Di cosa parliamo quando parliamo di Roma? È questo l’interrogativo intorno al quale Francesco Erbani ha costruito il libro.
Roma è grande: 1.287 chilometri quadrati. Una città che sembra una matrioska. La parte all’interno della cinta muraria dell’età imperiale, sopravvissuta o meno che sia, racchiude la Roma antica, quella d’età repubblicana e imperiale, quel poco di Roma medievale e la spettacolare Roma del periodo che va dal Quattrocento all’Ottocento. Appena oltre la cinta muraria c’è la Roma dell’Unità d’Italia. La Roma che diventa capitale e, dunque, la Roma umbertina e poi Liberty.
Tra il 753 a.C. e il 1950 Roma si estende su circa dodicimila ettari. Poi, in poco più di settant’anni, il territorio costruito arriva a superare i cinquantamila ettari.
Ecco allora che giunge il consiglio dell’autore per chiunque si accinga a visitare Roma o, pur conoscendola, intenda viverla in maniera diversa: andare adagio. Ciò può significare percepire e assaporare la città nel suo complesso.
L’idea è quella di suddividere la città in zone simili a dei cerchi concentrici, un po’ come gli anelli che vanno a comporre la città di Mosca in Russia. La prima macrozona è il centro storico, poi la periferia, anch’essa storica, arroccata lungo le vie consolari. La città residenziale è la terza macrozona, abitata da impiegati e professionisti e da molti considerata frutto esemplare della speculazione edilizia. L’ultima è quella che si sviluppa a partire dalla fine degli anni ottanta del Novecento, la cosiddetta città anulare, a ridosso del Gra – Grande raccordo anulare. Quello che avrebbe dovuto rappresentare il limite della città e che invece è diventato «il focolaio di un vasto e incontrollato incendio edilizio».
E poi c’è la parte quasi impercettibile che all’autore sta più cara: la campagna romana. Settantacinquemila ettari non edificati, se non sparutamente. Un patrimonio storico e archeologico forse un po’ bistrattato ma per certo dal valore inestimabile.
L’intento di Erbani sembra essere quello di raccontare gli angoli più suggestivi di una Roma lontana dai riflettori di turismo e spettacolo, non per questo meno bella, anzi proprio per questo più interessante e scriverlo in un libro che fosse quanto più distante possibile da una guida di viaggio perché egli non parla di itinerari, no lancia solo dei piccoli input, sarà poi il lettore stesso, laddove decida di trasformarsi in viaggiatore, a tracciare i propri, a visitare i luoghi da lui scelti, la Roma da lui selezionata. Lo scopo di Roma adagio sembra essere proprio quello di far luce dove ora è buio, ovvero illuminare l’anima stessa della Capitale, con la sua storia millenaria, i suoi spazi vuoti, o meglio liberi, i suoi angoli dimenticati, i reperti archeologici trascurati, le strette vie trasandate. Tutto quello che insieme ai famosi monumenti, le vie consolari, i palazzi e i musei contribuisce a renderla eterna.
A tratti sembra quasi che l’idea di Erbani sia la medesima e spontanea abbracciata a Napoli dove i vicoli del centro storico insieme ad altri quartieri prima bistrattati e mal visti sono diventati meta di un vero e proprio pellegrinaggio. Nulla è stato fatto per modificarne l’aspetto, sono rimasti pressoché invariati eppure i visitatori hanno imparato a guardarli con occhi diversi. Hanno cercato oltre il primo impatto o l’immagine stereotipata e hanno incontrato la loro essenza, ne hanno riconosciuto la storia e ne hanno fatto l’anima di un turismo completamente nuovo il quale, per induzione, ha portato gli stessi cittadini a viverli in una maniera tutta nuova.
La Roma raccontata da Erbani è quella delle piccole realtà quotidiane, di oggi come di ieri, di scorci di un paesaggio che viene da lontano e guarda al futuro. Ma è anche la città caotica e problematica che tutti conosciamo. Una città difficile, complessa, a tratti disperata, come sospesa tra l’eterno e il viver quotidiano.
La Roma che Erbani invita a visitare e conoscere è una città a spicchi, ognuno dei quali può condurre dal centro alla periferia e viceversa. E in ogni spicchio si possono ritrovare alcuni o tutti i temi con cui l’autore ha strutturato e suddiviso il libro: l’acqua, il verde, i palazzi, le chiese, le piazze, l’antico, i musei. Percorsi segnati dal tempo ma, a volte, fuori da esso che vivono ed esistono, come il resto della città, ancorati a un’esistenza che sembra priva di regole e disciplina, un passato nella modernità che vuol risucchiare quest’ultima secondo una logica anacronistica che, se da un lato, genera fascino, dall’altro produce scompenso. Caos.
