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Uscito in prima edizione con la casa editrice Piemme il 23 gennaio 2018, a ridosso della Giornata della Memoria, Il bambino del treno di Paolo Casadio non è un libro sui peccati o sulle colpe bensì un resoconto sui fatti, sulle testimonianze, sui ricordi che devono anche essere un monito. Non è un libro, l’ennesimo, sulla deportazione degli ebrei ma un’opera letteraria sull’umanità e anche, purtroppo, sulla sovente disumanità degli stessi umani.

Il casellante Giovanni Tini è tra i vincitori del concorso da capostazione, dopo essersi finalmente iscritto al PNF. Un’adesione tardiva, provocata più dal desiderio di migliorare lo stipendio che di condividere ideali. Ma l’avanzamento ottenuto ha il sapore della beffa, come l’uomo comprende nell’istante in cui giunge alla stazione di Fornello, nel giugno 1935, insieme alla moglie incinta e a un cane d’incerta razza; perché attorno ai binari e all’edificio che sarà biglietteria e casa non c’è nulla. Mulattiere, montagne, torrenti, castagneti e rari edifici di arenaria sperduti in quella valle appenninica: questo è ciò che il destino ha in serbo per lui. Tre mesi più tardi, in quella stessa stazione, nasce Romeo, l’unico figlio di Giovanni e Lucia, e quel luogo che ai coniugi Tini pareva così sperduto e solitario si riempie di vita. Romeo cresce così, gli orari scanditi dai radi passaggi dei convogli, i ritmi immutabili delle stagioni, i giochi con il cane Pipito, l’antica lentezza di un paese che il mondo e le nuove leggi che lo governano sembrano aver dimenticato. Una sera del dicembre 1943, però, tutto cambia, e la vita che Giovanni, Lucia e Romeo hanno conosciuto e amato viene spazzata via. Quando un convoglio diverso dagli altri cancella l’isolamento. Trasporta uomini, donne, bambini, ed è diretto in Germania. Per Giovanni è lo scontro con le scelte che ha fatto, forse con troppa leggerezza, le cui conseguenze non ha mai voluto guardare da vicino. Per Romeo è l’incontro con una realtà di cui non è in grado di concepire l’esistenza. Per entrambi, quell’unico treno tra i molti che hanno visto passare segnerà un punto di non ritorno.

La scrittura di Casadio è molto poetica, melodiosa, risuona in chi legge anche a voce bassa e ricorda quasi una lieve musica di sottofondo alle scene di vita di Giovannino, di sua moglie Lucia e del loro bambino Romeo.
Una scrittura che riesce a strappare anche qualche sorriso al lettore. Come per l’apprendimento vorace del piccolo Romeo dalle pagine del «Carlino», che riportano enfaticamente quanto sta accadendo in Europa alla vigilia dell’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale. Un bambino alla soglia dell’età scolare che si rivolge così al padre e agli altri commensali: «stasera sgavazziamo. Mangiamo la carcassa del coniglio che ci fa orgasmo».
Uno stile melodioso quindi ma che a tratti appare proprio canzonatorio. Come quando sembra voler farsi burla degli stessi pensieri di Giovannino, il quale tenta di nascondere finanche a se stesso i reali motivi che lo hanno spinto ad accettare quel trasferimento che suona troppo come un esilio, un avanzamento di carriera che sembra quasi una punizione per il ritardo all’adesione al partito. Una punizione che può rappresentare la salvezza, dal medesimo partito. Ma poi bisogna fare i conti con il destino…

«E il capostazione ebbe la percezione nuova che la valle del Muccione stesse divenendo una specie d’ospizio per sconfitti, un luogo separato dal mondo dove si condensavano i relitti umani, e il pensiero gli regalò attimi d’autentica, inattesa commozione.»

In chi legge si forma l’immagine di un microcosmo ricreato da Giovannino dove i “relitti umani” in realtà sono coloro che si sentono ‘diversi dentro’ come lui stesso del resto, come sua moglie, anche se non se lo sono mai detto, e come il loro bambino. Un po’ consapevolmente e un po’ no ha accettato questo esilio volontario lontano dai centri del regime nella speranza di esserne appunto quanto più isolato possibile. Una lontananza che si evidenzia anche nello scarso interesse mostrato verso i diplomi, le medaglie, i riconoscimenti, i premi e ogni genere di cose intraprese dal regime per lodare e premiare i cittadini che si fossero distinti, ma in realtà poste in essere per alimentare il forte attaccamento alla patria, al senso del dovere e alle regole, necessario per avere una sudditanza omologata alla perfezione.
E mette una gran tristezza notare l’impiego ripetuto di questi “contentini” anche da parte di quei governi e quelle istituzioni che si professano altro, nate proprio come antitetiche al fascismo e ai regimi dittatoriali in generale.

«I privilegi fanno le differenze, e le differenze costruiscono le distanze.»

