Il 13 settembre 2022, Mahsa Amini è stata arrestata a Teheran dalla polizia morale iraniana. Testimoni oculari hanno riferito di violenti percosse subite dalla donna durante il trasferimento nel centro di detenzione. Da dove, poi, sarebbe stata trasportata in ospedale già in stato di coma.
Le autorità hanno sempre negato qualsiasi illecito. Per la morte di Mahsa Amini e dei tanti altri giovani che hanno perso la vita durante o in concomitanza delle manifestazioni di protesta che da quel momento imperversano in Iran.
Si tratta delle manifestazioni più importanti dall’istituzione della Repubblica islamica all’indomani della rivoluzione del 1979, diverse da quelle degli scorsi anni per portata, significato e istanze.
Il severo codice di abbigliamento della Repubblica islamica è stato reso ancora più rigido, rispetto al passato, dal presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi. Un codice di abbigliamento anche per i ragazzi, che possono essere fermati se i capelli sono troppo lunghi e le magliette troppo attillate o con maniche troppo corte.
Ma Farian Sabahi precisa fin da subito che la causa del risentimento di tanti iraniani verso la Repubblica islamica non è l’obbligo del velo di per sé, ma l’approccio violento delle autorità – nelle loro diverse declinazioni – nei confronti dei cittadini che vorrebbero poter scegliere liberamente.
Per l’autrice, la violenza sistematica delle forze dell’ordine è la prova della perdita di legittimità di un sistema politico corrotto, che non ha altra scelta se non la repressione che finisce per allontanare sempre di più i giovani e il popolo in generale.
Le iraniane e gli iraniani scendono in strada, nonostante i rischi, e non solo affinché il velo sia una libera scelta. Contestano la mala gestione della cosa pubblica ed esprimono preoccupazione per la disoccupazione e l’inflazione galoppante.
Nel settembre 2022 le proteste non hanno un leader e sono prive di coordinamento. E queste, per Sabahi, non sono debolezze ma punti di forza in quanto non essendoci una leadership non la si può decapitare per scoraggiare o sedare le rivolte.
Fin dall’inizio delle proteste, le autorità iraniane accusano l’Occidente di istigare il dissenso. Il presidente Ebrahim Raisi continua a biasimare «i nemici dell’Iran, colpevoli di fomentare le proteste per fermare il progresso del Paese».
Sulla lista nera degli ayatollah e dei pasdaram ci sono Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele: Paesi che hanno tutto l’interesse a un cambio di regime.
Ma, secondo l’acuta analisi di Sabahi, le proteste non andrebbero mai avanti da settimane se non fosse per una profonda insoddisfazione degli iraniani.
L’obiettivo di Raisi sembra essere quello di portare avanti l’adesione dell’Iran alla SCO (Shangai Cooperation Organization), di cui fanno parte Russia, India, Cina e i Paesi dell’Asia Centrale, per rompere l’isolamento dell’Iran dovuto alle sanzioni statunitensi. Un isolamento che ha generato, nel tempo, molta instabilità sociale e politica.
Il 15 novembre 2019, il governo di Hassan Rohani tagliò i sussidi al carburante. Questa decisione era motivata dal fatto che, a causa delle sanzioni internazionali e dell’embargo sul petrolio iraniano, tra il gennaio e l’agosto 2019 le esportazioni in Europa erano crollate del 94% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. In oltre cento città e cittadine iraniane scoppiarono le proteste. Dapprima per motivi economici poi, sottolinea Sabahi, sfociate in ribellione politica contro la leadership religiosa.
Un altro elemento rilevante sullo scenario internazionale, degno di nota per l’autrice, è «il sostegno dei vertici di Teheran alla Russia di Putin in occasione dell’aggressione all’Ucraina».
In più punti del libro, Farian Sabahi tiene a precisare o meglio a smentire quelli che sono i più diffusi luoghi comuni occidentali su Iran e iraniani. Per esempio, il continuare a considerarli arabi quando in realtà sono un popolo indoeuropeo. Oppure ancora nel voler vedere l’Iran come un paese chiuso, isolato e radicale. L’Iran è invece un paese multietnico, multiculturale e multireligioso. Da sempre al centro di tante vie carovaniere: la via della seta, la via delle spezie, la via delle pietre preziose.
Quello che oggi viene definito «mondo iranico» è uno spazio culturale, che va dall’est dell’Iraq all’India del nord, passando per l’Asia centrale. Un mondo difficile da cogliere e per certi versi paradossale.
Sabahi paragona l’Iran a un mosaico: di genti, etnie, lingue e religioni.
Teheran non è né Oriente né Occidente. È il punto d’incontro di civiltà contigue e indipendenti, ma è diversa. Per l’autrice ciò rappresenta l’emblema della schizofrenia culturale degli iraniani. Sospesi, tra Oriente e Occidente.
Teheran è una città con due anime. Una città in cui si vive sospesi. Tra modernità e tradizione. Cittadini di una Repubblica… islamica, di quella che dovrebbe essere una democrazia… religiosa, ma in realtà si tratta di un’oligarchia di ayatollah e pasdaram.
Il non riuscire a inquadrare perfettamente l’Iran a gli iraniani in Occidente dà, per certo, facile adito al proliferare di luoghi comuni e pregiudizi. Etichette facili e spesso errate utili a illudersi di comprendere ciò che in realtà non si capisce.
Situazione simile a quella descritta da Giulietto Chiesa con riguardo alla visione occidentale della Russia e dei russi e alla fobia che ne deriva.1
Farian Sabahi sottolinea il fatto che i quotidiani occidentali parlano spesso delle donne iraniane ma non sempre scrivono, per esempio, che a Teheran il livello di istruzione è tra i più alti dell’Asia. La scuola è gratuita e obbligatoria fino a quattordici anni. I bambini e le bambine vanno a scuola. Il lavoro minorile è vietato. All’università, due matricole su tre sono donne.
Nel 2006 il governo ha imposto le quote azzurre, per dare uguali opportunità ai ragazzi, nelle facoltà di Medicina, Odontoiatria e Farmacia.
Le autorità stanno cercando di imporre la segregazione dei sessi nelle università. Una sgradita novità perché, fin da quando è stata inaugurata l’università di Teheran nel 1937, potevano iscriversi tutti, uomini e donne, e sedersi vicini.
Da ottobre 2012 alle donne è vietato frequentare Ingegneria mineraria all’Università di Teheran. Scienze politiche ed Economia aziendale a Isfahan sono riservate ai maschi. Maschi che, però, a Isfahan, non possono più iscriversi a Storia, Linguistica, Letteratura, Sociologia e Filosofia.
I diritti delle donne sono una battaglia continua, ricorda Sabahi. Le donne iraniane hanno il diritto di voto dal 1963. Ma il diritto di voto non basta a fare una democrazia.
Barometro della democrazia sono, per l’autrice, i diritti delle donne, di coloro che hanno un diverso orientamento sessuale, delle minoranze religiose ed etniche. Una lotta continua.
Parole verissime, quelle di Farian Sabahi. A tutte le latitudini. Valide per tutti i Paesi. Anche per le democrazie occidentali. Perché anche in esse i diritti sono stati conquistati dopo anni di lotte e dure battaglie. A colpi di manifestazioni e proteste. Esattamente come accade in Iran. Come accaduto nei Paesi protagonisti delle recenti Primavere arabe.
I giovani, maschi o femmine che siano, manifestano, protestano, chiedono a gran voce i diritti che sono loro negati o ignorati. E ovunque hanno il diritto e il dovere di farlo. Come le minoranze. Come coloro che hanno un diverso orientamento sessuale. Perché i diritti sono realmente riconosciuti quando vi è la piena libertà di essere se stessi. Di seguire la propria indole e le proprie passioni. Di condurre un’esistenza dignitosa e soddisfacente.
Noi donne di Teheran di Farian Sabahi è una lettura molto interessante, sia nella parte iniziale, laddove l’autrice fa una ricostruzione storica del suo Paese, raccontando la vita reale delle donne e degli uomini di Teheran. Sia nella seconda parte del libro, dove vengono riportate le diverse interviste effettuate da Sabahi a Shirin Ebadi, Nobel per la Pace 2003, che della difesa dei diritti umani ha fatto la sua ragione di essere.
Un libro che svolge una funzione culturale fondamentale: smontare luoghi comuni e pregiudizi. Un lavoro egregio e sempre necessario.
Il libro
Farian Sabahi, Noi donne di Teheran, Jouvence, Mim Edizioni, 2022.
L’autrice
Farian Sabahi: insegna Middle East: History, Religion and Politics alla Bocconi di Milano. Editorialista per il Corriere della Sera, scrive di questioni islamiche per le pagine culturali del Sole24Ore. Autrice di diversi volumi sull’Iran e sullo Yemen.
L’invasione russa ha sconvolto le reti dell’energia globale, mutato gli equilibri del mondo e accelerato il declino europeo, accrescendo l’instabilità dell’unipolarismo americano opposto alla Cina.
Con la guerra in Ucraina non viene sancito soltanto il ritorno della storia in Europa, ma diventano evidenti i movimenti delle faglie geopolitiche di un mondo ormai in frantumi.
