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Abitarecittàsicure, FrancescaCoppola, FrancoAngeli, GianGuidoNobili, MicheleGrimaldi, recensione, saggio
Lo spazio pubblico ben progettato corrisponde ai bisogni dei cittadini, degli abitanti e degli utilizzatori. La sua sicurezza è affidata a molteplici figure professionali e a mestieri che contribuiscono a definirne la pianificazione, il funzionamento o l’animazione. Certi spazi pubblici, a causa di una pianificazione inadeguata o di un’occupazione non condivisa, sono esposti a severi problemi di sicurezza, inciviltà e criminalità, oppure generano una sensazione di insicurezza e sono fonti di conflitto tra i loro utilizzatori. La domanda di protezione avanzata dai cittadini richiede dunque di prendere in seria considerazione le sfide in materia di sicurezza fin dal momento della progettazione dello spazio pubblico, studiare la prevenzione in termini di pianificazione e prevedere a tal fine un dialogo tra il progettatore e l’utilizzatore/gestore dello spazio, fondandolo sull’idea della condivisione e dell’appropriazione dei luoghi.
La presenza di fenomeni di criminalità e, ancor di più, di inciviltà negli spazi pubblici determina un impatto molto forte sul senso di insicurezza dei cittadini. Per le città del XXI secolo, la gestione di tali spazi nell’obiettivo di diminuire l’allarme e la paura rimane una sfida prioritaria. La risposta più utilizzata per ridurre la criminalità, la violenza e l’insicurezza, è stata troppo spesso limitata all’azione dei servizi di polizia, alla giustizia penale e al carcere.
La società è convinta che la gente che entra in carcere ne esca migliore. Spesso però è l’esatto opposto. Cosa significa riabilitare una persona facendola tornare quella di prima, se essere quella persona vuol dire vivere in uno stato di povertà (educativa oltre che economica), razzismo, disoccupazione, precarietà di alloggio e/o violenza? Può davvero una persona essere riabilitata se non è mai stata “abilitata” o resa adatta o in grado di vivere in società? Numerosi studi dimostrano che la migliore forma di riabilitazione in carcere è l’istruzione.1
L’istruzione dovrebbe rappresentare un’opportunità formativa capace di offrire al detenuto gli strumenti per ripensare la propria realtà e la “speranza” che potrà o saprà riprogettarsi in modo nuovo e rendere significativa la propria presenza al mondo.2 Il diritto all’istruzione assume rilievo in ambito penitenziario sotto un duplice profilo: da un lato, quale diritto costituzionalmente riconosciuto alla generalità dei consociati; dall’altro quale elemento del trattamento penitenziario finalizzato al reinserimento sociale della persona in vinculis.3 Le persone detenute che accedono ai corsi, e gli stessi corsi, sono nel tempo in costante aumento.
Il bisogno di scuola è innegabile, basta analizzare i dati sulla scolarizzazione per rilevare quanto influisca lo studio sul percorso deviante; troviamo analfabeti, analfabeti di ritorno e sempre più stranieri, quindi, la popolazione carceraria di età adulta è in maggioranza connotata dal basso grado culturale e di scolarizzazione, spesso appartenente a insiemi subculturali specifici rappresentati dalle organizzazioni criminali, e non solo. Nel carcere dove entra la “Scuola”, la logica dell’istituzione totale cede il passo a quella educativa-formativa, per dare vita a una partecipazione corale dentro e fuori dalle mura, rendendo credibile il trattamento ri-educativo.4
Gli amministratori locali sono chiamati dai cittadini a proporre credibili strategie preventive, che devono necessariamente basarsi su un lavoro congiunto di équipe pluridisciplinari, sulla collaborazione tra chi progetta e chi gestisce i diversi luoghi di una città, e sul coinvolgimento degli attori delle politiche di sicurezza e di residenti e utilizzatori. L’urbanistica e l’architettura hanno del resto un impatto riconosciuto sulla sicurezza: possono essere strumenti per risolvere conflitti esistenti, evitare l’insorgere di problemi futuri, ricucire le fratture presenti e creare una relazione di reciprocità tra i diversi spazi della città.