Ma Erbani cerca di non far perdere il lettore in questi tormenti e insiste sull’adagio come vero e proprio stile di vita. Un esercizio per il corpo e per la mente, un percorso interiore da compiere insieme a quello esteriore, paesaggistico e architettonico, per scoprire la città certo ma anche per ritrovare se stessi, come abitanti o come visitatori.
Il libro
Francesco Erbani, Roma adagio. La città eterna, la città quotidiana, Enrico Damiani Editore, Brescia, 2023
Per Douglas Murray quella in atto negli ultimi anni è una vera e propria guerra all’Occidente. Non di quelle con gli eserciti che si scontrano bensì una guerra culturale, condotta implacabilmente contro tutte le radici della tradizione occidentale e contro tutto ciò di buono che essa ha prodotto.
È ormai chiaro a tutti che quest’epoca è definita soprattutto dal cambiamento di civiltà in corso. Un cambiamento che ha scosso le fondamenta della nostra società, proprio perché, nell’analisi di Murray, è in atto un attacco sistematico contro tutto ciò che esiste in essa. Contro tutto ciò che gli occidentali davano per scontato, fino a non molto tempo fa.
L’autore afferma che l’Occidente tutto si sia arreso troppo in fretta in questa guerra. Troppo spesso questa guerra è stata inquadrata in modo completamente sbagliato. Sono stati travisati gli obiettivi di chi vi prende parte e ne è stato sminuito il ruolo che avrà nelle vite delle generazioni future. Nel giro di pochi decenni, la tradizione occidentale è passata dall’essere celebrata al diventare imbarazzante e anacronistica, etichettata, infine, come un qualcosa di vergognoso.
Sottolinea Murray come non sia solo la parola «occidentale» a essere contestata dai critici ma anche tutto ciò che vi è collegato, persino il concetto di «civilizzazione» in sé. Come l’aveva espresso uno dei teorici del moderno “razzismoantirazzista”, Ibram X. Kendi: civilizzazione è spesso un cortese eufemismo per razzismo culturale.1
Murray non si dichiara contrario a un ripensamento della storia in generale, tuttavia afferma di non condividere l’atteggiamento dei critici della civiltà occidentale perché essi venerano qualsiasi cosa purché non appartenga all’Occidente. La cultura che ha regalato al mondo progressi scientifici e medici salvavita, e un mercato libero, che ha fatto uscire dalla povertà miliardi di persone in tutto il mondo e che ha offerto la più grande fioritura di pensiero, viene messa dappertutto in questione attraverso il filtro della più profonda ostilità e del più profondo semplicismo. Egli non tollera che la cultura di Michelangelo, Leonardo, Bernini e Bach venga dipinta come se non avesse nulla di importante da dire. Alle nuove generazioni viene offerta la storia dei fallimenti dell’Occidente senza dedicare un tempo lontanamente paragonabile alle sue glorie.
Viene attaccata la tradizione giudaico-cristiana ma anche quella del secolarismo e dell’Illuminismo e ciò, per l’autore, ha un effetto devastante sulle nuove generazioni, le quali non sembrano comprendere neppure i più basilari principi del libero pensiero e della libertà d’espressione.
Per screditare l’Occidente sembra necessario demonizzare in primo luogo le persone che continuano a rappresentare il gruppo razziale maggioritario, ovvero i bianchi. Nonostante la diminuzione, negli Stati Uniti, delle leggi apertamente razziste e del potere di chi si dichiara razzista in modo esplicito, le disparità nei risultati fra bianchi e neri si riducono con grande lentezza.
Si va diffondendo con sempre maggiore forza la Teoria critica della razza – Tcr, emersa nell’arco di alcuni decenni nei seminari, nelle ricerche e nelle pubblicazioni delle università. A differenza dei tradizionali diritti civili, che includono l’incrementalismo e il progresso passo dopo passo, la Tcr mette in discussione le fondamenta stesse dell’ordine liberale, compresa la teoria dell’uguaglianza, il ragionamento giuridico, il razionalismo illuminista e i principi neutrali del diritto costituzionale.
Douglas Murray dissente dalle argomentazioni dei promotori della Teoria critica della razza sia per la forma che per il contenuto. Egli ritiene che se si fondasse un movimento che cerca di demonizzare la «nerezza», quell’organizzazione finirebbe inevitabilmente per demonizzare le persone nere. Se si demonizza la «bianchezza» e l’essere bianchi, a un certo punto le persone bianche saranno demonizzate.
