Liana Zimmardi, L’urlo dei gattopardi

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Il romanzo di Zimmardi conduce il lettore all’autunno 1847, a una manciata di mesi prima lo scoppio dei moti insurrezionali del ’48. Una rivoluzione nella quale in molti hanno creduto ma per ragioni diverse. Isabella di Cabrera, protagonista delle vicende narrate, ci vuol vedere un’opportunità di rivalsa per le donne, una grande opportunità per far valere anche i loro diritti. 

I movimenti rivoluzionari del 1848 rappresentano l’apice di una trasformazione, di un’evoluzione di lungo periodo della società europea, che non si adattava più al quadro istituzionale e territoriale stabilito nel 1814-15 dalle grandi potenze, immediatamente dopo la caduta dell’impero napoleonico. L’assetto deciso dal Congresso di Vienna non aveva, infatti, tenuto conto delle sempre più vive aspirazioni dei popoli all’indipendenza, alla libertà, all’identità nazionale. 

La Sicilia apre l’anno classico del rivoluzionarismo europeo e italiano e la sua insurrezione può essere considerata come il sintomo concreto che darà inizio alla “stagione” delle rivoluzioni del 18481, che da questo estremo lembo d’Europa si sarebbero estese a macchia d’olio, confermando l’esistenza di un comune spirito europeo.2

I riflessi degli eventi rivoluzionari che avverranno a Parigi a partire dal febbraio 1848 saranno recepiti in Sicilia quale occasione rilevante per dare vita a un nuovo sfondo politico in seno all’isola. Si delineò un concetto diverso di autonomia, concepita non più come separatismo ma opposizione al centralismo napoletano e istanza all’autogoverno3 in funzione di un idoneo inserimento del Regno meridionale nel contesto unitario italiano, allora concepito in termini federalistici. 

Muovendosi con disinvoltura all’interno del campo di forze creato dall’esperimento della monarchia amministrativa borbonica, i ceti dirigenti isolani saranno in grado di sfruttare e massimizzare le risorse materiali e simboliche che il nuovo Stato metteva loro a disposizione. L’accumulazione di questo modernissimo capitale politico permetterà alla Sicilia di sfidare i Borboni su posizioni sempre più avanzate passando dal costituzionalismo al nazionalismo, sino alla guerra civile e all’estinzione della monarchia.4

La spinta al cambiamento, generata dalla rivoluzione, avrà una ricaduta sulle donne intellettuali, sulle poetesse e sulle giornaliste, specie tra quante si trovarono schierate con l’ala democratico-repubblicana e laico-socialista: tale componente finì poi per polemizzare aspramente con coloro che ne avevano monopolizzato gli esiti in senso moderato.5 Era opinione ampiamente diffusa che la religione, priva di dogmatismi, intolleranze e violenze, se aperta alle istanze di rinnovamento sarebbe potuta divenire simbolo e modello di unità e di rigenerazione dell’intera collettività, grazie al quale la giustizia sociale avrebbe potuto trarre ispirazione dalla saggezza dell’ordine divino.6 Alla spinta religiosa le donne culturalmente più impegnate univano l’educazione familiare, il senso morale, l’amore per la patria.7

La nobildonna Isabella, protagonista del libro di Zimmardi, sembra incarnare tutti questi aspetti dimostrando il suo impegno non solo nella lotta contro il dominio borbonico ma anche, e soprattutto, per la libertà di tutte le donne. Una libertà che va conquistata nei vari aspetti della società fino ad allora preclusi alla partecipazione femminile come nella sfera privata, emotiva, sentimentale. È l’amore infatti il vero perno intorno cui ruota la narrazione. Storie di amore e passione costruite e modellate sugli eventi di quel periodo storico, di quei giorni, intensi e convulsi che hanno per certo determinato le scelte dei protagonisti. 

Personaggi delineati dall’autrice in modo da rappresentare il duplice e spesso opposto significato del termine: Gattopardo è colui che appartiene o è appartenuto al ceto dominante o agiato in un precedente regime ma è anche colui che si mostra promotore o fautore del cambiamento, anche se in realtà lo fa solo per poter conservare potere e privilegi. Idea basata sull’affermazione di Tancredi, nipote del principe di Salina: se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.8 Eppure, il principe Fabrizio Corbera di Salina ipotizzava che nulla sarebbe davvero rimasto come prima allorquando affermava: noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene. Borghesia senza radici e senza educazione. 

Il romanzo di Liana Zimmardi è una tormentata storia d’amore immersa in un tubolento periodo storico, un libro che riporta il lettore anche ai problemi legati al ceto sociale e alle classi di appartenenza. Si sofferma sugli intrighi di potere, sugli ideali e sulla volontà di inseguirli. Sugli interesse personali che prevalgono sul bene collettivo. Diventa così inevitabile il raffronto con il presente e la constatazione di quante cose siano cambiate da allora. Sembra quasi che tuttosia cambiato. Ma è cambiato davvero, oppure i cambiamenti ci sono stati affinché tutto restasse immutato?

Il libro

Liana Zimmardi, L’urlo dei gattopardi, Giunti, Milano, 2025.


1P. Pieri, Storia militare del Risorgimento. Guerre e insurrezioni, Einaudi, Torino, 1962.

2M. Morello, Per la storia delle costituzioni siciliane. Lo Statuto fondamentale del Regno di Sicilia del 1848, in Studi urbinati, 2006, fasc. 3.

3C. Valenti, L’adesione dei Comuni dell’Isola allo Stato Costituzionale di Sicilia nel 1848, in Atti del Convegno di Studi 150° Anniversario della Rivoluzione del 1848 in Sicilia (a cura di M. Ganci, R. Scaglione Guccione). 

4A. Blando, La guerra rivoluzionaria di Sicilia. Costituzione, controrivoluzione, nazione 1799-1848, in Meridiana: 81, Viella Editrice, Roma, 2014.

5S. Soldani, Donne e nazione nella rivoluzione italiana del 1848, in Passato e Presente, n° 46, 1999.

6P. Rosanvallon, Le sacre du citoyen. Histoire du suffrage universel en France, Gallimard, Parigi, 1992.

7S. Orazi, Giornalismo al femminile nel Quarantotto francese e italiano, in Cahiers de la Mediterranee, n° 104, 2024.

8G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, 1958.


Articolo pubblicato su LuciaLibri.it


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Luisa Passerini, Artebiografia. Percorsi di artiste tra Italia e Africa

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Che cosa può insegnare l’arte che nessun’altra forma espressiva trasmette? È questa, in sintesi, la tesi iniziale del libro di Luisa Passerini ArtebiografiaL’arte come forma di conoscenza soggettiva: guardando, ascoltando, seguendo i messaggi delle tre artiste oggetto del libro, cosa si arriva a percepire e comprendere personalmente?

Le tre artiste – Muna Mussie, Alessandra Ferrini, Binta Diaw – condividono in modi diversi, tra i poli del percorso biografico e dell’itinerario artistico, l’appartenenza a culture italiane e contemporaneamente l’attenzione per l’Africa. Un percorso che le accomuna all’autrice e da cui Passerini trae spunti per una riflessione di più ampio respiro su tematiche legate all’arte, alla cultura, alla violenza strutturale e alla colonizzazione/decolonizzazione.

Muna Mussie analizza a fondo il concetto di oblio scegliendo di decostruire l’accezione negativa comunemente data per legarla alla pratica del ricamo da lei sovente utilizzata e andare così a agire fisicamente sulla parola “oblio”. Con il gesto, al contempo pratico e simbolico, di scrittura e ricamo della parola “oblio” forma e contenuto si fondono al punto che appare chiaro il fatto che l’oblio rappresenta, alla fin fine, qualcosa che unisce. 

Già Renan aveva individuato nell’oblio un fattore essenziale nella creazione di una nazione. Al contrario della memoria storica che rappresenta spesso un pericolo per le nazionalità. In quanto la ricerca storica riporta alla luce i fatti di violenza che hanno accompagnato l’origine di tutte le formazioni politiche.1 Al Mattatoio di Torino l’artista ha voluto dare origine a una installazione che includesse tutti, umani e non umani. Dai muri del Mattatoio sembrano ancora udirsi dei lamenti. Da qui l’idea di Pianto del Muro che molto ricorda e si rifà al Muro del Pianto di Gerusalemme, un luogo iconico che richiama alla mente una storia nota di grande violenza.

Ecco allora ritornare i concetti di oblio e memoria storica. L’oblio del ricamo diventa allora un’occasione per condividere un dolore, una tristezza, un lamento. Per condividerlo. Ripensarlo fino a farlo sparire.

Anche Alessandra Ferrini indaga e avvicina i concetti di umano e non-umano ma in un’accezione differente, nella quale il non-umano diviene dis-umano. Con Gaddafi in Rome: Notes for a Film, una video-installazione con la quale l’artista rappresenta i controversi accadimenti della storia geo-politica contemporanea, focalizza l’interesse sull’utilità della ricerca per la difesa dei diritti umani e della cittadinanza globale in epoca post-coloniale. 

C’è un filo diretto tra il passato e il nostro presente, sebbene talvolta venga reso invisibile. Il periodo coloniale è forse il momento storico che maggiormente vede acutizzata la contrapposizione tra memoria storica e oblio. Tra necessità di comprendere, per superare e migliorare, e desiderio di dimenticare, nascondere, rinnegare, minimizzare. Destrutturare e ricomporre l’oblio del colonialismo porta, ancora una volta, all’emergere del dolore, della tristezza, dei lamenti, della violenza tutta che in esso ha albergato. 

Binta Diaw ha concentrato molto i suoi sforzi artistici nella rappresentazione del “corpo nero”. Una presenza fisica, anatomica. Una consapevolezza trasmessa in un mondo nel quale si pensa ancora al bianco e al nero in termini di separazione e marginalizzazione. 

Il 40% delle donne africane si sottopone a trattamenti per schiarire la pelle, spesso con creme che contengono mercurio. Una pratica dannosa per la salute. Il problema però non è solo medico e non riguarda solo il continente africano. Un’inchiesta di Le monde del 2008 già rilevava la tendenza diffusa da parte delle persone di colore a volersi sbiancare la pelle. Dal vecchio al nuovo continente, la superiorità della razza bianca è stata sbandierata dalla maggior parte della popolazione, nella convinzione che i neri non avrebbero mai ottenuto la pienezza dei diritti civili e politici senza modificare le loro abitudini e il loro modo di presentarsi, seguendo i modelli, anche estetici, dei bianchi. Così la prima ambizione di un colonizzato è di diventare come il colonizzatore, il quale assurge a modello di riferimento.2

Binta Diaw, al contrario, con le sue opere, di forte impronta installativa, sembra invece determinata a riprendersi e, al contempo, a trasmettere tutta la fierezza della nerezzaIl messaggio che viene trasmesso all’osservatore è di forte impatto emotivo, con rimandi alle origini della vita stessa. L’uso di materiali organici come la terra ha una forte valenza simbolica nella sua duplice accezione di elemento della natura e principio creativo. Affiancare e intrecciare poi a questo materiale elementi artificiali, come i capelli sintetici per le extension, amplifica l’impatto dell’opera stessa nello spazio al punto che queste installazioni sembrano occupare e “prendersi” l’intera scena. Come fosse la rappresentazione simbolica di una lenta e silenziosa marea nera che avanza in maniera costante e solo apparentemente impercettibile. 

In tutte e tre le artiste Luisa Passerini avverte risonanze di sentimenti che pertengono alla sua vita, ma che non riuscirebbe a esprimere se non attraverso l’interlocuzione con le loro opere. Gli elementi biografici, indagati a fondo nel testo e funzionali a esprimere appieno il senso del termine artebiografia, sono sempre introdotti in colloquio con l’opera artistica, intendendo con ciò sottolineare la relazione tra alcuni momenti cruciali dell’esperienza di vita e quelli della creazione artistica. Individuale, per ogni singola artista e per l’autrice. E corali, in un certo qual modo, laddove Passerini lega le sue esperienze personali a quelle delle artiste e alle loro opere.

L’arte è una forma di espressione umana che affonda le sue radici nelle profondità dell’anima e tocca corde sensibili della persona. Da sempre ha avuto il potere di evocare emozioni, suscitare riflessioni e creare un senso di connessione tra l’artista e il fruitore. A questo l’autrice ha legato le esperienze biografiche di ognuna e di tutte che vedono, tra l’altro, uno stretto legame con il continente africano.

Enormi parti del mondo stanno diventando nere, tanto che alla fine del secolo in corso una persona su tre o quattro sarà africana. 

Da qui al 2050, la sola Africa subsahariana conterà all’incirca il 57% della crescita demografica globale e il 23% circa della popolazione mondiale.3

Il Nord globale sta assumendo alcuni dei tratti un tempo caratteristici del “Terzo Mondo”, come la crescente diversità interna, la conflittualità su base etnica e razziale, l’aumento di povertà e disuguaglianza, la crescita degli insediamenti informali e una gioventù sotto proletarizzata. L’Africa, sostanzialmente, sta diventando una condizione globale.4

In Europa lo spirito è annacquato, corroso dalle forme più forti di pessimismo, nichilismo e superficialità. L’Africa potrà anche essere sconfinata ma il suo spirito e i suoi spiriti sono lucidi, trasparenti, la sua spiritualità sottile seppure ampia e inclusiva. L’Europa ha “decolonizzato” senza riuscire a “autodecolonizzarsi”.5

Non solo tutte le grandi scoperte e conquiste della storia moderna sono per lo più attribuite agli attori europei, ma l’intero schema storico è costruito in modo tale da escludere l’Africa, presentando l’Occidente come il centro e la forza motrice della storia. L’Occidente ha utilizzato gli attributi della razza per stabilire differenze attraverso la selezione di criteri che favoriscono la sua normatività, il più evidente dei quali è la pretesa esclusiva di razionalità. Di conseguenza, tutto ciò che differisce dall’Occidente diventa irrazionale e primitivo.6 Quando, invece, le agentività umane sono coinvolte e prioritarie, lo sviluppo diventa una questione di capacità umane nei termini di libertà e opportunità piuttosto che di semplici indicatori economici.7

Le posizioni filosofiche africane sono emerse a partire dalla chiara percezione dei profondi danni causati dall’interiorizzazione del discorso coloniale. Convinti che nessuna politica di sviluppo potesse dare frutti finché il sé africano fosse gravato dallo spettro dell’arretratezza, hanno elaborato teorie per contrastare il discorso colonialista al fine di realizzare la decolonizzazione della mente africana.8

In Occidente, anche nei contesti scolastici tendono ancora a riprodursi le ingiustizie socio-economiche del mondo esterno, a perpetuarsi gli stereotipi culturali che giustificano le gerarchie tra gruppi sociali.9 Secondo la teoria del deficit thinking gli studenti delle minoranze e le loro famiglie sono considerati i principali responsabili dell’insuccesso scolastico da loro sperimentato poiché sono privi delle conoscenze e delle competenze culturali attese. Il deficit thinking ha trovato nella colonialità del sapere10 un terreno fertile per il suo sviluppo e la sua diffusione nei sistemi scolastici occidentali.11 La persistenza del deficit thinking approach a scuola si prolunga e si ripercuote poi sull’intera società generando così una sorta di circolo vizioso.

Il potere oggi in essere che muove i processi di globalizzazione di stampo neoliberista trova le sue radici nel colonialismo eurocentrico che, a sua volta, rintraccia nella conquista dell’America Latina il suo atto fondativo. La sottomissione territoriale, politica ed economica ha incluso anche la colonialità del sapere: la cultura eurocentrica divora dall’interno le altre culture attraverso la colonizzazione dell’immaginario delle popolazioni sottomesse con l’imposizione di una super-ideologia. L’assolutismo scientifico positivista imposto dalla colonialità del sapere costituisce ancora oggi lo sfondo epistemologico dei sistemi scolastici occidentali. Gli studenti altri, i cui saperi non sono riconosciuti dal sistema scolastico – il plurilinguismo, la conoscenza del mondo naturale, ecc. – sono letti attraverso uno sguardo che pone l’attenzione su ciò che manca, sulle lacune rispetto alle competenze definite dal curricolo.12 La decolonizzazione della conoscenza è indicata quale compito fondamentale della decolonialità al fine di risoggettivizzare (s)oggetti coloniali.13

La decolonizzazione del patrimonio è attualmente uno dei temi più caldi del dibattito contemporaneo in ambito culturale. Intendendo con essa sia la comprensione di quel passato che aleggia tuttora sul nostro presente che la sperimentazione di un uso più democratico del nostro patrimonio.14 Decolonizzare significa interrogarsi sulle istituzioni: come e perché viene attribuita priorità ad alcune forme di conoscenza e autorità rispetto ad altre? Come vengono organizzate e classificate le conoscenze? Chi determina i criteri di selezione e di qualità delle collezioni? 