Cosa accadrà adesso?
Per Giulio Sapelli, il dramma della guerra di aggressione russa all’Ucraina non è risolvibile se non trasformando il conflitto militare in competizione economica, come di fatto sta in parte accadendo, cioè mettendo in discussione il dominio del dollaro e indebolendo man mano le ideologie di autosufficienza energetica sia americane che europee.
Insomma, un dramma che prima o poi vedrà tacere le armi, ma che inaugurerà una guerra economica di lunga durata di cui sarà difficile prevedere l’esito, se non si ritorna a una volontà comune di perseguire l’equilibrio anziché il dominio.
Lucio Caracciolo, nella prefazione al libro, afferma di essere pressoché certo che se la guerra non dilagherà oltre i confini dell’ex Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, fra qualche mese, molti di quelli che a gran voce hanno condannato l’aggressione russa a Kiev e invocato più armi per la resistenza contro l’invasore converranno che quel capitolo doloroso dev’essere chiuso nell’unico modo che a loro parrà possibile: voltandosi dall’altra parte.
Ma per la guerra economica ipotizzata da Sapelli faranno o farebbero altrettanto?
Caracciolo sottolinea come, per Sapelli, siamo in un mondo pre-vestfaliano. Torniamo alle guerre di religione o delle ideologie. Contesti nei quali i dati di realtà e la ragione pratica si sfibrano, sopraffatti dalla violenza fisica ed emotiva. I cosiddetti mezzi sociali di comunicazione – trionfo della carenza di socialità – invitano alla fratturazione della ragione e alla guerra come «igiene del mondo». Magari in nome dei diritti umani.
Sapelli legge l’aggressione russa all’Ucraina nel contesto di un sistema internazionale saltato. Irrecuperabile. Perché quando una grande potenza come la Russia decide di opporre la forza dei suoi armamenti all’incedere verso l’emarginazione, tutto diventa possibile. Purtroppo. Anche la guerra mondiale.
La cifra delle competizioni geopolitiche ed economiche attuali è l’impiego della forza non solo da parte dei potenti a danno dei più deboli ma fra le maggiori potenze.
La novità della guerra in Ucraina è qui. Perché di guerra indiretta fra Russia e Stati Uniti si tratta, con la Cina a studiarne preoccupata conseguenze e ripercussioni che potrebbero interrompere il ciclo di sviluppo già incrinato.
Ristabilire un equilibrio di potenza, quindi un ordine internazionale, sarà operazione di lunga lena e purtroppo costosa, non solo in senso economico. E fa benissimo Caracciolo a ricordare anche che a questa deviazione della storia noi italiani, da tempo beatamente accomodati nel nostro fortunatissimo mondo post-storico, siamo impreparati. Ci mancano i mezzi per capire, prima ancora che per agire.
La pressione della Russia verso il Mediterraneo minaccia direttamente il nostro Paese.
Cosa accadrebbe se la guerra portasse alla chiusura del canale di Suez?
Preoccupazioni legittime che valgono, in maniera diversa, per tutti i Paesi d’Europa. La Germania, per esempio, afferma la sua riscoperta della potenza, per la quale le manca però, almeno finora, il requisito primario: il pensiero strategico. Il suo rapporto quasi parentale con la Russia «la costringe a contorcimenti ed errabonde escursioni dall’europeisticamente corretto che ci ricordano la sua strutturale incapacità di essere egemone».
In Russia, dopo gli anni eltsiniani, si è assistito alla rinascita prepotente di un nuovo nazionalismo «grande russo», fondata su un pensiero «nazional-patriottico» e come reazione alla depredazione delle risorse materiali e spirituali da parte «degli spiriti animali del liberalismo capitalistico». Il pensiero «nazional-patriottico», in risposta a questa «tragedia ordoliberista», ha trovato il terreno di coltura propizio.
I suoi ispiratori sono pensatori euroasiatici come Aleksandr Dugin, per il quale la specificità “grande russa” oppone ontologicamente la Russia all’Occidente e rivendica l’Ucraina come sua fonte primigenia.
I «nazional-bolscevichi» alla Eduard Limonov e i «nuovi conservatori» alla Vladislau Surkou teorizzavano e teorizzano la “verticalità del potere”, che si fonda sulla fedeltà alle radici religiose ortodosse e sulla rivendicata potenza della forza delle armi nucleari, ovvero i pilastri di una nuova «Russia Unita» che si avvia a mutare totalmente il volto delle relazioni internazionali.
Per contro, ricorda Sapelli, purtroppo, la linea di condotta delle potenze occidentali, in primis quella degli Usa e della Nato, favorì e favorisce la rinascita di queste tendenze distruttrici. E ciò per l’effetto controintuitivo di quella politica di espansione a est della Nato, che non poteva non provocare il rafforzamento delle tendenze aggressive imperialistiche «grandi russe».
Putin vuole la neutralizzazione dell’Ucraina e la non contendibilità del Mar Nero. Ha quindi bisogno di controllare il Donbass, Odessa e la Crimea.
L’invasione dell’Ucraina non è una mossa avventata: è coerente con una strategia e, per l’autore, se si vuole percorrere la via delle trattative, l’obiettivo della neutralità di Kiev dovrà essergli concesso.
Il rispetto dell’Accordo di Minsk del 2014, che riguardava il cessate il fuoco, il disarmo delle bande armate e la ripresa dei negoziati, sarebbe stato il punto archetipale per riprendere ogni serio rapporto con la Russia.
Dalla fine dell’Unione Sovietica in poi l’Europa ha cercato invece di sradicare le radici europee della Russia, «calpestando accordi, lanciando provocazioni e alimentando il timore dell’isolamento».
Putin ha allora trasformato il conflitto con l’Europa e la Nato sull’Ucraina e la Crimea e sull’Artico in una partita di equilibri globali stando attento al ruolo euroasiatico della Russia nel lungo periodo e, soprattutto, in relazione con il gioco di potenza globale dove l’Europa è solo uno degli scenari.
Inoltre Sapelli ritiene le sanzioni economiche una mossa sbagliata. Per il semplice fatto che, come la storia insegna, producono l’effetto opposto di quello prefisso, ossia rafforzano i regimi invece di indebolirli. Inoltre è innegabile che le sanzioni danneggiano più l’Europa della Russia.
Ogni giorno l’Europa paga a Mosca centinaia e centinaia di milioni di dollari per comprare gas e petrolio. I paesi europei non possono rinunciare alle forniture russe.
Del resto, i rapporti energetici tra Russia e Ucraina sono continuati anche durante il conflitto. Perché devono perentoriamente essere interrotti quelli tra i paesi europei e la stessa Russia?
Questo modo di intendere i rapporti energetici è stato sconvolto dall’invasione proprio perché le politiche di Nato ed Europa sono fondate sull’impiego delle sanzioni. Ma agendo in questo modo, rammenta Sapelli, non si è disinnescato il pericolo più grande evocato dalla guerra di aggressione: il conflitto nucleare. Una minaccia costante da quando si sono abbandonati i trattati di non proliferazione e il rischio di incidenti è altissimo. È in questo contesto che bisogna comprendere che Nato ed Europa hanno sbagliato, includendo troppo rapidamente tra i loro membri le nazioni che confinano con la Russia. Per l’autore, si è trattato di un errore epocale, che ha drammaticamente accentuato il senso di accerchiamento di Mosca. E, così facendo, si è passati da una gestione diplomatica dei rapporti con l’Occidente a quella che Sapelli definisce una «trattativa armata». Ma ormai, naturalmente, tornare indietro è impossibile.
Alla crisi l’America risponde in forma di centralizzazione imperialistica, economica e militare. Raccoglie intorno a sé non solo la Nato, ma anche tutte le nazioni dell’Ue, tanto in merito alle sanzioni quanto sull’armamento dell’Ucraina.
Le sanzioni sono sempre state una costante dell’azione nordamericana: sono state impiegate contro l’Iraq in favore del Kuwait, con Gheddafi in funzione anti-italiana, con Assad in Siria in funzione anti-francese e anti-russa.
Per Sapelli è veramente disarmante che gli Usa pensino di centralizzare in forma asimmetrica le relazioni internazionali ed economiche, e che pensino di farlo continuando a umiliare la Francia dopo la chiusura obbligata del Nord Stream e l’imposizione di comprare il gas liquefatto statunitense – cosa che farà lievitare quanto mai il prezzo di tutti i combustibili fossili a causa delle varie difficoltà tecniche. Per l’autore il disegno degli Stati Uniti per l’Europa è puntare sulle divisioni esistenti tra gli stati membri per determinarne, operando dall’altra parte dell’Atlantico, il destino.
Giulio Sapelli ritiene che il ruolo della Russia sia sempre stato decisivo per la storia europea. Ed è nei confronti di questa che l’Europa deve esprimere la volontà di relazionarsi in forme autonome rispetto agli Usa. Il modo in cui può farlo è stabilire rapporti con Mosca in modalità differenti da quelle statunitensi, cioè non conflittuali, e che consentano di aiutarla a superare la persistente ostilità nei confronti di un Paese senza il quale l’Europa – non l’Ue – non può esistere come potenza mondiale.
