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Stefano Santachiara. Il giornalismo d’inchiesta: aspetti tecnici e conseguenze.

Stefano Santachiara, giornalista d’inchiesta e corrispondente del «Fatto Quotidiano», dopo I panni sporchi della sinistra (Chiarelettere, 2013), scritto a quattro mani con Ferruccio Pinotti, ha pubblicato Calcio, carogne e gattopardi, un’indagine su come il controllo sociale sia gestito dal potere attraverso il calcio, autoprodotto e distribuito dalla piattaforma YouCanPrint, disponibile sia in versione cartacea che digitale. Gli abbiamo rivolto alcune domande sugli aspetti tecnici del suo lavoro ma abbiamo anche voluto affrontare il discorso delle conseguenze, spesso spiacevoli, della professione di reporter.

Essere un giornalista significa raccontare i fatti, essere un giornalista d’inchiesta invece ha un significato molto diverso. Ricerca, analisi, descrizione sono i passaggi perentori da seguire per condurre un’inchiesta. A tutti gli effetti il tuo lavoro somiglia più a quello investigativo che giornalistico in senso stretto.

Sì, fare inchiesta significa non accontentarsi della verità superficiale, delle prime dichiarazioni e documenti che ti arrivano sul tavolo.

Non metterei però dei paletti rigidi tra l’inchiesta e le altre categorie. Non solo il cronista di giudiziaria e il nerista, ma anche il notista politico e il responsabile della cultura di un quotidiano o un periodico possono sviluppare vere e proprie inchieste, anche se il tempo e lo spazio sono sempre più circoscritti. Ognuno di noi si evolve sulle basi del proprio background, delle nuove sperimentazioni e dei principi di deontologia e onestà intellettuale che dovrebbe preservare.

A volte il giornalista d’inchiesta svolge un lavoro parallelo e di supporto all’apparato investigativo, può capitare che per intuizione, capacità logico-deduttiva, rapporti stretti con gli inquirenti, scopra materiale scottante di rilievo penale. Ma bisogna sempre fare molta attenzione, dopo le prime risultanze occorre procedere al fact checking: incrociare i dati acquisiti con nuovi documenti e testimonianze per verificare i riscontri. È fondamentale non lasciarsi influenzare dalle tesi che si sono costruite, rimettendo qualora fosse necessario tutto in discussione con il fine della sola ricerca della verità, che significa sviluppare l’inchiesta giornalistica nella massima correttezza ed equidistanza lasciando parlare i fatti.

Cosa ti ha spinto nella direzione del giornalismo d’inchiesta?

Non saprei fornire un’unica motivazione, le nostre scelte sono il risultato di predisposizioni naturali, insegnamenti che riceviamo in famiglia, a scuola, consigli di colleghi e amici, avvenimenti più o meno imprevedibili che troviamo lungo il cammino. A volte prima, a volte poi, scopriamo qual è la nostra passione e credo sia giusto, malgrado tutte le difficoltà, cercare di farla coincidere con il proprio mestiere.

Ricordo un episodio avvenuto al liceo: il professore di Lettere, Alberto Ricchetti, motivò il doppio voto che mi aveva dato, 4 e 10, apparentemente incomprensibile, scrivendo: ‘Sei fuori tema oppure, se è come penso, sei un giornalista’. Nel compito avevo parlato della guerra civile in Yugoslavia, non accontentandomi di attingere dalle cronache embedded, scrivendo dunque che in ogni conflitto esistono interessi economici e geopolitici diversi e che la pulizia etnica non era prerogativa soltanto dei miliziani del presidente Milosevic ma anche dei fascisti croati Ustascia contro i cittadini serbi residenti nella regione della Krajina.

In quegli anni, come tanti coetanei, scoprii la passione civile nel biennio di Mani Pulite, la rabbia impotente per le stragi di Capaci e via D’Amelio.

La molla decisiva però, quella che mi fece “sentire” le parole del maestro di liceo, fu la visione casuale de Il muro di gomma di Marco Risi, il film sull’inchiesta giornalistica che cercò di far luce sulla strage di Ustica e i depistaggi di Stato. Di lì a poco iniziai a collaborare per la Gazzetta di Modena e in particolare di Reggio Emilia, dove la curiosità e la pratica sul campo furono alimentate dagli insegnamenti della mia caposervizio Luisa Gabbi.

Quali requisiti tecnici deve contenere un articolo o un reportage d’inchiesta?

Le informazioni fondamentali che devono essere fornite al lettore, possibilmente già in forma sintetica nell’attacco di ogni pezzo, rispondono alla regola di stampo anglosassone delle cinque W: who, what, where, when, why. Una volta spiegati gli elementi essenziali, l’approfondimento di una particolare circostanza o aspetto è naturalmente soggettivo.