Casadio ripropone ne Il ragazzo del treno anche l’immagine ormai lontana di tanti italiani che «s’imbarcavano per l’impero», ovvero cercavano sollievo alle sofferenze, agli stenti e alla fame chiedendo di poter lasciare la patria in cambio di un appezzamento e una nuova vita in Etiopia. Ecco forse la vera colonizzazione italiana. Ed ecco ancora come la Storia ritorna e si ripete nelle tante famiglie africane, anche etiopi, che compiono il viaggio inverso ma motivate dalle medesime ragioni.

Il libro di Paolo Casadio non è un testo proclama contro il fascismo, è il racconto di vita delle persone che subiscono, loro malgrado, le ripercussioni dei regimi dittatoriali, che lasciano poco o per nulla spazio alla libertà, che ognuno dovrebbe avere, di scegliere.
Ed è così che la storia di Giovannino, Lucia e Romeo potrebbe essere quello che è, ovvero il racconto di una famiglia italiana che tardivamente ha aderito al partito, oppure altro. La narrazione delle vicende di una qualsiasi famiglia in una qualunque località del mondo, vittima innocente e passiva di scelte non proprie, di decisioni insindacabili, di politiche inamovibili, di una società nella quale il bisogno (di nutrirsi, di dare sostentamento alla propria famiglia, …) “costringe” al compromesso e alla rinuncia dei propri ideali. All’annientamento della persona in favore della crescita del popolo, all’interno del quale non c’è spazio per l’estro e per il diverso, additati seduta stante come una minaccia. Perché il diverso può creare un diversivo, rompere l’equilibrio e mostrare a tutti un qualcosa che invece deve essere occultato. La crescita nella diversità. Il progresso e l’evoluzione nella cultura e nella conoscenza.

«Divieto di vivere, ecco il fine, l’obiettivo» dei prevaricatori e i genitori, a qualunque parte o fazione appartengano, si ritrovano tutti a compiere i medesimi gesti protettivi rivolti ai propri figli, nel momento in cui per loro si teme. Ed è proprio in questi gesti, come in quelli privi di pregiudizio dei bambini, che bisognerebbe cercare il seme dell’uguaglianza e farlo germogliare ovunque e per chiunque.
Riesce Casadio, ne Il bambino del treno, a far trapelare profonde riflessioni come questa senza il bisogno di manifestarle apertamente. Sono i piccoli gesti, egregiamente riprodotti dalla scrittura, a parlare per loro.

Si ha quasi l’impressione, leggendo il romanzo di Casadio, di avere tra le mani o davanti agli occhi un libro d’altri tempi, un racconto nel quale la storia e i suoi protagonisti viaggiano a rallentatore, o meglio a un ritmo più lento di quello che la frenesia odierna impone. Un tempo in cui un semplice gesto, anche solo uno sguardo era importante. E diventava una svolta oppure un ricordo.

Il bambino del treno di Paolo Casadio è un libro che fa commuovere il lettore. Dopo avergli strappato diversi sorrisi lo aspetta al varco con un finale che umanamente non può lasciare indifferenti. Ma ciò che maggiormente colpisce è il senso stesso del libro, che in parte traspare nel testo e per il resto è ben spiegato dallo stesso autore nella nota conclusiva che precede i ringraziamenti. E non è affatto scontato. E questo forse è il motivo per cui il libro non può che essere “giudicato” positivamente anche da chi magari si era intestardito nel volerlo per forza considerare l’ennesimo racconto sui deportati ebrei ad Auschwitz. C’è anche questo nel romanzo di Casadio ma unitamente a molto altro ancora.

È un intreccio, questo forse il termine più adatto a riassumere l’essenza del libro. Un intreccio di vite, di esistenze, di ricordi… di destini. Un libro da leggere, valido e necessario.

Paolo Casadio: Nato a Ravenna nel 1955, s’interessa da anni alla lingua, ai racconti e alla storia della sua terra. Esordisce come coautore con il romanzo Alan Sagrot (Il Maestrale, 2012). La quarta estate, pubblicata da Piemme, ambientato a Marina di Ravenna nel 1943, il suo primo romanzo come autore singolo, ha riscosso grande successo di critica ed è stato insignito di numerosi premi: premio “Ravenna e le sue pagine 2015”, premio “Il Delfino – Marina di Pisa 2015”, premio letterario internazionale “Montefiore 2015”, premio speciale opera prima “Cinque Terre-Golfo dei Poeti 2016”, premio della giuria al concorso internazionale “Città di Pontremoli 2016”, premio speciale “Cattolica 2016”, premio letterario “Massarosa” per opera prima, Contropremio “Carver” 2017, Premio “Francesco Serantini” 2017.


Source: Si ringrazia Fiammetta Biancatelli della Walkabout Literary Agency per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Copyright prima immagine: URBEX – La stazione di Fornello; seconda immagine: EVENTBRITE – PhotoWalk alla scoperta della vecchia miniera di Fornello.


Articolo originale qui


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