La vita, gli impegni, il lavoro, le emozioni, le relazioni… tutto corre lungo un sottilissimo filo chiamato equilibrio. Cosa accade quando questo si spezza, si rompe, si frantuma? Si perdono i riferimenti e tutto viene rimesso in gioco e in discussione. Una rottura, una separazione. Ecco il punto di disequilibrio che ha scosso l’autore al punto da cercare in sé stesso prima e nel mondo poi una nuova origine.
Per guardare in sé stesso con uno sguardo nuovo Oscar Di Montigny sente il bisogno di allontanarsi dai luoghi a lui noti e inizia il suo viaggio verso mete sconosciute e paesaggi inesplorati ma, sopratutto, verso il suo io interiore.
Un viaggio di cinquantotto giorni sulle vette himalayane alla ricerca di risposte lo hanno condotto, invece, verso domande più grandi. La sua vita era sempre stata caratterizzata da una bulimia del fare, anni interi trascorsi nella ricerca costante di una performance il cui risultato comprovasse il suo presunto valore.
Nelle remote regioni dell’Himalaya egli riscopre invece il potere della riflessione e della solitudine, i veri motori che hanno stimolato la sua trasformazione personale.

La solitudine è un’assenza di tempo. Non è l’isolamento di fatto, né l’incomunicabilità di un contenuto di coscienza, ma l’unità indissolubile fra l’essere umano e l’atto del suo esistere. Il mondo odierno sembra ossessionato dalla velocità: centrare sempre più obiettivi in sempre meno tempo.
La nostra idea di tempo come unità quantizzabile e misurabile è piuttosto recente e legata all’idea di produttività. Il concetto di «il tempo è denaro» spiega molto bene la concezione di una vita consacrata alla produzione di beni e al guadagno. E il tempo dedicato alla produzione quantificabile dei beni, diventa esso stesso un qualcosa da misurare. Società ed economia sembrano ruotare, quindi, intorno al concetto di tempo proprio mentre in fisica esso viene del tutto annullato.
I fisici sono addirittura arrivati a sostenere l’idea dell’inesistenza del tempo. La teoria loop quantum gravity descrive come si muovono le cose l’una rispetto all’altra, senza alcuna necessità di parlare di tempo. Concepito per la vita quotidiana, il tempo smette di essere necessario quando si studiano le strutture più generali del mondo. Si ha quindi una soggettivazione del concetto di tempo.1 Anche in antropologia il tempo è un costrutto sociale. Il fondamento delle categorie di tempo è il ritmo della vita sociale. Le attività organizzate in ciò che usiamo chiamare “lo scorrere del tempo” sono un costrutto storico-culturale e il calendario scandisce il ritmo delle attività collettive regolarizzandole.2
Dietro tutto questo c’è un distacco, della cultura occidentale, dalla natura e una paura del suo arresto. Ciò che manca alla nostra civiltà è esattamente l’idea del limite, del proprio limite. La nostra cultura è priva dell’illuminazione che proviene dalla pratica delle auto-sospensioni. E potrebbe essere proprio questa brama dell’oltre ogni limite, chiamata anche “il male dell’infinito”, la fonte dei problemi che affliggono la società moderna.
I lockdown in piena pandemia hanno arrestato gli ingranaggi di questa poderosa macchina economica che siamo abituati a pensare non solo come inarrestabile ma anche come universale, come un qualcosa di sacro e intoccabile.3 Eppure allora tutti hanno dovuto ripensare i propri spazi e tempi all’insegna di un’unico e collettivo scopo: rallentare.
Una vita slow dettata dalla necessità che richiama un differente stile di vita praticato da sempre più persone in tutto il mondo ormai. Un approccio lento alla vita che promuove benessere e sostenibilità ambientale.
Oltre il novanta per cento degli italiani si dichiara pronto a cambiare il proprio stile di vita per una società più sostenibile, di questi, circa il quaranta per cento è pronto ad attuare un cambio radicale delle proprie abitudini, dalla mobilità ai consumi alimentari.4
Ma l’identità non è soltanto l’atto di partire da sé per attuare un cambiamento, essa è anche un tornare a sé. La necessità di occuparsi di sé. Che è una responsabilità enorme, a volte un peso schiacciante. E allora ci si chiede se “fuggire” alla solitudine, intesa come la cura di sé, non rappresenti anche un alleggerimento di questa responsabilità.5 Discorso valido sia a livello individuale che collettivo.
Diverse culture predispongono “vie di fuga” come soluzioni indispensabili e salutari all’effetto “gabbia” che ognuna di esse tende a produrre. Una convivenza utile tra gli esseri umani è possibile solo a patto di realizzare una convivenza utile con la natura. Aspetto questo da sempre trascurato nell’Antropocentrismo imperante nella società dei civilizzati.6
A parte il coprifuoco durante la seconda guerra mondiale, la società italiana, prima dei lockdown pandemici, non aveva mai avuto esperienza diretta di provvedimenti così drastici e restrittivi. Per noi le chiusure o sospensioni sono abitualmente ascrivibili a periodi di riposo, svago, ferie, vacanze. Sono una pausa dalla routine a scopo ricreativo. In genere, un momento piacevole, atteso e gradito.
