempo?

Il tempo interviene in letteratura in modi diversi. Ci sono autori che trattano il tempo come un problema. Un esempio è il racconto di Borges Il giardino dei sentieri che si biforcano in cui, sotto l’insolita veste del thriller, l’autore presenta una suggestiva teoria del tempo secondo la quale questo è plurimo e a ogni istante della vita si aprono tracce temporali diverse, che si biforcano. C’è poi chi rappresenta il tempo nel suo fluire, confuso, immenso. È il caso della Recherche di Proust. Il tempo è un ente sempre più complesso, proprio come conferma l’intuizione. Ne sono esempi: La macchina del tempo di Wells, I fiori blu di Queneau, in cui la storia è vista come un sogno, deposito tangibile del nostro inconscio, e «il mio racconto Ti con zero» (intervista a Italo Calvino, 1985, in L. Baranelli, Sono nato in America, Mondadori, 2022). 

Il tempo è una categoria fondamentale della narrativa, poiché non può esserci narrazione senza l’azione dei personaggi nel corso del tempo. Nella poesia, invece, la funzione strutturante del tempo è meno importante: impressioni emotive o visive possono essere elencate come se avvenissero in un unico istante, senza un primo e un dopo. Tuttavia, il tempo è comunque un tema fra i più frequenti e importanti. L’io lirico, infatti, nel momento in cui rileva la propria interiorità, tende a confrontare momenti diversi della propria vita, come ricordarsi di quand’era bambino, rievocare un amore finito o una felicità perduta, oppure immaginare la propria vecchiaia (Il tempo e la memoria, Edizioni Atlas).

«Ci sono giorni in cui il tempo sembra non scorrere mai e giorni in cui, invece, la lancetta dell’orologio gira così velocemente da non riuscire a seguirla», affermava Joyce nell’Ulisse. Al tempo cronologico e lineare del romanzo ottocentesco, egli contrappone il tempo della coscienza, La tecnica dello stream of consciousness che permette di raccontare i pensieri e il loro fluire anche senza una logica apparente. Il tempo della coscienza è fatto di momenti indistinguibili che trapassano l’uno nell’altro e formano un flusso che continuamente si arricchisce. Se nei poemi omerici venivano esaltate le qualità positive di questo eroe, con il romanzo di Joyce Ulisse diventa l’archetipo delle peregrinazioni e delle angosce quotidiane dell’uomo contemporaneo, il simbolo di una nuova e rivoluzionaria percezione del tempo (S. Galeone, L’Ulisse di Joyce e la rivoluzione nel modo di concepire il tempo, in Libreriamo is Culthic, 2023). 

«Esiste un grande eppur quotidiano mistero. Questo mistero è il tempo. Esistono calendari e orologi per misurarlo, misure di ben poco significato, perché tutti sappiamo che, talvolta, un’unica ora ci può sembrare un’eternità e un’altra invece passa in un attimo. Dipende da quel che viviamo in questa ora. Perché il tempo è vita. E la vita dimora nel cuore» (M. Ende, Momo, 1973). 

Nel libro di Ende i Signori Grigi hanno lo scopo di procacciarsi ciò che è necessario alla loro stessa sopravvivenza: il tempo degli esseri umani. Negli ultimi due decenni Internet ha rivoluzionato il modo in cui si acquista, si comunica e si consumano i media. Per molti aspetti ha reso la vita più facile e veloce, ma ha anche portato sfide ed effetti collaterali, La tecnologia può aver semplificato molti compiti, na ha anche aumentato le distrazioni. Non è che i Signori Grigii mmaginati da Ende si siano nascosti dentro i dispositivi digitali di uomini ignari che stanno sprecando il loro prezioso tempo?


Articolo pubblicato sul numero di novembre 2024 della rivista cartacea Leggere:Tutti


Disclosure: Per le immagini, credits www.pixabay.com


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Paolo Jedlowski, Romano Màdera, Racconti di racconti. Una conversazione

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Con il termine metadimensione si intende che alcuni testi letterari problematizzano la relazione tra il processo narrativo e la sua autoriflessione interna o la sua interpretazione dialogica esterna. Attraverso l’esame di queste relazioni, si coglie l’ampiezza delle loro modificazioni delle modalità formali, dell’enfasi discorsiva, delle finalità semantiche e dei giochi intertestuali. L’uso del prefisso meta davanti a narrazione dipende dal presupposto che, in alcuni dei suoi discorsi, la letteratura ha sviluppato dei modi operativi per interrogare se stessa e di trattare la propria infinita semiosi, vale a dire il procedimento di costruzione del significato.1

Attraverso una serie di riflessioni e di esempi pratici, Jedlowski e Màdera esplorano le molteplici funzioni e implicazioni della metanarrazione nel tessuto stesso dell’esistenza umana. 