Rischio e fiducia si compenetrano e assumono significati particolari alla luce della riflessività della vita sociale moderna perché, come osserva Giddens, in condizioni di modernità la fiducia esiste nel contesto della generale consapevolezza che l’attività umana è socialmente creata piuttosto che essere data dalla natura delle cose o determinata dall’influenza divina.5
Per Platone l’uomo non può ricorrere, per garantirsi la sopravvivenza, a un elaborato sistema di istinti innati, ma deve far conto solo sulla sua azione intelligente, sulla sua “sapienza tecnica”. E anche Kant riconosce all’essere umano da un lato la carenza istintuale e dall’altro l’autonomia della ragione nel ricavare tutto da se stessa. L’essere umano risulta, quindi, biologicamente inadatto all’ambiente, in quanto la sua dotazione organico-istintuale è “primitiva”, “incompiuta”, “non specializzata”. Inoltre, poiché non dispone di meccanismi selettivi che entrano automaticamente in funzione secondo le circostanze, è esposto a una “profusione di stimoli” da cui sono esonerati gli animali, sensibili soltanto a quegli stimoli che corrispondono ai loro istinti specializzati. Ma a questa concezione dell’uomo come essere carente, che ce lo presenta in maniera negativa come “un errore della natura” o come “la negazione della finalità naturale”, segue il riconoscimento positivo che, nonostante tutte le sue carenze, primitivismi e inadeguatezze, l’uomo è riuscito a sopravvivere, adattandosi all’ambiente: privo di un suo habitat specifico, ha fatto di qualsiasi ambiente il suo ambiente.6
L’Alto Medioevo coincide con il periodo di massima decadenza economica e sociale. Alla società profondamente urbanizzata dell’Impero se ne sostituisce un’altra in cui la città perde il suo ruolo dominante. Il centro della vita economica è la curtis, la più grande unità produttiva autosufficiente, capace di svolgere quasi in completa autonomia le funzioni di produzione e consumo necessarie alla sussistenza. Dopo l’anno Mille, durante il Basso Medioevo, si registra una rapida ripresa economica che avrà come conseguenza un più diffuso benessere e notevoli trasformazioni sociali e culturali. Le città cominciano a ripopolarsi, si ampliano e diventano i nuovi centri della vita economica, sociale e politica.7
In un contesto altamente globalizzato e interdipendente, la nostra consapevolezza del rischio che determina le nostre percezioni di insicurezza, è influenzata da macro-eventi, come la presenza di guerre sia vicine sia lontane, e da ricorrenti crisi, siano esse di natura sanitaria, climatica, economica o politica. L’insicurezza, però, è anche frutto di micro-eventi, e quindi anche del nostro quotidiano abitare urbano. Negli ultimi decenni, la domanda di maggiore sicurezza (di sentirsi più sicuri) negli spazi urbani è entrata con forza nel dibattito pubblico e negli ambiti di policy. Questa domanda si è spesso intersecata con l’esigenza di migliorare la qualità della vita.
Contrariamente alla narrazione diffusa fatta di case a un euro e lavori agili in contesti tra l’idilliaco e l’agreste, la reale vita nei borghi rurali italiani, per esempio, è diversa, fatta di rinunce e compromessi.8
Molte amministrazioni hanno promosso un’idea unitaria e monolitica di spazio urbano, in cui solo le aspettative comportamentali ed estetiche dei più fortunati hanno trovato giusto riconoscimento. Ma le città trascendono l’idea di “ordine” imposta dall’alto e coniugano diverse esperienze, modi di vivere e di interagire con l’urbano, e anche modi di comprendere l’urbanità.
Viviamo oggi in una delle società più sicure della storia dell’uomo ma, nonostante questo, il senso di insicurezza che avvolge le nostre vite pare essere progressivamente crescente. Le nuove ansie collettive sono collegate alla crisi moderna e configurano una incertezza esistenziale tipica dell’uomo moderno occidentale. La risposta locale ai problemi della sicurezza può essere letta come conseguenza della condizione sociale contemporanea: l’incertezza nei confronti del futuro (insecurity), l’incertezza sulle scelte da compiersi (uncertainty) che hanno origine in luoghi remoti, fuori dalle possibilità del controllo individuale e della stessa governance locale e nazionale. Da qui la tendenza a concentrarsi verso obiettivi più vicini, verso i timori nei confronti della incolumità fisica (unsafety), quel genere di timori, che a sua volta si condensa in spinte segregazioniste/esclusiviste, portando inesorabilmente a guerre per gli spazi urbani.