Solo sul mercato africano esistono più di centocinquanta marche di creme, unguenti e altri gel sbiancanti, facilmente acquistabili, ma quasi sempre illegali e dannosi per la salute. Il problema non è solo medico e non riguarda solo l’Africa. Un’inchiesta di Le monde del 2008 già rivelava la tendenza diffusa da parte delle persone di colore di voler sbiancare la pelle. Un desiderio comune anche tra le cittadine francesi di origine africana. Fin dal 1500 l’opposizione simbolica tra il bianco e il nero assunse e sviluppò concetti legati anche alla tradizione classica, soprattutto cristiana, di bianchezza e oscurità. Il bianco è associato a purezza, verginità, virtù, bellezza. Il nero alla bruttezza fisica e spirituale, alla mostruosità, alla collera divina.
L’uso del sapone e di altri detergenti è, ovviamente, legato in primis a questioni di salute, igienico sanitarie, ma non è né esente né lontano da aspetti simbolici legati alla purificazione sociale. Un simbolismo quasi escatologico che si sovraccarica di aspettative al punto da arrivare ai dati odierni relativi ai tentativi di sbiancamento della pelle. Un tema che le aziende hanno sfruttato, per fini commerciali e di immagine.2
I segni distintivi, evidenti fin da subito, della Teoria critica della razza sono, secondo Murray: un’assoluta ossessione per la razza come strumento essenziale per capire il mondo e qualunque ingiustizia e la pretesa che i bianchi siano colpevoli in toto di avere dei pregiudizi, in particolare razziali, già dalla nascita e che il razzismo sia radicato così profondamente nella società a maggioranza bianca che le persone bianche in quelle società non si rendono nemmeno conto di vivere in contesti sociali razzisti.
Per Bell Hooks, tra i teorici della Tcr maggiormente criticati da Murray, impegnarsi per porre fine al razzismo nell’istruzione è l’unico cambiamento realizzabile a beneficio degli studenti neri e, in generale, di tutti gli studenti. Se i neri americani hanno dovuto, e devono ancora, lottare contro la discriminazione e la segregazione, di fatto i neri d’Italia, pur trovandosi in scuole libere e aperte a tutti, spesso sono stigmatizzati come stranieri, anche se nati e cresciuti qui. Altre volte sono etichettati come alunni con bisogni educativi speciali solo perché non parlano ancora la lingua italiana o sono traumatizzati per i trascorsi, per la fuga da paesi in guerra o povertà estrema.
Una delle situazioni più ricorrenti sottolineata da Hooks riguarda il fatto che la gran parte di coloro che si dichiarano antirazzisti, nel loro quotidiano, non frequentano persone nere o di colore (intesi come non bianchi). Non hanno grandi rapporti con loro. La loro cerchia si compone, alla fin fine, di persone bianche. Nella visione di Hooks, il “modello suprematista bianco” plasma le nostre vite in ogni momento, e questo succede sia negli Stati Uniti che in Italia. Necessita allora un lavoro di decolonizzazione e auto-decolonizzazione mentale.3
Ma l’autore si chiede cosa può fare l’Occidente con un tale elenco di peccati che gli vengono imputati. Come si può riparare agli sbagli senza colpire gli innocenti e premiare gli immeritevoli? È un enigma che aleggia su tutte le ingiustizie della storia e bisogna fare molta attenzione nel maneggiare questo “bisturi morale”.
Tutta la storia e la geografia sono un insieme di rivendicazioni e contro-rivendicazioni su chi è stato ingiusto con chi e su quale gruppo di persone è ancora in debito con un altro a causa di un’ingiustizia storica.
Si chiede inoltre Murray come sia potuto accadere che, in nome della grande apertura mentale, siamo diventati di vedute così ristrette, e come, in nome del progresso, abbiamo assorbito idee che si sono rivelate altamente regressive, generando così solo una gran confusione.
Negli ultimi anni, gli americani e gli altri popoli sono stati molto entusiasti di dimostrare che non sono ciò che sostengono quelli che li criticano. Queste persone provano a dimostrare di non essere razziste, omofobe, misogine e quant’altro, e sperano che si capisca che, nonostante la loro storia possa aver incluso il razzismo, non è stato in alcun modo l’unico elemento della loro storia.
Il libro
Douglas Murray, Guerra all’occidente, Guerini e Associati, Milano, 2023.
1I.X. Kendi, How to be an antiracist, One World, New York, 2019.
2F. Faloppa, Sbiancare un etiope. La costruzione di un immaginario razzista, Utet, De Agostini Libri, Milano, 2022.
3B. Hooks, Insegnare comunità. Una pedagogia della speranza, Meltemi, Milano, 2022.
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Demografia e inquinamento, nell’era del cambiamento climatico: come trovare l’equilibrio per il benessere, dall’allarmismo anni Settanta alla fiducia nelle innovazioni tecnologiche
Il dibattito sull’impatto del numero della popolazione mondiale è riemerso a partire dal novembre 2022, quando si è raggiunto il traguardo degli 8 miliardi di persone – ma le visioni allarmistiche sulla crescita esponenziale della popolazione animavano già il dibattito negli anni Settanta.