Il libro di Sapelli, a tratti, può sembrare dispersivo ma pensarlo è un errore nel quale il lettore è bene non cada. Il racconto di Sapelli in realtà mostra quanto sia fitta, intrecciata e complessa la rete delle relazioni internazionali, della politica estera che segue e ricade al tempo stesso su quella interna, e di quanto delicato sia l’equilibrio tra Stati, prima ancora che tra “potenze”.
Solo riflettendo su tutto ciò si può evitare il ben più grave errore, in cui purtroppo in tanti sono incappati, di pensare che un bel giorno, come un fulmine a ciel sereno, Vladimir Putin si sia alzato e abbia comandato l’invasione dell’Ucraina e che ciò abbia destato stupore e sgomento nel resto del mondo.
Il libro
Giulio Sapelli, Ucraina anno zero. Una guerra tra mondi, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2022.
Prima edizione: maggio 2022.
Prefazione di Lucio Caracciolo.
L’autore
Giulio Sapelli: Già professore di Storia economica ed Economia politica in Università europee ed americane. Consulente e consigliere di amministrazione in importanti gruppi industriali e finanziari. Premio Fieri 2020 alla carriera. Presidente Fondazione Germozzi di Confartigianato.
Stando ai dati forniti forniti da ACLED (Armed Conflict Location & Event Data Project), una parte sostanziale del nostro pianeta è impegnata in una qualche forma di conflitto che coinvolge forze statali o ribelli, o entrambe.
Eppure, se fino al 23 febbraio 2022 in tutto l’Occidente nessuno o quasi parlava di conflitti e di guerra, impegnati come si era ancora nel “combattere” la pandemia o quel che ne restava, dal 24 febbraio 2022 praticamente non si parla d’altro. Perché?
È ormai cosa nota che il conflitto russo-ucraino ha avuto origine ben prima che iniziassero i bombardamenti anche sulla capitale Kiev. Inoltre sono in tanti ad affermare di aver previsto gli eventi in corso. Tra essi anche Nicolai Lilin, scrittore russo di origini siberiane, autore di Putin. L’ultimo zar da San Pietroburgo all’Ucraina (Piemme, 2022), il quale dà anche una possibile motivazione all’interesse verso questa determinata guerra che non è più solo un’idea o un argomento da salotto, bensì un conflitto armato alle porte d’Europa.
Quindi è la vicinanza geografica a determinare l’interesse?
Le domande sono tante, come pure le risposte ma il vero problema risiede, per Lilin, nei presupposti sbagliati da cui si parte per analizzare quanto accade. Senza rendercene conto, il nostro modo di ragionare dipende da fattori legati alla nostra storia, cultura, tradizione. E spesso noi occidentali diamo per scontata una serie di concetti che non lo sono, perché a est, nel mondo orientale, i valori di riferimento sono altri, sono diversi.
Per capire cosa effettivamente sta accadendo, Nicolai Lilin consiglia di mettere in fila e analizzare tutti gli argomenti utili a una disamina obiettiva, che cerchi di tenere presente la storia di Russia e Ucraina, le ambizioni geopolitiche ed economiche, il profilo dei leader che guidano i due paesi.
Non ci sono dubbi sul fatto che l’Ucraina è un paese sovrano che avrebbe il diritto di scegliere il futuro che vuole. Neanche Lilin ha dubbi al riguardo. Come non ne nutre in merito al fatto che quanto sta accadendo, in una forma finale di abbrutimento, sia colpa di tutti non soltanto di Putin o della Russia. Sono tutti colpevoli, e responsabili. Tranne i civili, che sono gli unici innocenti in questa vicenda.
Per l’autore, dalla Guerra Fredda sono cambiate molte cose, ma l’Occidente non ha adeguato il suo spirito di osservazione alla nuova realtà putiniana. Se lo avesse fatto, avrebbe compreso per tempo le intenzioni di Putin, che erano chiare da tempo, e avrebbe, forse, potuto evitarle, fermarle, rallentarle.
Vladimir Putin aveva deciso da un pezzo l’attacco all’Ucraina. Servono anni per preparare un’operazione di questo tipo – che ha l’obiettivo di smilitarizzare il paese -, scegliere le unità militari e disporre gli schieramenti.
Le esercitazioni militari congiunte tra Russia e Bielorussia avvenute in passato avevano per Lilin una doppia utilità:
Per l’esercito e i militari è stato un modo per provare sul terreno l’efficacia dei propri reparti, la logistica e la comunicazione.
Per la geopolitica internazionale era un chiaro segnale all’Occidente.
Non possono essere sfuggiti questi segnali. Di certo sono stati carpiti da Zelenskij che è sembrato il più preparato tra i leader occidentali.
Si chiede Lilin cosa esattamente l’Occidente non capisce, o non vuole comprendere del mondo russo.
Domande simili a quelle poste già da Giulietto Chiesa, il quale in Putinofobia (Piemme, 2016) raccontava della peculiarità tutta russa di essere un po’ Occidente e un po’ Oriente, e proprio per questo criptico e indecifrabile per gli occidentali. Inoltre, ogni volta che la Russia diventa più asiatica, l’Occidente inizia a perdere il controllo dei nervi.
In entrambi i fronti le diplomazie sono state carenti, volutamente per Lilin. Da otto anni non si affrontano le questioni di fondo della vita delle persone nel Donbass, dove si contano oltre 14mila morti.
Perché oggi si contano tutti i morti e se ne mostrano anche le immagini mentre fino a ieri ciò non sembrava interessare nessuno?
Certo è che la guerra non produce alcuna soluzione.
La Russia ha aggredito l’Ucraina, ma ognuna delle parti in causa non ha scongiurato l’escalation.
Si potrebbe anche asserire semplicemente, come molti fanno, che Putin sia un dittatore spregiudicato, un assassino e che i suoi soldati siano dei criminali di guerra e che, quindi, l’unica cosa che conta è aiutare l’Ucraina e il suo presidente a resistere, ad ogni costo.
Ma come si può anche lontanamente immaginare di vincere o sconfiggere un nemico che non si conosce e non si comprende?
Ricorre spesso, nella narrazione comune, il tema delle origini di Vladimir Putin, in particolare il suo essere o essere stato un agente dell’intelligence sovietica, il KGB poi diventato FSB, di cui è stato anche direttore.
Non è certo un segreto che i servizi, in tutti gli Stati, hanno un potere enorme, a volte abnorme, e che la loro attività sia strettamente interconnessa e interdipendente con quella di istituzioni e governi. Risulta quindi molto interessante capire, provarci almeno, perché un agente abbia poi deciso di passare al potere politico pubblico, e di farlo non nascondendo il suo passato da agente dei servizi.
E sarebbe anche interessante conoscere e comprendere l’entità e la diffusione reale di questo fenomeno nei vari Stati, nonché le motivazioni alla base di queste scelte.
Nicolai Lilin ricorda di essere cresciuto in una scuola e una comunità multietniche. Fino al 1992, allorquando la guerra civile in Transnistria non provocò una diffusione capillare dell’odio razziale nei confronti del mondo russo e di tutti coloro che erano rimasti fedeli al modello sovietico. Un malessere che partì dalla Moldavia e si estese a diverse piccole repubbliche e regioni etniche (Cecenia, Kazakistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Ossezia, Armenia).
Il partito nazionalista moldavo voleva far entrare il paese nella Nato nella convinzione che, con l’aiuto e l’appoggio degli Stati Uniti, sarebbe diventato una specie di paradiso fiscale.
L’ambizione diffusa era allontanarsi dal sistema sovietico e avvicinarsi a quello democratico occidentale.
Il che rispecchia un po’ quanto accaduto in quasi tutti gli Stati satellite dell’ex Unione Sovietica, Ucraina compresa.
Alcuni studiosi e biografi hanno scritto che il crollo dell’Unione Sovietica e le guerre civili da questo provocate furono alla base della fortuna politica di Putin, perché in quello che alla gente appariva come un periodo di caos e terrore, lui mostrò le proprie qualità di freddo e spietato stratega, concentrato sulla vittoria.
Politicamente, Putin è una figura solitaria sul palcoscenico del potere in Russia.
Il potere del Cremlino si regge non sul consenso popolare, bensì su quello di un’élite finanziaria che di fatto comanda, mentre l’apparato governativo avrebbe un ruolo strettamente funzionale agli interessi di tale élite.
Il che rimanda per sommi capi a quello che denunciavano attivisti e portavoce del Movimento Cinque Stelle della prima ora, allorquando dichiaravano insostenibile l’ingerenza delle lobby e della finanza sulle istituzioni governative e parlamentari italiane.
Vladimir Putin non sembra mai aver avuto grandi manie di cambiamento. Per Lilin egli ha saputo sfruttare con abilità quel che nel Paese era già stato fatto prima di lui, creando però una nuova simbiosi tra il capitalismo, l’economia liberale d’ispirazione occidentale e l’impronta autoritaria dello “Stato forte”. E così tutti i mali del Paese semplicemente sono scivolati nel nuovo secolo: il potere dell’oligarchia, la corruzione, il cinismo delle élite finanziarie, l’assenza di libertà primarie quali quella di parola.