La letteratura sociologica relativa alla paura della criminalità ha evidenziato come il senso di insicurezza urbana sia relativamente indipendente dal rischio di esposizione a eventi criminali, ma sia spesso legato a percezioni di disordine, caos e degrado. La maggiore diffusione dell’informazione e le caratteristiche stesse della comunicazione contemporanea (insistenza sull’immagine, stili semplificatori e spesso sensazionalistici, tendenza alla spettacolarizzazione) creano una relazione del tutto particolare tra cittadini e spazi pubblici, in cui nella formazione del giudizio conta sempre meno il peso dell’esperienza diretta.
Il nuovo trend planetario che si è affermato dai primi anni Novanta è la crescita inarrestabile di quartieri esclusivi, in particolare alle periferie delle città. Il mondo va verso comunità “blindate” e la conseguente segmentazione e militarizzazione delle città per far fronte a una criminalità predatoria e violenta. Si moltiplicano i metal detector agli ingressi di edifici sensibili o le telecamere a circuito chiuso, che ormai costituiscono l’arredo urbano della contemporaneità. Si tratta di una forma di autodisgregazione urbana che non crea una divisione tra i buoni e i cattivi, ma tra chi possiede e chi non possiede determinate opportunità economiche e di status.
Nel mondo occidentale, gli anni Settanta e Ottanta del Novecento furono caratterizzati da concomitanti fenomeni di deindustrializzazione, aumento della criminalità, moltiplicazione delle dismissioni immobiliari nelle grandi città, dispersione della forza-lavoro, nonché dalla crescita del settore dei servizi alle persone e dalla informatizzazione della produzione capitalistica. Per rendere le città più accoglienti e liberarle delle ingombranti eredità della fase di deindustrializzazione, furono messi in campo progetti di rigenerazione urbana volti, da un lato, a rimuovere la minaccia del crimine, dall’altro, a mettere a frutto il potenziale di consumo e intrattenimento offerto dalle città in una varietà di spazi urbani come lungomari, centri storici, aree ex-industriali e quartieri bohemien, con la mobilitazione di strategie discorsive sulle virtù della creatività, della convivialità, dell’ospitalità allo scopo di attrarre investimenti e consumatori. L’idea di città creativa prende forma quindi nell’ambito di esperimenti di rigenerazione fisica degli ambienti urbani messi in campo in situazioni di deindustrializzazione manifatturiera e vera e propria “crisi urbana”. Nei primi anni Duemila, il patto sociale fondato sulla creatività sembra candidarsi a diventare il principio organizzatore delle società capitalistiche contemporanee. Lungi dal costituire un repertorio stabile di istituzioni, organizzazioni e relazioni contrattuali, la governance urbana è utilizzata quale base operativa, duttile e flessibile, volta a trasformare i residenti urbani in “cittadini” in grado si provvedere da sé al proprio benessere e di agire responsabilmente e creativamente nella sfera pubblica. A partire dalla crisi del 2008 il modello di città socializzata incarnato dalla città creativa inizia a mostrare segni di esautoramento.9
Negli anni scorsi, le città si sono trovate al centro della dialettica tra politiche della crescita e politica dell’austerità che ha caratterizzato le economie dei paesi occidentali a partire dalla crisi del 2008. La proliferazione di un numero crescente in grandi centri urbani e metropolitani di imprese start-up tecnologiche è particolarmente esemplificativo del “ritorno alla vita” delle città contemporanee e con esse del capitalismo globale, considerata la diffusione del fenomeno in diverse aree del mondo. Le economie urbane start-up sono dunque rivelatrici del movimento di rembeddedness, ossia di nuovo radicamento, del capitalismo globale negli ambienti urbani. I sentimenti di euforia e comunanza che contraddistinguono le modalità di rappresentazione delle comunità di imprenditori tecnologici sono rivelatori del più ampio sforzo di rianimazione del capitalismo come “industria della felicità” in atto nelle società occidentali. Per le imprese start-up tecnologiche così come per le grandi imprese del “capitalismo delle piattaforme” i centri urbani e metropolitani non offrono soltanto ambienti istituzionali e socio-culturali dinamici dove potersi affermare, ma funzionano anche da veri e propri “laboratori viventi” dai