Un libro. Un artista. Tre capitoli. Tre donne. Non sono però solo questi i numeri del breve romanzo di Mika Biermann dedicato alla figura emblematica di Vincent van Gogh. A tratti, l’opera di Biermann sembra un conto alla rovescia, laddove sottolinea il tempo che rimane da vivere all’artista e il tanto lavoro ancora da ultimare, i quadri da dipingere.
«Gli restano trentasette anni da vivere e ottocentosettantuno quadri da dipingere. Un quadro ogni quindici giorni. Un gioco da ragazzi.»
Un’espressione che può sembrare inquietante ma che sembra servire, in realtà, per sottolineare l’inquietudine di fondo che accompagna l’intera esistenza del van Gogh narrato dall’autore. Un uomo descritto in tre fasi distinte della sua esistenza, attraverso la narrazione dei suoi incontri o delle sue relazioni con tre delle donne che maggiormente hanno segnato la sua vita, indirizzandone o deviandone il cammino.
L’incontro con Saskia simboleggia anche il primo contatto di Vincent con l’altro sesso, con la nudità femminile, la provocazione e, in un certo qual modo, l’erotismo. Non accade nulla di fisico nell’incontro descritto da Biermann nel primo capitolo del libro ma da quel giorno il giovane van Gogh non sarà più lo stesso. Custodirà un segreto che pesa come un macigno. Figlio del pastore, Vincent ha ricevuto un’educazione molto rigida e religiosa e la sfrontatezza della ragazza lo mette in seria difficoltà, soprattutto per il timore che in famiglia possano scoprire quanto accaduto, quello che i suoi occhi hanno visto, e la certezza di non essere in grado di spiegarlo con razionalità e distacco.
«Suo padre gli ha spiegato che Dio ha creato la terra, il cielo, le piante, gli animali e gli uomini rigorosamente in bianco e nero, e che è stato il diavolo, in seguito, ad aggiungere i colori, l’azzurro di un lago, il verde di una prateria, l’arancione di un tramonto, il rosa sulle guance delle donne, il rosso sulle labbra, l’oro sui capelli, affinché i poveri uomini sedotti si allontanassero dall’Onnipotente, smettessero di cercare la salvezza nell’aldilà e si occupassero soltanto delle cose terrene.»
E allora il lettore si chiede come sia stato possibile, per un artista, conciliare una simile educazione con la vocazione alla pittura?
I dipinti di Vincent van Gogh trasmettono la grande capacità dell’artista di cogliere l’anima delle cose semplici e quotidiane: le banchine sul Tamigi o le distese di campi di grano. «L’arte è sublime quando è semplice», scrive in una lettera indirizzata al fratello Théo. Un’arte che esprime il quotidiano e la sua bellezza ma anche un’estrema solitudine, quella dell’artista, una tristezza che non gli ha impedito di continuare a produrre bellezza: «all’epoca in cui preparavo i fiori di mandorlo. Se avessi potuto continuare a lavorare, avrei realizzato altri alberi da fiore, come potete immaginare. Ora gli alberi da fiore sono quasi finiti.» L’artista sembrava nutrire un profondo desiderio di conoscere se stesso, oltre che il mondo, affrontando i turbamenti dell’anima e le passioni che lo assalivano soprattutto durante i primi tempi nei quali l’amore per Dio era il suo rifugio.1 Sono i tempi dei primi approcci alla pittura, allorquando viveva un vero e propriomisticismo religioso, coltivato sul modello del padre. Tra il 1879 e il 1880 van Gogh visse la sua prima grande crisi spirituale dalla quale scaturì anche il primo punto di svolta della sua esistenza: si convinse di poter servire Dio anche come artista.2
L’incontro con l’ex modella Agostina avviene invece quando l’artista è ormai un uomo maturo e consapevole se non del proprio potenziale, quantomeno della propria indole. Una fase dell’esistenza di van Gogh nella quale egli ha raggiunto degli obiettivi e delle certezza, accanto alle quali però persistono i turbamenti di un uomo inquieto, irrequieto, malinconico e perennemente insoddisfatto anche della propria esistenza. Biermann dà voce a questi turbamenti immaginando per l’artista e l’ex modella un futuro diverso, una vita differente da quella che poi invece è stata, in Italia e non a Parigi. Ma è solo la fantasia dell’autore che vola al pari, forse, di quella dello stesso artista. L’italienne è il nome del ritratto dipinto da van Gogh e che sembra racchiudere tutto il contrasto di questo amore presto finito e della vita insieme mai veramente vissuta.