La colonizzazione culturale ha interferito e interferisce tuttora con la volontà delle culture locali. Non vi è alcun dubbio nel riconoscere che la questione post-coloniale ovunque ha lasciato delle ampie ferite aperte e l’incapacità di trovare forme autoctone di “rimarginazione” ha solo favorito ingiustizie e guerriglie interne che hanno messo in forte discussione proprio il patrimonio culturale ereditato da queste colonie.15 C’è chi ha visto poi in questi movimenti di liberazione e rivoluzione, africani in particolare, una via d’uscita dall’avvilimento della quotidianità. Per Luisa Passerini l’Africa ha rappresentato il luogo di sovversione totale. Era l’Africa subsahariana o “nera” che attirava e prometteva. Era L’Africa-mondo, più che un continente: una dimensione storica; un modo di vedere l’intrico di passato, presente e futuro; una possibilità di invenzione e cambiamento di prospettiva. Il continente, ricorda Passerini, che sembra mantenere una “giovinezza inesplorata”. 

L’interlocuzione di Passerini con le tre artiste e le loro opere ha guidato un itinerario apparentemente circolare, in quanto le stesse tematiche sono ritornate più volte. In realtà, come sottolinea la stessa autrice, si è trattato piuttosto di una spirale, perché i temi riappaiono in maniera diversa, il che permette di scoprirne nuovi significati. Tutte le fonti, anche quelle giuridiche e statistiche, nascondono o possono nascondere una valenza emozionale, generalmente attribuita alle forme d’arte. Peculiare della fonte artistica risulta essere, nell’analisi di Passerini, l’invito a molteplici forme di intersoggettività: tra chi ricerca e l’artista, tra l’artista e il suo tempo, tra quel tempo e il momento attuale, tra individui e realtà collettive. 

L’arte è, per eccellenza, un luogo dove si incontrano in modo ossimorico la rappresentabilità e l’irrappresentabilità,16 allora in essa la negazione gioca un ruolo fondamentale dal momento che rappresenta un meccanismo chiave. Solo seguendo il sentiero della negatività, infatti, alcuni contenuti sono resi veicolabili a patto di essere in qualche modo cancellati. Vedere è un po’ come distruggere: Orfeo che guarda Euridice la condanna a morire per la seconda volta; Psiche violando il divieto di contemplare Eros scatena le furie di Venere; la moglie di Lot è trasformata in una statua di sale da Dio che aveva ordinato a tutti gli abitanti di Sodoma di non voltarsi per vedere cosa restava della città.17 Cogliere l’intenzione di un artista non è solo una faccenda di comprensione intellettuale poiché l’obiettivo dell’autore è piuttosto quello di destare nello spettatore lo stesso atteggiamento emotivo, la stessa costellazione mentale che ha prodotto in lui l’impeto creativo. Ecco allora che bisogna dirigersi non verso le ragioni dell’opera bensì verso i suoi silenzi per portare alla luce «le travail du négatif à l’œuvre dans l’œuvre» (“il lavoro del negativo all’opera nell’opera”).18

L’oblio di Muna Mussie, il dis-umano di Alessandra Ferrini, il corpo-nero di Binta Diaw, il vuoto di cui racconta Luisa Passerini nel quinto capitolo del libro e che l’ha portata a interrogarsi sulla propria esistenza, sembrano tutti aspetti dell’irrappresentabile impeto artistico che mira a illuminare il buio e oscurare, nascondere l’ovvio, unico modo per indagare oltre, per far comprendere e trasmettere allo spettatore il lavoro del negativo all’opera nell’opera.

Libro

Luisa Passerini, Artebiografia. Percorsi di artiste tra Italia e Africa, Rosenberg&Sellier, Torino, 2024.


1E. Renan (autore), G. De Paola (traduttore), Che cos’è una nazione, Donzelli, Roma 2004 (Conferenza alla Sorbona di Parigi del 1882). 

2F. Faloppa, Sbiancare un etiope. La costruzione di un immaginario razzista, Utet, Segrate (Milano), 2022. 

3Orizzonte 2050: le prospettive di sviluppo dell’Africa, in ISPI – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, 22 aprile 2020.

4J. Comaroff, J.L. Comaroff, Teoria dal Sud del mondo. Ovvero come l’Euro-America sta evolvendo verso l’Africa, Rosenberg&Sellier, Torino, 2019.

5A. Mbembe, Emergere dalla lunga notte. Studio sull’Africa decolonizzata, Meltemi, Milano, 2018.

6M. Kebede, African Development and the Primacy of Mental Decolonisation, in L. Keita, (a cura di), Philosophy and African Development: Theory and Practice, CODESRIA, Dakar, 2011.

7A. Sen, B. Williams, Development as Freedom, Knopf, New York, 1999.

8M. Kebede, op.cit.

9I. Vannini, La scuola di tutti e di tutte. Equità e qualità del Sistema e professionalità dell’insegnante: un’analisi incompleta, in LLL, vol.19, n°42, 2023.

10A. Quijano, Colonialidad y modernidad/racionalidad, in Perù Indígena, vol.13. N°29, 1992.

11P. Dusi, Breaking out of the box. Andare oltre il deficit thinking nei contesti scolastici eterogenei, in Educazione Interculturale – Teorie, Ricerche, Pratiche, vol.21, n°2, 2023.

12P. Dusi, op.cit.

13W.D. Mignolo, The Decolonial Option, in W.D. Mignolo, C.E. Walsh, On decoloniality, Duke University Press, Durham, 2018.

14L’ICCROM e la decolonizzazione del patrimonio, in Temi-Evidenza, UNESCO – Commissione Nazionale Italiana per l’Unesco, 02 dicembre 2021.

15O. Niglio, Decolonizzazione culturale e nuovi paradigmi locali, in Dialoghi Mediterranei, Istituto Euroarabo, 1 luglio 2021.

16M. Gagnebin, L’irreprésentable ou les silences de l’œuvre. Presses Universitaires de france, Pris, 1984.

17A. Tomaino, Per una buona psicoanalisi dell’arte: Vygostskij e il Mosè di Freud, in RIFL, vol.12, n°2, 2012.

18M. Gagnebin, Pour une esthétique psychanalytique. L’artiste, stragège de l’Inconscients, Presses Universitaires de France, Paris, 1994.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Rosenberg&Sellier per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Le immagini sono tutte tratte dal libro.


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© 2025, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Jorge Luis Borges, il Mestiere della Poesia

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Sentiamo la poesia come sentiamo la vicinanza di una donna, o una montagna, un’insenatura. Se la sentiamo immediatamente, perché diluirla in altre parole, che saranno di sicuro più deboli delle nostri emozioni?1

La poesia parla da sé e parafrasata smette di essere tale. Come parlarne, dunque? Da lettore, quale Borges si è sempre, innanzitutto, e senza falsa modestia, considerato. Nelle lezioni tenute a Harvard tra il 1967 e il 1968, descrive passo dopo passo il certosino lavoro del poeta il quale, al pari di ogni altro artigiano, costruisce, cesella, intarsia, perfeziona ogni sua creazione.

Per quanto sia infinita la letteratura, o le possibili variazioni sugli stessi argomenti, Borges ritiene i suoi temi limitati. Analogamente, egli ritiene che l’universo personale di ogni scrittore sia abbastanza limitato, come dimostra, per esempio, nel caso della sua opera, la ricorrenza di alcuni temi specifici. Ora, questi temi, egli sostiene, non è stato lui a sceglierli, ma sono stati questi stessi temi ad aver scelto lui.2

Martinetto afferma che il lavoro svolto da Borges sia stato quello di attingere all’immenso territorio dell’intertestualità una serie di temi che già vi vorticavano e di trasformarli in parabole esemplari. La sua, insomma, è stata l’idea di una letteratura parassitaria e della riscrittura come garanzia di genuinità. 

La citazione (legale) e il plagio (illegale), equivalgono entrambi a scrivere una lettura: in questo Borges va considerato un artista concettuale poiché ri-crea nel momento in cui legge, insinuando la differenza fra originale e copia, come nel caso esemplare del suo Pierre Menard, oppure dove argomenta che ogni scrittore crea i suoi precursori perché modifica la nostra concezione di quelli che lo hanno preceduto.3

Borges immagina che lo scrittore francese, Pierre Menard, si prefigga lo scopo ambizioso non di trascrivere in modo meccanico il Don Chisciotte di Cervantes bensì di produrre delle pagine che coincidano, parola per parola, con l’opera originale.4

Che per imitare nella maniera più perfetta un autore, per scrivere come lui, sia necessario identificarsi con il modello, diventare lui, è un suggerimento ben presente al classicismo tardo-medievale e rinascimentale. Non a caso, Francesco Petrarca, nelle sue Familiares, ha prescritto la propria assimilazione delle pagine più amate in termini fisiologici e organici, come se le parole dei classici mettessero radici nelle viscere stesse del soggetto e lo trasformassero in un altro.5

La medesima opinione di fondo è quella di Leopardi: «La facoltà d’imitazione non è che la facoltà di assuefazione; perocché chi facilmente si avvezza, vedendo o sentendo o con qualunque senso apprendendo, o finalmente leggendo, facilmente, e anche in poco tempo, riducesi ad abito quelle tali sensazioni o apprensioni, di modo che presto, e ancor dopo una volta sola, e più o manco perfettamente gli divengono come proprie; il che fa ch’egli possa benissimo e facilmente rappresentarle e al naturale, esprimendole piuttosto che imitandole, poiché il buono imitatore deve aver come raccolto e immedesimato in se stesso quello che imita».6

Analogamente, scrivendo il suo racconto, Borges presenta il suo tema rinviando alla total identificación con uno specifico autore. Agire secondo lo spirito di un autore significa dunque “entrare” letteralmente nel suo Io. Dietro il Cervantes perfettamente spersonalizzato di Menard si dovrebbe ritrovare (ma ciò è impossibile) la scrittura personale di Menard. Il lavorìo della creatività individuale ha prodotto un testo identico a quello precedente e la differenza delle varianti e dello stile si è cristallizzata nella ripetizione di ciò che già è stato. Pierre Menard si annulla nell’operazione e il suo presente finisce per coesistere con il passato di Cervantes.7

L’utilizzo e la rielaborazione di frasi e concetti attinti all’immenso capitale libresco immagazzinato nel corso di una vita consumata in una biblioteca plurilingue, rappresenta per Borges uno strumento epistemologico, anche quando include testi e autori immaginari per costruire una realtà letteraria speculare inesistente. 

Le trasformazioni della critica letteraria nel corso degli ultimi decenni illustrano come il campo si sia evoluto dalla predominanza della teoria letteraria post-strutturalista e formalista verso una maggiore diversificazione e interazione con altre discipline. L’eclettismo metodologico riflette una visione della letteratura non più considerata nella sua autonomia ma come fenomeno culturale e antropologico complesso intrecciato ad altre sfere della conoscenza. Questo spostamento dal testo e il suo autore verso i lettori, e dunque verso gli effetti empirici, cognitivi o politici della letteratura, ha permesso di difendere il ruolo delle scienze umane di fronte alle critiche neoliberiste sulla loro presunta inutilità.8

Nell’opera di Borges la memoria diventa un’alchimia immaginativa, trasformando saperi eterogenei in un linguaggio narrativo capace di evocarne la ricca portata simbolica. Egli è l’animal symbolicum di Cassirer, colui che vive in un contesto mediato da valori e significati che egli stesso concorre a elaborare, ricorrendo al mito, alla religione, all’arte, alla scienza. Nell’archeologia borgesiana del sapere l’occhio estetico anima un’estrema varietà di modelli culturali, dando loro esistenza concreta, ma anche svelandone i punti deboli attraverso una serie di fratture tra la superficie visibile delle parole e il non-detto che si apre alle loro spalle. Il suo metodo, se è legittimo parlare di metodo, potrebbe somigliare a una provocazione maieutica che miri a suscitare interrogativi, anche evocando posizioni collidenti tra loro. L’orizzonte antropologico si allarga, in questo caso, fino a comprendere non solo ciò che è, ma anche ciò che avrebbe potuto essere e non è stato.9

Nella prefazione Sideri sottolinea, e ricorda al lettore, quanto la conoscenza, se non condivisa, si trasforma in un mero esercizio di potere. E quanto, al contrario, la parola di Borges abbia dimostrato la potenza del verbo laico: non in flussi di parole, ma in concentrati densi e coerenti, che conservano ancora oggi il valore taumaturgico dei pensieri capaci di permeare la percezione. Un sapere parziale, un dubbio saggio, che proprio per questo si avvicina alla più alta forma di conoscenza accessibile all’uomo. 

Per Borges, la vera conoscenza non nasce dalle certezze, ma dalla capacità di porsi domande e accogliere il dubbio. Ogni poesia, ogni lettura, diventa così un invito a esplorare l’ignoto, un labirinto di enigmi che conduce a una comprensione più profonda di noi stessi e della realtà che ci circonda. 

Nel definire le diverse funzioni della lingua si può agevolmente distinguere dalle altre la “funzione poetica”, che concentra l’attenzione non sull’emittente, sul destinatario o sul referente della comunicazione, ma sul messaggio, ossia sull’enunciato stesso, in quanto formulazione creativa. Nella poesia, il linguaggio funziona al massimo livello delle proprie potenzialità espressive, che ne fanno una fondamentale e insostituibile forma di conoscenza. Per questo la poesia è necessaria. 

Caratteristica della poesia – sia essa poesia orale o poesia scritta e letta – è la sua naturale aspirazione a farsi voce, a farsi un giorno sentire, non solo attraverso l’ascolto ma anche con il sentire del corpo di chi la incontra.10

L’accento che Borges ha voluto dare al suo discorso sulla poesia non riguarda la lettura tipica di un critico o di un interprete, bensì quella di chi assapora il risultato di un lavoro di cesello, invitando il pubblico a notare dettagli che potrebbero altrimenti sfuggire, ombreggiature di suono – e solo dopo di senso. È una lezione sul modo di avvicinarsi alla poesia, come sottolinea Martinetto nella introduzione al testo: abituarsi a lasciar parlare le assonanze, le musicalità, le associazioni di parole, un invito a rifuggire il ragionamento per abbandonarsi a un piacere quasi fisico, dal momento che il linguaggio non è l’invenzione di accademici o filologi. Esso si è evoluto nel tempo, in un tempo lunghissimo, grazie a contadini pescatori cacciatori cavalieri. Non proviene dalle biblioteche ma dai campi, dal mare, dai fiumi, dalla notte, dall’alba.

Per Borges, la prosa convive con il verso. E, forse, per l’immaginazione entrambi sono uguali. Il richiamo a Croce è palese, di cui Borges si è sempre mostrato allievo: nel non distinguere tra verso e prosa; nel ricercare l’essenzialità del dettato; nel finalizzare la poesia alla sua forma classica.11

La poesia di Borges è poesia della centralità, senza tempo e di tutta la storia. E, in quanto tale, tiene in serbo un sentimento profondo delle periferie dello spazio e del tempo, delle distanze remote della civiltà, della vaghezza della memoria, del sogno, della realtà presente. In essa sembra possibile percepire una fatale coincidenza tra la condizione dell’esistenza e il suo fine, tra le esili orme che la vita lascia nel tempo e il volume del suo destino, tra il non senso e la sua necessità.12

Dopo aver trascorso l’intera vita a leggere, analizzare, scrivere, Borges affermava di poter donare una sola certezza: i suoi dubbi. E così che egli comunica agli studenti di Harvard, che ascoltano i suoi discorsi sulla poesia, di poter comunicare loro solo le sue perplessità.

Ed è forse proprio in questo che risiede la grandezza dell’opera letteraria di Jorge Luis Borges, nella grande umiltà di fondo che, nelle lezioni americane, traspare anche più agevolmente rispetto alle opere di narrativa o poesia. Nelle Northon Lectures, Borges cita versi con premesse come questa: Se non li capite, potrete consolarvi pensando che non li capisco neppure io e che sono privi di senso. Sono belli e deliziosamente privi di senso; non devono significare nulla. Sembra una banale provocazione eppure, come ricordano gli autori, si tratta di una lezione sul modo di avvicinarsi alla poesia, per abituarsi a lasciar parlare la musicalità, le assonanze. Il suono, Le parole, Il suono delle parole. Il significato del suono e delle parole. Il significato del suono delle parole. Musicalità e assonanze che conducono alla conoscenza di significati e verità.