Per quanto autoritario e forte possa apparire, Putin è pur sempre legato a un certo tipo di economia che non potrà mai davvero rivoluzionare, perché ciò metterebbe in difficoltà se stesso e il potere che rappresenta.
Lui ha capito in fretta che l’opinione pubblica in Russia ha un’importanza relativa, mentre quella dei militari e delle strutture repressive ha un ruolo decisivo nel mantenimento e rafforzamento del potere.
È stato solamente dopo aver costruito un solido rapporto con l’esercito, creato la Rosgvardija, stabilito un tandem vincente con la Chiesa ortodossa russa che Putin ha iniziato a dedicarsi seriamente alla politica estera.
Per raggiungere i propri obiettivi, Putin ha investito parecchie energie, partecipando a tutti i summit internazionali importanti, sia politici che economici, nonché quelli legati al tema della sicurezza. Per Lilin, il momento cruciale è stata la Conferenza di Monaco del 2007, allorquando Putin delineò le sette tesi principali sulle quali si basa la sua politica estera:
Nelle relazioni internazionali non può esistere un modello unipolare.
Gli Stati Uniti devono smettere di imporre la propria visione politica.
Tutte le questioni che riguardano gli interventi militari devono essere decise soltanto dall’ONU.
Le iniziative politiche statunitensi sono aggressive.
La NATO non rispetta gli accordi internazionali.
L’OSCE è diventata uno strumento della NATO.
La Russia continuerà a impostare la propria politica estera basandosi solo sui propri interessi.
Da quel momento, la gran parte dei politici occidentali accusò Putin di essere il politico più aggressivo del mondo. Ma un proverbio siberiano recita: «Quando sono affamati, non c’è differenza tra il lupo e il cane».
Anche questa volta, come accaduto già in passato, i politici occidentali, con in testa gli Stati Uniti, hanno asserito di dover agire per scongiurare il pericolo di una guerra nucleare. Giusto. Giustissimo. Bisogna evitare assolutamente che una potenza militare arrivi ad usare qualunque tipologia di arma ma quella nucleare in particolare.
Tutti gli hibakusha e tutte le testimonianze raccolte nel Museo memoriale della Pace di Hiroshima, in Giappone, lo urlano al mondo intero, con il loro dignitoso sussurro.
È necessario e doveroso ricordare, sempre. Il 6 e il 9 agosto del 1945 due bombe nucleari furono sganciate ed esplosero nel cielo a 500 metri di altezza dal suolo delle due cittadine giapponesi. E a farlo sono stati gli americani, gli Stati Uniti d’America.
Ed ecco allora la verità del proverbio siberiano: nella fame, come nella guerra, non c’è differenza tra il lupo e il cane.
Nicolai Lilin afferma che è veramente difficile credere alla sincerità dei “democratici occidentali”, perché essi vedono le vittime solo quando a loro conviene, ovvero quando possono usarle per la loro ipocrita retorica propagandistica.
A onor del vero va detto che questo giudizio l’autore lo esprime in merito a delle considerazioni riguardo quanto accaduto in Siria, non riguardo l’attuale conflitto russo-ucraino.
Ma è un concetto che ben si presta, ahinoi, a una più ampia generalizzazione.
Non da ultimo l’esser costretti ad assistere all’ammirevole e certamente umano fenomeno della pronta e solidale accoglienza dei rifugiati ucraini, ma non riuscire a non pensare quando quelle medesime frontiere vengono letteralmente blindate e spinate per scoraggiarne l’attraversamento da parte di migranti e rifugiati che evidentemente non sonoabbastanza occidentali o europei.
Per tutti i politici e governanti occidentali l’obiettivo prioritario sembra essere quello di indebolire la Russia e soprattutto Putin, innanzitutto rinunciando alle forniture di gas.
Ma siamo davvero certi che ciò contribuirà in maniera sostanziale a salvare il popolo ucraino dall’aggressione militare russa?
Bisogna inoltre scongiurare un’aggressione russa all’Europa.
Ma siamo davvero certi che ciò sia mai stato nelle intenzioni di Vladimir Putin?
Osservando l’evoluzione dei combattimenti dal 23 febbraio ad oggi in realtà l’idea che si profila è tutt’altra. Ovvero che Putin sia ben intenzionato a mantenere il controllo sui territori russofoni dell’Ucraina. Può non essere un democratico ma Putin non è certamente uno sprovveduto o un folle in preda a un delirio. Ha un piano preciso. Lo ha sempre avuto in realtà. Ma prima di cadere noi stessi in un delirio distruttivo dovremmo forse, o avremmo dovuto, cercare di capirlo fino in fondo questo piano e comprendere al meglio chi lo porta avanti e, soprattutto, perché.
Karen Dawisha nel suo libro Putin’s Kleptocracy. Who owns Russia (Simon&Schuster, 2015) ha scritto che la Russia non va vista come una democrazia che sta per implodere, bensì come un regime che sta riuscendo a imporre il suo disegno autoritario. Il problema in Russia non è la mancanza di una cultura democratica, a mancare è proprio la volontà di instaurare una democrazia.
Evidente a questo punto l’errore, di cui parla Lilin, commesso dagli occidentali che si ostinano a guardare e cercare di comprendere l’universo russo attraverso la lente interpretativa occidentale.
Putin ha mostrato di essere in grado di cavalcare gli eventi e sfruttare al meglio soprattutto i momenti drammatici della storia del suo Paese. Sperare di scalfire il suo potere e la sua popolarità proprio quando egli, agli occhi del suo Paese, porta avanti una guerra di protezione e riscatto dei cittadini russofoni dell’Ucraina è davvero utopistico.
Come lo è pensare di schiacciare l’economia russa non acquistando più quel gas che ai paesi europei al momento serve tantissimo. Il gas russo è di buona qualità e viene venduto a un costo accessibile, facile supporre che si troveranno presto nuovi acquirenti. Ma le fabbriche, le industrie, le economie dei paesi europei, già fortemente provate, riusciranno a trovare in maniera parimenti agevole nuove vie da percorrere? E in breve tempo?
Al momento la risposta è per certo negativa, considerando anche la forsennata ricerca di fornitori alternativi cui si sta assistendo. Paesi fornitori i quali, per inciso, sono governati da leader che fino al 23 febbraio 2022 erano guardati con maggiore sospetto e ostilità rispetto a Putin. Ma ora, dicono, questo non conta. E domani poi cosa accadrà?
Nicolai Lilin scrive che gli uomini del calibro di Putin, abituati al potere, conoscono molto bene il passato e a volte sono anche in grado di prevedere qualche passo nel futuro.
Molti affermano sia un bene non avere leader simili nelle democrazie occidentali. Uomini che considerano il mondo come un grande scacchiere, che vedono guerre e conflitti come semplici mezzi utili per raggiungere i propri obiettivi. Non penso che sia così. Ci sono queste persone nell’universo occidentale, solo che possono non coincidere con i frontmen della politica.
Spesso Nicolai Lilin viene criticato e additato come russofilo, in un’accezione evidentemente negativa e dispregiativa. Nel leggere il suo libro e nell’ascoltare alcuni dei suoi interventi televisivi in realtà non si ha l’impressione di una persona intenzionata a fare propaganda per il suo Paese, tutt’altro.
Le sue posizioni verso il Cremlino sono molto critiche, come lo sono del resto verso i Paesi occidentali. Non si tratta però di posizioni e critiche generalizzate e immotivate, piuttosto obiezioni e valutazioni circoscritte ad accadimenti precisi. Il suo fine sembra essere valutare con la massima obiettività eventi e decisioni, indipendentemente da chi li compie. È certamente un modo di agire che evita o quantomeno riduce il rischio di posizioni scarsamente obiettive e viziate da pregiudizi e preconcetti.
Per Lilin sono quattro gli scenari cui si potrebbe assistere riguardo l’attuale conflitto russo-ucraino:
Molti analisti russi pensano che il fine di Putin non sia veramente occupare militarmente l’Ucraina ma solo dimostrare che lo può fare. Poi sfruttare questa azione dimostrativa nei colloqui diplomatici. Avanzare le sue richieste e in cambio concedere il ritiro delle truppe.
Si potrebbe avere una totale occupazione dell’Ucraina. Putin imporrà il suo governo e condurrà i colloqui con i Paesi NATO.
Il terzo scenario possibile vede il ritiro di Putin e il prevalere della diplomazia occidentale. Le sanzioni funzioneranno e Putin perderà l’appoggio degli oligarchi. La situazione in Russia si destabilizza.
L’Europa unita accetta l’ingresso in UE dell’Ucraina. La Russia a quel punto avrà invaso un Paese europeo e quindi si ritira. Non ci sarà il terzo conflitto mondiale ma, avverte Lilin, l’Europa avrà fatto entrare in UE un Paese dove è libera la vendita di armi.
