Biagio Proietti

Biagio Proietti, nato a Roma nel 1940, sceneggiatore, regista, scrittore, ha lavorato per la radio, il cinema e la televisione italiane e straniere a partire dagli anni Settanta. Ha sceneggiato diverse opere italiane e straniere, soprattutto americane, e scritto dei libri di narrativa, alcuni in coppia con sua moglie, Diana Crispo. È co-fondatore, con altri autori romani, del Roma Giallo Factory (RGF). È presidente della Commissione DOR (SIAE) e del Sindacato Autori.

Negli anni Settanta e Ottanta lei ha lavorato o partecipato a diverse e numerose produzioni cinematografiche e televisive italiane portando spesso in scena trasposizioni letterarie. Cosa le è rimasto del lavoro di quegli anni? Intendo dire sul versante dei ricordi, delle emozioni ma anche dal punto di vista strettamente professionale.

Ho cominciato con il cinema facendo nel 1964 l’assistente alla regia di Francesco Maselli per Gli indifferenti, forse il suo film più bello, dove ho avuto il piacere di vedere al lavoro attori eccezionali come Rod Steiger, Shelley Winters, Paulette Goddard e due giovani stelle del cinema italiano come Claudia Cardinale e Tomas Milian. Un esordio notevole il mio, da lì ho continuato a fare l’aiuto a Maselli fin quando nel ‘67 non abbiamo scritto insieme il soggetto e poi la sceneggiatura di un film commedia, in cui ha recitato Monica Vitti, Fai in fretta ad uccidermi… ho freddo!. Il film non ebbe molto successo ma si parlò bene della sceneggiatura, quindi cominciai a lavorare come sceneggiatore per il cinema.

La prima opera importante è stata quella tratta dal romanzo di Giorgio Scerbanenco I milanesi ammazzano al sabato cambiato in La morte risale a ieri sera di Duccio Tessari. Sono un grande ammiratore di Scerbanenco. Lui era già morto quando abbiamo fatto il film, quindi non l’ho conosciuto. Ho avuto contatti con la sua compagna, Nunzia Monanni. L’ho conosciuta anni dopo per Il ritorno del duca, antologia edita dalla Garzanti, nella quale scrittori di oggi potevano inventare racconti con protagonista l’eroe di Scerbanenco, Duca Lamberti. Il mio ha il titolo del film perché ho immaginato che Duca, personaggio reale, fosse invitato sul set del film girato su una sua inchiesta e così lui conoscesse il regista – il nome Puccio Linari è un evidente e voluto riferimento al mio amico Duccio Tessari –  e l’attore protagonista Frank Wolff, che ebbe una fine tragica, come narro nel racconto. In questo modo lui e Duca possono incontrarsi di nuovo. Ebbene Nunzia, che adesso non c’è più, mi scrisse una lettera molto affettuosa e in un’intervista confermò che il mio racconto era quello che lei amava di più.

Intanto nel 1968 scrivo un soggetto che la Rai acquista come romanzo inedito – tale è sempre rimasto – dal quale nasce Coralba,produzione internazionale con Germania e Francia, girato a colori, ma in Italia trasmesso il 2 gennaio 1970 in bianco e nero con enorme successo.

Per tornare alla sua domanda… per la televisione ho scritto due sceneggiature da romanzi, uno è Madame Bovary che è stato un piacere leggere e rileggere, trasporre sullo schermo con un’idea molto buona: mettere la stessa Emma sul banco degli imputati al posto di Flaubert nella ricostruzione del processo reale intentato all’autore e far rileggere a lei i brani del romanzo, far commentare a lei la vita di Emma, con le stesse parole dell’autore. Una grande Carla Gravina, una splendida regia di Daniele D’Anza e un grande successo anche in Francia.

Un altro romanzo di diversa levatura è Incontrarsi e dirsi addio di Ferenc Körmendi che non è andato bene. Peccato, era una buona lettura di un mediocre romanzo che però faceva rivivere l’epoca degli anni Trenta, prima della guerra. In questo caso la regia non ha funzionato e gli attori sono stati scelti e diretti male.