Il libro

Jorge Luis Borges, il Mestiere della Poesia, Luiss University Press, Roma, 2024. 

Introduzione di Massimo Sideri. Con saggi di Vittoria Martinetto e Calin-Andrei Mihailescu.

Traduzione di Vittoria Martinetto e Angelo Morino.

Titolo originale: This craft of verse.


1J. L. Borges, Sette sere, Adelphi, Milano, 2024.

2G. Pera, Lo scrittore e la creazione letteraria, secondo Jorge Luis Borges, in Dialoghi Mediterranei, 1 marzo 2023.

3J.L. Borges, Kafka e i suoi precursori, in Altre inquisizioni, Feltrinelli, Milano, 2019. 

4J.L. Borges, Pierre Menard, Author of the Quixote, 1939.

5F. Petrarca, Familiarium rerum libri.

6G. Leopardi, Zibaldone.

7R. Rinaldi, Pierre e Paul, i dettagli del sentimento. Postilla sul bergsonismo di Pierre Menard, in Parole Rubate – Rivista Internazionale si Studi sulla citazione, Fascicolo 22, Dicembre 2020.

8A. Gefen, A che punto è la teoria letteraria?, in Narrativa – Nuova Serie Critica e teoria della letteratura: come leggere un testo nell’Italia degli anni Duemila, 46 | 2024.

9A. Guzzi, La teoria della letteratura: Jorge Luis Borges, Edizioni ETS, Pisa, 2009.

10P. Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Il Mulino, Bologna, 1984.

11D. Puccini, Borges, la lunga strada verso la finzione, in L’Indice dei libri del mese, anno I n°3 dicembre 1984.

12B. Mattei, Sulla semplice complessità della poesia di Borges, in Borges e la poesia del pensiero, Fondazione Montanelli Bassi, Fucecchio (Firenze), 22 maggio 2014.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Luiss University Press per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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© 2025, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Silvia Giagnoni, Alabama Hunt

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Un tragico incidente di caccia è il motore che innesca una terrificante escalation caratterizzata da estremismo politico e fanatismo religioso. L’asfittica campagna dell’Alabama pre e post 11 settembre, in cui persistono razzismo e xenofobia, rappresenta il teatro nel quale si svolgono le vicende che portano alla traumatica separazione di Markus e Jeff, due cugini cresciuti come fratelli. Il progressivo e volontario allontanamento dalla famiglia condurrà Jeff verso una pericolosa deriva, la parabola di uno spaventoso antieroe, un uomo che nella solitudine emotiva, sociale e psicologica raccoglierà i frutti dell’odio covato per anni, sfogando il proprio disprezzo verso i suoi nemici per eccellenza: i musulmani. 

Alternando flashback che ne ricostruiscono la storia, l’autrice racconta di un uomo che cerca nella violenza la propria redenzione scivolando inesorabilmente verso una fine annunciata.

Tra il romanzo e l’America esiste un nesso intimo e tutto particolare. Nuova forma letteraria quello, nuova civiltà questa. I loro inizi coincidono con gli inizi dell’epoca moderna e invero contribuiscono a definirla.1

Che essere uomo, donna, bambino di colore negli stati schiavisti americani del diciannovesimo secolo equivalesse a occupare l’ultimo gradino della scala sociale dell’epoca è cosa certa. Ciò che non è poi così scontato è la condizione di questi schiavi: sia la letteratura che la cronaca dell’epoca abbondano di testimonianze che mostrano le differenze nel loro stile di vita a seconda di numerosi fattori, tra cui lo stato in cui risiedevano, le mansioni a cui erano addetti e la bontà, o crudeltà, dei loro padroni. Il romanzo americano che, forse più di tutti, analizza le mille sfaccettature dei padroni buoni e di quelli crudeli è l’opera di Harriet Beecher Stowe.2

In Alabama Hunt il periodo dello schiavismo, almeno sulla carta, è ormai lontano. Eppure l’America raccontata da Giagnoni mostra tutti i nodi ancora irrisolti di una società che sa essere tanto buona quanto crudele, esattamente come i suoi padroni.

Oltre 150 anni dopo che il 13° emendamento abolì la schiavitù negli Stati Uniti, la maggior parte degli adulti statunitensi afferma che l’eredità della schiavitù continua ad avere un impatto sulla percezione della comunità afroamericana nella società di oggi.3 Erede del colonialismo europeo, il razzismo degli Usa nasce anche da una volontà di separazione identitaria e culturale con il Vecchio Continente. Lo schiavismo viene da sempre definito il “peccato originale” degli Stati Uniti, un peccato che gli deriva certamente dall’Europa, ma di cui il Vecchio Continente si è purificato molto prima e che, negli Usa, una volta dichiarato illegale, è comunque continuato in altre forme, prima con la segregazione, poi con l’attuale situazione delle comunità afroamericane, che continuano a vivere in ghetti dove il tasso di criminalità è altissimo, come pure quello della disoccupazione, e dove i problemi abitativi e di salute pubblica restano gravissimi.4

L’Alabama è lo Stato simbolo della nascita della battaglia per i diritti civili ma è, al contempo, dove storicamente si è fatta la storia dello schiavismo dei neri dall’Africa e del razzismo più feroce. Ed è proprio in Alabama che, forse simbolicamente, Silvia Giagnoni sceglie di ambientare il suo romanzo il quale non solo tocca ma approfondisce tematiche quali razzismo e xenofobia

L’incipit del libro è un trauma, un incidente di caccia che scatena una serie di eventi inaspettati e deleteri, non solo per la vittima diretta ma anche per il cugino, vero protagonista dell’intera vicenda. 

È proprio nel momento dell’impatto traumatico che la realtà si dà al soggetto esperiente prima di qualsiasi tipo di concettualizzazione. Il discorso della letteratura oggi riflette e al contempo costruisce nuovi modi di percepire ed esperire una realtà tardo-postmoderna che spesso è “realfittizia” a causa dell’osmosi di realtà e fiction ma che comunque non si lascia ridurre a rappresentazione o a schemi simbolici e interpretativi. In tale prospettiva, non sorprende che il focussull’esperienza traumatica e sulla sua trasposizione estetica costituisca, a partire dagli anni Novanta, uno dei filoni maggiormente produttivi della letteratura e della teoria letteraria vicina a quei Cultural Studies entro cui si posiziona sempre più saldamente lo studio della letteratura.5 Un filone che Giagnoni sembra aver pienamente abbracciato, cercando, con risultati soddisfacenti, di non precipitare nel paradigma vittimario che caratterizza molta letteratura contemporanea.

L’idea di trauma oggi gode di una fortuna senza precedenti.6 L’epoca in cui viviamo è segnata da una contraddizione paradossale: da un lato le vite scorrono senza alcuna reale possibilità di esperire il trauma, dall’altra, al contempo e proprio in ragione di questa condizione, le persone sembrano non riuscire a occuparsi d’altro. Non vivendo traumi, li immaginiamo ovunque. Come se l’assenza di traumi reali traumatizzasse al punto da costringere a inseguirli in ogni situazione immaginaria possibile. Il punto è che dal trauma immaginario (ovvero dall’immaginario traumatico) attingiamo incessantemente le categorie con cui dar forma a un’esperienza, che in generale di traumatico ha ben poco. Rappresentiamo il non traumatico sotto le spoglie del trauma.7

In Alabama Hunt il trauma rappresenta l’innesco per la serie concatenante di eventi che andranno a determinare non soltanto l’esistenza del protagonista ma anche e soprattutto il suo essere interiore.

Il trauma diventa violenza e la redenzione si pensa debba venire attraverso di essa. È questa la vicenda narrata da Giagnoni ma è questa, in sostanza, la storia americana e, in particolare, quella dell’Alabama dove religione e segregazione su base razziale continuano ancora oggi a essere tratto distintivo. Sono queste tematiche particolari e, a tratti, particolarmente ostiche. Temi sensibili che l’autrice ha cercato di trattare in maniera il più aderente possibile alla realtà eppure traspare, soprattutto nella parte finale del libro, una vena di speranza sul futuro ma anche sul presente. Una nota di ottimismo che si sparge lungo tutto il mare di pessimismo ingenerato dal racconto e dal resoconto del Male, di tutto il male che gli umani riescono a perpetrare ai propri simili, appartenenti alla medesima razza – umana. Operati e posti in essere proprio in nome di questa razza. Della classificazione su base razziale della società. In passato come adesso. 

La speranza di Giagnoni sembra quasi la visione di un mondo quale potrebbe essere la Terra. Ma si tratta pur sempre di un mondo immaginato. Immaginario. 

E se è vero che l’immaginazione non è reale lo è pure che non si riesce proprio a pensare una realtà senza immaginazione.


Il libro

Silvia Giagnoni, Alabama Hunt, Alter Ego, Viterbo, 2024.


1L.A. Fiedler, Amore e morte nel romanzo americano, Longanesi, Milano, 1963. Traduzione di C. Izzo e V. Poggi.

2H. Beecher Stowe, Uncle Tom’s Cabin (La capanna dello zio Tom), 1852. 

3Report: Race in America 2019, Pew Research Center. 

4A.M. Cossiga, I peccati originali d’America hanno radici in Europa, in Limes, 16 luglio 2020.

5M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Bari, 2012.

6D. Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio, Quodilibet, Macerata, 2011.

7A. Scurati, Letteratura dell’inesperienza. Il romanzo della Dopostoria, Enciclopedia Treccani, 2017.

Articolo pubblicato su LuciaLibri.it


Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Il ruolo delle scam city nella società di oggi: truffe, lavoro e relazioni sociali

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50mila schiavi per un business che ha fruttato nel 2023 ben 64miliardi di dollari.1 Sono queste le stime più accreditate utili a quantificare, per meglio definire, la più colossale quanto “banale” truffa romantica posta in essere nell’era del digitale, del metaverso e delle criptovalute. Solo in Italia le persone che almeno una volta sono state vittime di raggiri telematici sono 12.7milioni.2

Le scam city, le città della truffa, sono una creazione soprattutto birmana e si trovano lungo i confini del Paese in guerra dove fruttano denaro illegale alla mafia cinese ma anche alla giunta militare. Compound all’interno dei quali c’è tutto: ristoranti, parrucchieri, negozi. Manca però la libertà, soprattutto relativa alle comunicazioni e alle visite all’esterno. Sono almeno 15 le aree edificate intorno alla città birmana di Miawaddy. Decine di luoghi che promettono espansione edilizia con sbancamenti per nuove costruzioni.3

Le operazioni di truffa sono radicate nell’ascesa dei casinò e delle operazioni di gioco d’azzardo online nella regione del sud-est asiatico. In Myanmar, gli attori della criminalità organizzata operano nel paese da anni, ma la situazione è peggiorata dal colpo di Stato militare.4

Il primo febbraio 2021 i militari hanno preso il potere con un colpo di Stato guidato dal generale Min Aung Hlaing (già a capo di Tatmadaw, l’esercito birmano), rovesciando il Governo civile di Aung San Suu Kyi, arrestata col Presidente Win Myint e altri esponenti della Lega nazionale per la democrazia. Dopo il golpe, è iniziata in tutto il Myanmar una protesta pacifica con centinaia di migliaia di persone nelle piazze e una sorta di sciopero diffuso in tutti i settori vitali dell’economia. Ma questo movimento di disobbedienza civile ha dovuto affrontare una repressione durissima. La protesta pacifica si è trasformata, con il tempo, in una guerra diffusa di alta e bassa intensità, portata avanti sia dalle Forze di difesa popolari (Pdf), che fanno capo al Governo di unità nazionale (Nug – in clandestinità), sia alla resistenza delle milizie armate regionali, i cosiddetti eserciti etnici (Eao, oltre una ventina) che in parte negoziano con la Giunta e in parte vi si oppongono, specie nelle aree delle comunità karen, kachin e dell’Arakan. I più forti sostenitori della Giunta sono i russi, ma Tatmadaw ha potuto godere dell’appoggio più o meno diretto anche di Cina, India e Vietnam. La collocazione strategica del Myanmar lo rende una tessera fondamentale del dominio asiatico: per i cinesi, è lo sbocco sull’Oceano Indiano, dove sbarcano energia e beni indispensabili allo sviluppo della Repubblica popolare; per l’Occidente è un terreno di scontro con Pechino; per i Paesi del Golfo, la connessione tra Indonesia e Bangladesh.5

La guerra per il controllo del centro frontaliero di Myawaddy, sul fiume Moei, davanti alla città tailandese di Mae Sot, è stata resa ancora più complessa dalla presenza di tanti piccoli agglomerati urbani affacciati sul fiume che segnano il confine tra Myanmar e Thailandia, ovvero le scam city. Nate alcuni anni fa lungo i confini con la Cina o con la Thailandia come grandi o piccoli centri d’azzardo frontalieri, dopo l’Operazione 1027 con la quale la Resistenza ha riconquistato gli agglomerati sul confine cinese, gli affari si sono spostati e intensificati sul confine tailandese. Pare, inoltre, che le alleanze variabili – e quindi le sorti della guerra – dipendano in sostanza anche da chi potrà controllare e gestire le scam city.6

Le Bgf/Kna sono guidate da Saw Chit Thu, colonnello, segretario generale e consigliere senior del gruppo di miliziani, diventato una figura di spicco nel gruppo scissionista Dkba – Esercito Democratico Buddista Karen, che firmò il cessate il fuoco con l’allora giunta militare. Nel 2010 la Dkba è stata trasformata in Forza di guardia di frontiera beneficiando, in cambio dell’integrazione nel comando militare del Myanmar, del sostegno materiale sul campo di battaglia fornito dall’esercito e dello spazio per costruire lucrative attività criminali. L’esercito del Myanmar ha beneficiato a sua volta delle entrate che da queste derivano.7 I flussi finanziari nella regione del Mekong suggeriscono che l’industria della truffa in un solo Paese della regione potrebbe generare tra i 7.5 e i 12.5 miliardi di dollari, ovvero la metà del prodotto interno lordo del Paese stesso.8

La pandemia di Covid-19 e le misure di risposta associate hanno avuto un impatto drastico su tali attività illecite in tutta la regione. Le misure di sanità pubblica hanno chiuso i casinò in molti paesi e, in risposta, gli operatori dei casinò hanno spostato le operazioni in territori meno regolamentati e nello spazio online sempre più redditizio. Di fronte a nuove realtà operative, le bande criminali hanno preso di mira sempre più i lavoratori migranti, bloccati in questi paesi e senza lavoro a causa delle chiusure delle frontiere e delle attività commerciali, per lavorare nei centri di truffa. Allo stesso tempo, le misure di risposta alla pandemia hanno visto milioni di persone costrette a casa a trascorrere più tempo online, rendendole veri e facili bersagli. 

Approfittando della mancanza di opportunità di lavoro in molti paesi, delle ridotte opportunità di lavoro per i giovani laureati, i trafficanti sono stati facilmente in grado di reclutare fraudolentemente persone in operazioni criminali con il pretesto di offrire loro lavori veri. Le piattaforme digitali hanno notevolmente ampliato la portata degli attori criminali organizzati coinvolti in frodi online, consentendo loro di prendere di mira per il reclutamento persone in diversi paesi e di diversi gruppi linguistici. 

I casi di tratta documentati nel sud-est asiatico hanno solitamente coinvolto persone che hanno avuto un accesso limitato all’istruzione e sono impiegate in lavori sottopagati. Tuttavia, il profilo delle persone truffate in queste recenti operazioni di truffa online è diverso: molte delle vittime sono istruite, a volte provenienti da lavori professionali o con lauree, esperti di computer e di lingue. 

Gli uomini costituiscono la maggioranza delle vittime, sebbene anche le donne siano state prese di mira e, sebbene la gran parte delle vittime sono adulti, i rapporti evidenziano la presenza anche di adolescenti. 

Il ruolo di primo piano dei social media e di altre piattaforme digitali è una caratteristica intrinseca e sorprendente di queste operazioni di truffa online. Negli ultimi anni, il sud-est asiatico ha assistito a una crescita esponenziale della tecnologia digitale, del business e dell’e-commerce, nonché a una crescente digitalizzazione e “appification” nella regione.

