Nel 2002 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha resi pubblici i dati del Rapporto Mondiale sulla violenza e la salute (World report on violence and health), la prima analisi dettagliata su scala globale del problema della violenza e delle sue complicanze. Lo studio del Rapporto ha un effetto sconcertante, ci si trova infatti faccia a faccia con la dura realtà dei fatti, ovvero che la violenza colpisce quotidianamente in maniera grave e spesso irreversibile una quantità rilevante di persone: uomini, donne, giovani, bambini, anziani. 500 adolescenti vittime di violenza interpersonale al giorno, tra i 3.5 e i 7.5 milioni di giovani ogni anno riportano ferite che richiedono un intervento medico, milioni di bambini maltrattati e abusati, milioni di donne uccise, abusate o maltrattate, migliaia di anziani maltrattati o abbandonati. Sconcertanti anche i numeri relativi alla violenza auto inflitta: 1 suicidio e tra i 10 e i 40 tentativi ogni 40 secondi.

Una stima al 30 settembre 2014 di guerrenelmondo.it ci ricorda che attualmente sono 64 i Paesi coinvolti in guerre e 572 le milizie, i guerriglieri o i gruppi separatisti in azione. La valutazione dei decessi in relazione agli eventi bellici di presentepassato.it annovera nel secolo scorso, ovvero negli anni tra il 1900 e il 1995, un totale di 109.700.000 (centonovemilioni e settecentomila) morti e  quello che è stato definito il “cinquantennio di pace”, il periodo che va dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ai giorni nostri, vanta 20 milioni di morti e 60 milioni di feriti per cause dirette e indirette relative a conflitti, guerre o insurrezioni. Molti di questi decessi e ferimenti riguardano la popolazione civile.

La violenza rappresenta un grave onere per le casse di uno Stato. Nel calcolare i relativi costi di incidenza sull’economia di una nazione bisogna considerare molteplici fattori che vanno dai costi diretti dell’assistenza medica e legale al calo di produttività come conseguenza dei plurimi decessi, ferimenti, disabilità, dal danno della proprietà pubblica e privata al freno agli investimenti e al turismo. Ma il dato più inquietante riguarda la consapevolezza che questo elevatissimo tasso di violenza rappresenta innegabilmente il campanello di allarme dell’infelicità diffusa del genere umano. È opinione largamente condivisa la teoria secondo la quale la violenza genera altra violenza e che persone vittime di violenza hanno maggiori probabilità di diventare a breve o lungo termine essi stessi aggressori. In altre parole si potrebbe sintetizzare dicendo che la violenza non si combatte con la violenza.

Johan Galtung riconosce tre tipi distinti di violenza nella società contemporanea (diretta, strutturale, culturale), largamente interconnessi tra di loro.

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Secondo i dati forniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità ogni anno le vittime di violenza diretta (suicidi, omicidi, guerre) sono mediamente circa 1.600.000. Le vittime della violenza strutturale sono circa 30 – 40 milioni ma hanno un impatto minore in quanto le loro morti sono lente, silenziose, causate dalle condizioni di lavoro, dal sottosviluppo, dalla denutrizione. La violenza culturale è forse la peggiore tra le tre in quanto studiata appositamente per giustificare le altre due. Ciò che leggiamo nei testi scolastici, le immagini e i discorsi che ascoltiamo in televisione, sui giornali, alla radio ci rendono fin da piccolissimi l’idea di quello che è lecito e di quello che non lo è, di cosa sia giusto e cosa sbagliato finendo inevitabilmente con il generare in ognuno dei cardini culturali “universalmente” riconosciuti difficili da controbattere proprio perché largamente condivisi.

Nella gran parte dei testi scolatici adottati nelle scuole italiane si leggono frasi del tipo “fu dichiarata guerra perché bisognava difendere i confini dagli attacchi degli invasori”, “entrò in guerra per difendere i possedimenti conquistati”, “si rese inevitabile il conflitto armato per conquistare le nuove terre e civilizzare gli abitanti del luogo” e via discorrendo. Queste non sono altro che giustificazioni di comportamenti estremamente violenti e autoritari. Attualmente quasi non si dichiara più di “entrare in guerra” anche in virtù del fatto che sono cambiate le modalità di attacco e combattimento e di sicuro quello che è diverso rispetto al passato è il leit-motiv che dà origine e al contempo giustifica le ostilità. “Combattere il terrorismo” questo sembra essere diventato l’unico motivo per cui si decide di entrare in guerra. Solo che da quando si è deciso di combatterlo questo terrorismo non fa che dilagare. Si amplifica come reazione al tentativo di arginarlo? Si ha l’impressione che sia un fenomeno in crescita in quanto ora se ne parla continuamente mentre in passato se ne taceva? È veramente questo il motivo per cui si decide di entrare in guerra, aprire le ostilità, combattere e uccidere o alla fin fine i motivi propulsori sono sempre gli stessi: potere e denaro? Non potrebbe essere che questo sia ormai diventato l’unico motivo che le masse accettano come causa di conflitti perché ne sono “terrorizzate”?

