La collana Zoom, la sfida editoriale interamente digitale di Feltrinelli Editore, compie quattro anni. Un modo per dare spazio «a libri che finora non si potevano fare» a causa dei costi elevati della carta e della distribuzione.
Ma la si può guardare anche come un ritorno agli anni Settanta e alle riviste che davano molto spazio ai singoli racconti, alle storie brevi, ai romanzi a puntate.
Quali sono le differenze maggiori tra allora e oggi? Ce ne ha parlato Piersandro Pallavicini che è nato come scrittore pubblicando storie brevi sulle riviste di carta alla fine degli anni Ottanta e ha scelto Zoom per pubblicare i suoi racconti oggi.
Pallavicini è uno scrittore italiano e docente universitario, autore di racconti e romanzi nei quali immette flash pseudo-biografici, riflessioni ed emozioni che sono lo specchio della sua anima. Storie intense nella quali si avvicendano personaggi reali che compiono azioni di fantasia e personaggi di fantasia che ripetono azioni vissute, riviste per adattarle alla trama e al contesto ma frutto di esperienze di vita che hanno portato negli anni l’autore a convincersi che l’unico rimedio al mal di vivere è “l’ottimismo a oltranza”.
Sono trascorsi quattro anni da quando Feltrinelli ha lanciato Zoom. Come valuta l’esperimento di un’editoria digitale ed economica per il lettore? Potrebbe essere una strategia per arginare la disaffezione alla lettura?
Temo proprio di no, perché non esiste una strategia per arginare la disaffezione alla lettura. L’unica potenzialmente efficace sarebbe che in capo a qualche mese non esistessero più i telefoni cellulari e internet fosse ad accesso limitato ed estremamente costoso, allora il tempo che dedichiamo a farfugliare in Rete fosse riguadagnato per altre attività. E la lettura tornerebbe a essere popolare quasi quanto prima. La possibilità di fare editoria su supporto non cartaceo con la sua economicità consente di aprire spazi che altrimenti non ci sarebbero in questo momento storico, come la pubblicazione dei racconti singoli. Fino agli anni Settanta, Ottanta, anche Novanta in realtà potevano trovare spazio su delle riviste di carta create apposta per ospitare racconti. Si scriveva con l’idea, con una destinazione, non si scriveva a vuoto sperando che succedesse chissà quale miracolo per veder pubblicato il racconto singolo. Invece con questi nuovi spazi elettronici c’è stato un grande ritorno al racconto singolo, al piacere di scriverlo e questo fa guadagnare in qualità.
Non è la prima volta che abbraccia progetti editoriali nuovi e alternativi, come nel caso delle edizioni Ediarco. Cosa l’ha spinta a prendere parte alla sfida di Feltrinelli Zoom?
La possibilità di scrivere un racconto. Avevo delle storie che volevo raccontare… una, due, tre… che non potevano diventare un romanzo, che non potevano diventare parte di una raccolta di racconti e, quando ho capito che c’era questa possibilità, le ho scritte e pubblicate.
Io nasco come autore tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta, un periodo in cui gli scrittori crescevano scrivendo racconti che uscivano su riviste, ce n’erano tante ed erano molto belle, erano delle palestre di scrittura.
Ho ritrovato quel tipo di spazio in collane come Zoom. L’unica diversità è che questa non offre quel rapporto così stretto tra editor o redattore e autore, come invece succedeva per le riviste. Zoom e simili sono spazi più per scrittori che hanno già un passato consolidato e meno per gli esordienti.
Con Feltrinelli Zoom ha pubblicato tre racconti: London Angel, Racconti per signora e Dalle parti di Arenzano. Soprattutto dal primo sembra si possa evincere uno dei leitmotiv della sua produzione, ovvero il legame che unisce Africa e Italia e i rispettivi scrittori. Ci può spiegare le ragioni del suo ritornare su questa suggestione?
London Angel in particolare è un racconto che parla di Italia e Africa ma soprattutto di amicizia. In esso si parla di come le amicizie vadano curate in modo tale da farle resistere anche alla distanza, com’è il caso dell’io narrante e di Jadelin Mabiala Gangbo.
Su questo poi si innesta, inevitabilmente, il tema della diversità, del colore della pelle, delle origini… anche se poi il racconto tende a entrare proprio nelle profondità di un rapporto di amicizia riuscendo così anche a dimostrare che in fondo queste differenze contano poco o nulla.
Restando sul tema dell’amicizia così come trattato nel racconto London Angel, appare quasi un rapporto di dipendenza quello che il protagonista, Sandro, ha nei confronti di Jadelin e per il quale più volte rischia di rovinare anche il proprio matrimonio. Perché ha voluto rappresentare l’amicizia in questo modo?
