Un libro che spicchi per originalità e una scrittura creata per “conoscere”. Questi gli ingredienti base dell’opera di Giovanni Nebuloni, fondatore della corrente letteraria Fact-Finding Writing che abbiamo intervistato incuriositi dal nuovo romanzo, Inferno a Milano – La nota nella nota (13Lab Editore, 2016) e dal Manifesto programmatico del suo “movimento letterario”.

Inferno a Milano – La nota nella nota è stato indicato come un “action-thriller, ma con parecchie peculiarità”. Quali sono le principali particolarità del suo libro?

Le peculiarità in generale di Inferno a Milano – La nota nella nota, il mio nono romanzo pubblicato, sono le stesse delle mie altre opere.

E cioè, nell’epoca della sempre più facile riproducibilità tecnica di una qualsiasi opera d’arte, si pensi a com’è semplice ridipingere La Gioconda o ricalcare un best seller, forse il più importante fattore di distinzione e qualifica di un romanzo è la novità della trama.

Personalmente, privilegio la trama, ciò che sta sotto l’abito, non il vestito. Uno stile si può apprendere, ma la fantasia non si può acquistare. Le mie storie sono assolutamente originali, esprimono qualcosa di ancora non detto. Il messaggio vorrebbe non essere mai banale ed è della più ampia portata possibile, è “universale”. Nelle narrazioni che offro c’è il respiro internazionale proprio del villaggio globale. Non parlo della trita, desueta condizione della donna o dell’uomo, di un serial killer variamente mascherato, di uno stucchevole rapporto fra persone, del drago e delle ninfe od ovvietà simili.

Nello specifico, in Inferno a Milano – La nota nella nota, il più grande possidente italiano viene assassinato a Milano assieme ai figli e a cinque guardie del corpo. I sicari del commando appartengono a una confraternita russa e dileguandosi dal luogo dell’eccidio – il palazzo d’epoca a cui hanno appiccato un devastante incendio per distruggere le tracce del loro intervento –, s’imbattono in una volante della polizia, sopraggiunta per constatare gli effetti del rogo. Ne colpiscono a morte l’agente alla guida e per circostanze a lei favorevoli, risparmiano la vita a Livia, la collega sul sedile a fianco. Un ispettore non ancora trentenne, la protagonista del romanzo, che sta svolgendo indagini inerenti a misteriose e molto consistenti compravendite immobiliari e di società, in Lombardia e a Milano in particolare. Seguono immediatamente la strana funzione d’uno smartphone che – senza intervento alcuno da parte dell’utente – chiama se stesso (vedi il sottotitolo “La nota nella nota”), l’omicidio di un monsignore cattolico in una chiesa ortodossa, l’arrivo a Milano del ministro per l’economia della Federazione Russa…

Altra sfumatura di tutti i miei romanzi è che il protagonista, il personaggio principale, è sempre una donna.

Tutti i suoi scritti seguono l’ordine di idee della Fact-Finding Writing, la corrente letteraria da lei fondata. Di cosa si tratta esattamente?

Con l’umile spirito dell’artista artigiano, cioè di una persona che ama il proprio lavoro e che opera per realizzare se stesso e offrire qualcosa agli altri, l’obiettivo della Fact-Finding Writing – scrittura conoscitiva o scrivere per conoscere, mediante la narrazione – è di conoscere e non smettere di conoscere.

Non conosco altre correnti letterarie attualmente vive non solo in Italia e scopo della Fact-Finding Writing, o FFW, è fondamentalmente la trasposizione e la trasformazione dell’impulso naturale, congenito nell’uomo, che tende alla conoscenza, mediante la parola scritta, di solito più ponderata dell’espressione soltanto.

Ciò che ci differenzia da qualsiasi altra forma di vita su questa terra è la parola scritta. Siamo diventati ciò che siamo, ci siamo evoluti grazie alla scrittura e non vedo perché grazie alla scrittura non si debba conoscere ulteriormente. La letteratura può comprendere qualsiasi altra attività mentale, dalla scienza alle religioni. Il contrario non è vero e perché, tramite la letteratura, non cercare di avvicinarsi al segreto dell’universo? C’è forse qualche disciplina o credo che possa asserire, che sia in grado di provare la determinata verità di una teoria scientifica o l’esistenza, reale e razionalmente dimostrabile, di un Dio?

A proposito del nome, mi domandai come chiamare questo indirizzo culturale e ricordai che “Fact-Finding Writing” è un’espressione utilizzata nel linguaggio forense americano, per indicare l’indagine sui fatti durante un procedimento giudiziario, mentre nella comunicazione è la scernita per importanza delle notizie. Decisi di prendere tale espressione e rivolgerla all’indagine generale e universale che solo la letteratura può svolgere.