quali estrarre un’ingente massa di dati relativi ai comportamenti, alle abitudini, alle preferenze di consumo e ai movimenti delle persone che vi abitano o vi transitano. Per cui si può affermare che il capitalismo utilizza le “crisi organiche” come occasioni per ricercare un nuovo radicamento nelle relazioni sociali, reinventando la propria promessa di felicità e le relative forme di vita. Le città hanno acquistato o riacquistato centralità in questo quadro perché offrono il capitale cognitivo, comunicativo e relazionale necessario a realizzare un siffatto modello sociale. Allo stesso tempo, le città sono spazi persistentemente caratterizzati da diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza e processi di esclusione sempre meno alleviati dall’intervento dello Stato e delle altre istituzioni pubbliche o semipubbliche preposte alla fornitura dei servizi di protezione sociale. In tale contesto, ancora resta da comprendere il reale effetto che ha avuto l’avvento delle nuove economie urbane a base tecnologica sulla vita delle persone.10
Negli ultimi dieci anni si è passati, in molti paesi occidentali, dal paradigma della prevenzione del crimine a quello della sicurezza collettiva. Il primo vedeva innanzitutto lo Stato quale ente monopolizzatore della questione di ordine pubblico. Il paradigma della sicurezza diviene modello locale, vicino alle aspettative dei cittadini, e non astrattamente vincolato a politiche generali di cambiamento dell’uomo e delle istituzioni sociali. La teoria del modello criminale (crime pattern theory) spiega il coinvolgimento nell’attività criminale attraverso lo studio della conformazione geografica dell’ambiente, e quindi attraverso lo studio della distribuzione spaziale delle attività criminali. Questa teoria fa da sfondo a molti studi riguardanti l’impatto di un determinato design urbanistico a politiche di prevenzione della criminalità. Questa prospettiva che fa da sfondo alla cosiddetta prevenzione ambientale prende in esame i “nodi” (stazioni, fermati degli autobus, dislocamento delle abitazioni pubbliche, scuole, luoghi di svago) e i “percorsi” urbani che portano gli individui a spostarsi ai margini delle aree, di lavoro scolastiche ricreative, frequentate da soggetti che spesso non si conoscono. La teoria del modello criminale risente delle elaborazioni evidence-based di due ricercatori, Paul e Patricia Brantingham i quali sostengono in via molto generale come i luogo possano generare e attrarre criminalità.
Un’altra serie di contributi interessanti riguardanti il rapporto tra urbanistica e architettura viene dagli studi di Psicologia Ambientale. In particolare, per quanto attiene al senso d’insicurezza si fa riferimento a due modelli teorici mutuati da questa specifica branca della psicologia: la territorialità e il setting comportamentale. La prima è definita come un’area geografica che è in qualche modo personalizzata o contrassegnata e difesa dall’invadenza altrui attraverso segni di demarcazione sia fisici che sociali. Il secondo concetto definisce invece uno specifico luogo-situazione le cui caratteristiche fisiche o sociali stimolano particolari schemi di comportamento. Studiare questi luoghi e le loro caratteristiche può rivelarsi più utile per predire i comportamenti delle persone che lo studio delle loro caratteristiche personali, in quanto le strade e gli isolati costituiscono spazi definiti che possono essere visti come luoghi che sviluppano comportamenti e programmi di relazioni stabili.11
Le città proibite si moltiplicano come esito dei processi di individualizzazione e di dissolvimento dei legami sociali. Si tratta di comunità fluide, flessibili, basate su impegni contingenti e non su relazioni a lungo termine. La vita in questi contesti non sembra accompagnarsi a un miglioramento per la comunità dei residenti stessi: non ci sono evidenze di un aumento del capitale sociale interno e della costituzione di comunità più unite o sicure. Per molti studiosi, l’effetto di queste soluzioni urbanistiche potrebbe essere, paradossalmente, proprio la paura. Questo perché la diffusione di zone protette determina una frammentazione del tessuto urbano che si traduce in una riduzione degli spazi pubblici di fruizione e d’interazione. L’idea più suggestiva di vicinato è quella in cui la costante interazione tra numerosi abitanti diviene fonte di rassicurazione.