Le principali piattaforme digitali sono state utilizzate dai trafficanti per ingannare le persone nel sud-est asiatico e oltre con falsi annunci di lavoro per reclutarle in operazioni fraudolente. Vengono inoltre utilizzate in dette operazioni per frodare persone in tutto il mondo.

Molti dei centri in cui le persone sono costrette a commettere attività criminali online si trovano fisicamente in giurisdizioni in cui la governance e lo stato di diritto sono deboli e l’autorità è contestata. Il colpo di Stato militare, la violenza in corso e i conflitti armati in Myanmar, e il conseguente crollo dello stato di diritto, hanno fornito terreno fertile per un aumento esponenziale dell’attività criminale. Molti dei centri truffa in Myanmar si trovano in aree di confine scarsamente regolamentate, e spesso porose, caratterizzate da una mancanza di strutture formali di applicazione della legge. Molti centri di truffe online della regione hanno sede in zone economiche speciali (SEZ), istituite dai rispettivi Stati, che sono caratterizzate da una regolamentazione opaca e dalla proliferazione di molteplici economie illecite, tra cui il traffico di esseri umani, il commercio illegale di animali selvatici o rari e la produzione di droga. Nel 2019 c’erano oltre 5.300 SEZ in 147 economie in tutto il mondo, con altre in programma di essere istituite.9

Sebbene possano svolgere un ruolo nello stimolare lo sviluppo economico, le SEZ hanno spesso sollevato una serie di preoccupazioni sui diritti umani, dai processi attraverso i quali vengono istituite al loro funzionamento, all’interno di un quadro generale di limitata supervisione legale. I rapporti indicano che non sono state condotte indagini sulle accuse di collusione tra gli attori criminali dietro queste operazioni fraudolente e alti funzionari governativi, politici, forze dell’ordine locali e influenti imprenditori.

Dai report emergenti, così come dagli screening e dalle identificazioni effettuati da alcuni paesi della regione, è chiaro che gli individui costretti a lavorare in questi centri truffaldini rientrano nella definizione legale di persone vittime di tratta. 

Nel caso delle truffe online, le persone vengono reclutate principalmente per fittizi ruoli professionali quali programmatori, addetti al marketing o specialisti delle risorse umane, attraverso quelle che sembrano essere procedure legittime e persino elaborate che possono includere colloqui, nonché test di lingua e altro. Alcune vittime hanno riferito di essere state prese di mira dai reclutatori nel loro paese di origine o da un paese terzo, mentre altre sono state reclutate quando erano già presenti nel paese di destinazione. I trafficanti si mostrano disponibili anche ad aiutare con il trasporto, inclusa in alcuni casi la documentazione necessaria. All’arrivo, i migranti vengono solitamente accolti dai trafficanti che li prelevano all’aeroporto e li accompagnano in alloggi temporanei o li trasferiscono direttamente nei complessi recintati o nei centri dove operano le truffe, ospitandoli lì, dove vengono sorvegliati da guardie di sicurezza spesso pesantemente armate. Viene loro tolto il passaporto in tutti i casi. 

Questo uso dell’inganno per reclutare persone nelle truffe online costituisce l’elemento “mezzo” della definizione di tratta di persone. In alcuni casi, gli individui potrebbero aver capito di essere stati reclutati per condurre frodi online, ma sono stati ingannati sulle condizioni, ad esempio non erano a conoscenza del fatto che sarebbero stati detenuti nei compound, sottopagati o non pagati, soggetti a percosse e altre forme di violenza, o costretti a pagare un riscatto per andarsene. 

Gli individui sono costretti a perpetrare frodi online utilizzando una serie di piattaforme tra cui falsi siti Web di gioco d’azzardo e piattaforme di investimento in criptovaluta, nonché truffe romantiche e finanziarie – pig-butchering, in cui false relazioni romantiche o amicizie vengono utilizzate per frodare gli utenti online di ingenti somme di danaro.10

Appare quindi evidente che, all’interno di questo fenomeno delle scam city, si configurano due grandi categorie di truffati: i “reclutati” e i “truffati online”. 

I criminali che mettono in atto truffe romantiche utilizzano dinamiche psicosociali in modo non etico, ma molto efficace, per manipolare la vittima. E, laddove si pensa che questi “truffatori” sono, nella gran parte dei casi, dei “truffati” a loro volta, il quadro si complica notevolmente.

Le truffe romantiche online sono un fenomeno criminale in forte crescita in alcuni paesi (Usa, Gran Bretagna, Germania, Italia), ma molto probabilmente si sta espandendo in tutti quei paesi dove è diffuso l’uso di social network. I criminali sfruttano a loro favore il fisiologico bisogno di relazionarsi, socialmente espresso più o meno consapevolmente dalla vittima, per costruire un copione, una narrazione convincente per arrivare a “spingerla” nella condizione di prestare aiuto (quasi sempre economico) facendo leva sul solido e coinvolgente rapporto di fiducia precedentemente stabilito. Questa dinamica psicosociale avviene con modalità piuttosto veloci per il fatto che si tratta quasi sempre di rapporti a distanza che prevedono di conseguenza interazioni comunicative molto diverse da quelle più tradizionali vis à vis. Sono presenti, nello sviluppo di relazioni a distanza di questo tipo, sia processi di maggiore disinibizione che di maggiore idealizzazione del potenziale partner, il che rende il rapporto contemporaneamente e inizialmente più veloce e intenso rispetto allo scenario tradizionale dove invece si percepiscono più informazioni (sia positive che non) durante la conoscenza diretta. L’abilità persuasiva del criminale consiste nell’utilizzare le specifiche conoscenze di queste dinamiche psicosociali in modo non etico, ma molto efficace, per manipolare il comportamento della vittima. Oltre ai danni finanziari diretti – ovvero quanto effettivamente i criminali riescono a estorcere alle vittime – vi sono da considerare i danni economici indiretti dovuti al deterioramento dello stato finanziario/patrimoniale e le problematiche psicosociali – problematiche stress correlate, ansia, depressione, rischio suicidiario – provocate alle vittime e alla rete sociale connessa a loro, in particolare la famiglia. 

La frode avviene perché vi è la concomitanza di vari elementi che rendono maggiormente vulnerabile la vittima. Questi elementi concernono sia caratteristiche psicologiche delle vittime (basso autocontrollo, impulsività, il forte desiderio di trovare un partner), sia fattori contestuali relativi ai truffati (un evento traumatico o comunque fortemente stressante come una separazione o altro) sia la capacità persuasiva del criminale. 

Nel settore della psicologia scientifica vi è stato molto recentemente lo sforzo di individuare alcune caratteristiche psicologiche che rendono le vittime più vulnerabili nei confronti delle truffe romantiche, ma rimane da chiarire se alcune dimensioni quali, ad esempio, l’impulsività e lo scarso autocontrollo riscontrato in queste ricerche siano caratteristiche precedenti all’interazione manipolatoria o siano la conseguenza del processo di innamoramento molto frequente nel caso delle truffe sentimentali. Analizzare attraverso la prospettiva della persuasione il fenomeno delle romance scam può aiutare meglio come fenomeno psicosociale. I processi persuasivi presi in considerazione sono: la reciprocità (dobbiamo contraccambiare ciò che ci viene offerto/proposto), l’autorità (siamo più propensi ad accettare una richiesta se arriva da chi giudichiamo come autorevole/competente), il consenso sociale (a parità di altre condizioni, tendiamo ad adottare scelte comportamentali condivise da un gruppo numeroso di persone), la scarsità (siamo propensi ad attribuire un valore maggiore a qualcosa che percepiamo come scarsamente disponibile), l’impegno e la coerenza (abbiamo la tendenza a effettuare scelte o comportamenti coerenti con quelli effettuati precedentemente) e la piacevolezza percepita di chi emette il messaggio persuasivo (preferiamo accettare richieste da persone che ci piacciono o, in misura maggiore, che abbiamo la percezione che piacciamo loro).11

Nonostante siano generazioni native digitali, sono Gen Z e Millennial le vittime maggiori di fenomeni che vanno dalle frodi con carte di credito al phishing. Tra il 2022 e il 2023 è stato registrato un incremento del 6 per cento dei tentativi di truffa online e l’importo del denaro sottratto è passato da 114 milioni di euro e 137 milioni di euro.12

La Rete e, in particolare, i social media sono entrati a far parte della vita di ciascuno di noi in tempi e modi differenti e, dunque, il loro utilizzo varia da generazione a generazione. A oggi le fasce generazionali entrate in contatto con il mondo digitale sono state descritte in quattro categorie: i Baby Boomers, la Generazione X, la Generazione Y e la Generazione Z. Ognuna di queste si è rapportata in maniera differente al Web e alla tecnologia, sviluppando competenze e comportamenti diversi tra loro. 

boomers sono nati in un periodo storico (1946/1964) caratterizzato da un forte benessere economico e sono la generazione economicamente più stabile. Questo li rende mediamente più ottimisti e consente loro di vivere la vita con un atteggiamento di relativa sicurezza. Sebbene prediligano ancora la comunicazione face-to-face sono ormai presenti anche sui social network. Tuttavia, la loro inesperienza li porta spesso a utilizzare i vari dispositivi elettronici in maniera inadeguata e ad avere scarsa capacità critica nei confronti delle notizie che scorrono in Rete sotto i loro occhi. La Generazione X (1965/1979) manca di un’identità sociale ben strutturata e si caratterizza dall’incertezza seguita all’ottimismo dei loro predecessori. Gli appartenenti a questa generazione hanno sviluppato un atteggiamento disincantato caratterizzato da apatia, scetticismo e pessimismo verso il futuro, oltre che da una mancanza di fiducia verso le istituzioni. Sono nati in un mondo analogico ma hanno abbracciato sin dall’inizio la trasformazione tecnologica digitale. Al contrario dei boomers, utilizzano i social in maniera più consapevole e con un atteggiamento critico che li porta a verificare le fonti delle informazioni che stanno consultando online

La Generazione Y (o MillennialsNativi DigitaliNet Generation) comprende i nati tra il 1980 e il 1995, cresciuti insieme alla digitalizzazione, alla globalizzazione e all’accelerazione tecnologica. Un contesto in continuo mutamento caratterizzato dalla convergenza tra le varie piattaforme tecnologiche e da un ambiente comunicativo sempre più ibrido traonline e offline. Al contrario dei loro predecessori, i Millennials hanno sviluppato sin dall’infanzia una buona propensione al networking e all’interazione digitale e sono aperti a ogni forma di innovazione e assimilano con velocità i cambiamenti. Comunicano principalmente attraverso i social network. Se le generazioni precedenti tendono a utilizzare i new media soprattutto come mezzi informativi, i Nativi Digitali, oltre ad avere in generale una maggiore familiarità con i nuovi strumenti tecnologici, vedono i social come un vero e proprio mezzo di espressione personale. 

La Generazione Z si compone di tutti i nati dal 1996 a oggi. Diversamente dalle generazioni precedenti, i “post-millennials” non conoscono una vita senza digitale, in quanto per loro la tecnologia è un linguaggio innato e naturale sin dalla tenera età. Si tratta della generazione più globalizzata e iperconnessa della storia. Di fatto, la maggior parte della loro vita relazionale si svolge sulle piattaforme social, in particolare quelle di recente sviluppo, che incidono quindi significativamente nel loro processo di socializzazione. 

L’intenso sviluppo tecnologico degli ultimi anni ha portato le nuove generazioni a vivere valori e visioni del mondo completamente diversi rispetto a quelli dei propri genitori o di chi li ha preceduti. Contaminando ogni aspetto della vita sociale dei giovanissimi, Internet diventa un vero e proprio bisogno generazionale: fa parte di quelle esigenze necessarie alla stregua di qualunque altra attività vitale. I mezzi di comunicazione non sono strumenti neutrali assoggettabili in toto alla funzione che assegniamo loro, ma mezzi che modificano il nostro pensiero e il nostro modo di agire indipendentemente dall’uso buono o cattivo che ne facciamo, influenzando profondamente il rapporto dell’uomo con i propri simili e il mondo circostante. È inevitabile, dunque, che l’espandersi dei rapporti umani da una dimensione esclusivamente offline a una online provochi una virata decisiva nel cammino attraverso cui i giovani, i “nativi digitali”, fondano la costruzione del loro sé.13

I consumi dei media si sono caratterizzati per un’esplosione continua, mentre i tassi della formazione sono stati determinati da ampliamenti modesti, più incoraggianti che in passato, ma deludenti se paragonati al modo in cui la comunicazione coltiva la struttura sociale.14 L’uomo contemporaneo, in particolare le nuove generazioni, vivono infatti sempre più immersi in un universo strutturato intorno a realtà sempre più artificiali, autonome e indipendenti, un mondo rispetto al quale la “natura” appare come una realtà estranea e distante. Questo universo tecnologico emergente dispone di alcune grandi attrattive, prima fra tutte quella di una promessa di coinvolgimento in un universo rassicurante, prevedibile, pregno di emozioni, di pathos e, dunque, di senso. Una realtà, insomma, nella quale con-fondersi. Nel mondo contemporaneo, le tecnologie elettroniche sembrerebbero aver trovato, a partire dal paradigma costituito dal medium televisivo, il più straordinario e insuperabile strumento di destabilizzazione della realtà sociale. In tale ambito, l’attuale sviluppo e diffusione dei nuovi media stimola frequentemente una sorta di panico mediatico, ovvero un tipo di angoscia derivante dal conflitto tra le necessità del reale e la seducente corruzione dell’immaginazione. 

Nella società contemporanea stiamo assistendo, tra l’altro, a un ritorno in grande stile di un atteggiamento di stampo neo-romantico, caratterizzato principalmente da una sempre più diffusa rivalutazione degli aspetti affettivo-emotivi come valore fondamentale per l’essere umano.15

Esistono due differenti tipo di emozione le quali esprimono diversi rapporti con il mondo circostante. La prima s’iscrive nell’istante. Essa scoppia in una sorta di folgorazione. Il suo regime è la successione rapida, la varietà. Impaziente di godere nuove vibrazioni, il soggetto dimentica subito quelle appena provate, in attesa di quelle che stanno per giungere. La seconda forma di emozione s’iscrive invece nella durata. Essa è più elaborata della prima. Il soggetto che la prova lascia all’avvenimento affettivo il tempo di approfondire e svilupparsi.16 Il primo tipo di emozione uccide la sensibilità. Tutto avviene di colpo e lo stato affettivo non ha il tempo necessario per diversificarsi e maturare. La capacità emotiva viene appagata prima di essere trasformata in sentimento. Il rapporto con il mondo è in questo caso orientato verso l’azione e la reazione rapida. Si tratta insomma di un tipo di emozione molto primitivo in quanto direttamente correlato a quelle finalità di carattere evolutivo necessarie alla sopravvivenza. Il secondo genere di emozione emerge quando, a differenza della prima, ci si pone di fronte al mondo in un atteggiamento di tipo “contemplativo”. 

Diversamente dalla società razionale moderna, in cui l’imprevedibilità emotiva era stata bandita perché ritenuta pericolosa, oggi ci si sente realizzati solo nel momento in cui si possono esprimere liberamente le proprie emozioni. Naturalmente i media accentuano questa esigenza. L’emozione suscitata dai media è fondamentale soprattutto per consentire una forma di identificazione. Questo emergente culto delle emozioni inverte di fatto la scala dei valori, concependo il mondo non come oggetto di conoscenza, bensì come strumento per ottenere la felicità, finendo confusamente per proporre una vera e propria filosofia anti-intellettualistica e anti-scientifica. Per gli individui contemporanei la condivisione dei sentimenti e delle emozioni sembrerebbe dunque chiaramente soppiantare la ricerca di un impegno orientato verso la costruzione di sentimenti durevoli e stabili.17

L’individuo delle “tribù” contemporanee è un enfant eternel, un bambino completamente assorbito in un suo universo affettivo-emotivo. Usciti definitivamente dalla cultura “eroica” giudaico-cristiana che ha caratterizzato la modernità, basata sulla concezione di un individuo attivo e padrone di sé e dell’ambiente circostante, si sarebbe entrati nell’universo del “vitalismo” delle tribù postmoderne, fondato non più sulla pianificazione e sulla realizzazione di determinati progetti ma prevalentemente orientato a lasciar godere del piacere di stare insieme, di condividere l’intensità del momento, di prendere il mondo per quello che è.18

Quello che stiamo vivendo oggi sembra dunque un processo di slittamento da un individuo dotato di un’identità stabile che esercita le sue funzioni sulla base di rapporti contrattuali ben definiti, a una persona fornita di molteplici possibili identificazioni, in grado di ricoprire indifferentemente svariati ruoli all’interno di “tribù affettivo-emotive”. Le identificazioni multiple trovano uno straordinario alleato tecno-culturale nell’ambito delle nuove tecnologie della comunicazione, in particolare nella possibilità fornita da internet e dai videogiochi di potersi creare una serie indefinita di personalità e di poterle interpretare in una condizione di coinvolgimento vieppiù crescente. L’uomo emozionale si presenta dunque come un essere dall’identità relativamente immatura, abitante di un mondo che confusamente promuove un infantilismo di fondo. 