Se una meta-teoria è una teoria di teorie, i meta-racconti sono racconti di racconti. Se si accetta l’idea che un racconto sia un tipo di testo in cui qualcuno dice che è successo qualcosa, la metanarrativa è un insieme di testi in cui si dice che quello che è successo è un racconto.2 La forma base della metanarrativa è rappresentata dai casi in cui un racconto ne include un altro, incastonandolo. Le incastonature rendono il racconto incorniciante una sorta di contesto dell’altro. Il che riqualifica il senso che questo avrebbe senza l’incastonatura. A volte lo modifica proprio. Ma l’incastonatura da sola non basta a dire il significato della metanarrativa che è una narrativa che riflette su sé stessa, espone cioè la natura stessa del narrare e porta alla presa d’atto della natura situata, artificiale, di ogni racconto.3

Un esempio esplicito è la scrittura di Italo Svevo, nella fattispecie la pagina firmata dall’analista di Zeno che incastona il racconto di quest’ultimo in La coscienza di Zeno: invece che una neutra esposizione dei fatti, questo diventa la ricostruzione che il soggetto stesso ne fa. La coscienza di Zeno include due racconti: quello dell’analista e quello di Zeno. Ma il primo, incastonando il secondo, dà all’insieme un senso particolare: il libro dice questa è la storia che Zeno si racconta e non questa è la storia di Zeno.

È lo stesso effetto prodotto dal quadro Questa non è una pipa di Magritte, dove al disegno di una pipa è affiancato il disegno di una scritta che dice questa non è una pipa: infatti è un disegno. 

Ne La coscienza di Zeno la psicoanalisi diventa materiale per una finzione e ogni lettura freudiana non potrà che inserirsi nell’organismo, nelle fibre stesse di quella finzione. A Svevo la psicoanalisi è servita come implicita motivazione realistica, come alibi realistico o salvacondotto per manipolare la tecnica narrativa e per infrangere liberamente le “tradizioni”: a volte semplice spunto o pretesto, a volte diretta ispiratrice. Quanto della teoria Svevo conoscesse di prima mano perde importanza di fronte alla sua capacità di sceneggiatore, all’astuzia con cui riesce a ignorare o a dimenticare la psicoanalisi per rifonderla nel suo romanzo.4

La schisi tra eroe e narratore che abita l’io enunciante, contribuisce alla sfasatura tra l’ordine degli avvenimenti nella storia e quello del discorso narrativo, così come all’alternarsi delle variazioni di velocità, alla moltiplicazione dei punti di narrazione e all’instabilità dei riferimenti cronologici enunciati nello svolgimento del dettato. A loro volta, questi attentati alla salute del tempo partecipano alla costruzione del personaggio attraverso le formazioni dell’inconscio praticabili dal critico (sogni, somatizzazioni, lapsus) che confermano l’immagine di uno Svevo al lavoro con i mezzi che il suo progetto e la sua cultura gli mettevano fra le mani. Ne risulta, costante, un’impossibilità per l’io di domare i suoi enunciati, di farli coincidere con la sua volontà. A livello dell’enunciazione, essi si smarriscono in un’indecidibilità che mescola i colori della verità e della menzogna.5 Il fondo del romanzo è bucato e il vuoto si riproduce continuamente. Appena cerchiamo di inchiodare la confessione di Zeno a una verità ci accorgiamo dei sacrifici e delle riduzioni che sono stati necessari per ottenerla e che la mandano in frantumi. La trappola è tesa al lettore ma anche alla psicoanalisi, se appena tenta di costruirsi un mezzo per selezionare le menzogne e metterle in disparte: o per riprenderle, rielaborarle, piegarle a un canone di verità che può essere fissato solo fuori dal testo.6