E poi l’inglese sta diventando sempre più la lingua universale e non c’è un italiano che non mastichi, almeno un poco, la lingua di Shakespeare.

Il logo della FFW non poteva essere che la fotografia della Via Lattea, la nostra galassia… perché una fotografia dell’intero universo non esiste ancora.

La Fact-Finding Writing o FFW “è anche la soddisfazione dell’impulso naturale, congenito nell’uomo, che tende alla conoscenza e vuole interpretare il mondo, svelare la verità”. Se osserva il mondo editoriale italiano e internazionale con lo sguardo della FFW lei cosa vede in realtà?

La FFW osserva con preoccupazione il perdurante marketing e l’avvilente manierismo d’un establishment editoriale nazionale e worldwide che tende al consolidamento di determinate strutture per guadagnare più dell’anno fiscale precedente. L’FFW guarda dall’alto questo immobilismo, perché quantomeno cerca di andare oltre uno statu-quo che qualcuno desidererebbe si perpetuasse in eterno e certo non a vantaggio del merito.

Il Manifesto della FFW parla di “scrittura conoscitiva o scrivere per conoscere”. Una “conoscenza” che riguarda l’autore, il lettore o entrambi?

Senza dubbio, ambedue. La letteratura – tutta l’arte – è un’entità bilaterale. Non starebbe in piedi senza il lettore, il fruitore, come, né più né meno, non potrebbe vivere senza lo scrittore, il creatore. Io cerco di parlare al lettore, e vorrei che il lettore crescesse con me, che la mia scrittura fosse fonte di stimoli per il lettore. FFW vorrebbe essere anche entertainment, ma non solo ed FFW si potrebbe tradurre anche come “leggere per conoscere”.

Nel suo percorso di scrittura lei sembra voler avvicinare il linguaggio letterario a quello cinematografico. La ritiene una scelta utile per la scrittura o per la comprensione da parte del lettore?

A mio avviso, è imprescindibile, è l’unica scelta possibile per il romanziere del nostro secolo. Altrimenti, c’è il grosso rischio che la lettura delle parole venga fagocitata dalla visione delle immagini. Oggigiorno si vive più di immagini che di parole. Il pericolo è che leggere diventi una noia e che presto la lettura venga abbandonata.

Conosco vita, morte e miracoli dei miei personaggi. Devono bastare poche righe per descrivere il vissuto di un personaggio. I personaggi non vengono delineati minuziosamente quando non è necessario farlo. Non devo tediare e depistare il lettore e la mia scrittura è il risultato di azioni di sintesi. Le narrazioni sono scorrevolissime, non c’è presenza di time-out o tempi, pesi morti. Un mio motto può essere “Annulliamo la noia.”

“Visto” che siamo nell’era delle immagini –assimilabili a uno stormo di turbinanti uccelli o a un nugolo di moscerini – il mio stile tiene d’occhio il terzo occhio, il cinema, più che il teatro. “Nell’ottica” stilistica, mio obiettivo è avvicinare il linguaggio cinematografico al linguaggio letterario. Voglio che per il lettore la pagina diventi “una videata da leggere” – non solo mediante dispositivi digitali –, uno “schermo di carta” che però si possa piegare fisicamente. I personaggi vengono “ripresi” come da una telecamera, con la quale ci si addentra però anche nell’interiorità, dentro la psiche. Ecco l’incipit di Inferno a Milano – La nota nella nota:

Nel leggero completo di velluto grigio, l’avvocato Aldo Pesenti toccò i gemelli d’oro alla camicia di seta. Sollevò al volto le mani curate. Le abbassò, diede un’occhiata al soffitto a cassettoni e si rimirò in una specchiera. Contemplò il giovanile volto affilato, il fisico asciutto e slanciato e disse che non sempre l’evento più inverosimile era anche il meno probabile. Aggiunse che era inutile formulare più ipotesi del necessario e affermò che, purtroppo, dovevano scartare l’intenzione di avvelenare poco a poco il padre.”

Nei miei personaggi, tendenzialmente m’immedesimo come può fare un attore alla Strasberg o Stanislavskij. Come in un film, i miei personaggi si descrivono anche attraverso le loro parole. I dialoghi, anche privi di didascalie, vorrebbero far sì che la pagina su carta o a video venga percepita come “una visione continua” cioè sempre come in un film.

Quali sono gli autori o i libri che sono stati più significativi per il percorso FFW?

Edgar Allan Poe in cima a tutti.