È un aspetto dell’amicizia, questo, che mi riguarda personalmente, è quasi una confessione autobiografica. Il mio modo di fare amicizia con persone dello stesso sesso… non dico di aver veramente messo in gioco la mia vita famigliare però ho investito parte del mio tempo, parte degli affetti. E forse in quel momento della mia vita doveva essere così.
A una persona a cui si vuole bene sul serio, a un amico vero va dedicato affetto sincero e profondo. L’amicizia non è uscire insieme qualche volta, chiacchierare di belle cose ma è un sentimento tra due persone che hanno delle affinità, è un amore senza sesso se vogliamo.
Un’altra caratteristica della sua produzione va ricondotta alla palese volontà di raccontare storie dentro le quali inserisce “cori” autobiografici e pillole pseudo-biografiche di altri autori. Cosa la spinge verso queste soluzioni?
Raccontare se stessi attraverso altri personaggi credo sia una fase inevitabile per qualsiasi scrittore. È un voluto gioco di mascheramento il mio tra quello che ho fatto veramente io e l’agire dei miei personaggi. Anche un po’ “pericoloso” in quanto a volte sono stato preso alla lettera e quindi cose che i mei personaggi hanno fatto e che io non farei mai mi sono state attribuite, e ciò ha comportato anche spiacevoli equivoci. Un modo di giocare e anche di rischiare con la scrittura di cui però non riesco a fare a meno. La scrittura per me è anche questo, non solo un esercizio, un mestiere.
In ogni opera c’è una parte più o meno consistente del suo autore, ma quanto di Piersandro Pallavicini c’è realmente nei suoi racconti?
Qualsiasi scrittore scrive di ciò che conosce, non necessariamente di ciò che ha vissuto.
Dal punto di vista aneddotico c’è pochissimo, sono veramente poche le cose che ho vissuto davvero e sono finite nei miei romanzi. Forse c’è molto del mio carattere, questo sì, soprattutto nei romanzi più recenti, quali Romanzo per signora o Una commedia italiana(Feltrinelli, 2012 – 2014, ndr), fondati su aspetti peculiari del mio carattere.
Una caratteristica che definisco ottimismo a oltranza, ovvero se non proprio ottimismo in senso stretto, almeno la volontà di non prendere troppo sul serio i drammi, incluse la malattia e la morte, proprio come antidoto al male di vivere. Una questione di atteggiamento mentale che più pratico più mi convinco essere salutare.
Gli autori che ha scelto e inserito nei suoi racconti hanno per lei un significato umano-artistico particolare?
In London Angel c’è Jadelin Mabiala Gangbo che è una persona importantissima per me. In altri racconti o romanzi parlo di scrittori che sono stati a me molto cari.
In Romanzo per signora uno dei protagonisti, Leo Meyer, in realtà è una controfigura di Pier Vittorio Tondelli, di cui si parla anche come personaggio realmente esistente. Nello stesso romanzo si parla di Frederic Prokosch, scrittore realmente esistito. Tondelli e Prokosch sono legati, nel mio immaginario, a doppio filo perché, soprattutto il primo, è lo scrittore grazie al quale ho iniziato a leggere e a scrivere in modo serio. Tondelli scrisse, poco prima della morte, verso la fine degli anni ’80, un bellissimo pezzo uscito su uno dei primi numeri di «Panta»dedicato a un’intervista, che aveva cercato di fare senza riuscirci, a Prokosch il quale, molto anziano, era morto pochi giorni prima dell’appuntamento. Quel magnifico racconto di Tondelli mi ha portato in seguito a scoprire Prokosch, a collezionarlo, a procurarmi le edizioni originali autografate, i libretti che realizzava in proprio e regalava agli amici.
In Una commedia italiana ci sono altri scrittori a me cari, come Marcello Marchesi da cui ho imparato molto di quello humor che sta dietro la commedia all’italiana, della battuta sempre pronta che ti fa sorridere anche difronte al dramma.
Nei suoi racconti si trovano anche delle piccole “provocazioni”, come ad esempio la volontà dei protagonisti di London Angel di voler essere fotografati mentre consumano un amplesso. A quali riflessioni vuole indurre il lettore attraverso questi escamotage?
Dal mio punto di vista non è una provocazione. Nell’ottica di costruire un parallelo tra io narrante e me stesso, che è molto stretto per quel racconto, questo genere di cose non rappresentano una linea di rottura del comportamento. In London Angel l’episodio aveva anche una valenza diversa e ricollegabile alla coltivazione dell’amicizia tra il protagonista e Jadelin. Farsi fotografare da qualcuno mentre si sta facendo sesso è in realtà un modo per introdurre un grado ulteriore di intimità tra le persone coinvolte. Perché l’amicizia può consentire anche questo senza che nessuno si scandalizzi.
http://www.sulromanzo.it/blog/zoom-di-feltrinelli-e-una-collana-per-scrittori-consolidati-intervista-a-piersandro-pallavicini
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