La metanarrativa produce una sorta di moltiplicazione del piacere del racconto. I racconti, di norma, sono discorsi che ci avvincono e la  metanarrativa ci fa, per così dire, assistere a questo «avvincimento», ci fa separare dal testo e insieme ci fa restare nei suoi pressi, ci fa restare presso il piacere che proviamo. Questo godimento implica infatti la presa d’atto che un racconto è artificio. Rispetto alla realtà a cui dice di rifarsi è un’approssimazione. Vi è inoltre una tensione necessaria fra racconto e mondo extra-testuale. Si potrebbe dire che la vita trascende il testo (è più grande di lui e lo comprende), e contemporaneamente il testo trascende la vita (perché la inserisce in un mondo di segni che permettono di andare oltre alla vita che si dà, la portano a coscienza).7

Il mondo narrato è una realtà finzionale. Anche quando raccontiamo di qualcosa che è avvenuto a noi stessi è comunque nell’immaginazione che ci collochiamo. Ciò che abbiamo fatto non è presente ora, mentre stiamo narrando. I mondi narrati – tutti, non solo quelli fantastici – sono sempre eterocosmi, cioè cosmi che non coincidono con quello attuale. Questi mondi sono il risultato di operazioni di “mimesi”. Ogni narratore ha qualcosa di un mimo: evoca o mette in scena, grazie ai segni che ha a disposizione, azioni luoghi persone. Si trasforma, o trasforma le cose: mima una realtà che altrimenti non c’è. E il destinatario risponde con almeno l’accenno di una mimica analoga. Nessun racconto, neanche il più realistico cui possiamo pensare, è esattamente una copia: come una statua, un quadro o qualunque altro tipo di rappresentazione, è un oggetto a sé stante, differente da ciò a cui rimanda. Emerge dalla vita e la arricchisce di qualcosa che prima non c’era. I racconti costituiscono un di più della vita. Sono dispositivi transizionali: ci permettono di transitare fra il mondo empirico nel quale stiamo attualmente e uno o più altri mondi possibili.8

Arrivare alla consapevolezza metanarrativa è il movimento di trascendimento interno dello stesso materiale autobiografico e analitico. Liberarsi del primo livello dell’autobiografia ingenua significa tentare-riuscire a diventare oggetto (trasformabile) di sé stessi e quindi il potersi guardare con sguardo più complesso e consapevole. Insomma fuori dall’autoreferenzialità. 

La metanarrazione esiste da quando esiste il racconto, ma ultimamente è particolarmente in voga, sembra simbiotica con il pensiero o quanto meno con l’estetica del postmoderno. Per il postmodernismo la realtà si scompone in prospettive plurali e incomponibili. A svanire sembra non soltanto l’ordine della realtà, ma la realtà in sé stessa: ai postmodernisti pare che sia ormai impossibile distinguere fra realtà e simulazione. Quanto meno, pare di vivere in un mondo in cui la realtà è costantemente oggetto di processi comunicativi così pervasivi che diventa evidente che nulla può essere identificato in sé ma solo attraverso i modi e le forme in cui è comunicato. Per il pensiero postmoderno il mondo è oggetto di infinite interpretazioni tutte ugualmente plausibili. Qui si nasconde l’equivoco più grosso in cui a volte incorre il postmodernismo: le storie e le interpretazioni non hanno infatti tutte lo stesso valore.9

Ogni testo pone certi limiti alle interpretazioni possibili, nella misura in cui contiene certi elementi e non altri.10 Lo stesso vale per il mondo sociale e materiale: si può interpretarlo e raccontarlo in molti modi, e questi modi corrisponderanno a diversi punti di vista, ma non si può reinventarlo a piacimento. Pensiero questo che lascia intravedere un’idea di realtà piuttosto angusta, o comunque tarata su culture che poggiavano su un senso comune molto forte e ritenuto superiore alle altre culture. Atteggiamento culturale necessario come collante del gruppo in epoche nelle quali lo stare insieme condividendo una cultura che detta i comportamenti era indispensabile perché le tecniche disponibili poggiavano sulla loro incorporazione in soggetti umani (memoria, abilità, iniziazione).11 La storia della modernità ha travolto questi mondi, la coscienza antropologia e in specie l’antropologia del rimorso hanno reso inaccettabile questo modo di sentire, pensare, essere. La realtà è già sempre, per noi moderni, molto più che per le epoche precedenti, interpretata o possibile di diverse interpretazioni interne ed esterne alla cultura di appartenenza. 