Ma dovrei fare presente prima che la FFW non è un’invenzione, bensì una scoperta. Ha formalizzato quanto era presente in diversi Autori in precedenza. La FFW è già stata praticata a iniziare da Omero, che con i versi organizzava le conoscenze del suo tempo per cercare di trascenderle: cosa sono i miti se non un’interpretazione del mondo, una ricerca della verità? La Divina Commedia di Dante Alighieri è un esempio sublime di un cercare ansioso di lasciarsi alle spalle le apparenze. Con ogni sua opera, William Shakespeare si è sforzato di allargare e approfondire gli orizzonti. Giacomo Leopardi con composizioni quali L’infinito ha sfiorato la teoria della relatività generale. Giulio Verne ha precorso la scienza e la tecnica con i suoi noti romanzi di fantascienza, o “romanzi della scienza” come venivano definiti ai suoi tempi. Edgar Allan Poe, soprattutto, appunto, e poi Fëdor Michajlovič Dostoevskij, Lawrence Durrell con I quartetti di Alessandria e Il quintetto di Avignone, Michael Crichton… Tutti questi, senza che l’avessero individuato e tantomeno delineato, inconsapevolmente scrivevano per conoscere.

Ho detto di Edgar Allan Poe, ecco, per la FFW Poe è stato “La Musa”.

Il Maestro statunitense considerava Eureka, un poema in prosa: Saggio sull’universo materiale e spirituale del lontano 1848, il suo lavoro più importante e con quella composizione di 40.000 parole circa, volle discutere delle relazioni dell’uomo con Dio e con l’universo. Si disse persuaso che la nascita dell’universo fosse dovuta alla suddivisione in frammenti di una “unità” primordiale, una particella primitiva che si frazionava in un “flash,” per l’azione di una forza ripulsiva. La “unità”, o lo stato di unità, in termini di relatività generale (Albert Einstein) si può assumere ora come una “singolarità gravitazionale.” Cioè il punto dello spazio-tempo in cui il campo gravitazionale tende ad avere un valore infinito, e da cui si è avuto il Big Bang. Mentre il “flash,” o un’esplosione, sarebbe appunto lo stesso Big Bang. Quando la forza ripulsiva si esaurì, gli atomi e i componenti sub atomici si attirarono e diedero vita alle stelle, alle nebulose e alle galassie.

In Eureka, Poe affrontò inoltre il paradosso dell’astronomo Heinrich Wilhelm Olbers (1758-1840), il quale si era domandato: “Come è possibile che il cielo notturno sia buio nonostante l’infinità di stelle presenti nell’universo?” Poe anticipò di oltre cinquanta anni la risposta corretta: “Se la successione delle stelle fosse infinita, lo sfondo del cielo ci presenterebbe una luminosità uniforme come quella esposta dalla Galassia – la Via Lattea –, poiché non ci sarebbe assolutamente neanche un punto in tutto questo sfondo in cui non esisterebbe una stella. L’unico modo per comprendere, in una tale condizione, i vuoti che il nostro telescopio individua in innumerevoli direzioni, sarebbe quello di supporre che la distanza dello sfondo invisibile sia così immensa che mai nessun raggio abbia finora potuto giungere fino a noi”. Con queste parole, Poe affermò cioè che l’universo non è eterno, non è infinito, che i corpi stellari si evolvono e che la luce delle stelle più lontane non ha ancora avuto il tempo di raggiungere la Terra. Soltanto nel 1901, Lord William Thomson, il barone Kelvin (1824-1907), riconobbe l’esattezza dell’illuminazione di Poe, spiegando che “per avere un cielo continuamente brillante come la superficie del Sole, sarebbe necessario considerare tutta la luminosità stellare fino una distanza talmente elevata da non poter essere stata percorsa dalla luce, che viaggia a una velocità finita.”

Di là dalla specificità di queste asserzioni, verità e supposizioni, ciò che è costitutivo per la FFW è che Poe, non un intellettuale o un filosofo, ma un comune narratore, un artista, ancorché geniale, certo, con un “Poema in prosa”, nel 1848, si poneva al di sopra di scienziati e ne precorreva scoperte del XX secolo.

Altri con l’umiltà di “artista artigiano” avrebbero potuto ricalcarne le orme, cercare di riprendere la posizione nel mondo e la visione del mondo derivante da Eureka, e indicare la centralità della scrittura nell’arduo cammino verso la conoscenza.

Così nacque la “Fact-Finding Writing”.

Ritornando al libro. Inferno a Milano – La nota nella nota è stato indicato da Massimo Ferlinghetti come un “connubio di 007 e filosofia, investigazioni poliziesche e speculative fiction”. Lei definirebbe il suo romanzo più simile a una scatola cinese o a una matrioska?

Una matrioska, è chiaro. Non si parla d’una confraternita russa?

Giovanni Nebuloni: Vive e lavora a Milano. È traduttore da varie lingue, autori di numerosi romanzi e fondatore della corrente letteraria Fact-Finding Writing.

© 2016, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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