Consumismo, infantilizzazione e reincanto tecnologico vanno a braccetto con un ulteriore polo che caratterizza la nostra epoca: l’invasione di un atteggiamento ludico nei confronti della realtà.19

Sulle spalle dell’individuo occidentale incombeva, circa un secolo fa, una patologia psichica definita clinicamente nevrosi. Oggi incombe la depressione. Se la nevrosi va considerata un “dramma della colpa”, la depressione è una “tragedia dell’insufficienza”. La conquista della definitiva emancipazione dell’individuo finalmente sovrano, il diritto di scegliere, il dovere di diventare se stessi, senza poter fare appello ad alcun ordine esterno, avrebbe imposto un pesante tributo, rappresentato appunto in una forma alternativa di dipendenza: la dipendenza da se stessi.20

Le peculiarità socio-psicologiche che caratterizzano l’attuale fase del processo di individualizzazione, sarebbero legate fondamentalmente alla paralisi dettata da una sorta di terrore: quello che l’uomo contemporaneo ha di scoprire in se stesso i motivi della sua dipendenza, la sua fragilità, la sua inevitabile mortalità, in breve tutto ciò che gli ricorda la sgradevole verità dei suoi limiti. Egli soffre della “malattia di non saper soffrire”.21

L’epoca che stiamo vivendo si caratterizza per una inondazione globale di immagini, che produce un paradossale effetto di accecamento e persino un ottundimento della coscienza. Se, da una parte, l’eccedenza accecante di immagini finisce per annullarne i significati, dall’altra, l’ipervisibilità diventa un autovalore o, addirittura, attiva un meccanismo di godimento. È attraverso questo meccanismo che può generarsi la produzione di un nuovo tipo di soggettività, in quanto le nuove tecnologie non operano soltanto a livello di dispositivo simbolico – tramite una manipolazione dei segni e delle rappresentazioni mentali – ma anche a livello dei dispositivi materiali: producendo effetti di risignificazione esperenziale delle dimensioni del tempo, dello spazio e del corpo. I sistemi multimediali, dunque, lontano dall’essere banali “mezzi di” – comunicazione, calcolo, diffusione di contenuti, ecc. – sono attivi generatori di “materializzazioni”, di “rifigurazioni mentali”. Le tecnologie multimediali sono, dunque, performative; ossia hanno la capacità non solo di formare discorsivamente il soggetto ma anche di produrre effetti materiali sul corpo.22

Un ulteriore aspetto che andrebbe indagato a fondo è la solitudine e l’isolamento di chi è iperconnesso. Ricordando la teoria degli usi e delle gratificazioni e riproponendo l’ordine dei bisogni sociali individuato nella piramide di Abraham Maslow, si può affermare che i social appagano:

  • Il bisogno di sicurezza, ossia il desiderio di protezione e tranquillità. All’interno della rete dei contatti non ci sono persone ostili e, se ci sono, vengono agevolmente “rimossi”.
  • Il bisogno associativo, vale a dire l’esigenza di sentirsi parte di un gruppo, di essere apprezzati, amati e di interagire e collaborare con altri.
  • Il bisogno di autostima, ovvero la necessità continua di sentirsi tenuti in considerazione.
  • Il bisogno di autorealizzazione, ovvero l’esigenza di sviluppare ed esternare la propria personalità, realizzare le proprie aspettative e raggiungere una posizione gratificante e pregevole all’interno del gruppo sociale. 

Tutti questi sono sì bisogni eterogenei che i social network soddisfano, ma paradossalmente sono anche necessità che vengono accresciute in maniera esponenziale proprio dagli stessi social. Ed è proprio questo il motivo per cui Bauman definiva confessionale la società odierna, nella quale tutti sembrano non avvertire più la gioia di custodire un segreto. 

Con i social network sembra realizzarsi quella particolare forma di sociazione che, per Simmel, è rappresentata dalla socievolezza. Una singolare modalità d’interazione nell’ambito della quale il processo di associazione integra un valore in sé: una relazione sviluppata nella modalità del gioco, che si contraddistingue per l’assenza di tutte quelle tensioni che, invece, sono proprie dei rapporti e dei vincoli politici, economici e giuridici. Contrariamente alle finalità per le quali sono stati pensati, i social stanno diventando sempre più autoreferenziali, determinando lo sviluppo di vere e proprie comunità personalizzate e io-centriche, modellate sui gusti e sulle preferenze dell’individuo.  Entro questa cornice, si inseriscono quello che può essere considerato il paradosso dei social network, ovvero l’emergere di forme di isolamento sociale – di eremiti di massa – e la conseguente diffusione di forme di rifiuto della vita reale. Al fascino del mondo virtuale fa da contrappeso tutta una serie di criticità, che vanno dagli atteggiamenti scorretti e/o disfunzionali sino ai cosiddetti cyber crimes. Comportamenti lesivi che, non di rado, si annidano tra le pieghe dei social e che, per certi versi, sono incentivati dalla struttura e dalle caratteristiche proprie dei network. La virtualità, sommata alla semplicità di accesso e di utilizzo, fa sì che i social vengano percepiti alla stregua di ambienti prettamente ludici e privi di conseguenze. Per un verso, si crede che il virtuale si contrapponga al reale e che tutto ciò che accade online (in quanto appunto non-reale) non possa determinare né ricadute sociali né, men che meno, conseguenze e/o sanzioni di tipo giuridico. Per un altro verso poi, si pensa che in Rete ( e, dunque, anche sui social) regni l’anonimato più assoluto.23

Le tipologie di truffa online sono varie. E molte fanno leva sulla voglia della vittima di guadagnare soldi. Alcuni tipi si basano su schemi piramidali dove la leva è il desiderio della vittima di ottenere soldi facili e quindi la si induce a investire in cryptomonete. In altre situazioni, dopo aver instaurato una relazione di tipo romantico, si chiede un prestito che non verrà mai restituito. 

Da sempre le frodi sono figlie dell’avidità e, senza cadere in depressione, i truffati dovrebbero comunque prendersela in primis con sé stessi. Cedere alle lusinghe dei guadagni facili e cadere nel vortice del trading online è un attimo. Per operare in crypto o sui mercati finanziari non è possibile improvvisarsi.24

Ragionamento parallelo vale per le romance scam. Uno scarso contatto con il reale, un’elevata tendenza ad avere credenze romantiche e un’elevata tendenza all’idealizzazione delle relazioni predicono un più alto rischio di essere vittime. Mentre altri fattori psicologici non hanno un effetto significativo (tendenza alla solitudine, estroversione, amabilità, nevroticismo e sensation seeking).25

Quando l’uomo diventa consapevole che in qualsiasi momento può servirsi della ragione e delle proprie capacità calcolatorie per conoscere le condizioni del proprio agire pratico e quindi orientarlo, allora il mondo si rivela privo di un senso proprio ma diventa anche facilmente dominabile.26

Il reincanto tecnologico è la versione newmediale di quel più vasto fenomeno socioculturale che da qualche anno viene indagato e definito come reincanto o reincantamento. Riprendendo la formulazione weberiana di Disincanto, le riflessioni sul reincanto (non necessariamente tecnologico) hanno messo finora in risalto soprattutto il ritorno all’arcaico, la dimensione nostalgica di una visione “infantile” che si apre verso il mondo dei sogni collettivi, dei miti, delle grandi configurazioni dell’immaginario: idoli, archetipi, icone depositate in un altrove psicologico e sociale che oggi riaffiorano, filtrate da quel neo-tribalismo che guarda con sospetto le grandi narrazioni razionali che hanno dominato durante tutto il corso del Novecento. Una b-side dark-side culturale che a volte rischia di giustificare sotto argomentazioni postmoderniste i più spericolati eccessi di ciò che resta dei media di massa.27

Forse più di quanto non faccia il sapere razionale scientifico, che si fonda su procedure esplicite e quindi costantemente verificabili e rinegoziabili, l’immaginario svolge un ruolo di legante profondo, spesso inconscio: un deposito di modelli di comportamento, un luogo di mediazione dei conflitti di mentalità, un terreno dove si confrontano configurazioni mentali, desideri, paure che agiscono sulle scelte di vita. 

Strettamente legata all’idea di una presenza profonda è l’immagine della rete, infrastruttura sottostante che garantisce la connessione fra tutti gli aspetti del sistema (big/open data, interoperabilità, standardizzazione di formati e protocolli, etc.), Ma l’impronta figurale della rete ha riportato allo scoperto anche un antichissimo archetipo dell’immaginario narrativo e iconico: il labirinto. Tema che risale al mito di Teseo e del Minotauro e che ben rappresenta una condizione percettiva ed epistemologica (ma anche psicologica) di perdita della linearità, della sequenzialità direzionale, a favore di una continua molteplicità di scelte possibili. Il digitale non è solo una tecnologia ma anche e soprattutto un linguaggio e una logica, in grado di dar vita anche alla rappresentazione dei bisogni emozionali, della sensibilità, dei desideri, della dimensione onirica.28

Evidente appare il carattere onnivoro e onnicomprensivo del digitale che da una parte è diventato ormai il gestore di tutta la dimensione organizzativa e produttiva di aziende, amministrazioni , istituzioni scientifiche: in una parola il gestore del razionale; ma d’altra parte – e con gli stessi strumenti e linguaggi – può dar corpo alla dimensione estetica e fantastica, ed essere il gestore dell’immaginario.29 I soggetti sono oggi chiamati a ricostruire, nell’ambito di un dialogo sempre aperto con altri soggetti e altre tecnologie, il significato complessivo del processo comunicativo. Se in apparenza potrebbe trattarsi di strumenti intuitivi, potenzialmente per “tutti”, allo stesso tempo, per la implicita conoscenza informatica che richiedono, è necessario mettere gli individui nelle condizioni di agire consapevolmente nel mondo simulato.30


1J. Tower, Jason Tower on the Dangerous Proliferation of Scam Compounds in Southeast Asia, United States Institute of Peace, 13 maggio 2024.

2L. Gabriele, 12,7 milioni di Italiani vittime di truffe on line. Arriva il reato, consumerismo, 13 maggio 2024.

3E. Giordana, L’edilizia truffaldina delle “Scam City” – Viaggio lungo il confine tailandese-birmano dove fioriscono le città della truffa, Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo, 10 aprile 2024.

4Online scam operations and trafficking into forced criminality in southeast asia: Recommendations for a human rights response, United Nations Human Rights – Office of the High Commission, 2023.

5Myanmar – Conflitto, Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo, 18 gennaio 2023.

6E. Giordana, Il ruolo delle Scam City nel conflitto in Myanmar, ISPI, 31 maggio 2024.

7The Karen Border Guard Force/Karen National Army Criminal Business Network Exposed, Justice for Myanmar, 22 maggio 2024: https://www.justiceformyanmar.org/stories/the-karen-border-guard-force-karen-national-army-criminal-business-network-exposed?utm_source=justiceformyanmar&utm_medium=email&utm_campaign=karen-bgfkna-regional-criminal-network-exposed

8Policy report: Casinos, cyber fraud, and trafficking in person for forced criminality in Southeast Asia, UNODC – United Nations Office on Drugs and Crime, September 2023.

9Online scam operations and trafficking into forced criminality in southeast asia: Recommendations for a human rights response, United Nations Human Rights – Office of the High Commission, 2023.

10ib.

11M. Agnoletti, Le truffe romantiche o sentimentali (romance scam) online come fenomeno psicosociale persuasivo, in State of Mind di inTHERAPY, 29 novembre 2019.

12Report 2023 delle attività della Polizia Postale e per la Sicurezza Cibernetica.

13M. Simoncelli, Cyberwarfare e cyberlife; F. Farriggia e D. Foschi, Giovani e new-media. Una ricerca-azione sperimentale, IRIAD REVIEW, numero 7, luglio 2021.

14M. Morcellini, La scuola nella modernità. Per un manifesto della Media Education, Franco Angeli, Milano, 2004.

15G. Pecchinenda, Il coinvolgimento tecnologico: il Sé incerto e i nuovi media, in Quaderni di Sociologia, 44/2007 – la società contemporanea / Giovani e nuovi media.

16M. Lacroix, Il culto dell’emozione, Vita e Pensiero, Milano, 2002.

17G. Pecchinenda, op.cit.

18M. Maffesoli, Il tempo delle tribù. Il declino dell’individualismo nelle società postmoderne, Guerini e Associati, Milano, 2004.

19G. Pecchinenda, op.cit.

20A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino, 2010.

21H.E. Richter, Il complesso di Dio, Ipermedium Libri, S.Maria C.V (CE), 2001.

22P. Barone, C.V. Barbanti, I nuovi media come dispositivi semiotecnici. Uno sguardo pedagogico, MeTis. Mondi educativi. Temi, indagini, suggestioni, 10/01/2020.

23M.N. Campagnoli, Relazioni e solitudini nella Rete, Rivista Italiana di Informatica e Diritto – Periodico Internazionale del CNR-IGSG, Fascicolo 1 – 2022.

24G. Ursino, Quando l’avidità può giocare brutti scherzi, ilsole24ore.com, 26 febbraio 2023.

25G. Gualtieri, F. Ferretti, A. Pozza, F. Carabellese, R. Gusinu, A. Masti, A. Coluccia, Le “online romance scam” (truffe sentimentali via internet). Dinamiche relazionali, profilo psicologico delle vittime e degli autori: una scoping review, Rassegna Italiana di Criminologia, Anno XIV n°2 2020.

26M. Weber, La scienza come professione, Bompiani, Milano, 2008 (traduzione di P. Volonté). 

27G. Lughi, Creatività digitale e reincanto tecnologico, Mediascapes journal, 1/2013. 

28G. Lughi, Il ruolo dell’immaginario nella cultura digitale, Culture Digitali, n° 9 maggio-settembre 2023.

29G. Lughi, op.cit.

30V. Neri, Nuove tecnologie per la comunicazione del patrimonio culturale. Per un’etica tecno-mediale, in V. Neri (a cura di), Nuove tecnologie, immagini e orizzonti di senso. Prospettive interdisciplinari contemporanee, Pisa University Press, Pisa, 2017.


Articolo pubblicato su Satisfction.eu


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Duilio Scalici, L’educazione sbagliata

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Fin dalla sua apparizione il termine “utopia” presenta un carattere volutamente ambiguo e polisemico.1 “Utopia” è, in effetti, la forma contratta che si riferisce tanto a eu-topos, luogo della felicità e della perfezione, che a ou-topos, luogo che non esiste in nessun luogo.2

Duilio Scalici ne L’educazione sbagliata sembra fare propri entrambi i significati del termine utopia. Egli immagina un Eden artificiale quale rifugio per l’umanità che, nella realtà, non esiste in nessun luogo e che deve rappresentare un modello di perfezione e purezza. 

Nell’opera di More, il narratore racconta di un paese e un popolo immaginari le cui istituzioni differiscono, più o meno radicalmente, da quelle delle società esistenti: essi non conoscono l’infelicità di queste ultime e perciò offrono un modello di Città felice. Nelle due isole denominate Colonne d’Ercole che vanno a comporre l’Eden immaginato da Scalici ogni regola è studiata per prevenire il male e scongiurare gli errori che avevano portato alla rovina del pianeta. 

Il paradigma utopistico non nasce dal nulla: le rappresentazioni utopistiche costruiscono le comunità della felicità realizzate nello spazio simbolico già occupato dal mito del paradiso perduto. Gli autori non sono né profeti né indovini. Non sognano di ritrovare il paradiso ma, attraverso il loro lavoro intellettuale, creano qualcosa di artificiale. Le utopie sono costruzioni moltiplicabili e modificabili. Il sogno di felicità che esse offrono è opera puramente umana e profana.3L’utopia generata dalla creatività intellettuale di Duilio Scalici sembra rientrare appieno in quest’ottica. 