L’ekyusi dei BaNande del Nord Kivu – Congo e lo shabbath degli ebrei sono invece “traumi” che una cultura impone a se stessa. Auto-sospensioni mediante le quali una cultura si costringe a “mettere tra parentesi” se stessa e le proprie pretese di dominio. Un valido modo per riconoscere che, oltre a se stessa, vi sono altre realtà – la terra, la foresta, … – da cui si ricavano risorse e che potrebbero esistere benissimo anche senza gli esseri umani.
L’ekyusi è molto simile allo “shabbath della terra” ebraico. Sono fasi necessarie e ineludibili della visione che BaNande ed ebrei hanno – o avevano – della propria storia. In entrambi i casi, si tratta della conquista di un territorio, di una sorta di progresso, e in entrambi i casi è previsto non solo il suo arresto, ma un ritorno alle condizioni iniziali, pre-agricole, pre-culturali. Per tutto il periodo della sospensione è vietato coltivare la terra, si possono solo raccoglierne i frutti spontanei. Un retrocedere a un’economia della raccolta.
Se le vie di fuga sono la soluzione che alcune culture hanno trovato per salvare se stesse, la ricerca introspettiva potrebbe essere la via di fuga necessaria all’uomo per salvare sé stesso.

Lo scopo della meditazione zen, per esempio, è molto introspettivo: conoscersi di nuovo, riscoprire se stessi al netto degli schemi e delle convenzioni sociali. L’azione della pratica della meditazione è riscontrabile su più piani: fisico, emozionale, psicologico. Studi e ricerche hanno evidenziato benefici oggettivi quali la diminuzione della frequenza del respiro e della pressione sanguigna, un aumento della funzionalità cognitiva, della stabilità emotiva, e un diffuso senso di benessere.7
Se fisici e antropologi hanno cercato di ridimensionare l’importanza attribuita al tempo, i sostenitori del vivere lento sembrano invece focalizzarsi sul dargli un ritmo diverso. E così la lentezza si contrappone alla frenesia, ma il tempo rimane comunque il punto centrale dell’esistenza. A esso viene attribuito un valore immenso. E proprio alla qualità del tempo la capacità di determinare il benessere.
Dunque la filosofia dello slow living sembra essere: ogni cosa ha il suo tempo. Non più corse in affanno e ansia per riuscire ad adempiere a tutte le mansioni ma dare il giusto tempo e spazio per ogni attività e, soprattutto, per curare se stessi. Sembra dunque il tempo di ritrovare se stessi, da soli, in quello che Levinas chiamava la solitudine dell’esistente. Isolarsi per il fatto di esistere, ecco il vero significato dell’essere. E allora anche il concetto di tempo cambierà, perché esso non fa parte del modo d’essere di un soggetto isolato e solo, ma è la relazione stessa del soggetto con altri.8
Eppure rallentare non è facile come sembra. La velocità tutto sommato affascina. È una scarica di adrenalina. È uno strumento utile a distrarci dalle domande più grandi e profonde sulla propria esistenza, sul proprio essere.
Ed è esattamente quello che è accaduto a Di Montigny: isolarsi per ritrovarsi. Perdersi nell’ignoto per incontrare sé stesso. Cercando risposte a domande originarie scoprire la necessità di rincorrere interrogativi più grandi.
Studiando l’antica arte kintsugi di riparare gli oggetti con l’oro per valorizzarne le imperfezioni, l’autore apprende la capacità di valorizzare, in qualche modo, anche tutte le esperienze negative della vita, trasformandole in parti integranti e preziose della propria esistenza. In effetti questa è proprio l’essenza dell’arte kintsugi: ricostruire un oggetto assemblando le parti rotte, evidenziando le incrinature e creando una nuova forma ancora più forte della precedente. Lo stesso lavoro che l’individuo può svolgere su sé stesso, sviluppando la propria capacità di resilienza e trasformando le proprie ferite in punti di forza di un percorso di superamento.9
Nonostante il trauma della sua rottura, grazie alle sapienti mani dell’artigiano il vaso è divenuto l’occasione per una nuova creazione. I punti di rottura sono stati dipinti d’oro, le cicatrici sono diventate poesie.10
Oscar Di Montigny scrive un libro sotto forma di diario. Un registro narrativo molto intimistico che inizia già nelle parti narrative che introducono ogni capitolo.