Uno studio dell’OCSE pone in relazione la violenza con la cultura e il reddito pro-capite. Il tasso maggiore di omicidi ad esempio si registra in aree dove il reddito pro-capite è molto basso. Diverse ricerche hanno dimostrato che la povertà e la mancanza di “capitale sociale”, ossia la rete sociale e le relazioni di vicinato, sono condizioni che pongono maggiormente a rischio di abusi e violenze i minori. Maurizio Pallante sostiene che la società moderna occidentale sia basata prevalentemente sul concetto di “ben-essere” confuso però con quello del “tanto-avere”, generando in questo modo una catena autodistruttiva nella quale ci si affanna in ogni modo per accumulare oggetti, cose, denaro, per poter raggiungere quello che ci viene indicato come il traguardo abbattendo nel frattempo ostacoli che possono rallentare la nostra corsa: l’affettività, la solidarietà, l’autoproduzione, il tempo libero che non genera guadagno monetario e via discorrendo. È indubbiamente una corsa destinata a generare delusione, in quanto gli oggetti e il denaro cumulabili sono infiniti.

Era il 1971 quando John Lennon esortava tutti i suoi fan a immaginare un mondo dove «non esistano frontiere, non è difficile da fare, nessuno per cui uccidere o morire e nessuna religione. Immagina tutta la gente vivere una vita in pace. […] Immagina tutta la gente condividere il mondo intero…».

Alessandro di Battista è stato oggetto di dure critiche da parte della stampa e del pubblico per il contenuto di un post condiviso sul blog di Beppe Grillo il 16 agosto 2014. In esso Di Battista affermava: «Destituire, solo per osceni interessi economici, un governo regolarmente eletto con la conseguenza di favorire una guerra civile è meno grave di far esplodere un aereo in volo? […] Il petrolio iracheno è stato il peggior nemico del popolo iracheno. […] Gli USA non ne hanno azzeccata una in Medio Oriente. Hanno portato morte, instabilità e povertà. Hanno dichiarato guerra al terrorismo e il risultato che hanno ottenuto è stato il moltiplicarsi del fenomeno stesso. […] L’Italia dovrebbe promuovere una moratoria internazionale sulla vendita delle armi. Se vuoi la pace smetti di lucrare sugli armamenti. Chi si scandalizza dei crimini dell’ISIS è lo stesso che lo arma o quantomeno che lo ha armato. […] L’Italia dovrebbe porre all’attenzione della comunità internazionale un problema che va risolto una volta per tutte: i confini degli stati. Non sta scritto da nessuna parte che popolazioni diverse debbano vivere sotto la stessa bandiera. Occorre, finalmente, trovare il coraggio di riflettere su un nuovo principio organizzativo. Troppi confini sono stati tracciati a tavolino con il righello dalle potenze coloniali del ‘900. […] Occorre legare indissolubilmente il terrorismo all’ingiustizia sociale. […] L’Italia dovrebbe cominciare a pensare alla costruzione di una società post-petrolifera. Il petrolio è la causa della stragrande maggioranza delle morti del XX e XXI secolo. Costruire una società post-petrolifera richiederà 40 anni forse ma prima cominci prima finisci. Non devi aspettare che il petrolio finisca. L’energia è la civiltà. Lasciarla in mano ai piromani/petrolieri è criminale. Perché aspettare che finisca il petrolio? L’età della pietra non è mica finita per mancanza di pietre (cit. Beppe Grillo)».

Michael Moore in una video-inchiesta di alcuni anni fa intervistava i reclutatori dell’esercito americano, sparsi in tutto il Paese alla ricerca di giovani volontari e volenterosi di arruolarsi nei marines, chiedendo loro il motivo per cui pur mostrandosi tanto convinti delle loro parole e pur dichiarando ai ragazzi le ottime prospettive per il futuro nessuno di loro facesse altrettanto con i propri figli, avendo egli stesso verificato che il tasso di arruolamento tra la discendenza dei reclutatori era minino o rasente lo zero. In effetti verrebbe da porre la stessa domanda a coloro che si dichiarano favorevoli all’intervento armato per combattere il terrorismo. Quanti di loro hanno dei figli che partiranno per il fronte? Quanti di loro sono disposti a partire in prima persona? Non è che per caso la stragrande maggioranza delle persone è a favore della guerra perché la vede come una cosa necessaria per tutelare e garantire la propria sicurezza e stabilità?

Anche Roberto Saviano in un suo recente intervento per «L’Espresso» affronta il tema della violenza nelle manifestazioni di protesta, invitando tutti non ad abbandonare la rivendicazione dei propri diritti ma a farlo in maniera diversa, nuova, pacifica: «La crisi economica e i regimi stanno distruggendo le possibilità di felicità, il lavoro, la serenità. E ci si unisce molteplici in nome di rivendicazioni comuni, non animati dall’odio e dalle teorie del complotto».

Ripensare i punti fermi della società contemporanea, evolvere il pensiero e la mente verso un futuro nuovo, possibile, seguire insegnamenti alternativi che conducono a verità antiche come il mondo. Questo il cammino della nonviolenza, l’unica e reale alternativa alla carneficina della violenza. «Ci sono cose per cui sono disposto a morire, ma non c’è ne è nessuna per cui sarei disposto ad uccidere (Mahatma Gandhi)».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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