Putin è un uomo che, giunto al Cremlino ha dovuto fare i conti con un Paese in ginocchio e un apparato amministrativo obsoleto e corrotto. Un presidente che ha esercitato ed esercita il potere con il pugno di ferro. Un uomo la cui linea politica, anche dopo venti anni, rimane immutata, disperatamente stagnante.
Giulietto Chiesa, guardando attraverso la lente di ingrandimento della russofobia attuale, ovvero nella Putinofobia, ci vedeva una Russia che, se gli occidentali fossero in grado di capirla, sarebbe uno straordinario ponte di comunicazione proprio per questa sua duplice essenza, europea e asiatica. È l’unico strumento che abbiamo noi europei per capire un po’ meglio l’Asia e il resto del mondo, che abbiamo colonizzato, ma ciò non vuol dire che lo abbiamo capito. Vuol dire solo che lo abbiamo vinto, conquistato, soggiogato.
La Russia può essere il tramite attraverso il quale l’Occidente può capire il resto il mondo. Ma l’Occidente questo non lo vuole, lo ha scartato da principio.
I vecchi attriti non sono mai stati risolti, forse congelati, come afferma Lilin, dai giochi diplomatici e dagli interessi una volta comuni. Interessi soprattutto di natura economica e finanziaria.
Conflitti cui vanno ad aggiungersi nuove tensioni, con grande sfortuna dell’umanità intera costretta a subire le conseguenze di questi assurdi giochi di poteri nei quali i cani e i lupi non fanno che confondersi o addirittura fondersi.
Putin. L’ultimo zar da San Pietroburgo all’Ucraina di Nicolai Lilin è certamente un libro che merita di essere letto senza necessariamente sentirsi o diventare russofili. È un libro che cerca di fare breccia in un mondo pressoché sconosciuto come il leader che lo rappresenta. Per capire. Per tentare almeno di capire quello che accade e perché.
Il saggio del professor Barberis si apre con una citazione di Edward Snowden che in parte anticipa il fulcro centrale del discorso portato avanti dal filosofo e per il resto rende perfettamente l’idea di cosa il lettore deve aspettarsi inoltrandosi tra le righe del libro Non c’è sicurezza senza libertà, edito quest’anno da ilMulino: «Il terrorismo è solo un pretesto».
In Putinofobia (Piemme, 2016), Giulietto Chiesa afferma che, mentre il terrore rosso operante nell’ex Impero Sovietico fosse un nemico vero dell’Occidente, il terrore verde, ovvero quello di matrice islamista, sia in realtà una mera invenzione dello stesso Occidente. Non è l’unico saggista ad affermare una cosa del genere ma bisogna stare bene attenti al significato di queste parole.
Lo stesso Barberis, che in Non c’è sicurezza senza libertà più volte si avvicina alla linea tracciata anche da Chiesa, risulta essere ben lontano dall’affermare che il terrorismo islamista non esiste, letteralmente parlando. È ovvio che gli jihadisti esistono, come pure i foreign fighter. Naturale che gli attacchi terroristici nelle città dell’Occidente ci sono stati, come pure le vittime… quello su cui Barberis, Chiesa, Luizard e altri studiosi invitano a riflettere sono le dinamiche che hanno dato origine a detta forma di terrorismo e le conseguenze, durature seppur non immediate e dirette, di questi attacchi al cuore e ai simboli della civiltà occidentale.
Pierre-Jean Luizard, storico e direttore di ricerca al Centre national de la recherche scientifique a Parigi, in La trappola Daesh (Rosenberg&Sellier, 2016) afferma che l’unica strada indicata come percorribile per annientare in maniera definitiva il terrorismo estremista di matrice islamica sia la sconfitta militare del Califfato. È una storia già nota, quella che raccontano media e politici, che prospetta una soluzione già fallita. Basti ricordare quanto accaduto all’indomani degli attentati dell’11 settembre del 2001, alle guerre e alle invasioni che ne sono derivate, alla uccisione di Osama bin Laden e all’affermazione dell’avvenuta sconfitta di Al-Qã’ida.
Il terrorismo islamista si è presentato più forte e organizzato di prima ed è tornato prepotentemente e più volte a bussare alle porte degli stati occidentali, mietendo vittime e democrazia. Esatto, perché è proprio da questo punto che parte la dettagliata analisi del fenomeno portata avanti da Mauro Barberis. Sentirsi o essere al sicuro non significa necessariamente sentirsi o essere liberi. Spesso i valori di sicurezza e libertà, «lungi dell’essere solidali, confliggono». E allora non si può non chiedersi, insieme all’autore, a quanta libertà personale abbia dovuto rinunciare ogni occidentale in seguito non solo e non tanto alle minacce terroristiche quanto alle misure restrittive e limitative intraprese dai vari governi, Stati Uniti in primis.
Conta poco che un 11 settembre sia oggi, con tutti i controlli aerei posti in essere, irripetibile. Autorità e apparati conservano i poteri e le risorse loro attribuiti per prevenire la replica. Da eventi come l’11 settembre, o da noi in Italia i terremoti, si sta «sviluppando una sorta di capitalismo della catastrofe» che ruota intorno al concetto di “sicurezza sociale” che non è mai stata un ostacolo allo sviluppo del mercato «come crede la gran parte dei neoliberisti contemporanei, ma una sua condizione necessaria».
Più volte citato dallo stesso Barberis, Michel Foucault sosteneva che la seconda conseguenza del liberismo, e dell’arte liberale di governare, è la formidabile estensione delle procedure di controllo, di costrizione e di contrappeso delle libertà. L’allerta seguita agli attacchi terroristici in territorio occidentale ha innalzato notevolmente l’asticella dei controlli e delle limitazioni della privacy di ognuno. Ma quanto in realtà queste misure possono o incidono sul reale rischio di nuovi attentati? Barberis afferma che la quasi totalità delle misure antiterrorismo è inadeguata, non necessaria e sproporzionata. Perché viene posta in essere comunque?
I limiti militari e tattici del nuovo terrorismo sono stati più volte dimostrati sul campo di battaglia. La vera forza dei terroristi risiede nell’eco mediatica che le loro “gesta” riscontrano sui media e nella Rete. Se le loro azioni, al pari delle minacce e dei video propagandistici, non ricevessero l’attenzione mediatica che invece trovano in tutto il mondo ormai il loro “potere” e la conseguente efficacia ne sarebbero inevitabilmente compromessi. Mauro Barberis sottolinea come ciò sia vero anche per le misure e le reazioni antiterroristiche dei governi, i quali sembrano affidarsi sempre più spesso alla tattica della politica-spettacolo, dove tutto viene “spettacolarizzato” al fine di ottenere il consenso del pubblico, ovvero dei cittadini. Tattiche che possono risultare affini, almeno per quel che concerne l’esagerazione o, se si preferisce, l’estremizzazione.
Battere così tanto sul concetto di sicurezza può anche sembrare un modo per stimolare e, al contempo, far leva sulla paura. Una persona che ha paura è decisamente molto più remissiva. In nome della sicurezza di tutti si può anche arrivare ad accettare passivamente limitazioni della propria libertà personale purché ciò sia utile a sconfiggere il pericoloso nemico che motiva i provvedimenti di urgenza intrapresi dai vari stati. Provvedimenti che poi si trasformano da eccezione a regola.
Riscontrabile, ad esempio, nella tendenza degli esecutivi ad appropriarsi della legislazione in tempo di guerra tramite la decretazione d’urgenza. Poi le guerre finiscono ma i governi, compreso quello italiano che ufficialmente non entra in guerra da settant’anni, continuano a legiferare per decreto. Quanti decreti vengono approvati? Qual è la loro reale emergenza? A legiferare non è preposto il Parlamento?
Quesiti doverosi su argomenti complessi è vero ma molto attuali. Situazioni e decisioni da cui derivano le sorti di interi popoli e nazioni. Tematiche di cui, a volte, spaventa il sentirne parlare o leggere perché, più o meno consciamente, si teme la scoperta di un ordine inverso delle cose, delle azioni e, soprattutto, delle motivazioni che hanno preceduto e determinato le scelte, di governi e terroristi. Eppure, alla fine, risulta sempre positivo lo studio e l’approfondimento di questi temi.
Non c’è sicurezza senza libertà di Mauro Barberis si presenta al lettore come una sistematica analisi di concetti, nozioni, dati, diritti e violazione degli stessi che ruota intorno a due termini affatto scontati: sicurezza e libertà. Un libro che appare moderato anche nelle tesi “estreme” più volte espresse, le quali vanno assimilate e maturate prima di essere frettolosamente giudicate o mal-interpretate.
Una interpretazione che deve essere portata avanti con una grande onestà intellettuale, la medesima che Barberis chiede abbiano sempre i “produttori” culturali, prima ancora dei politici e dei governanti. Avallando così l’ipotesi e la speranza che un’informazione e una educazione “libere” possano essere le migliori apripista per i cambiamenti di cui il mondo ha bisogno. Cambiamenti che potranno e dovranno per forza venire dalla cultura, in particolare dai libri, vero punto di forza nel giudizio dell’autore, il quale attribuisce loro una potenza talmente intensa da essere, a volte, una vera e propria catarsi.