Un’operazione particolare è stata I racconti fantastici ispirato ai racconti di Edgar Allan Poe che sono ambientati ai tempi di oggi, rielaborati per raccontare storie attuali dominate dal senso di paura, dal brivido e dal piacere di cadere nel precipizio che ci terrorizza e forse proprio per questo ci attrae in modo irresistibile e inevitabile. Un modo nuovo per raccontare un grande scrittore e per tradurre il suo mondo facendo capire agli spettatori la sua attualità e la sua grandezza. Una grande nube nera incombe su di noi: per Allan Poeera La morte dalla maschera rossa, per noi che cosa sarà?

Lei ha lavorato anche per la radio. E ancora ritroviamo il suo nome accanto a quello di un grande scrittore del calibro di Raymond Chandler. Sceneggiare un racconto, un romanzo o una novella per la radio è un lavoro che quasi non si fa più. Perché?

Temo di dover essere molto cattivo nella risposta: non si fa più perché chi amministra la Rai è spesso incompetente e si attacca solo ai dati di ascolto e non capisce – meglio, non vuole capire – che compito del servizio pubblico è anche andare contro i gusti attuali per il dovere di “educare” gli spettatori, di fornire loro tutti gli strumenti possibili per avvicinarsi a ogni forma di spettacolo.

Senza arrivare ai rimpianti del tempo, quando la radio prima della televisione dominava le nostre giornate e soprattutto le nostre serate – ricordo ancora negli anni Cinquanta quando tutta la mia famiglia si riuniva davanti alla gigantesca radio di allora e si beava dei romanzi sceneggiati, della prosa, dove potevi sentire Ruggero Ruggeri, Renzo Ricci, Memo Benassi e tutti i grandi attori di allora o ridevi ascoltando le grandi riviste con Billi e Riva, Corrado e gli attori della Compagnia radiofonica di Roma, veramente eccezionali – fino a dieci anni fa, si riservava lo spazio alla “radio recitata”, mentre adesso è solo una lunga, spesso brutta, colonna sonora alternata con qualcuno che chiacchiera, dicendo più o meno cose poco sensate. C’erano molti spazi dedicati al teatro di prosa, ai romanzi sceneggiati scritti appositamente oppure tratti da romanzi della grande letteratura e ovviamente anche a racconti sceneggiati o radiodrammi che hanno forgiato, a suo tempo, generazioni di giovani autori che hanno avuto successo in teatro o in televisione.

Io ho cominciato negli anni Sessanta scrivendo per la radio radiodrammi tratti da racconti di scrittori importanti come Ring Lardner, Alberto Arbasino, Daphne du Maurier, Italo Svevo e realizzandoli anche come regista.

Con estremo piacere ricordo quello che ho fatto da Raymond Chandler: ho scritto e diretto la versione del racconto Aspetterò, uno dei suoi bei racconti senza Philip Marlowe, con due grandi attori, Ileana Ghione e un giovane Dario Penne, che poi divenne uno dei più grandi doppiatori italiani. Terza protagonista una radio che trasmette musica degli anni Trenta e io mi sono divertito a scegliere canzoni e brani attingendo alla mia maniacale passione per quegli anni e per quella musica.

Il ricordo più bello però sono le otto puntate di 1 h l’una scritte per andare in onda il sabato sera su Rai Radio2 dal romanzo Il lungo addio sempre di Chandler. Anche in questo caso fu costituito un cast eccezionale: Philip Marlowe era interpretato dal grande Arnoldo Foà, c’erano Lino Troisi (protagonista poi del mio film Storia senza parole, premiato come miglior film tv nel 1981), Ottavio Fanfani, Ileana Ghione, Angela Cavo, Ennio Balbo. Purtroppo l’hanno trasmesso in replica solo una volta e temo addirittura che sia stato smarrito.

C’era anche un altro spazio che era molto importante: quello del Mattino sul 2, poco prima delle nove, dedicato ai romanzi famosi oppure scritti proprio per la radio. Io ne ho fatti due, scritti a quattro mani con mia moglie Diana Crispo e con la mia regia.