L’ossessione per la sicurezza tradisce un rifiuto della vita, mentre dichiara di proteggerla pretendendo di azzerare il rischio. Esprime una diffidenza e un rifiuto totale per tutto ciò che sfugge al controllo. Poiché, come insegna la psicoanalisi, per il nevrotico vale solo la ripetizione e ciò che è conosciuto: l’inedito, tutto ciò che può interferire con le abitudini, diventa intollerabile.12
Sono diversi gli studiosi che legano il futuro delle città alla necessità di un rovesciamento della spinta regressiva verso la sicurezza.
L’universo relazionale che caratterizza il rapporto con gli altri alimenta un sentimento di sicurezza ontologico.13 Giddens enfatizza il rapporto tra sicurezza ontologica e il valore della tradizione, un processo di ritrovamento di sé stessi che vive nella tensione tra pulsione all’autenticità e apertura al mondo determinata dai sistemi astratti che ci circondano e definiscono.
L’alterità è esperita sempre in un contesto sociale e culturale, che influenza il rapporto interpersonale introducendo elementi di regolazione e, in molti casi, di ineguaglianza. In sostanza, l’incontro con l’Altro è una relazione nella quale i soggetti entrano avendo già, in modo reciproco, una rappresentazione dell’Altro che deriva dalla propria formazione culturale e da esperienze pregresse. In essa influiscono – in modo consapevole e anche inconsapevole – immagini, attese, preoccupazioni e talora anche pregiudizi. Tutti questi aspetti interagiscono con le dinamiche endogene e propriamente psicologiche della relazione, facendo sì che ciascuna di esse sia dotata di grande complessità e, spesso, di un qualche grado di ambiguità. Il richiamo all’identità ha un effetto negativo non solo nei confronti dell’Altro esterno, ma anche nei confronti delle differenze interne a quella che viene presentata coma una “nostra” identità. L’identità ci impone un certo modo di essere e di pensare. La rappresentazione dell’Alterità come espressione di una supposta partizione dell’umanità in comparti omogenei è, prima di tutto, espressione di rapporti di potere, di processi di dominazione e subordinazione, che portano a una vera e propria costruzione sociale dell’Altro, ovvero a una sua manipolazione in ambito socio-politico come pure in quello culturale, psichico e persino corporeo, tendenti a far corrispondere l’Altro alla rappresentazione che ne ha il detentore del potere.14
Rischio e sicurezza non sono dati oggettivi in sé, ma percezioni culturalmente connotate, potenziali contenitori di significati diversi quando non contrapposti, valori al centro di processi di negoziazione quando non di scontro. Il fatto che il tema della sicurezza sia ab origine un tema urbano, chiama direttamente in causa l’interesse dell’antropologia urbana: è lecito chiedersi quale idea di città vi sia al fondo di questa questione, quali le ragioni, storiche e ideologiche, che giustificano il binomio città/insicurezza, tale da averlo reso ormai autoevidente, quali le ragioni che di conseguenza hanno reso il tema della sicurezza centrale nell’agenda amministrativa di molte città. Circa l’associazione tra città e insicurezza, l’immagine della città come contesto problematico, minaccioso, potenziale coacervo di pericoli, può in qualche modo essere considerata un filo rosso della letteratura “classica”.15 Va sottolineato come al fondo vi sia un processo di selezione operato dalla sociologia della devianza, che si ferma ai sentimenti di insicurezza e tralascia invece, nel più ampio quadro della sociologia classica, le problematiche del conflitto sociale e del cambiamento e il loro legame con la devianza, finendo col generare una vera e propria sociologia della paura.16
Il paradosso attuale è che le nuove élite globali hanno operato un crescente distacco dalla località in senso stretto: esse si muovono in uno spazio globale che sposta anche l’origine o la controllabilità degli eventi su un piano “globale”. Al contempo le città divengono sempre più le “discariche” della globalizzazione, i terreni su cui cortocircuitano i problemi della globalizzazione, mentre l’origine di questi esula in maniera crescente dai confini urbani: i cittadini, con i loro rappresentanti, si trovano quindi davanti al difficile compito di trovare soluzioni locali a contraddizioni globali. Come conseguenza della costante crescita dei rischi su scala globale, si accresce la tendenza a convogliare i problemi esistenziali dell’endemica insicurezza tipica dell’età tardo-moderna nella sola preoccupazione per le garanzie della sicurezza personale.17 Per cui, la questione della sicurezza urbana, soprattutto nei termini che assume oggi di difesa da rischi sociali, sembra potersi leggere proprio come una specifica intersezione tra globale e locale: cioè la sicurezza diviene una risposta locale all’incremento della società del rischio, sempre più globale e diffuso, a fronte del quale un ampliamento delle politiche di sicurezza agisce su ciò che emerge nell’immediato.