Una lettura forse impegnativa Non c’è sicurezza senza libertà di Barberis, soprattutto nell’excursus storico-politico e nell’analisi dettagliata di dati e provvedimenti governativi, ma di sicuro interessante e, per molti versi, illuminate. Assolutamente consigliata.
I governi di tutto il mondo basano le proprie decisioni sui rapporti informativi dei servizi di intelligence, strutture di sicurezza cui spetta il compito di reperire tutte le informazioni possibili necessarie alle autorità per compiere le proprie scelte e prendere le relative decisioni. Un potere enorme racchiuso nelle mani di una rete di persone pressoché invisibili, ma che esistono e agiscono, anche se all’ombra di governi e istituzioni, determinandone però la linea e le iniziative. Andrea Foffano, docente di sicurezza e intelligence presso ASCE e ANVU-ISOPOL, sottolinea come alcune notizie di carattere internazionale sono in grado di poter stabilire l’andamento politico, sociale ed economico di un’intera comunità nazionale. Anche laddove queste informazioni fossero volutamente forzate o addirittura falsate. Infatti, uno dei principi cardine dell’attività d’intelligence, svolta da tutti i servizi di informazione del mondo, non è altro che l’imperativo: usa tutto e tutti per raggiungere i tuoi scopi. Quali sono allora gli scopi dei servizi di intelligence e quali quelli degli stati per cui lavorano?
Per esemplificare il lavoro svolto da servizi segreti e governi Foffano analizza il conflitto civile siriano partendo da quanto accaduto due anni prima l’inizio della guerra. Ovvero allorquando nel tratto di mare compreso tra l’Iran e la penisola del Qatar, fu scoperto uno dei più grandi giacimenti energetici di gas naturale, usufruibile da entrambi i Paesi. La Siria, al cui governo si trovavano gli Alauiti del Presidente Bashar al-Assad, fedeli alleati degli Sciiti iraniani, negò il consenso al transito delle strutture di trasporto sul proprio territorio nazionale per la Qatar-Turkey pipeline, che avrebbe dovuto collegare l’Europa con il Qatar. Mentre diede il proprio consenso per il passaggio dell’Islamic pipeline progettato dall’Iran. Washington decise di intervenire in difesa dei propri alleati (Qatar e Arabia Saudita) e iniziò a sostenere militarmente le fazioni ribelli che, dopo l’avvento della Primavera Araba in Siria, avevano iniziato a opporsi al regime di Assad. Parallelamente, l’Arabia Saudita iniziò a finanziare in modo massiccio molti dei gruppi terroristici e jihadisti che si opponevano allo stesso regime.
Secondo quanto riportato in un’inchiesta del NewYork Times, l’Arabia Saudita avrebbe finanziato la guerra segreta della CIA in maniera continua e massiccia, si parla di circa un miliardo di dollari da parte degli Stati Uniti e svariati miliardi di dollari provenienti da ricchi e anonimi finanziatori sauditi. Un servizio segreto estero che fornisce sistemi d’arma di ultima generazione a gruppi ribelli divenuti poi estremisti, jihadisti, terroristi è di sicuro una scomoda verità. Modi di agire che ricordano molto, forse troppo, la guerra russa in Afghanistan, con gli americani intenti a sostenere militarmente i Talebani e i Mujaheddin. Americani e sauditi, con il sostegno fondamentale del Pakistan e dei pashtun della zona tribale, avevano creato a Peshàwar il più grande centro jihadista del mondo. Come ricorda Pierre-Jean Luizard, storico e direttore del Centre national de la recherche scientifique, del tempo in cui gli jihadisti erano i nostri eroi che combattevano contro l’Impero del Male, e solo in un secondo momento si trasformarono in barbari che avevano portato il terrorismo nel cuore dell’Occidente.
Per Luizard, il regime siriano ha avuto sempre alcuni difetti agli occhi degli occidentali. In primis per il diniego a una pace con Israele che non prevedesse la restituzione del Golan, occupato dall’esercito ebraico nel 1967. Continua ad avere ottimi rapporti con Mosca, alleato della repubblica sciita dell’Iran e a sostenere militarmente gli Hezbollah, l’unica formazione araba che abbia fermato Israele nella guerra del 2006. Appartiene a quell’asse della resistenza che intende mantenere un’indipendenza dal sistema occidentale alleato con le potenze sunnite del Golfo. Insomma, il nemico perfetto che ha fatto della Siria il terreno ideale per una guerra santa.
Secondo Joshua Landis, uno dei massimi esperti mondiali della politica siriana, circa il 60-80% delle armi che gli Stati Uniti hanno introdotto nel paese sono finiti nelle mani di gruppi terroristici jihadisti riconducibili ad al-Qaeda. Ma se a qualcuno venisse in mente di trovare le prove per accusare gli Stati Uniti di fomentare la guerra in Medio Oriente, avverte Foffano, sappia che andrà incontro a un fallimento certo. Il conflitto in atto in Siria appartiene a una nuova tipologia di guerra: quella per procura, nella quale gli attori in campo mascherano il proprio intervento tramite il sostegno, più o meno indiretto, ad una delle parti in causa. Scontri nei quali il secondo livello, ovvero la guerra delle informazioni, risulta alla fin fine più potente e pericoloso del primo, gli scontri armati sul campo. Almeno per gli Stati che non risultano in apparenza coinvolti direttamente nello scontro perché per quelli direttamente chiamati in causa e soprattutto per le popolazioni ad essi afferenti la situazione naturalmente cambia e anche di molto.
Bana Alabed, la ragazzina che ha fatto conoscere il dolore dei cittadini di Aleppo a tutto il mondo attraverso i suoi tweet inviati ai presidenti di tutte le maggiori potenze mondiali, si chiede come le persone possano essere così crudeli da far diventare, per un bambino, nessun posto sicuro e dedica il libro che racchiude la sua storia a tutti i bambini che soffrono a causa di una guerra, per dire loro che non sono soli, purtroppo. In tanti, in troppi soffrono e subiscono le conseguenze di scelte non proprie, non volute e non condivise in nome di una pace che stenta ad arrivare e a causa di interessi che raramente coincidono con quelli di interi popoli e troppo spesso invece con quelli elitari di ristrette cerchie e categorie di persone.
Quei terroristi che in altri scenari operativi sparsi per il mondo gli Stati Uniti stavano combattendo, a prezzo di numerose vittime fra i soldati dell’esercito americano e della coalizione internazionale, anche come conseguenza dell’intervento, diretto o indiretto che sia, degli stessi nel conflitto civile rischiavano di prendere il potere in Siria e allora lo Stato Maggiore decise di servirsi dei servizi segreti di intelligence per passare informazioni militari alle forze armate delle altre nazioni impegnate nel conflitto. Con la certezza che i servizi segreti di Assad avrebbero intercettato il movimento di dati e utilizzato il tutto nella lotta contro gli jihadisti. I cablo del Dipartimento di Stato americano, resi pubblici nel corso degli anni da Wikileaks, avrebbero gettato un fascio di luce su un retroscena assai torbido e buio.
Un rischio enorme quindi quello corso dagli americani. Non si può non chiedersi il perché reale del continuo e persistente intervento degli Stati Uniti in Medio Oriente o in qualsiasi altra parte del mondo si prospetti o si profili una qualsivoglia instabilità. Al termine della cosiddetta Guerra Fredda, gli Stati Uniti sono diventati l’unico polo dominante schierato in campo geopolitico mondiale. L’America è una di quelle nazioni, insieme a tante altre del cosiddetto Occidente, ad aver improntato il proprio sistema economico sulla competitività: non riescono a trovare una sicura e certa stabilità interna, senza ricorrere a nuovi mercati e ad altrettanti investimenti. Lo slogan del ventennio era: “Chi si ferma è perduto!”. Ecco, mai parole furono più adatte a descrivere la situazione di alcune potenze mondiali a ridosso del ventunesimo secolo.
Gli attacchi dell’11 settembre 2001, da questo punto di vista, sono stati un avvenimento strategicamente molto importante. Hanno decretato l’inizio della «guerra al terrore» che ha significato l’invasione dell’Afghanistan, la guerra ai Talebani, l’invasione dell’Iraq, gli interventi in Libia e in Siria. Operazioni nelle quali ogni mossa è politica, è dettata da convenienze economiche e risponde sempre a chiare regole sociali. Giulietto Chiesa, giornalista e politico italiano, considera il terrorismo islamico un prodotto diretto dell’azione coordinata degli occidentali che usa semplicemente i terroristi, che pure esistono, come manodopera che spesso non riesce a capire neanche per chi sta lavorando. L’Occidente ha sempre avuto bisogno di un nemico. L’Unione Sovietica del ventesimo secolo era perfetta in questo senso. Ma, una volta abbattuto il Comunismo sovietico, l’Occidente si è ritrovato senza un nemico da combattere. Senza nemici e con un nuovo gigantesco alleato e vassallo non è riuscito a spiegare al mondo intero come mai l’economia mondiale andava comunque a rotoli. Il problema non sarebbe quindi esterno, bensì interno, nel modello di sviluppo scelto. Il piano messo in atto sarebbe stato quello di sostituire il terrore rosso con il terrore verde. Il terrore rosso non era un’invenzione, era un antagonista serio. Il terrore verde non è un’antagonista, è stato inventato dall’Occidente. È un’ipostasi messa davanti agli occhi della gente per terrorizzarla e costringerla a rifugiarsi sotto l’ala protettrice degli Stati Uniti d’America.