Per Italo Calvino l’utopia non è sistemica né teologica, non consiste in un modello completo e ideale da perseguire in un altrove “assoluto”, bensì piuttosto discontinua e pulviscolare, fatta della stessa materia della realtà.4 La città, luogo umano per eccellenza e, per tradizione culturale, luogo di proiezione ideale, sfugge alla primaria percezione sensoriale, la vista, e diviene un luogo non visibile, di cui è difficile constatare l’esistenza, diviene un luogo altro, possibile, ideale.5 Le Colonne d’Ercole di Scalici sono state progettate proprio per rimanere invisibili al caos e alla corruzione del vecchio mondo. Eppure, esattamente come nell’analisi di Calvino, esse finiscono per diventare un altrove, discontinuo e pulviscolare, fattodella stessa materia della realtà, da cui hanno tanto cercato, invano, di nascondersi. 

Fratelli protagonisti del romanzo hanno entrambi il nome di un fiore: Anemone e Calendula. Trascorrono le loro giornate lavorando la terra in un legame quasi simbiotico con essa al punto da assorbirne anche il colore che diventa il loro colorito “naturale”. Anemone e Calendula hanno un’indole diversa che li porta ad affrontare l’esperienza all’Eden in maniera diametralmente opposta, con risultati che rispecchiano il loro essere e che sembrano quasi scritti nel loro destino, incisi nei loro stessi nomi: il fiore anemone simboleggia speranza e perseveranza, al contrario la calendula è associata a tristezza e pene d’amore. È ricorrente nel testo di Scalici che le persone abbiano il nome di un fiore. È presente anche Ginestra, il nome di un fiore che, nella simbologia, rappresenta la rinascita, l’ottimismo, l’amore e il desiderio. Ma, pensando alla ginestra, non si può non ricordare i versi a essa dedicati da Leopardi.6 La ginestra soccomberà ancora, come ha fatto da che se ne ha memoria, dinanzi alla furia del Vesuvio. Piegherà ancora il suo capo innocente quando il fiume di lava la inonderà per l’ennesima volta. Ma lo farà senza suppliche inutili e codarde alla Natura che ha armato il vulcano contro di lei. Il vero nemico, per Leopardi, in questo caso non è l’uomo ma la Natura, considerata dai suoi contemporanei madre benigna e dal poeta, razionalista e materialista, matrigna.7

Gli utopiani vivono secondo natura e la natura prescrive all’essere umano la ricerca di una vita pacifica e piacevole. L’uomo è per l’altro uomo aiuto e conforto, è questo il principio stesso dell’umanità: nessuna virtù è più connaturata all’uomo che quella di addolcire il più possibile le pene altrui, di far scomparire la tristezza, di far conoscere a tutti la felicità e la gioia di vivere.8 Ma è davvero questa la natura degli uomini? Oppure è altra l’indole degli umani e questi finiranno o finirebbero per distruggere anche il loro Eden artificiale esattamente come hanno mandato in rovina il mondo tradizionale? Ne L’educazione sbagliata Scalici immagina un Eden ipotecato dal peso di verità proibite e bugie ben celate. Ed ecco allora riproporsi anche l’antico quesito: la natura dell’uomo è buona o cattiva? E la Natura cui l’uomo utopico vuol ritornare è buona o cattiva? 

Leopardi considera la Natura come la personificazione delle forze, dei fenomeni, perennemente in contrapposizione all’uomo. Fonte di illusioni, incurante degli uomini. L’uomo deve rendersi conto di questa realtà di fatto e contemplarla in modo distaccato e rassegnato. È la sofferenza che Leopardi reputa la condizione fondamentale dell’essere umano nel mondo. 

Nel libro di Duilio Scalici, gli artefici delle Colonne d’Ercole, nella loro ricerca di purezza assoluta, hanno ignorato la complessità dell’animo umano, esponendo i protagonisti a un conflitto che minaccia di far riemergere le stesse colpe dei loro antenati. Anemone e Calendula, sospesi tra desideri e dilemmi, scopriranno quanto anche un “paradiso”, laddove ignora o rifiuta le proprie ombre, più trasformarsi in una “prigione”. E così, nell’inconsapevole ripetizione degli errori del passato, il sogno utopico delle Colonne d’Ercole si trasforma in un fragile equilibrio pronto a spezzarsi in qualsiasi momento. A polverizzarsi e mescolarsi alla stessa materia di cui si compone: la realtà. 

Il libro

Duilio Scalici, L’educazione sbagliata, Capponi Editore, Ascoli Piceno, 2025


1T. More, UTOPIA, 1516.

2Etimologia di “utopia/utopie” in Treccani Enciclopedia.

3ib.

4G. Gribaudo, Utopia e illusione in immagine nella letteratura di Italo Calvino, in Italies – littérature, civilisation, sociétén°25, 2021.

5I. Calvino, Le città invisibili, 1972.

6G. Leopardi, La ginestra, o fiore del deserto, 1836.

7G. Patota, Il fiore di Bella Ciao e La Ginestra di Leopardi, in Treccani100, 25 gennaio 2019.

8Etimologia di “utopia/utopie” in Treccani Enciclopedia.

Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringraziano l’autore e l’Ufficio Stampa per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Alessandro Orofino, Senƨo

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Michelangelo è un uomo deluso dalla vita, che conduce oramai un’esistenza solitaria in cui la passione per la lettura rappresenta l’unico momento di conforto. Travolto da una serie di insuccessi personali, sembra essere destinato a un epilogo tragico che lo liberi dai suoi tormenti, ma l’incontro con il proprio autore preferito lo costringerà a interrogarsi sul vero senso delle cose e a comprendere che rinascere è un’opzione sempre praticabile. 

Cesare Pavese è considerato, con Elio Vittorini, fondatore del neorealismo, ma a differenza di quasi tutti gli esponenti del neorealismo, tipicamente aletterati, Pavese è molto colto. Egli sviluppa il tema della solitudine inquieta, perpetuamente ripiegata su sé stessa in un’analisi che trova la sua forma congeniale nella rievocazione retrospettiva e nel diario intimistico. 

Le componenti letterarie e filosofiche del periodo neorealistico si rifanno al contesto socio-culturale contemporaneo. L’esistenzialismo che pone l’accento sulla concreta esistenza umana, e in particolare l’esistenzialismo di Sartre e di Camus, si cala nel grigiore del quotidiano comunicandogli il senso del disagio, della solitudine e obbligando l’uomo ad accettare il proprio limite terreno e assurdo secondo la linea esistenziale in uno squallore di incomunicabilità e di non amore. Analizzando il mondo che ci circonda, si può notare quanto pessimismo infirma la vita e il tragico della situazione dell’uomo moderno, e il motivo fondamentale del suo complesso di solitudine sta proprio nel fatto di non provare nessuna comunicazione spirituale, di non avere interlocutori, e non si possono negare il fatto e gli effetti disastrosi di questa solitudine. Chiunque si sia sollevato al di sopra della banalità quotidiana, come Pavese, non può far altro che sentirsi solo e abbandonato.

L’uomo Pavese non trova alcun ancoraggio sicuro a cui poter affidare una residua aspirazione di bontà già scossa dall’esperienza della guerra, un senso di stanchezza e di delusione, perché rileva che il richiamo a una fratellanza umana manca di un’intrinseca forza interiore, incapace di penetrare e di risolvere i problemi.1

Michelangelo, il protagonista del libro di Orofino, è tormentato nell’animo in maniera non dissimile. Egli riesce, però, a trovare conforto nei libri e nella lettura. In maniera intimistica, non umanitaria. Al punto che il lettore inizialmente si chiede se sia stata la cultura, nella forma della lettura, a salvarlo oppure una forma di puro egoismo.

Il millennio scorso ha visto nascere ed espandersi le lingue moderne dell’occidente e le letterature che di queste lingue hanno esplorato le possibilità espressive e cognitive e immaginative. È stato anche il millennio del libro, in quanto ha visto l’oggetto-libro prendere la forma che ci è familiare. Il futuro della letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare coi suoi mezzi specifici. 

È difficile per un romanziere rappresentare la sua idea di leggerezza, esemplificata sui casi della vita contemporanea, se non facendone l’oggetto irraggiungibile d’una quête senza fine. Il romanzo L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera è in realtà un’amara constatazione dell’Ineluttabile Pesantezza del Vivere: non solo della condizione d’oppressione disperata all-pervading che è toccata in sorte al suo sventurato paese, ma d’una condizione umana comune anche a noi, infinitamente più fortunati. Il peso del vivere per Kundera sta in ogni forma di costrizione: la fitta rete di costrizioni pubbliche e private che finisce per avvolgere ogni esistenza con nodi sempre più stretti. Il suo romanzo ci dimostra come nella vita tutto quello che scegliamo e apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile. Forse solo la vivacità e la mobilità dell’intelligenza sfuggono a questa condanna. 

Il De rerum natura di Lucrezio è la prima grande opera di poesia in cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo, percezione di ciò che è infinitamente minuto e mobile e leggero. Lucrezio vuole scrivere il poema della materia ma ci avverte subito che la vera realtà di questa materia è fatta di corpuscoli invisibili. La più grande preoccupazione di Lucrezio sembra essere quella di evitare che il peso della materia ci schiacci.2 Oppressione e liberazione, disperazione e via d’uscita. Come la strada intrapresa da Michelangelo che, attraverso la lettura, si allontana dal “peso della materia” e ritorna alla vita.

Molto radicato è stato in Pirandello il senso della morte, non foss’altro perché il suicidio e le sue metafore, quali la perdita d’identità, la follia, non solo rappresentano il fulcro della sua tematica narrativa, ma si costituiscono come una vera è propria uscita di sicurezza dagli ingranaggi di questa esistenza assurda. Pirandello aveva un pensiero ambiguo, facendo coincidere l’attaccamento alla vita e il desiderio di morte, mistificando e ribaltando la pena di vivere nel coraggio di vivere, lasciando intravedere nella sua nudità la differenza tra l’uomo Pirandello e lo scrittore Pirandello. Si narra che in più occasioni Pirandello sia scampato al suicidio. In realtà egli si è suicidato un’infinità di volte, delegando per lui i personaggi della sua opera.3

Il mondo per i personaggi di Pirandello è senza alternative, senza tregua e a essi non sono e non saranno mai concessi rientri in mitici “stati di natura”.4

Alcuni di questi tratti si ritrovano anche nell’opera di Orofino, laddove i due personaggi principali, Michelangelo e Antonio, sembrano interpretare due differenti visioni di una medesima esistenza. Misera. Condannata. Se non fosse per i libri, per la letteratura, per la cultura che corre in loro aiuto. Sarà davvero la letteratura a salvare Michelangelo? Il racconto di Orofino sembra avere lo stesso scopo delle narrazioni di Ferdinando Camon: un mito dove l’uno è in realtà l’archetipo dei molti. E quando si consegna, attraverso la scrittura, un’esperienza del passato al futuro, essa diventa uno strumento di sopravvivenza in grado di alleviare la sofferenza facendola meno irreparabile, nel momento stesso in cui la ferma sulla carta.5

Il libro

Alessandro Orofino, Senƨo, Pathos Edizioni, Torino, 2024.


1G. Armellin Secchi, Il suicidio di Cesare Pavese (1908-1950), in Revista de Filologia y Lingüistica de la Universidad de Costa Rica, agosto 2015.

2I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo futuro.

3P. Meli, Luigi Pirandello “tentato” dal suicidio non ebbe il coraggio, La Sicilia, 29 aprile 2014.

4P. Benigni, Pirandello “mediterraneo” tra in non-luoghi e contro-luoghi della Sudmodernità, in A. Campana e F. Giunta (a cura di), Natura, società e letteratura, Atti del XXII Congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Bologna, 13-15 settembre 2018), Roma, Adi Editore, 2020.

5V. Berengo, Camon: quando la letteratura è un rito di salvezza, in Il BoLive – Università di Padova, Padova, 31 ottobre 2013.


Articolo pubblicato su LuciaLibri.it


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Rivoluzione digitale: cultura come bene globale o rifeudalizzazione dei saperi?

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La digitalizzazione ha cambiato il nostro modo di comunicare, ma anche di recepire le informazioni, e dunque di trasmettere la conoscenza. Questa pervasività riguarda sempre più da vicino il mondo della cultura, inteso nell’accezione più ampia del termine e nella duplice dimensione di materialità e immaterialità. La rivoluzione digitale è stata un vero e proprio cambio di paradigma. 

Il cuore del sistema oggi è la rete ma è il concetto stesso di cultura a essere molto diverso. La sua trasformazione è iniziata già a partire dal secondo dopoguerra, allorquando andava a inglobare attività umane sino ad allora ritenute non legittimate a far parte della famiglia dell’arte in senso tradizionale. Ma la rivoluzione digitale sta trasformando la cultura in un bene globale oppure stiamo inconsciamente assistendo a una rifeudalizzazione dei saperi?

Per i filosofi greci la cultura consiste nella paidéia, termine che fa esplicito riferimento all’apprendimento delle belle arti, come la poesia, la filosofia, la retorica. Tramite lo studio di queste ultime, l’uomo acquisisce la conoscenza di sé e del mondo, e allo stesso tempo viene guidato nella ricerca della verità.  Per i classici, la cultura è un valore, un obiettivo che l’individuo deve raggiungere: non riflette quindi uno stato di cose, quanto piuttosto un ideale da conquistare, uno stato da realizzare, un progetto, una tensione verso qualcosa di migliore. 

I latini, successivamente, sintetizzano il concetto di cultura in un altro termine, humanitas, intendendo con esso una formazione dell’uomo che sia la più complessa possibile, da cui però vengono escluse tutte le forme di attività utilitaristica, tra cui il lavoro manuale o l’applicazione delle arti. Il termine humanitas ha quindi un’accezione più estesa rispetto al passato, dato che in senso metaforico essa racchiude in sé aspetti come la coltivazione dello spirito. Cicerone, nelle Disputationes Tusculanae (45 a.C.), parla ad esempio di una cultura animi, nel senso di una cultura sinonimo di crescita e di affinamento interiori, che produce un cambiamento radicale tale da trasformare la persona. Ciò significa che chi si accultura riesce a separarsi dalla “massa”. Si vengono così a formare élites di dotti che posseggono conoscenze precluse ai più. 

Similmente, il Medioevo accetta il carattere elitario della cultura e affida alla filosofia il compito di far comprendere all’uomo il mondo soprasensibile. In questo periodo il termine cultura si caratterizza in maniera ancora più estesa arrivando a comprendere anche lo studio delle lingue, dell’arte, delle lettere e delle scienze. 

L’Illuminismo delinea l’evoluzione umana nei termini di progresso, dove il più alto gradino della scala culturale è occupato dalla società che aveva raggiunto un alto livello di civilizzazione. Arnold vede la cultura come «il meglio che sia stato pensato e detto ovunque nel mondo contemporaneo».

Questa nozione di cultura come affinamento dello spirito e delle conoscenze, prerogativa delle classi dirigenti, e la sua connotazione come fattore di distinzione (e/o discriminazione) sociale, rimangono immutate fino a quando entra in crisi l’immagine del mondo classico come età dell’oro e in quanto civiltà depositaria della perfezione.

A partire dalla fine dell’Ottocento, si passa da una concezione della cultura umanistico-classsico a una concezione di tipo socio-antropologico. Herder afferma che ogni nazione ha la sua cultura «egualmente meritevole».  La cultura ora non si riferisce più unicamente a un ideale di realizzazione, formazione del singolo individuo, ma si arriva a concepirla secondo un aspetto più multiforme che riguarda l’intera società; la cultura diventa qualcosa che gli individui acquisiscono in quanto membri di una società, socialmente.

Nei decenni successivi al secondo dopoguerra, le società occidentali hanno una rivoluzione dei consumi che ha contribuito non poco a modificare contenuti e forme dell’informazione culturale. L’aumento del benessere e del tempo libero nonché lo sviluppo macroscopico dell’industria dell’intrattenimento hanno cambiato radicalmente le abitudini di vita delle persone. Sono cresciute moltissimo domanda e offerta di prodotti culturali che riguardano la sfera “estetica” o del tempo libero degli individui. 

Ecco allora che la cultura sembra diventare la bussola di orientamento di una intera società preda dell’entusiasmo. 

Già Durkheim aveva parlato della funzione orientativa dell’agire sociale posto in essere dalla cultura. Egli conferisce alla cultura importanza soprattutto nei momenti in cui entra in crisi un determinato sistema culturale. Poiché ciclicamente le situazioni sociali sono soggette a mutamento e poste in discussione, si renderebbe necessario un continuo aggiustamento delle forme culturali ai bisogni che la società esprime di volta in volta; la cultura in simili circostanze orienta invece l’agire sociale poiché rappresenta «qualcosa di sempre già dato che si impone agli individui».