Nel 1972 Tua per sempre Claudia, in testa agli indici di ascolto e di gradimento per quell’anno e poi replicato molte volte. In seguito ha avuto una lunga fortuna, anche a livello internazionale. Tradotto in francese, è stato trasmesso in Belgio, Francia e Svizzera, con tale successo che la Radio Télévision Belge ci chiese di scriverne una versione televisiva che noi facemmo e loro realizzarono. Qualche anno dopo anche Rai Uno ne realizzò una versione televisiva, ma volle cambiare il titolo in Doppia indagine e non fece mai riferimento al precedente radiofonico per evitare che il pubblico lo riconoscesse figurandosi già il finale; la regia, di Flaminio Bollini, era piuttosto buona, anche se a mio avviso sbagliò la scelta di qualche attore. Per fortuna nel ruolo di un investigatore privato, che in radio io ebbi la fortuna di fare con Andrea Checchi, scelse un grande come Luigi Pistilli, il quale è stato anche il protagonista del mio La casa della follia, tratto da un racconto del genio americano Richard Matheson, e il lavoro ebbe un buon successo, a conferma che buone storie alla fine “acchiappano” sempre.

Nel 2002, sempre per lo spazio del mattino, scrivemmo un lungo romanzo, in venti puntate, dal titolo Così è la vita, incentrato sui problemi dei nostri giorni: la disoccupazione, non solo dei giovani, i rapporti razziali, la difficoltà di mantenere rapporti equilibrati fra uomini e donne, fra giovani e anziani, l’irruenza nella nostra vita della violenza e della rabbia. A interpretarlo sono stati attori importanti quali Walter Maestosi, Paila Pavese, Luca Ward, Mario Cordova.

Adesso tutto questo è sparito. Tornerà? Non lo so proprio. Inutile dire che me lo auguro e che ci proverò a farlo rinascere, ma ho poche speranze. E se tornasse uno spazio anche piccolo io sarei pronto a occuparlo, la passione è passione e fare radio è stato un sogno coltivato fin da bambino.

Dalle sue produzioni televisive e cinematografiche ma soprattutto dai libri si evince la sua grande passione per la letteratura di genere giallo ma anche introspettiva, un’indagine che mira allo studio dell’uomo e dei comportamenti o meglio, come nel caso del romanzo scritto a quattro mani con sua moglie Dov’è Anna, dell’universo femminile e del rapporto di coppia.  Qual è il filo conduttore che lega i suoi lavori?

In prevalenza ho scritto da soggetti miei, come il mitico Dov’é Anna?.

In questo caso, con mia moglie abbiamo compiuto un viaggio all’inverso, facendo diventare le storie scritte per la televisione un romanzo, la prima volta uscito nel ‘78 per la Rizzoli, adesso, rivisto soprattutto nello stile e nel linguaggio, è stato pubblicato da una casa editrice giovane e coraggiosa, 21 Editore, che crede in questa operazione anche se non è il momento migliore per la vendita di libri. Speriamo che il pubblico affezionato allo sceneggiato e a noi due come autori risponda in misura soddisfacente. Una lettrice, quando ha sentito parlare di Dov’é Anna? ha usato un’espressione che mi ha colpito al punto da spingermi a chiederle di poterla usare: «uno squarcio nella memoria». Aggiungo anche una nostra definizione «un romanzo in bianco e nero, dove tutto si gioca nel contrasto fra bianco e nero, fra bene e male, fra il dolore della scomparsa (Morte? Fuga? Tradimento?) e la disperata ricerca che fa il marito, non tanto e non solo, per ritrovarla ma soprattutto per comprendere quale sia stata la donna con la quale vissuto, condividendo con lei gioie e dolori». Forse il titolo più giusto sarebbe stato Chi é Anna?.

In molti ci hanno chiesto il motivo per cui abbiamo scelto di “riprendere” questa storia. La risposta è semplice: quando una storia mantiene il suo fascino è bello riprenderla e la cosa più intrigante è raccontarla con uno strumento narrativo diverso, perché un conto è scrivere per la televisione o per il cinema, un altro è raccontare non attraverso le immagini ma solo con la forza delle parole, con la secchezza dello stile, con il rigore asciutto del racconto, che deve andare diritto alla mente e al cuore del lettore.