Per Foffano, prima di passare all’analisi oggettiva dei fatti, provando conseguentemente a interpretarli sino a giungere a una spiegazione logica e razionale degli avvenimenti, bisogna forzatamente sgombrare il campo da ogni sorta di pregiudizio politico-ideologico, che potrebbe in qualche modo viziare la nostra intrinseca capacità critica. Quello che Chiesa definisce con parole molto più crude Matrix, con riferimento diretto alla omonima produzione cinematografica. L’Occidente ha forgiato un apparato di comunicazione, attraverso il suo meraviglioso sistema dell’immagine gradevole e dell’immagine in movimento in generale, che è riuscito a modificare profondamente la psicologia della gente. Ha lavorato in tutti i modi possibili e immaginabili alla penetrazione cognitiva nel cervello degli uomini, delle donne e dei bambini soprattutto, modificando la loro percezione del mondo. Il mondo reale è altrove però, fatto in un altro modo, è furibondo, è feroce, è senza tregua. Siamo sistematicamente mitragliati da una sterminata quantità di messaggi gradevoli che uccidono la nostra capacità critica di sentire, di percepire e di conoscere.
Anche quanto sta accadendo o è già accaduto in Siria, per fare un esempio, viene tagliato fuori dall’immagine che del conflitto hanno milioni di occidentali indotti a credere che si stia parlando, solo, dell’ennesima lotta contro il terrorismo, di matrice islamica questa volta, necessaria e imprescindibile per la sicurezza e la stabilità del mondo, occidentale naturalmente.
Bibliografia di riferimento:
A. Foffano, “Siria. La guerra segreta dell’intelligence”, Ed. Solfanelli, 2017
P.J. Luizard, “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna”, Rosenberg&Sellier, 2016
B. Alabed, “Caro mondo”, Tre60, 2017
G. Chiesa, “Putinofobia”, Piemme, 2016
Putinofobia diGiulietto Chiesa (edito da Piemme) è un libro che analizza la paura che l’Occidente ha sempre provato nei confronti della seconda potenza mondiale: l’Unione Sovietica, ora diventata Russia.
Come sua consuetudine, Chiesa presenta dati e fatti secondo un criterio spazio-temporale che fin da subito lascia intendere al lettore che ben altro si chiarirà con la lettura del libro.
Si può essere d’accordo con le posizioni di Giulietto Chiesa o non condividerle, ma non si può negare che seguire il suo ragionamento conduce, inevitabilmente, ad allargare il proprio orizzonte, a porsi delle domande, a cercare delle risposte… come se all’improvviso, dopo aver sempre osservato il mondo dalla stessa postazione, si venisse catapultati nello spazio e lo si potesse osservare da lì, il nostro pianeta. Ogni cosa acquista una prospettiva nuova, differente.
Per Chiesa, la Russia potrebbe essere uno straordinario ponte di collegamento dell’Occidente con l’Asia e il resto del mondo ma ciò non accade perché gli occidentali non vogliono questo.
Nicolai Lilin, che ha curato la prefazione a Putinofobia, scrive che: «la politica dell’Occidente, che con tutte le forze cercava di frantumare il multiculturalismo ereditato dal regime sovietico per poter manovrare meglio le piccole regioni staccate dal grande polo legato al Cremlino, da subito ha sfruttato la propaganda russofoba come l’elemento principale su cui poter costruire i nazionalismi locali».
Perché lo ha fatto? Quali sono i motivi alla base della russofobia 2.0? Ne abbiamo parlato con Giulietto Chiesa nell’intervista che gentilmente ci ha concesso.
La russofobia occidentale non è un fenomeno nuovo. Quali sono le peculiarità della “russofobia 2.0 o Putinofobia”?
La russofobia risale ad almeno tre secoli fa, da quando esiste la Russia come grande Paese e questo dice già molte cose. La Russia viene vista come un avversario. La russofobia 2.0 è qualcosa di nuovo nel senso che è anche una forma di astio dei gruppi dirigenti europei e occidentali in genere nei confronti di una Russia che si credeva fosse ormai stata conquistata definitivamente e invece si rivela altra cosa da quelle che erano le nostre illusioni o speranze. C’è una sorta di rivincita dell’Occidente contro questa Russia incomprensibile.
Più che essere un ragionamento è una malattia. Una sorta di violenta ripulsa di ciò che è diverso da noi tanto più violenta quanto più i russi, a prima vista, sembrano uguali a noi. Sono uguali a noi. In questo sta il paradosso. E scopriamo spesso, in ritardo, con nostro disdoro e fastidio, che in realtà, sebbene siano così uguali a noi, sono anche molto diversi. Il tutto confluisce in questa specie di ripulsa che riguarda però solo i gruppi dirigenti o da quella parte costituita dagli opinion maker, cioè dai mass media. Non credo che questo sentimento sia molto diffuso, in Occidente, tra la gente comune, normale, piuttosto che sia un’operazione politica guidata dai gruppi dirigenti occidentali che vogliono tenere la Russia diciamo in disparte e usano tutti i mezzi a disposizione per farlo.
Quali sono i reali motivi alla base della character assassination alla quale la stampa occidentale ormai da anni sottopone Vladimir Putin?
Si usa il 2.0 in quanto qui c’è una differenza rispetto alle altre forme di russofobia della Storia. Adesso c’è un grande personaggio, di valore mondiale che può facilmente essere preso a bersaglio nel fuoco dei riflettori e accusato di tutte le nefandezze che servono per esemplificare il rifiuto dell’Occidente nei confronti della Russia. È accaduto altre volte, nel corso della storia, che la Russia schierasse personalità di grande calibro, ma Putin è questo 2.0, è il ventunesimo secolo che dimostra, indirettamente e involontariamente, che l’Occidente non è capace di accettare la Russia quale essa è.
Nell’introduzione a Putinofobia Roberto Quaglia afferma che di solito i russofobi non sono consapevoli di essere tali. Da dove deriva questa fobia inconsapevole per la Russia?
In parte deriva dal fatto che l’Occidente non riesce a capire dove sta il problema, nel senso che guarda i russi e li vede uguali a sé stesso. Qui sta parte della verità. La loro cultura, come anche la letteratura, ha impregnato la nostra. Basti pensare a Tolstoj, a Dostoevskij…
Quando si va poi al contatto diretto di questo Paese, nella vita quotidiana, nel modo di pensare, di sentire il tempo e lo spazio, le dimensioni del pianeta… lo spirito dei russi è diverso da quello occidentale. E qui si arriva alla contraddizione. L’Occidente non capisce dove sta la differenza, che invece è molto semplice: la Russia non è solo Europa.
La Russia non è né prevalentemente europea né prevalentemente asiatica. Nel corso della storia è stata a volte più europea altre più asiatica. Ogni volta che diventa più asiatica l’Occidente inizia a perdere il controllo dei nervi.
Se la russofobia attuale è «una lente di ingrandimento» sulla nostra civiltà, lei che ci ha guardato profondamente attraverso cosa ha visto?
Ho visto che la Russia, se noi fossimo in grado di capirla, sarebbe uno straordinario ponte di comunicazione proprio per questa sua duplice essenza, europea e asiatica. È l’unico strumento che abbiamo noi europei per capire un po’ meglio l’Asia e il resto del mondo, che abbiamo colonizzato, ma ciò non vuol dire che lo abbiamo capito. Vuol dire solo che lo abbiamo vinto, conquistato, soggiogato.
La Russia può essere il tramite attraverso il quale l’Occidente può capire il resto il mondo. Ma l’Occidente questo non lo vuole, lo ha scartato da principio.
E io qui ho ampiamente attinto alla riflessione che faceva Arnold Toynbee nel suo purtroppo non molto famoso libro intitolato Il mondo e l’Occidente (Sellerio, 1992). Già il titolo è pieno di significati.
L’Occidente si è contrapposto a tutto il resto il mondo da quando è diventato “occidente”. Questo è il problema: l’Occidente sta aggredendo il resto del mondo. Non è capace di fare altro che aggredire anche la Russia. Per tre secoli, come dice Toynbee, l’Occidente ha potuto giovare di questa sua caratteristica, ma oggi, nel ventunesimo secolo, la tattica aggressiva non funziona più.
Stiamo assistendo all’inizio della fine di questi dominatori occidentali. Il che è molto grave, perché l’Occidente è anche il più armato. La tentazione di utilizzare la propria forza per continuare la dominazione diventerà sempre più concreta finché non vi sarà una riflessione di grande respiro culturale. Riflessione che, in verità, non vedo all’orizzonte.
Con il Madison Valleywood Project il governo americano vuole unire le forze di Hollywood e Silicon Valley per attuare una strategia contro l’Isis o per portare avanti la propaganda contro il nemico designato, in maniera analoga alle numerose azioni di cui si parla nel libro e messe in campo contro i russi?