Tenere un diario costituisce una pratica molto diffusa proprio perché lo scrivere di sé risponde al bisogno di sopravvivenza, al di là della memoria.11 Rispetto al vivere inteso come un flusso ininterrotto di eventi inafferrabili nella loro singolarità, infatti, affidare sé stessi alla scrittura significa sottrarsi alla fugacità, in virtù del carattere indelebile della parola scritta. Il diarista cattura e descrive circostanze particolari, idiosincratiche di un tempo e di una cultura, rilette dal suo sguardo personale. Questo intimo bisogno di dare forme all’informe, di selezionare un momento ritagliandolo dal vivere quotidiano, accompagna da sempre l’esistenza dell’uomo.12 I diari raccontano la storia dell’individuo intessuta di legami affettivi e familiari, del contesto culturale di riferimento, delle norme sociali condivise, dei vincoli e delle opportunità del suo tempo.
Il bisogno di intimità si ricollega a sua volta alla solitudine: il diario, infatti, costituisce o sostituisce amici, affetti, amori, “presenze assenti” o da proteggere assumendo su di sé scoperte, messe a nudo che, se venissero esplicitate, provocherebbero ferite.13
A tratti sembra che Montigny non abbia intrapreso il suo viaggio e la scrittura del diario per nascondersi bensì per aprirsi al mondo ma, soprattutto, a sé stesso. Imparare a conoscersi e a riconoscersi, anche e soprattutto attraverso i luoghi visitati che entrano nella sua anima e un po’ anche in quella del lettore attraverso le numerose immagini che vanno a comporre il libro. Istantanee di un pezzo di vita nel quale l’autore ha deciso e preferito la sospensione all’effervescenza.
Nella nostra cultura l’attaccamento dei corpi individuali all’ordine simbolico della società dipende dall’effervescenza collettiva legata a riunioni di gruppo e all’interazione che ne consegue. I simboli collettivi hanno la capacità di entrare nelle menti e nei sentimenti degli individui e di conservarsi qui efficacemente: ciò perché le energie in gioco sono legate a quello che le persone sentono come sacro per la vita del gruppo.14
Il sistema capitalistico ci spinge a vedere gli altri come concorrenti o nemici generando così una sorta di solitudine strutturale. Ma, in questo mondo in cui la comunità sembra essere sempre più sfuggente, il bisogno di appartenenza è rimasto. E, laddove l’individuo non riesce da solo a creare l’effervescenza collettiva, sono intervenute le imprese a colmare questo vuoto.
La cosiddetta “economia della solitudine” ha iniziato a espandersi sempre più per donare a chiunque ne faccia richiesta quel lieto inebriamento che otteniamo quando facciamo qualcosa con gli altri. Attività di ogni tipo, che spaziano dallo sport ai viaggi, necessarie a inebriarsi e non avere neanche il tempo di pensare alla propria solitudine.
Dunque la filosofia dello slow living sembra essere: ogni cosa ha il suo tempo. Non più corse in affanno e ansia per riuscire ad adempiere a tutte le mansioni ma dare il giusto tempo e spazio per ogni attività e, soprattutto, per curare se stessi.
Esattamente ciò che sembra aver fatto Oscar Di Montigny durante il suo viaggio, raccontandolo nel suo diario, diventato poi il libro Un nuovo equilibrio.
Il libro
Oscar Di Montigny, Un nuovo equilibrio. Viaggio nell’ultimo luogo segreto, Rizzoli Libri – Mondadori Libri, Milano, 2024.
1L. Armano, Il significato umano del tempo. Categorizzazioni culturali, Dialoghi Mediterranei, 1 novembre 2018.
2M. Mauss, É. Durkheim, De quelques formes primitives de classification, Presses Universitaires de Framce, Paris, 2017.
3M. Aime, A. Favole, F. Remotti, Il mondo che avrete. Virus, antropocene, rivoluzione, Utet, Milano, 2020.
4Il sistema di welfare, dal 56° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese, 2022.
5E. Levinas, Il Tempo e l’Altro, Mimesis Editore, 2021.
6M. Aime, A. Favole, F. Remotti, op.cit.
7A. Sardi, Cervello e Meditazione. Gli Effetti Psicofisici delle Tecniche di Meditazione, Neuroscienze, 27 agosto 2020.
8E. Levinas, op.cit.
9A. Grazzini, Kintsugi: l’arte di riparare le ferite, in State of Mind, 14 maggio 2020.
10M. Recalcati, Mantieni il bacio, Feltrinelli Editore, Milano, 2019.
11M. Cucchi, A proposito di diari, in AAVV, Leggere i diari, Gruppo di Lettura la luna, Ass. Casa della donna, Pisa, 1996.
12A. Micalizzi, Il diario personale come testimonianza di sé e del proprio tempo, in M@gm@ Rivista, vol.7 n°1 Gennaio-Aprile 2009.
13T.R. Sarbin, Narrative psychology, Peager Publishers, NY, 1994.
14É. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse. Le systéme totemique en Australie, Presses Universitaires de France, Paris, 1960.

Articolo pubblicato su LuciaLibri.it
Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com
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