Il filo conduttore che lega i nostri lavori è proprio questo continuo interesse per l’evoluzione della coppia ma soprattutto un’attenzione precisa verso i personaggi femminili, visti in tutti i risvolti possibili, sia esistenziali sia psicoanalitici. Basti pensare allo sceneggiato, sempre del 1976, La mia vita con Daniela, poi ripreso e sviluppato in modo nuovo nel 2012 come romanzo con il titolo Chiunque io sia. In esso la donna protagonista è letteralmente divisa in due, fra quella che lei sente di essere (e ricorda di essere) e quella che tutti le dicono di essere. Una dicotomia che non è solo psicologica ma anche fisica, perché senza dubbio lei ha le sembianze della donna più giovane e più bella, anche se nella sua mente lei è l’altra. Non dico come si risolverà ma è chiaro che sempre in noi c’è questa attenzione esasperata verso l’evoluzione che la donna sta avendo; questa particolare propensione verso i personaggi femminili spesso definiti a tutto tondo è presente anche in lavori che ho scritto da solo o in coppia con colleghi uomini. Essere coppia anche nella vita ci porta forse a essere più attenti alle dinamiche che agitano la vita di una coppia e ci portano all’esigenza di inquadrare i problemi da una doppia angolazione. Il confronto è sempre utile nella vita e nell’arte. Noi pensiamo che sia importante anche combattere per far valere le proprie idee, sempre rispettando quelle dell’altro e pronti ad ammettere gli errori. Quando si lavora insieme questo è fondamentale.

Biagio Proietti, Dov'è Anna?

Spesso si leggono o si ascoltano dure critiche al cinema italiano contemporaneo e lo si finisce sempre per paragonare a quello d’autore divenuto ormai un mito. C’è chi sostiene che quello era espressione della società dell’epoca e questo attuale altrettanto. Fatto sta che alla fin fine a rimanere sempre “di nicchia” sono le produzioni più impegnate sia sul fronte sociale che su quello politico. Qual è la sua opinione?

Ho una posizione diversa da molti critici e autori, io trovo che sia sbagliata la divisione fra il cinema d’autore e l’altro cinema, oso dire una banalità: io credo che ci siano film belli e film brutti. Quando uno parte con l’idea di essere un grande autore e di fare un film d’autore io mi metto in allarme: quelli che amo di più nella mia vita sono considerati spesso in Italia mediocri film commerciali.

Autori geniali come John Ford e Alfred Hitchcock spesso sono stati trattati come mezze calzette di fronte ad alcuni autori che hanno fatto un paio di film e poi sono spariti, per fortuna. La forza del cinema italiano degli anni dal ‘50 al ‘90 è stata la sua produzione media, frutto di un’industria che non era organizzata e granitica come quella americana, più artigianale e avventurosa, fra cambiali e fallimenti, ma che riusciva a produrre oltre duecento film l’anno e spesso di alcuni anni i film che si ricordano di più sono quelli di Totò o quelli di tre filoni commerciali come la commedia all’italiana, il giallo o poliziesco, il western. Gli altri, che hanno vinto qualche Festival e hanno avuto fiumi di parole su riviste, morte anche loro, dove sono finiti? Chi se li ricorda più?

Adesso la situazione è peggiorata perché sembra che per richiamare il pubblico, che non supera i 25 anni, sia necessario fare storie comiche e demenziali, come se i nostri giovani fossero diventati dei subnormali. In alcuni casi i sospetti sono diventati realtà, il successo di alcuni film non si comprende se non con un abbassamento vorticoso dell’intelligenza umana ma credo che questo momento passerà e sarà merito non di qualche film di autore ma di una ripresa di tutta l’industria.

Applicate il discorso alla televisione e vedete che la serie Gomorra nasce su un tessuto di fiction delle reti generaliste, Rai o Mediaset, troppo buonista, sdolcinata ed eccessivamente mediocre. Rischiando di sembrare immodesto dico che i nostri sceneggiati in bianco nero non solo erano migliori ma funzionavano come analisi della società nella quale sono nati, come specchio di una realtà mediocre che andava fotografata e raccontata, nonostante questo senso della verità poteva essere preso per cinismo.