Molti elementi richiamano le stampe giapponesi: il bordo asimmetrico, la stilizzazione del personaggio in un ritratto privo di ombra e di prospettiva e lo sfondo monocromatico. Tuttavia, alla raffinatezza dell’estetica orientale, van Gogh sostituisce una lavorazione energica, che restituisce un’impressione di potenza quasi primitiva. I neoimpressionisti giustappongono i colori complementari per intensificarne la percezione. In questo caso l’artista fa lo stesso, unendo i rossi e i verdi, i blu e gli arancio. Tuttavia, egli non ricorre alla tecnica puntinista di Signac o di Seurat. La sua modella è raffigurata tramite tratteggi nervosi che si incastrano e si separano. I colori sono violenti, espressivi e mostrano in van Gogh un precursore del fauvismo. Il viso di Agostina Segatori, dove predominano il rosso e il verde, illustra il progetto formulato dal pittore un anno dopo ad Arles, ovvero essere capace di esprimere le terribili passioni dell’umanità per mezzo del rosso e del verde.3
«Questo dipinto è uno dei più brutti che abbia mai realizzato». A dirlo, anzi a scriverlo è lo stesso Vincent van Gogh, in una lettera indirizzata al fratello Théo nel settembre del 1888. «Ho cercato di dipingere le terribili passioni umane con il rosso e con il verde. È ovunque una lotta e un’antitesi dei verdi e dei rossi più diversi, nei personaggi di piccoli teppisti che dormono, nella sala vuota e triste. Nel mio quadro ho cercato di esprimere l’idea che il caffè è un posto dove ci si può rovinare, diventare pazzi, commettere dei crimini». Si tratta di una bruttezza coscientemente ricercata: van Gogh sfrutta la potenza emotiva del colore, soprattutto attraverso l’uso dei complementari rosso e verde, per comporre un’immagine angosciante e allucinata, descrivendo il bar come un luogo di sofferenza e disagio.4
Il terzo capitolo del libro di Biermann, che è anche quello conclusivo dell’esistenza di van Gogh, vede come co-protagonista, insieme all’artista, una giovane donna incontrata per caso. Gabrielle è una ragazza determinata che ha anche imparato il lavoro del padre, il maniscalco, e lo pratica di nascosto perché vietato alle donne. Gabrielle ha appena perso il suo amato cane quando incontra il moribondo Vincent, lo riconosce e si intenerisce alla vista di quell’uomo ormai in fin di vita. È il momento in cui entrambi sembrano realizzare che tutto ciò che nella vita è stato ormai non conta più. Non serve. Non cambierà di una virgola ciò che sta per accadere. È la caducità della vita certo, ma anche la forza di portare avanti le proprie scelte, non guardarsi mai indietro, non avere rimorsi ma solo ricordi.
I colori che l’autore utilizza per descrivere la natura, ciò che van Gogh osserva nei suoi ultimi istanti di vita, sono l’azzurro del cielo e bianco delle nuvole, il giallo dei campi e la ruggine dei tetti.
È il “dipinto” di un paesaggio noto, ordinario, confortevole e rassicurante come solamente ciò che ci è caro nella mente può essere.
Il libro
Mika Biermann, Tre donne nella vita di Vincent van Gogh, L’orma Editore, Roma, 2024.
Traduzione dal francese di Chiara Licata.
Titolo originale: Trois femmes dans la vie de Vincent van Gogh.
1J. Nubiola, Van Gogh, alla ricerca dei colori di Dio, in Omnes, 13 maggio 2016.
2Vincent van Gogh, vita e opere del pittore olandese da record, in Finestre sull’arte, categorie AB Arte Base.
3Analisi estetica de L’italienne del M’O – Musée d’Orsay: www.musee-orsay.fr
4E. Puschak, video-saggio Il caffè di notte. Il “quadro più brutto” di Vincent van Gogh, su Artribune 1 aprile 2019.
Articolo pubblicato su LuciaLibri.it
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