Simmel, al pari di Weber, sottolinea invece la dimensione creativa di idee e cultura, che non possono essere considerate mero riflesso delle condizioni sociali. La cultura inoltre non è solo consuetudine, ossia abitudini trasmesse da una generazione all’altra in maniera passiva, ma anche innovazione e in questo giocano un ruolo attivo proprio le idee. 

Burnett definisce la cultura o civiltà «intesa nel suo ampio senso etnografico, come quell’insieme complesso che include la conoscenza, la credenza, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società». Uno dei tratti innovativi di questa definizione è l’allargamento dell’etichetta culturale a dimensioni che non sono propriamente intellettuali.

A differenza della tradizione umanistica, che poneva l’accento sull’esclusività aristocratica della cultura, Tylor riconosce che ogni soggetto ha libero accesso alla cultura e ciò è possibile perché ogni individuo è membro di una società. La connessione tra cultura e società diviene così imprescindibile: non vi è apprendimento della cultura senza un’azione socializzatrice, e allo stesso tempo non c’è cultura senza l’appartenenza a una società. Ma questo può esser veritiero per le società piccole, omogenee, isolate. 

La società attuale è continuamente oggetto di trasformazioni e cambiamenti che ne mutano la fisionomia. Le tessere del mosaico culturale non sono più separate fra loro, anzi si mescolano fino a comporre nuovi puzzle culturali. All’interno di un singolo Stato non troviamo unità di religione, lingua, consuetudini, ma una amalgama disomogenea composta dalla sommatoria delle diverse fotografie culturali. 

Si assiste quindi a una sorta di “globalizzazione culturale” che riflette quella economica, la medesima che, per Screpanti, sta dando origine a una forma di imperialismo fondamentalmente diverso da quello affermatosi nell’Ottocento e nel Novecento. La novità più importante consiste nel fatto che le grandi imprese capitalistiche, diventando multinazionali, hanno rotto l’involucro spaziale entro cui si muovevano e di cui si servivano nell’epoca dei grandi imperi coloniali. Oggi il capitale si accumula su un mercato che è mondiale. Perciò ha un interesse predominante l’abbattimento di ogni barriera, di ogni remora, di ogni condizionamento politico che gli stati possono porre ai suoi movimenti. Un’ulteriore novità è che nell’impero delle multinazionali cambia la natura della relazione tra stato e capitale. Sta venendo meno quel rapporto simbiotico basato sulla convergenza dell’interesse statale alla costruzione della potenza politica e dell’interesse capitalistico alla creazione di un mercato imperiale protetto. Oggi il grande capitale si pone al di sopra dello stato nazionale, nei confronti del quale tende ad assumere una relazione strumentale e conflittuale. 

All’interno di questo sistema di “costruzione e conquista” del mercato globale non può non aver un ruolo determinante la cultura, in particolare nell’accezione di significato a essa attribuita da Grossberg.

Parafrasando Marx, se le persone fanno la storia ma in condizioni che non dipendono da loro,cultural studies esplorano il modo in cui ciò avviene entro e attraverso le pratiche culturali, e il posto di queste ultime entro specifiche formazioni storiche. La cultura, da questo punto di vista, è il luogo dove si produce e si lotta per il potere; non un potere necessariamente inteso come dominio, quanto piuttosto come un rapporto sbilanciato di forze che tendono al controllo di determinate fasce di popolazione. 

Metabolizzare il ruolo dominante della cultura per la sopravvivenza sociale di un popolo aiuta a meglio comprendere anche gli attacchi perpetrati al suo patrimonio.

La cultura riveste una notevole importanza per ogni gruppo umano, etnia o nazione. L’espressione genocidio culturale indica proprio quei fenomeni di annichilimento della cultura che diventano lo strumento con cui distruggere un gruppo umano. Esso è attuato senza attacchi diretti, fisici o biologici, alle persone. Il patrimonio culturale è la parte visibile della cultura e il suo valore risiede nel significato. La cultura è simbolica e rappresenta cose intangibili. Il patrimonio culturale, pertanto, è costituito dal valore che i beni cultuali e del paesaggio assumono in seno alla società e alla comunità cui appartengono. Essi riflettono l’identità di una comunità. Il patrimonio culturale può essere identificato come espressione di quella identità culturale propria di un popolo. Esso diviene la stessa rappresentazione di un popolo, del modo di agire, dell’interiorità composta da affetti, della concezione etica ed estetica e, più in generale, manifesta l’essere di tale comunità e degli individui che sono e si sentono parte della medesima. 

Nei primi anni Settanta, Abruzzese parlava dei principali cambiamenti che cominciavano a intravedersi nella cultura delle società avanzate. In quell’epoca pre-digitale, l’immaginario sociale era fortemente dominato dal linguaggio cinematografico, ma Abruzzese indicava che si era avviata una fase sociale di superamento del modello della società dello spettacolo. Affermava infatti che «la tecnologia dell’informazione distrugge finalmente ogni vecchio discorso sull’immagine spettacolare».

Ancora agli inizia degli anni Sessanta del Novecento la cultura di massa veniva socialmente considerata un fenomeno di scarsa rilevanza rispetto alla cultura tradizionale, cioè alla letteratura, al teatro oppure alla filosofia. D’altronde, la sua immagine era notevolmente influenzata da quella posizione radicalmente critica che era stata adottata nei suoi confronti, a partire dagli anni Quaranta, dagli autori della Scuola di Francoforte. In particolare Horkheimer e Adorno i quali hanno esplicitamente accusato la produzione culturale di adottare un modello tipicamente industriale basato sull’omogeneizzazione e sulla standardizzazione. 

Assolutamente degna di critica era invece per Eco la cultura di massa, tale perché doveva essere considerata con il massimo rispetto e interesse. Negli anni Sessanta non erano in tanti a pensarla così. Pochissimi intellettuali, tra i quali Morin, che riteneva necessario adottare una visione dialettica del rapporto esistente tra il sistema di produzione culturale e i bisogni degli individui, poiché la produzione ha la necessità vitale di sfruttare l’esistenza di una relazione costante tra la ripetizione e l’innovazione, la standardizzazione e la creatività. Ciò fondamentalmente avviene perché le industrie culturali non possono fare a meno di mantenere vive delle aree d’innovazione e creatività dalle quali attingere di volta in volta idee e talenti per le loro attività commerciali. Hanno costantemente bisogno di nuove energie da riversare all’interno dei loro prodotti. 

Dagli anni Sessanta a oggi, è trascorso un periodo piuttosto lungo nel quale si è presentato il rilevante fenomeno della diffusione delle tecnologie digitali, che hanno profondamente cambiato la condizione di vita delle persone. 

La digitalizzazione sta influendo sul mondo reale, come già fatto in passato dal cinema. Si assiste all’indebolimento della capacità di elaborare spiegazioni, ragionamenti razionali e concetti astratti, con la successione di immagini che vanno a sostituirsi progressivamente alle parole e alle frasi che, invece, richiedono impegno e attenzione. Il “capitalismo digitale” semplifica, facilità e rende comodo l’uso di prodotti e servizi che, però, sono volti alla creazione di posizioni monopolistiche che mirano a carpire l’attenzione degli utenti, tramite i loro stessi dati, per indurli sempre più a rimanere sulle piattaforme e acquistare tramite le pubblicità mirate in esse inserite. Codeluppi sottolinea i problemi legati al sovraccarico informativo, alla produzione e all’elaborazione dei dati attraverso algoritmi con attenzione al comportamento online delle persone, appiattimento e superficialità di contenuti e relazioni, con omologazione dei gusti e di quello che viene considerato di successo. A conclusioni differenti erano giunti invece Lash e Lury nel 2007. 

Affrontando l’analisi della cultura di massa contemporanea con una prospettiva di tipo globale e dinamico, il loro studio ha confermato che i beni culturali, più che essere interessati da quel processo di omogeneizzazione evidenziato in passato anche da Horkheimer e Adorno, tendono a produrre delle forme di differenziazione che sono particolarmente intense. 

Una frammentazione tale da portare l’universo culturale verso quel “culto del banale” di cui si è interessato Jost, evidenziato anche dal filosofo americano Danto: il forte orientamento dell’arte del ventesimo secolo verso il tentativo di trasfigurare il banale in un’opera d’arte. Anche nel mondo dei media si è sviluppato qualcosa del genere, basti pensare al grande successo dei reality show. Da “finestra sul mondo” la televisione si è così trasformata in una finestra sullo spazio intimo di vita delle persone. Poi è iniziato il periodo, tutt’ora in corso, dei social network. 

Evidentemente, ci troviamo di fronte a un fenomeno che non è più un processo di trasmissione di messaggi dotati di un contenuto, ma una pura forma di circolazione. Cioè una connessione costante basata su un flusso ininterrotto di contenuti irrilevanti e finalizzati solamente a ottenere questo risultato. 

Guardando al passato, si può suddividere la cultura in diverse fasi: la cultura dell’oralità, la cultura della scrittura e della stampa, la cultura dei mass media, la cultura digitale. Ognuna di queste grandi stagioni culturali ha sviluppato il proprio immaginario, in stretta relazione con le concrete potenzialità offerte dal relativo contesto di comunicazione. L’età dell’oralità si basava soprattutto sul racconto del mito il quale rimane centrale anche nell’età della scrittura manuale, condensandosi però in opere più strutturate. Durante l’età della stampa compare un fattore destinato a diventare sempre più rilevante: la diversificazione della tradizione culturale. Un fenomeno, quello della frantumazione culturale, che diventa macroscopico con l’età dei mass media. La cultura digitale poi porta all’estremo la diversificazione delle voci e dei soggetti di produzione culturale. Dal punto di vista dell’immaginario, la cultura digitale presenta un duplice aspetto: da una parte vi è l’immaginario digitale “derivato”, ovvero quello ripreso dal patrimonio culturale del passato grazie a processi sempre più avanzati di digitalizzazione di musei, biblioteche, foto- e cinte-teche, archivi musicali, raccolte di documenti; dall’altra c’è l’immaginario digitale “originale”, quello generato dalle potenzialità tecnologiche specifiche dei linguaggi digitali, che hanno creato configurazioni mentali e culturali impossibili da realizzare – e anche solo da pensare – nel mondo analogico. 

La diversificazione delle fonti e la grande flessibilità degli strumenti digitali hanno dato luogo alla remix culture: la ripresa di elementi dell’immaginario tradizionale che vengono reinterpretati e rielaborati per costruire nuovi prodotti. Una modalità tipica dei videogiochi, i quali spesso incorporano elementi della mitologia, del folklore, della cinematografia e della letteratura, adattandoli ad ambienti digitali interattivi. A rappresentare questo nuovo assetto culturale sembra esserci una profonda ibridazione di linguaggi, generi, contenuti, tuttavia va rilevata la persistenza – proprio nel digitale – di alcuni ben determinati generi e stili novecenteschi. Una persistenza che sembra quasi voler mantenere un legame tra i media analogici del secolo scorso e l’età digitale, così da costituire una sorta di “classicità del contemporaneo”. 

Basti pensare alla fantascienza e al profondo impatto che ha avuto sulla cultura digitale. Molti progressi tecnologici e concetti rappresentati nella letteratura e nei film di fantascienza sono serviti da ispirazione per i nuovi scenari del mondo digitale. Opere come 1984 di Orwell, Neuromancer di Gibson e i film Blade Runner e Matrix, diretti rispettivamente da Scott e Wachowski, hanno influenzato sia lo sviluppo di narrazioni distopiche, sia l’estetica cyberpunk, sia gli sviluppi dell’intelligenza artificiale, della realtà virtuale e delle tecnologie futuribili, evidenziando anche le problematiche legate alla stessa intelligenza artificiale, alle riflessioni filosofiche e psicologiche sulle realtà virtuali, sul potere degli hacker, sulla fusione di corpi umani con la tecnologia. 

Una delle questioni più discusse, lungo l’intera storia della ricerca sui media, è il rapporto tra la quantità dei contenuti in circolazione e la loro qualità. Da un lato, infatti, la rete rende disponibile al consumo una quantità di immagini, contenuti e informazioni enormemente maggiore rispetto al passato; e dall’altro, soprattutto, la comunicazione a due vie propria del Web abbassa anche le soglie di accesso alla produzione, rendendo possibile, per la prima volta in termini tanto ampi, una partecipazione diffusa alla scrittura e alla pubblicazione dei contenuti. L’innovazione fondamentale della rete va ricercata proprio nella pratica mash-up o remix, ovvero nella produzione e/o nel riuso attivo dei materiali che può tradursi in mille forme, come il ritocco delle fotografie digitali, il montaggio video su YouTube, la scrittura e la revisione di testi su Wikipedia e via discorrendo. 

Mentre Lessig considerava le pratiche mash-up emblematiche di una nuova sensibilità culturale, per Lanier il Web attuale non concede più spazio alcuno alla produzione originale, ma costringe gli utenti a operare all’interno di parametri di composizione particolarmente rigidi, limitandone la creatività e imponendo pratiche di riscrittura continua degli stessi contenuti. 

Le applicazioni diffuse sul Web non fanno altro che nascondere le reali potenzialità del computer, così che l’utente è costretto a rispettare le regole dettate dalla combinazione dei diversi software, anziché piegare la macchina ai propri scopi. La condizione definita da Lanier loch-in: l’utente è imprigionato in una struttura di senso rigida e chiusa, imposta dai software, e vincolato al rispetto di regole di esecuzione che paradossalmente limitano le possibilità stesse dell’hardware a disposizione.  Le pratiche di remix dei contenuti sono viste in una prospettiva critica perché contrapposte all’unico vero esercizio di creatività, che è il controllo dei codici di programmazione che consentono di modificare concretamente la struttura di rete. 

Ancora più radicale è stata la critica di Keen,  per l’immissione in circolo di elementi culturali rozzi, reportage informativi poco curati, notizie non verificate e tentativi artistici velleitari. Questa sorta di rivolta dei dilettanti contro i professionisti della cultura ha ispirato una pericolosa tendenza di pensiero, avversa allo specialismo e fautrice di un’equivoca democrazia dell’eccesso. 

La produzione amatoriale ha avuto però anche il merito di aver fatto emergere la cultura del quotidiano, quel sottofondo di attività che le persone hanno sempre svolto nel corso del tempo – gli hobby, i giochi e l’artigianato, il riuso spontaneo delle forme culturali, i modi del folk – e che attraverso il Web guadagnano oggi una visibilità inedita. In questo senso, il remix digitale non va valutato come atto artistico, soggetto di conseguenza a giudizi estetici e di valore, ma come fenomeno di massa puro e semplice, che affonda le sue radici nel vuoto del tempo libero e nelle pratiche di imitazione e di bricolage che lo hanno storicamente riempito. 

Eppure, nella critica di Carr, questa enorme quantità di stimoli messa in circolo dalla rete rende impossibile la concentrazione, e produce una forma mentale meno capace di esercitare ragionamenti in profondità.

Il cervello umano viene di continuo equiparato a una Macchina di Turing, capace di elaborare una quantità enorme di dati e di “trarre conclusioni” a partire dall’utilizzazione degli algoritmi e del programma incorporato. Ma il cervello umano è altro. Innanzitutto questo è legato e strutturato al corpo che lo contiene e la deterritorializzazione imposta dalla digitalizzazione sta creando una vera e propria distanza fra l’uomo e il mondo, e fra l’uomo e sé stesso.

Stiamo assistendo a una frammentazione eccessiva, a una deterritorializzazione selvaggia e a una rifeudalizzazione del sapere oppure stiamo semplicemente valutando la cultura emergente con parametri vecchi?

In quest’ottica, quello che il Web sta facendo non è aumentare la quantità di informazione ma mostrare, in modo definitivo e più onesto, il fatto che il mondo è sempre stato too big to know, troppo grande per essere conosciuto. 

Prima si filtra e poi si pubblica, era la regola dell’industria culturale moderna; nella rete, all’opposto, prima si pubblica e poi si filtra. Per cui questo surplus cognitivo risulterebbe essere tipico di tutte le fasi in cui l’innovazione cambia i metodi di produzione, abbatte i costi e sommerge il mercato con una quantità ingovernabile di contenuti.