Come ho scritto sul «Corriere della Sera», a proposito di Dov’è Anna?,non era e non è cinismo ma desiderio di raccontare storie che diano il senso del mondo reale, che esprimano non solo le nostre idee ma siano fotografie incisive della società nella quale viviamo.

Anche la Letteratura italiana e soprattutto i suoi rappresentanti sono stati oggetto di aspre polemiche. Tra le più recenti ricordiamo l’articolo di Cordelli nel quale si parla di «un lungo sonno, quello in cui è caduta la Letteratura italiana contemporanea diventata una palude in cui il bello e brutto sono detti e sostenuti secondo un percorso prestabilito: pubblicazione, recensione, premio. Non c’è altro». Lei che idea si è fatto del panorama letterario attuale?

M’interessa poco, sembrano dispute fra vecchie galline. Si parla, si parla, si producono recensioni che nessuno legge, si danno premi che spesso non servono a niente, si pubblica tanta roba che nessuno legge e non sappiamo come smaltire. Bisogna smettere di pensare di essere tutti grandi artisti e sperare di essere invece dei buoni artigiani capaci di scrivere romanzi o di fare film. E poi è necessario in modo assoluto trovare il sistema di far leggere di più le nostre giovani generazioni: andate a qualche presentazione di libri, l’età media supera i cinquanta anni. Ce la faremo? Non lo so, so che dovremmo tentare altrimenti «sul ponte sventola bandiera bianca» come cantava Battiato.

Il professor Cesare de Michelis, italianista e presidente di Marsilio, in un’intervista ha dichiarato: «Gli autori ormai scrivono un romanzo ogni due anni. Manzoni scrisse un romanzo solo perché sapeva che lì dentro c’era tutto. Quello delle avanguardie è stato un tentativo di togliere credibilità alla letteratura della tradizione, di farla fuori». La Letteratura ha subito lo stesso processo di “commercializzazione” di cinema, tv e radio?

Credo che sia inevitabile ma trovo a dire poco ridicola, sciocca e pericolosa la distinzione fra letteratura alta e letteratura di genere.

Sono convinto che i più grandi scrittori americani siano due scrittori di genere come  Dashiell Hammett e Raymond Chandler, oltre a Edgar Allan Poe e a Lovecraft, ma non riesco a dimenticare le pagine scritte da letterati italiani contro di loro, confinati nella collana “Giallo Mondadori” e venduti in edicola.

Quando nel 1978 proposi alla radio di fare Il lungo addio di Chandler, passò soltanto perché il direttore della radio, critico letterario e cultore della letteratura americana, si lamentò che nelle proposte non ci fosse neanche un autore americano moderno, allora qualcuno trovò il coraggio di avanzare la mia proposta che fu subito accettata, dopo qualche vecchio solone, i cui romanzi sono finiti nel più totale abbandono, dimenticati da Dio e dagli uomini, obiettò che «in fondo Chandler non era il grande autore che Proietti sosteneva».

Per finire, io credo che bisogna avere il coraggio di vedere le cose belle anche nei lavori di genere dove in mezzo alla solita paccottiglia spesso si trovano opere notevoli, a volte anche indimenticabili.

È importante mantenere apertura mentale verso ogni proposta, se è brutta la si bocci e la si distrugga, ma senza preconcetti, chiusure anticipate e troppi pregiudizi intellettuali. Il giallo italiano sono anni che cerca di ricostruire una propria strada ma qualche critico e qualche professore universitario sembra non saperlo, si eccitano sdilinquendosi di fronte a cose anche belle ma che non nascono isolate e sperdute come isole nel grande oceano, intorno ci sono autori e fermenti, professionisti che da cinquanta anni lavorano per fare con la massima serietà e il massimo impegno il loro oneroso lavoro da bravo artigiano.

La cosa importante è il consenso del pubblico: che uno riesca a mantenerlo per più di cinquanta anni vorrà dire qualche cosa o no?  Il consenso è in realtà quello per il quale si lavora e non sempre averlo ha significati negativi. Non vi fidate di chi lo dice, non è sincero.

http://www.sulromanzo.it/blog/intervista-a-biagio-proietti-il-cinema-e-la-letteratura-dagli-anni-settanta-a-oggi

 

© 2014, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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