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La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Analisi dei nuovi modi di fare editoria. Pubblicazioni a pagamento, auto-pubblicazioni, scrittura social. Nuova e vecchia editoria a confronto.

 

 

Sul sito dell’Associazione Italiana Editori (AIE) si possono facilmente trovare tutte le indicazioni sulle procedure e sulle regole da seguire per diventare un editore. Viene segnalato inoltre quanto complesso sia il cumulo di norme che regolano l’esercizio dell’attività editoriale e sottolineati gli obblighi che ciascuno deve rispettare nel corso della propria attività.
Gli editori sono, in buona sostanza, degli imprenditori che commercializzano libri o periodici. Imprenditori particolari però, perché nelle loro mani passano la cultura, l’informazione, l’educazione.
Oltre l’aspetto commerciale quindi non va mai dimenticato il carattere peculiare di queste aziende chiamate case editrici.

Nell’anno 2017 sono state quasi 5mila le case editrici che hanno pubblicato almeno un titolo, ovvero un’opera letteraria. Eppure tutte queste imprese sembrano non bastare o non soddisfare le richieste dell’utenza. Di chi vuol pubblicare non di chi vuol leggere, si badi bene. Ecco allora spiegato uno dei motivi del sorgere di sempre nuovi modi di fare editoria.

Ma cosa si intende esattamente con nuovi modi di fare editoria? È bene partire da una definizione di quello “vecchio”.

In un’intervista di Ada Gigli Marchetti pubblicata sul Bollettino di storia dell’editoria in Italia, Franco Angeli sottolineava che la sua è nata come una «impresa familiare che trae finanziamenti dal prodotto che commercializza. L’editoria basa la sua prosperità sul prodotto che riesce a diffondere. E si tratta di un prodotto che paga a posteriori con i diritti d’autore». L’editoria quindi, nella visione che aveva Franco Angeli, non ha bisogno di un grosso investimento di capitali iniziale, se non per quanto riguarda le librerie, tuttavia «ha un solo vero problema, quello di azzeccare i titoli giusti e di mettere insieme un catalogo adeguato».

Quello che conta insomma è la scelta dei titoli giusti e la formazione di un catalogo adeguato. E come si fa? Lo si impara con la formazione e la pratica. Il rovescio della medaglia vede una sempre più massiccia diffusione di siti, piattaforme, start up, società, aziende e via discorrendo che sembrano voler mescolare le carte e anche le regole di questo “gioco” chiamato editoria.

Dapprima ci hanno provato quelli che si fanno chiamare egualmente editori, lasciando sottintendere di esserlo, i quali però non essendo in grado di effettuare una accurata e lungimirante scelta di titoli e, di conseguenza, di un valido catalogo che è, in buona sostanza, il biglietto da visita e al contempo la credenziale maggiore per una casa editrice, accettano di pubblicare chiunque e in qualunque momento. A volte senza neanche stare troppo a sindacare sulla forma e sul contenuto dei titoli pubblicati. Una chimera per scrittori e aspiranti tali? In genere sì. Il trucco c’è e viene prontamente svelato al momento della presentazione del conto. Agli “editori a pagamento” non andrebbe permesso l’uso di detto appellativo. Sono tipografi o stampatori, insomma operatori del settore editoriale ma non certo editori.

Serviva davvero poco affinché qualcuno iniziasse a pensare che invece di pagare un presunto tale editore che comunque non garantiva adeguati editing, promozione e diffusione, si poteva anche eliminare del tutto questa superflua figura di intermediario e pubblicarsi da soli i propri libri. In tipografie o stamperie fisiche o digitali. Ecco allora che nasce il self publishing. Il punto però è che, se non si ha accesso alla distribuzione, se non si ha un grande numero di lettori, se non ci si affida comunque a qualche professionista della promozione, il risultato che si ottiene è più o meno lo stesso della pubblicazione a pagamento. In più va detto che sono davvero pochi i titoli auto-pubblicati che meritano o meriterebbero un’adeguata pubblicazione editoriale. Lo stesso vale per le pubblicazioni con i cosiddetti editori a pagamento.

Nel 2016 gli editori italiani hanno pubblicato 61.188 titoli, per un totale di copie stampate di 128.825. A questi numeri vanno aggiunti i titoli pubblicati con editori a pagamento e quelli auto-pubblicati. E vanno aggiunti ancora tutti gli e-book. Sempre nel 2016 la quota di lettori italiani è risultata essere ancora in calo. Rispetto al totale di potenziali lettori (ovvero tutti i cittadini al disopra dei sei anni) solo il 40.5% ha dichiarato di aver letto almeno un libro in un anno. Presumibilmente tra essi ci sono anche molti degli aspiranti scrittori. Una situazione a dir poco paradossale.