Cito un esempio che vale per il reportage del videomaker come per l’estensore di un articolo di cronaca. Il 26 luglio 2006 la mia regione si risvegliò bruscamente dopo un attentato di ‘ndrangheta che distrusse l’Agenzia delle Entrate di Sassuolo. L’Emilia credeva di avere gli anticorpi adatti a respingere le infiltrazioni mafiose, invece presenti come in ogni zona dove il benessere diffuso è occasione di riciclaggio per le cosche, che stringono rapporti con pezzi di economia e politica. Allora lavoravo per Modena Radiocity e la mattina appresi la notizia durante il consueto “giro di cronaca” che consisteva, anche in radio come nei giornali, nel chiamare numeri concordati di vigili del Fuoco, polizia e carabinieri per sapere cos’era accaduto nella notte. Si trattò di un attacco allo Stato in controtendenza rispetto alla strategia della sommersione tipica delle mafie al Centro-Nord. Per fortuna non ci furono vittime ma quando arrivai sul posto vidi uno scenario di guerra, gli uffici erano stati sventrati con un chilo di pentrite, esplosivo cinque volte più potente del tritolo. L’Agenzia era stata punita dalla cosca degli Arena perché aveva scoperto una frode fiscale che nascondeva un giro di riciclaggio tra Svizzera, motor valley e il paradiso fiscale delle Isole Vergini. Tra le macerie fumanti intervistai il direttore percependo il suo terrore. La mattina stessa il boss crotonese l’aveva chiamato per dirsi “a disposizione per ricomprare macchinari”. Quel racconto passò quasi in diretta sulle frequenze della radio, nei mesi seguenti continuai a occuparmi del caso raccogliendo nuove testimonianze, recuperando documenti, scavando a ritroso su flussi di denaro e legami tra i soggetti coinvolti. I collegamenti mi hanno condotto sino a Roma, all’inchiesta del pm della Dda capitolina Giancarlo Capaldo sul riciclaggio di Telekom-Sparkle che vide ancora protagonisti gli affiliati alla cosca Arena, alcuni dei quali si erano occupati di far eleggere il senatore Nicola di Girolamo del Pdl tramite brogli organizzati presso emigrati in Germania. Già, proprio la nazione della strage di Duisburg, dove le penetrazioni della ‘ndrangheta sono state raccontate praticamente in solitudine dalla massima esperta di mafie tedesca, la giornalista e scrittrice Petra Reski.

È fuor di dubbio un mestiere complesso il tuo, spesso difficile, con dei risvolti duri come le implicazioni giudiziarie che possono seguire a un’inchiesta. Come vivi questi momenti?

A quale caso in particolare di riferisci?

Sicuramente quello più noto è il “Sacco di Serramazzoni, primo caso di rapporti tra ‘Ndrangheta e Pd di governo al Nord” che tu raccontasti nel 2011 e che fu poi oggetto della trasmissione Report. Per la partecipazione al programma di Rai3 una coop ti ha chiesto un risarcimento danni di circa 1 milione di euro, una causa definita “intimidatoria” da Ossigeno, Articolo 21, sindacato e Ordine dei giornalisti…

Tutti quanti, compresa la conduttrice Milena Gabanelli, abbiamo rifiutato la proposta di mediazione pre-processuale prevista dalla legge perché riteniamo di aver esposto in modo continente fatti documentati e di rilievo pubblico. La sola differenza, a parte il fatto che il mio breve intervento ha riguardato la lettura di visure camerali e la conferma dell’esistenza di un procedimento penale, è che la Rai tutela i propri giornalisti mentre il giornalista freelance o precario che viene colpito nel “limbo” di un passaggio televisivo deve arrangiarsi da solo. Per fortuna ho trovato un avvocato di grandi qualità professionali e umane come Fausto Gianelli, responsabile del Forum Giuristi democratici e già legale dei ragazzi pestati dalla polizia durante il G8 di Genova. Gianelli si era subito accorto che si trattava di una causa mirata a imbavagliare la stampa scomoda con fini pedagogici: colpire il giornalista che osa toccare certi sepolcri imbiancati per educarne altri cento che eventualmente volessero fare altrettanto.

Sei stato chiamato in giudizio per altre cause simili? Come affronti questo aspetto del tuo lavoro?

Di querele in vent’anni ne ho ricevute diverse ma sono state tutte archiviate o definite in udienza preliminare con sentenza di non luogo a procedere. Le ho sempre affrontate serenamente, nel merito, perché consapevole di aver lavorato in modo corretto e per quanto riguarda l’aspetto economico l’editore, come da prassi, assicurava la tutela legale.

Ora invece mi trovo costretto a pagare un avvocato per un processo ‘kafkiano’. Si tratta di una querela per diffamazione per un articolo pubblicato nel 2010 su «L’Informazione» di Modena relativo a dissidi tra un ufficiale dell’Accademia militare e l’ex moglie. La querela è stata riesumata proprio appena dopo il fallimento del giornale, nel luglio 2013, ed è stata sospinta da mani sapienti fino al processo malgrado l’articoletto in questione fosse senza firma e senza sigla. Dunque non solo non vi è uno straccio d’indizio sulla paternità ma, ancora più assurdo, il dibattimento che dovrò sostenere riguarda un articolo in cui non sono identificabili i protagonisti, ma proprio nel modo più assoluto: non ci sono i nomi, le iniziali, le età, le residenze del co-querelato, l’ufficiale, e della querelante, l’ex moglie, di cui non si conosce neppure il lavoro e la nazionalità. Ho solo saputo, a margine dell’udienza preliminare, che si tratta di una persona con precedenti penali. Dunque: o siamo in presenza dell’invenzione di un nuovo reato e non ci hanno avvertito, la “diffamazione senza il diffamato”, o evidentemente qualcuno ha del tempo da perdere e del denaro da farmi perdere.

Quale consiglio senti di dare a chi vuole intraprendere questo mestiere?

Il consiglio è sempre di provarci. Purtroppo il mercato è saturo e soffre come gli altri settori della crisi economica e della destrutturazione dei diritti del lavoro. Ma nonostante tutti i problemi, le minacce, le cause, gli ostacoli professionali che colpiscono i giornalisti veri, sono sempre più persuaso che si debbano seguire le proprie passioni e ciò che si sente giusto.

So che non ti piace parlare di quello a cui stai lavorando e allora per concludere ti chiedo se mai ti sei pentito delle scelte fatte in passato…

Errori ne ho fatti certamente ma pentito no, rifarei lo stesso percorso.

Intervista pubblicata sul numero 41 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte

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