Sarò più brutale. L’Occidente che si propone di fare ciò che dice lei è un sogno. Ignora il fatto l’Isis e il terrorismo islamico sono il prodotto dello stesso Occidente. Quindi tutte le strategie che vengono elencate per spiegare come questo è contro il terrorismo islamico sono in realtà delle fantasie che servono a manipolare l’opinione pubblica.
Il terrorismo islamico è un prodotto diretto dell’azione coordinata degli occidentali che usa semplicemente i terroristi, che pure esistono, come manodopera che spesso non riesce a capire neanche per chi sta lavorando.
È un sistema largamente sperimentato nella storia di questo ultimo secolo e che ha sempre funzionato. Si usano, di volta in volta, dei capri espiatori che credono di lavorare per i propri interessi ma in realtà lavorano per “il re di Prussia”.
L’Occidente ha sempre avuto bisogno di un nemico. L’Unione Sovietica del ventesimo secolo era perfetto in questo senso. Era il Comunismo sovietico il nemico mortale da combattere. Una volta abbattuto o suicidatosi, a seconda delle interpretazioni, l’Occidente è rimasto senza nemico. Ha proceduto per circa un decennio non solo senza nemici ma con un nuovo gigantesco alleato e vassallo e in pratica non è riuscito a spiegare, al resto del mondo, come mai l’economia mondiale andava comunque a rotoli.
Ha mostrato che il problema non è esterno all’Occidente, è interno, nel modello di sviluppo. Così nell’anno 2001 i dominatori dell’Occidente, gli Stati Uniti d’America, hanno prodotto il mutamento di rotta della storia politica del mondo.
Hanno creato l’11 settembre del 2001 per mettere dinanzi agli occhi di tre miliardi di persone il nuovo nemico, cioè l’estremismo islamico.
Così è iniziata la guerra contro il terrorismo islamico che dura ormai da quindici anni. Sia il Presidente di allora, George Bush jr, sia il suo Ministro della Difesa, Donald Rumsfeld, affermarono: «comincia una guerra che durerà 50 anni» e l’altro «durerà un’intera generazione». Questo era il piano: sostituire il terrore rosso con il terrore verde.
Il terrore rosso non era un’invenzione, era un antagonista serio. Il terrore verde non è un antagonista, è stato inventato dall’Occidente. È un’ipostasi messa davanti agli occhi della gente per terrorizzarla e costringerla a rifugiarsi sotto l’ala protettrice degli Stati Uniti d’America.
Papa Francesco, e con lui tanti analisti, hanno parlato di una terza guerra mondiale combattuta in tutto il mondo senza un focolaio preciso. Siamo anche in una nuova versione della Guerra Fredda?
Io non parlo per conto terzi. Parlo per me stesso. Sono stato uno dei primi analisti al mondo a dire apertamente che stiamo entrando nella terza guerra mondiale. Quando si parla di questo non si può che riferirsi a una guerra atomica. Una guerra mondiale fatta a pezzettini non ha alcun senso, c’è sempre stata.
Durante la Guerra Fredda si sono combattute, per conto terzi, decine e decine di guerre locali che servivano per mantenere l’equilibrio tra le due potenze. Nel momento in cui è finito il bipolarismo ed è finita la Guerra Fredda, queste sono continuate ma non sono conflitti mondiali.
Una guerra mondiale è lo scontro tra l’Occidente (Stati Uniti, Europa, Canada, Australia e pochi altri) e l’Asia. In questo senso l’Asia è tutto il resto il mondo. Solo che tutto il resto del mondo è impreparato a questo conflitto, lo sono solo gli Stati Uniti d’America e la Russia che dispongono del potenziale nucleare necessario.
Quando si scontreranno questi due Stati sarà lo scoppio della terza guerra mondiale. Ritengo sarà anche la fine dell’attuale civiltà umana. Ma molti non lo vedono perché non capiscono o non sanno qual è il carattere della guerra moderna, se lo sapessero non direbbero le sciocchezze prive di fondamento che dicono quando si parla di guerra diffusa e via discorrendo.
Il primo segnale di non-democrazia è il tentativo di ostacolare le opinioni divergenti. Possibile che gran parte della “massa democratica occidentale” non riesca a cogliere questo segnale nell’informazione dominante?
Purtroppo è possibile e reale. Nel libro precedente a questo, intitolato È arrivata la bufera (Piemme, 2015), spiego nel capitolo dedicato a Matrix cosa è già accaduto da quaranta-cinquanta anni a questa parte.
L’Occidente ha forgiato un apparato di comunicazione, attraverso il suo meraviglioso sistema dell’immagine gradevole e dell’immagine in movimento in generale, che è riuscito a modificare profondamente la psicologia della gente. Ha lavorato in tutti i modi possibili e immaginabili alla penetrazione cognitiva nel cervello degli uomini, delle donne e dei bambini soprattutto, modificando la loro percezione del mondo.
Ritengo realistico affermare che gran parte della popolazione vive dentro Matrix, dentro una prigione virtuale nella quale crede di essere libera, come accade appunto nel film, ma che è un universo irreale. Il mondo reale è altrove, fatto in un altro modo, è furibondo, feroce, senza tregua.
L’importante è non far capire alla gente in che situazione vive, lo capirà soltanto quando sarà il momento di finire tutti abbrustoliti. A quel punto molti se ne renderanno conto ma sarà un po’ tardi.
La grande massa della gente non sa nulla di ciò che la circonda. È stata bombardata da una miriade di proiettili che attraversano ogni secondo, ogni attimo della nostra vita e sono spesso non solo non percepiti e indolori ma addirittura piacevoli. Siamo sistematicamente mitragliati da una sterminata quantità di messaggi gradevoli che uccidono la nostra capacità critica di sentire, di percepire e di conoscere.
La più grande arma costruita dall’Occidente per annichilire il senso comune, il buon senso, la razionalità, la solidarietà, la cooperazione, la consapevolezza della limitatezza delle risorse… tutto questo è stato cancellato dalla visione di miliardi di persone.
Parliamo di un’arma che spegne l’intelligenza e quindi, alla lunga, non potrà che produrre mostri. Come ci indica l’acquaforte di Francisco Goya: «il sonno della ragione genera mostri». L’Occidente è stato trasformato in un gigantesco formicaio di persone la cui ragione è stata addormentata.
Lei paragona le inquietanti sensazioni che proviamo noi oggi, che viviamo un’epoca di grande cambiamento, a quanto devono aver provato i dinosauri. Siamo destinati all’estinzione?
Destinati no. Non credo in un qualche destino preordinato, è un qualcosa che forgiamo noi sempre, in un modo o nell’altro. Devo questa mia convinzione guarda caso alla lettura di uno straordinario romanzo russo, Guerra e Pace di Tolstoj, citato più volte in Putinofobia.
Noi popolo siamo protagonisti e, quando siamo in tanti, produciamo un movimento, un muoversi delle idee, delle correnti profonde della storia. Non esistiamo inutilmente. Esistiamo con la nostra forza fisica, con la presenza fisica e intellettuale.
Non credo ai complotti. La trasformazione in automi sta avvenendo ma non è il risultato di un complotto bensì della commistione tra l’informazione manipolata e il potere. E avviene in modo quasi automatico ormai. Il coordinamento dei nostri movimenti dall’esterno è avvenuto su un sesto della popolazione, che è l’Occidente. Il resto del mondo, secondo me, non è stato neanche minimamente scalfito da questo meccanismo.
Non credo che l’Occidente arriverà a dominare il mondo al punto che non ci possa più essere speranza. C’è ancora un grande movimento nel mondo. Non esiste un Nuovo Ordine Mondiale, non è mai esistito, esiste invece un “piccolo disordine occidentale”.
Riusciranno i popoli a organizzarsi e fermare la follia omicida e suicida dell’Occidente? Beh, la questione è aperta.
L’Occidente pensa di essere invincibile e questo è il suo tallone d’Achille. Se tale consapevolezza si farà strada in importanti settori intellettuali e dirigenti, sulla spinta di altri popoli non occidentali, noi potremo salvarci.
Noi europei non troveremo la soluzione del problema. Noi abbiamo creato il problema. Noi siamo il problema. Non credo potremo comprendere quanto sto dicendo in termini tali da modificare il corso delle cose che precipita verso lo scontro e cioè verso la terza guerra mondiale. Lo potremo fare solamente insieme agli altri popoli, alle altre culture, alle altre civiltà, alle altre religioni, alle altre tradizioni…
La soluzione la possiamo trovare solo tutti insieme. Chiunque progetti l’uscita da questa crisi, che è mondiale ed epocale, da solo, qui in Europa… beh si fa una grande illusione.
Se dovessi riassumere in poche parole, che restassero impresse nel lettore che legge Putinofobia, il senso di questo libro, direi: smettiamola di ritenere l’Occidente il centro del mondo. Non lo è più. Non perché sia buono o cattivo. Semplicemente non lo è più. Quanto più riusciranno a liberarci da questa idea tanto più potremo salvarci e preservare la nostra civiltà.