A partire dall’XVIII secolo si affermano nel pensiero occidentale quelle che nel corso del Novecento saranno definite “grandi narrazioni”. Illuminismo, idealismo, marxismo, positivismo sono cornici teoriche che, pur nella loro diversità, condividono alcuni tratti peculiari: l’ottimismo verso il futuro, la convinzione che la storia proceda in modo lineare e per progressivi miglioramenti in ambito culturale sociale scientifico, l’idea che esista per la società uno scopo a cui tendere. Un colpo netto e generalizzato alle narrazioni e auto-rappresentazioni che il pensiero occidentale ha elaborato nel corso dei secolo viene inferto da Nietzsche. Suo scopo è scardinare l’interpretazione razionalista attraverso cui l’uomo europeo ha rappresentato sé stesso.12 I sistemi filosofici della modernità, così come le ideologie novecentesche, hanno avuto sia l’obiettivo di spiegare il mondo sia di legittimare un certo modo di interpretare la realtà. Di fronte alla sempre maggiore complessità sociale, allo sgretolamento dei legami comunitari, i grandi sistemi e le grandi narrazioni non funzionano più, si sono dimostrati incapaci di dare un senso alla realtà. La modernità, ossessionata dall’unità, ha lasciato il posto al pluralismo radicale della postmodernità.13

Comprendere la trasformazione della letteratura verificatisi specialmente negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, richiede che si tenga conto della metadimensionalità dei testi letterari. La metanarrazione è una problematizzazione polivalente della prospettiva critica riflessiva analitica e ludica di ciò che viene narrato, riflesso su sé stesso.14 In Mercier e Camier l’autore gioca con il narrativo inserendo dei riassunti che seguono ciascun capitolo, riaffermandone la narrazione. Problematizzando la relazione riflessiva tra il discorso affermativo della narrazione di ogni capitolo e la sua parafrasi quasi tautologica condotta nei riassunti, l’autore crea una distanza ironica. Così, Beckett sembra porre il problema di come scrivere sulla scrittura allo scopo di comprendere che cosa significhi il procedimento narrativo.15 Il gioco beckettiano del riassunto tautologico dell’identico concentra l’attenzione del lettore sulla possibilità di sostituire la narrazione con il sommario oppure impone alla narrazione stessa una trasformazione deliberatamente riduttiva. Il commento indirizzato in senso tautologico è la dimostrazione beckettiana dello stallo del discorso letterario. La metanarrazione rappresenta in tal caso uno strumento di autosvelamento della finzione.16

La metanarrativa, come la meta-interpretazione, può apparire a volte l’invito a qualcosa di infinito. Si può raccontare il racconto del racconto, poi interpretare l’interpretazione precedente. Il problema, con il meta, è quando smettere. Quando arrestare cioè la successione di interpretazioni, quando arrestarsi e dire: questo è il racconto.17

Il libro

Paolo Jedlowski, Romano Màdera, Racconti di racconti. Una conversazione, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2024.


1W. Krysinski, Borges, Calvino, Eco: filosofie della Metanarrazione, in Signótica, vol. 17, n°1, 2005.

2P. Jedlowski, Storie comuni, Mesogea, Messina, 2022.

3P. Jedlowski, Meta-narrare, in Racconti di racconti.

4M. Lavagetto, L’impiegato Schmitz e altri saggi su Svevo, Einaudi, Torino, 1975.

5A. Russo, Il fondo bucato. Le ambiguità del paratesto ne «La coscienza di Zeno», in I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo, Atti del Congresso dell’Adi – Associazione degli Italianisti , Adi Editore, Roma, 2014.

6M. Lavagetto, op.cit.

7P. Jedlowski, Meta-narrare, in Racconti di racconti.

8P. Jedlowski, Il piacere del racconto, in Imparare dalla lettura, S. Giusti e F. Batini (a cura di), Loescher Editore, Torino, 2013.

9P. Jedlowski, Intorno alla realtà (senza strafare), in Racconti di racconti.

10U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano, 1990.

11R. Màdera, Intorno alla realtà (senza strafare), in Racconti di racconti.

12F. Nietzsche, La nascita della tragedia, 1872.

13B. Collina, La crisi della filosofia come narrazione e autorappresentazione, Zanichelli, 2020.

14W. Krysinski, op.cit.

15S. Beckett, Mercier e Camier, 1970.

16W. Krysinski, op.cit.

17P. Jedlowski, Dentro e fuori dal testo, in Racconti di racconti.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Mimesis Edizioni per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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