Molti degli interventi urbanistici finalizzati alla sicurezza non fanno altro che riprodurre i fossati e le torri difensive medievali, e mirano a dividere gli abitanti per rispondere a quella mixofobia che costituisce la reazione oggi più diffusa alla varietà di tipi umani che affolla le città.18
Le città del passato, con le loro mura e la loro vita sociale, rappresentavano un luogo di maggiore tranquillità e sicurezza rispetto all’incertezza e i pericoli delle campagne. Negli ultimi decenni si è assistito a un ribaltamento: la sensazione di pericolo è stata identificata con la città, mentre le zone rurali sono state investite di un immaginario di pace e tranquillità.
Il libro
Gian Guido Nobili, Michele Grimaldi, Francesca Coppola (a cura di), Abitare città sicure. Politiche, Strumenti, Metodi, Franco Angeli, Milano, 2024.
1V. Law, Le prigioni rendono la società più sicura. E altri venti miti da sfatare sull’incarcerazione di massa, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2023.
2R. Caldin, Università e carcere: una sfida pedagogica, in V. Friso, L. Decembrotto (a cura di), Università e carcere. Il diritto allo studio tra vincoli e progettualità, Edizioni Guerini, Milano, 2018.
3A. Maratea, Il diritto all’istruzione in carcere tra (in)effettività e prassi problematiche: uno sguardo all’istruzione universitaria nelle carceri per adulti e secondaria negli istituti penali per minorenni, in Osservatorio Costituzionale – AIC Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Fasc. 3/2023.
4C. Cardinali, R. Craia, Istruzione e ri-educazione: quale ruolo per la scuola in carcere?, in Formazione & Insegnamento XIV – 2 – 2016.
5S. Gherardi, D. Nicolini, F. Odella, Dal rischio alla sicurezza: il contributo sociologico alla costruzione di organizzazioni affidabili, in Quaderni di Sociologia, 13 – 1997.
6M.T. Pansera, Natura e Cultura in Arnold Gehlen, in Il tema di B@bel, RomaTre Press, 2020.
7R. Zordan, Lettura Oltre. Letteratura. Teatro, Fabbri Editori, Milano, 2022.
8A. Rizzo, I paesi invisibili. Manifesto sentimentale e politico per salvare i borghi d’Italia, Il Saggiatore, Milano, 2022.
9U. Rossi, Biopolitica della condizione urbana: Forme di vita e governo sociale nel tardo neoliberalismo, in Rivista Geografica Italiana, 126 (2017).
10U. Rossi, op.cit.
11V. Mastronardi, S. Ciappi, Urbanistica e Criminalità (Parte Prima). Alle origini di un rapporto, in Urbe et Ius – Rivista de Estudios de Criminología y Ciencias Penales, 2020.
12M. Magatti, Sicurezza/Insicurezza: come si resiste alla città, in P. Piscitelli (a cura di), Atlante delle città. Nove (ri)tratti urbani per un viaggio planetario, Feltrinelli, Milano, 2020.
13A. Giddens, The consequences of modernity, Oxford Polity Press, Oxford, 1990.
14A. Mela, Alterità e transculturalità, 2023.
15F. D’Aloisio, Sentirsi insicuri in città. Etnografia e approccio antropologico al problema della sicurezza urbana, in M. Callari Galli (a cura di), Mappe urbane. Per un’etnografia della città, Guaraldi Universitaria, Rimini, 2007.
16V. Ruggiero, I vuoti delle politiche di sicurezza, in R. Selmini, La sicurezza urbana, Il Mulino, Bologna, 2004.
17Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Bari, 2001.
18F. D’Aloisio, op.cit.
Articolo pubblicato su Satisfiction.eu
Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Franco Angeli Editore per la disponibilità e il materiale.
Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com
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