Considerando la mole degli aspiranti scrittori in Italia il numero di lettori dovrebbe essere altissimo, e si parla di quelli definiti forti, che hanno letto molto più di un solo libro in un anno. Non si può davvero pensare e per lungo tempo di poter scrivere libri senza essere un lettore non forte ma fortissimo. Anche e per certi versi soprattutto per coloro i quali si professano sostenitori del progresso e dell’innovazione, in campo editoriale, che osteggiano il predominio degli arcaici colossi editoriali, che criticano il lavoro dei piccoli e medi editori, che non condividono la missione dell’editoria indipendente. Di coloro insomma che sembrano fare affidamento esclusivo sui nuovi e innovativi mezzi di socializzazione e condivisione. Essere innovativi, stare al passo con i tempi, ambire a una rivoluzione culturale non preclude affatto le competenze e le conoscenze che permangono e rimangono elemento necessario e imprescindibile.

Le piattaforme di social publishing consentono di scrivere e condividere i propri scritti, perlopiù brevi storie. Una sorta di blog collettivi cui partecipano coloro che scrivono e coloro che leggono, o dovrebbero leggere. Affinché il tutto funzioni, si afferma essere molto di aiuto la lunghezza breve delle storie. Così, senza troppo impegno, chiunque abbia cinque minuti liberi li può passare leggendo la short story. Che poi, alla fin fine, è quanto accade nei social network per così dire “tradizionali” allorquando non si condividono o non si leggono articoli e link vari provenienti da altri siti ma quelli scritti sulla timeline, i post personali. Il rischio infatti è che le caratteristiche e la qualità di quanto scritto sia in realtà molto livellata per entrambe le tipologie di piattaforma, quella del social network e quella del social publishing.

Va da sé che ognuno può scrivere ciò che gli pare, nei limiti della legge e del decoro, ovunque gli pare, anche su un papiro se è ciò che vuole, ma parlare di scrittura di un libro, di pubblicazione di un’opera letteraria, di essere o diventare uno scrittore è un’altra cosa. Che questo sia chiaro.

«Se numericamente c’è molta concorrenza, nei fatti il livello medio dei manoscritti inviati e il livello delle capacità degli aspiranti scrittori è talmente basso, il livello di totale inconsapevolezza rispetto a quel che viene scritto e impunemente inviato è così tragicamente alto, che se siete cerebralmente normodotati, lettori abituali, e fate esercizio di scrittura creativa da qualche tempo, per voi sarà quasi impossibile non riuscire a pubblicare», con un «vero piccolo, medio o grande editore». A dirlo è Marco Cubeddu, caporedattore della rivista letteraria Nuovi Argomenti in un articolo pubblicato su Linkiesta.it.
È presumibile pensare che i tanti, tantissimi aspiranti scrittori i cui manoscritti vengono dichiarati illeggibili o non pubblicabili trasmigrino prontamene, insieme alle proprie opere, in Rete, sui social, sulle piattaforme di scrittura social, su quelle di auto-pubblicazione e via discorrendo, ma nella sostanza, ovvero nella qualità degli scritti, ancora nulla è cambiato.

Cubeddu riporta un esempio che lui stesso ricorda essere banale e abusatissimo ma che funziona, perché rispecchia la realtà. «Statisticamente, la maggior parte delle volte, se sentite rumore di zoccoli, si tratta di un cavallo. Rarissimamente di una zebra. Cavallo=testi illeggibili, Zebra=testi leggibili, interessanti, pubblicabili…» e conclude affermando che «ci vuole una grande autostima per sentirsi zebre». Oppure vanagloria, allorquando ci si sente delle zebre senza aver ritenuto necessario e doveroso leggere, leggere e ancora leggere libri, senza essersi immersi nel mondo della Letteratura, della Cultura, senza essersi esercitati a scrivere, a riscrivere, a rivedere…

Da uno sguardo sommario in Rete emerge che tutti questi nuovi modi di fare editoria, lanciati nel web come importanti novità, tanto attesi affrancamenti dalla vecchia e superata editoria tradizionale, sono poi, pian piano, tutti scemati. Non che gli aspiranti abbiano smesso di scrivere o di cercare un modo alternativo per diffondere le proprie opere letterarie. Solamente che, forse, i due modi di fare editoria non sono né complementari né alternativi, sono proprio due cose diverse e così vanno viste oltre che pensate.


Articolo apparso sul numero 53 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte


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