Bibliografia e Sitografia

(in ordine di consultazione)

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Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


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Andrea Prencipe, Massimo Sideri, Il visconte cibernetico

Neuromarketing e potere subipnotico dell’era digitale. “Il cervello aumentato l’uomo diminuito” di Miguel Benasayag (Erickson, 2016)

Elisabetta Galimi, Il successo a portata di like

Giorgio Zanchini, La cultura nei media


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Beppe Severgnini, Socrate, Agata e il futuro

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Le sfide che la contemporaneità pone al futuro prossimo sono segnate dal rapido invecchiamento della popolazione mondiale. I numeri degli anziani e dei grandi anziani stanno inevitabilmente crescendo anche all’interno delle comunità diasporiche. La longevità può essere osservata con sguardo ambivalente: da un lato essa rappresenta la realizzazione di un ideale di lunga vita, mentre dall’altro è foriera di una crisi demografica, che si manifesta attraverso la molteplicità di cure che una popolazione sempre più anziana esige. Il “peso” della cura si riverbera nelle politiche nazionali del welfare e sui dispositivi di solidarietà intergenerazionale sui quali le comunità si fondano, rischiando il collasso del tessuto economico e sociale (M. Scaglioni, F. Diodati, (eds) Antropologia dell’invecchiamento e della cura: prospettive globali, Ledizioni, Milano, 2021).

Ma come vivono i diretti interessati la longevità? Severgnini ha analizzato a fondo l’universo della terza età e lo ha fatto attraverso lo sguardo indagatore della giovinezza mitigato dalla saggezza filosofica. Il risultato è un libro basato sull’imperativo dont’ become an old bore – non diventare un vecchio barbogio. Le regole da seguire sono semplici: «Essere attenti e generosi; coltivare l’ironia, antiruggine dell’anima; farsi venire buone idee, frequentando persone intelligenti e bei luoghi; farsi domande, anche sull’attualità; non rinchiudersi in un tempio domestico regolato da piccole ossessioni; pensare che il mondo non finisce con noi. Farsi una domanda: Quanti anni mi restano? E poi pensare: quegli anni voglio usarli bene».

Per Severgnini alcuni giovani oggi sono annichiliti perché nessuno li ascolta, altri trovano strade e porte chiuse da chi dovrebbe aprirle per loro: «È una buona cosa che alla mia età – ho 68 anni – ci si senta utili e attivi. Ma questo non deve avvenire a spese dei nostri figli e nipoti». 

A causa dell’invecchiamento e dei fattori associati si può andare incontro a una mancanza di rinforzi positivi e a un fallimento nella capacità di adattamento per cui i tratti di personalità maladattativi e/o sub-clinici diventano manifesti – per esempio aumenta l’invidia e il senso di grandiosità personale tra i narcisisti di successo come risultato di un pensionamento forzato, oppure si ha un importante declino dell’umore (B. De Sanctis, B. Basile, L’applicazione della schema therapy in terza età, in Cognitivismo clinico, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2020). I giovani di oggi, invece, non soffrono solo di una difficoltà psicologica comune a tutta l’adolescenza, ma anche di una dimensione culturale legata alla cultura del nostro tempo in rapporto al futuro. Quindi c’è una sofferenza doppia, con la seconda più grave della prima (U. Galimberti, intervista a «Il Piccolo», 30 ottobre 2019).

Incrementare la produttività a tutti i costi ci ha portati a un sistema sociale nel quale l’uomo sembra esistere solo in funzione del lavoro e così i giovani che ne sono privi si annichiliscono e gli anziani che ne sono ormai fuori si deprimono e si arrabbiano perché si sentono inutili. Severgnini non ha la presunzione di proporre un modello di vita alternativo ma ha la capacità di suggerire un pensiero alternativo: «siamo esseri umani nel tempo, non pezzi di legno nella corrente».

Il libro

Beppe Severgnini, Socrate, Agata e il futuro. L’arte di invecchiare con filosofia, Rizzoli, Milano, 2025

Articolo pubblicato sul numero di aprile 2025 della Rivista cartacea Leggere:Tutti


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© 2025, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Zainab Entezar, Asef Soltanzadeh, Daniela Meneghini, Fuorché il silenzio. Trentasei voci di donne afgane

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Trentasei donne afghane raccontano, in lingua dari, ognuna con parole e stili propri, la loro vita fino alla primavera del 2022, il momento in cui Zainab Entezar, regista e scrittrice afghana, costretta dalla latitanza, chiude le interviste e la raccolta degli scritti delle attiviste. Donne impegnate a dare conto delle loro esistenze e delle loro proteste spinte dall’urgenza di un evento ben preciso: il ritorno dei talebani al governo dell’Afghanistan il 15 agosto 2021, dopo venti anni di presenza occidentale. 

A quasi quattro anni dal ritorno dei talebani al potere, la situazione nel paese resta complessa e contraddittoria. L’Afghanistan è tornato a una situazione che presenta molte somiglianze al periodo pre-invasione occidentale. Il movimento islamico fondamentalista, colpito dagli Usa perché accusato di connivenza con Al-Qaida e il suo leader Osama Bin Laden, annunciava poche ore dopo la presa di Kabul la nascita dell’Emirato islamico dell’Afghanistan e il ripristino come legge vigente della Sharïa, nella sua interpretazione più rigida e fondamentalista. Se da un lato i talebani hanno oggi consolidato il loro controllo sul territorio, dall’altro la loro gestione del paese continua a essere segnata da problemi economici, violazioni dei diritti umani e isolamento internazionale. Relativo. Perché, in realtà, Pakistan e Iran hanno ristabilito i contatti con il governo talebano. La Cina poi è stato il primo paese non musulmano a cercare un dialogo con i talebani. Il Qatar ha giocato un ruolo centrale nelle negoziazioni tra i talebani e gli Stati Uniti, mentre la Turchia ha offerto assistenza tecnica e supporto nella gestione dell’aeroporto di Kabul. La Federazione russa, pur non riconoscendo formalmente il governo dell’Emirato, ha ospitato delegazioni talebane e mantenuto contatti regolari, vedendo l’Afghanistan come un punto strategico nella sua politica verso l’Asia centrale.1

Macrory nel 1986 ha prodotto il più puntuale resoconto della peggiore disfatta delle forze britanniche nel XIX secolo, ovvero l’annientamento di un corpo di spedizione inviato a occupare Kabul nel 1839 e massacrato nel corso di una precipitosa ritirata meno di tre anni dopo.2 Molte sono le analogie tra gli eventi del gennaio del 1842 e la fine dei venti anni di guerra in Afghanistan. Ancora una volta, dopo una vittoria sul campo rapida e schiacciante e una lunga occupazione, l’Afghanistan è stato abbandonato in tutta fretta e malamente.3

All’inizio sembrava tutto semplice: abbattere il regime dei talebani, eliminare i militanti di Al-Qaida e i loro campi di addestramento dal paese, catturare o uccidere Osama Bin Laden. Poi si scivola verso obiettivi vaghi, troppo ambiziosi, mai del tutto condivisi tra opinione pubblica, decisori politici e gerarchia militare. Un conto è fare nation building in Germania o in Giappone dopo aver vinto una terribile guerra convenzionale, di cui quei Paesi e la loro gente sapevano di portare la responsabilità maggiore. Tutt’altra cosa ricostruire l’Afghanistan, il cui regime è stato rovesciato nel 2001 per colpe che molti dei suoi abitanti ignoravano e ignorano tuttora, e dove non si è mai riusciti, dopo la “liberazione” dai primi talebani, a formare una classe dirigente adeguata.4

Il 15 agosto 2021 ha segnato il ritorno, per l’ennesima volta in quella terra, della negazione finanche dei più elementari diritti. A tale negazione corrisponde una prassi oppressiva, intimidatoria e violenta di fronte a qualsiasi manifestazione di dissenso. In Fuorché il silenzio trentasei donne ci parlano di questo, di come sono arrivate a quell’agosto 2021, radicando i loro racconti in una realtà storica e sociale che non è separabile dal percorso delle loro vite.

Si stima che l’80% della popolazione afgana sia composta da musulmani sunniti, adepti della scuola di giurisprudenza di Hanafi. Il gruppo etnico dei pashtun è, per la maggior parte, composto da sunniti, a eccezione della tribù pashtun-turi i cui membri sono sciiti. Il resto della popolazione (19%), in particolare il gruppo etnico hazara, professa per lo più la religione musulmana sciita. L’1% della popolazione segue altre religioni. Religione, tradizione e i codici islamici, insieme con le pratiche tradizionali e tribali, svolgono un ruolo fondamentale tanto nella disciplina della condotta personale quanto della risoluzione delle controversie.5

I pashtun sono attualmente, ma anche storicamente, il gruppo etnico politicamente più potente in Afghanistan. Tuttavia, nonostante la loro passata dominazione politica, non hanno mai costituito un gruppo omogeneo e molti sono diventati vittime di oppressione da parte delle élites delle loro stesse comunità. Eppure, nonostante le loro divisioni interne, si sono spesso uniti in un unico fronte quando si è trattato di opporsi a interferenze esterne o poste in essere da elementi non pashtun del governo centrale.6 Sono il gruppo etnico maggioritario in Afghanistan (circa il 42% della popolazione). La struttura sociale dei pashtun si basa sul codice pashtunwali, che è un misto tra un codice tribale d’onore e interpretazioni locali della legge islamica. La risoluzione di dispute e le decisioni prese a livello locale sono affidate al consiglio tribale jirga, mentre la donna è esclusa da qualsiasi questione che non riguardi la vita domestica. 

Le altre etnie sono: tagiki, hazara, uzbeki, aimak, turkmeni, baluchi, e altre etnie minoritarie. 

I tagiki , secondo gruppo maggioritario del paese, sono molto attivi politicamente. Dal 1992 al 1996 sono stati anche alla guida del governo del paese, in seguito agli accordi di Peshawar. Destituiti allorquando i talebani hanno iniziato la guerra civile. Si sono sempre mostrati contrari alla partecipazione dei talebani ai negoziati di pace, temendo ripercussioni per l’impegno in prima linea svolto contro i medesimi. Timori confermati prima dalle persecuzioni subite durante il governo dei talebani poi dall’uccisione (a settembre 2011) di Burhanuddin Rabbani, ex Presidente, leader del partito Jamiat-e-Islami e Presidente dell’Alto Consiglio per la Pace dell’Afghanistan.

In tutto l’Afghanistan, dopo la ripresa del potere dei talebani nel 2021, le donne hanno reagito alla repressione con un’ondata di proteste, alle quali si è risposto con intimidazioni, violenza, arresti arbitrari, sparizioni forzate e torture fisiche e psicologiche. Le donne arrestate per “corruzione morale” sono sottoposte a isolamento, pestaggio e altre forme di tortura e sono detenute in condizioni inumane, in celle sovraffollate e con poco accesso al cibo, all’acqua e, nei mesi invernali, al riscaldamento. 

Obbligo di indossare hijab o burka, chiusura delle scuole secondarie, tutoraggio maschile, accesso ridotto all’università e divieto di accesso a parchi e giardini: questa è la vita delle donne afgane dal ritiro delle forze Nato dal paese. Il regime, che nel momento dell’insediamento aveva cercato di mostrare una faccia moderata, sta portando avanti il proprio progetto a piccoli passi, ma costanti.7

Il filo che lega le trentasei donne del libro è la protesta contro la situazione descritta. Le manifestazioni contro la negazione dei diritti fondamentali e la richiesta di libertà. Le testimonianze raccolte da Zainab Entezar sono, per la maggiore, di donne che nessuno conosceva, ma che hanno compiuto azioni di enorme coraggio, opponendosi alle armi dei talebani per le strade di Kabul, Herat, Mazar-e Sharif. Ognuna arriva a quel 15 agosto da un percorso proprio, da famiglie di diversa estrazione sociale, culturale ed economica. Nessuna è uguale all’altra ma la richiesta di libertà le accomuna indissolubilmente. 

La curatrice del libro invita a una lettura senza pregiudizi, ovvero priva della proiezione dei nostri modelli: quello femminista prima di tutto, poi quello culturale e religioso ma, anche, priva di qualsiasi idea rigida di libertà ed emancipazione. Queste donne hanno avuto delle opportunità durante i non meno tragici venti anni di governo filo-occidentale: spesso con fatica, ma molte hanno potuto studiare. Hanno innescato e vissuto di fatto un’occasione di cambiamento all’interno di un sistema tradizionalista di grande rigidità. Ora tutto è stato loro nuovamente sottratto e negato con violenza. Ma quanto avevano sognato e realizzato non può più essere cancellato, né con la paura né con la tortura. Ormai è parte del loro essere. 

Turbano i racconti delle violenze, del carcere, della latitanza, delle torture, ma a impressionare più nel profondo è la resistenza di queste donne, la capacità di andare oltre sé stesse per un “bene” che probabilmente non vedranno realizzato ma rispetto al quale sono disposte anche a mettere a rischio la propria vita. 

Non c’è condanna per le donne le quali, pur trovandosi nella loro medesima condizione, scelgono il silenzio. C’è invece forte risentimento verso coloro che, stando al sicuro, pretendono di parlare al posto loro, che si appropriano della loro voce in modo strumentale, per ambizione o tornaconto personale. 

Le militanti di RAWA – l’Organizzazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane – sono per la gran parte insegnanti. La scuola per le ragazze è il loro campo di battaglia. È questo l’unico canale per raggiungere le donne, parlare con loro, conquistare la loro fiducia. Aprirsi un varco nelle loro vite blindate, far capire che un’altra vita è possibile, che hanno diritti e che possono combattere per realizzarli. RAWA nasce nel 1977, dopo un decennio di libertà, effervescenza intellettuale, nascita di idee e movimenti, soprattutto nelle Università. In quaranta anni hanno sempre combattuto opponendosi ai regimi dell’URSS e all’Armata Rossa, alla guerra e alla violenza dei mujaheddin, al fondamentalismo e alle sue regole, ai talebani e al regime dei signori della guerra e della droga, vetrina dell’occupazione USA-NATO. Affrontare i talebani non è una novità, lo hanno già fatto negli anni Novanta. Forse oggi i talebani sono più forti e più feroci di allora, hanno più alleati. Ma anche le donne lo sono, le giovani donne che hanno creduto e che credono in un altro futuro possibile, e che non si lasceranno “disarmare”.8

Libro

Daniela Meneghini (a cura di), Fuorché il silenzio. Trentasei voci di donne afghane, Jouvence, Sesto San Giovanni (Milano), 2024. Testi raccolti da Zainab Entezar. Rivista da Asef Soltanzadeh. Edizione italiana a cura di Daniela Meneghini.

Titolo originale: Azadi seda-ye zananedarad (The womanly voice of freedom), Bita Book, Danimarca, 2023. 


1L’Afghanistan a tre anni dal ritorno dei Talebani, in ISPI – Istituto per gli Studi di Politica internazionale, 15 agosto 2024.

2P. Macrory, Retreat from Kabul: The Catastrophic British Defeat in Afghanistan, 1842, Lyons Press, Essex, Connecticut, 2007 (prima edizione 1986).

3M. Mondini, Ritirata da Kabul. Un’analisi della sconfitta in Afghanistan, in Il Bo-Live – Università di Padova, 7 settembre 2021.

4G. Breccia, Missione fallita, Il Mulino, Bologna, 2020.

5CIA, The World Factbook – Afghantistan, 01 agosto 2017, disponibile dal 28 agosto 2017 all’indirizzo:https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/af.html

6Minority Rights Group, Afghanistan Overview, Pashtun, luglio 2018, disponibile in data 17 settembre 2019 all’indirizzo:http://minorityrights.org/minorities/pashtuns/

7S. Carradori, A. Pistolesi, Dossier/Iran, Afghanistan e Golfo: i diritti violati delle donne, in Atlante Guerre, 22 novembre 2022.

8C. Cella, Afghanistan: la guerra delle donne, custodi di dignità e speranza, in NAD – Nuovi Autoritarismi e Democrazie: Diritto, Istituzioni, Società, n. 1/2022. 


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa Jouvence per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


La voce delle donne per sconfiggere la misoginia: Chiara Frugoni “Donne medievali”

Dalla democrazia greca al demos inclusivo moderno: Giulia Sissa, L’errore di Aristotele

Superare le disuguaglianze di genere è anche una responsabilità intellettuale: Bina Agarwal “Disuguaglianze di genere nelle economie in via di sviluppo”

Antonia Arslan e Aldo Ferrari, Un genocidio culturale dei nostri giorni


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