Lo slancio demografico è pre-programmato, occorre agire su consumi ed ecologia
La crescita della popolazione mondiale nel medio termine è guidata dalla struttura dell’età giovane di alcune popolazioni mondiali. Il cosiddetto slancio demografico implica che gran parte dell’ulteriore crescita della popolazione totale nei prossimi decenni è già pre-programmata nella composizione per fasce di età della popolazione. Pertanto, le soluzioni immediate per ridurre le emissioni fino al 2050 devono provenire principalmente dall’ecologizzazione dell’economia mondiale e da un cambiamento nel consumo pro capite.
Ciò non significa che i cambiamenti nella dimensione della popolazione globale siano irrilevanti. Nel lungo termine, l’entità della popolazione avrà un impatto in termini di vulnerabilità e capacità della popolazione di adattarsi al già inevitabile cambiamento climatico. Considerando le emissioni future, la dimensione della popolazione degli attuali paesi a basse emissioni farà una grande differenza man mano che le loro economie cresceranno e i livelli di consumo aumenteranno.
La futura crescita della popolazione si concentrerà nelle regioni del mondo che attualmente presentano le emissioni pro capite più basse e una responsabilità limitata per le emissioni passate, come l’Africa. Pur partendo da un livello basso, si prevede che queste regioni registreranno i progressi più lenti in termini di decarbonizzazione, miglioramento dell’efficienza energetica e disaccoppiamento della crescita economica dalle emissioni. Spetta all’Unione Europea e alle altre regioni del primo mondo, che hanno contribuito a gran parte delle emissioni passate, guidare gli sforzi di coordinamento per ridurre l’intensità energetica, sviluppare tecnologie green e adottare modelli di consumo più sostenibili.
Tecno-ottimisti e futuristi puntano tutto su ingegno umano e tecnologia
Mentre le visioni allarmistiche di una crescita esponenziale della popolazione sono ormai scartate dalla maggior parte degli analisti, anche le preoccupazioni più moderate sull’impatto di una popolazione mondiale ancora in espansione vengono spesso minimizzate con l’argomentazione, in ultima analisi, che le emissioni sono influenzate più dal reddito che dalle dimensioni della popolazione.
Lo spostamento dell’attenzione verso il reddito è generalmente accompagnato dalla fiducia nell’ingegno umano e nel ruolo che la tecnologia può svolgere negli sforzi per decarbonizzare le economie. Alcuni studiosi, tra i quali Ian Goldin, vedono in un maggior numero di persone sul pianeta opportunità che si presentano per l’arricchimento del capitale umano e della diversità che consentiranno di affrontare al meglio le sfide globali.
I tecno-ottimisti confidano nella forza dell’innovazione e tendono a ignorare la dipendenza fondamentale delle economie dai bisogni materiali dei combustibili fossili. Ancora più estremisti sono i futuristi come Harari e Kurzweil, i quali invocano le upcoming singularities – trasformazione digitale, intelligenza artificiale, energia da fusione –, quali supporti indispensabili che consentiranno alla specie umana di continuare lungo il suo percorso di espansione economica esponenziale, indipendentemente dall’entità della popolazione e dai confini planetari.
Cambiamenti climatici e popolazione che invecchia sono le sfide europee – anziani e residenti urbani inquinano di più
Stando ai dati del Report 2023 del Joint Research Centre, considerando le emissioni in termini pro capite, è possibile osservare come le persone anziane tendono a emettere in media più delle generazioni giovani. Nelle città le emissioni sono inferiori grazie alle economie di scala urbane – ad esempio, dalla condivisione dei trasporti pubblici. D’altra parte, queste efficienze sono contrastate dal reddito più elevato dei residenti urbani, che normalmente si traduce in maggiori consumi ed emissioni. Inoltre, le persone che vivono in città sono penalizzate dal fatto che le le famiglie, in genere, tendono a essere più piccole rispetto alle aree rurali e quindi le emissioni sono divise per un numero minore di membri della famiglia.
Piuttosto che sulla dimensione e sulla crescita della popolazione, la maggior parte dei riferimenti demografici nelle politiche di mitigazione e adattamento climatico dell’Unione Europea sono legati alla necessità di far fronte alla vulnerabilità di una popolazione che invecchia, a uno status di basso reddito e al luogo di vita rurale.
La popolazione europea sta invecchiando rapidamente. Eurostat prevede che entro il 2050 nell’UE-27 ci saranno quasi mezzo milione di centenari. Questo cambiamento nella struttura per età della popolazione europea avviene parallelamente ai cambiamenti climatici. Ondate di caldo, siccità ed eventi meteorologici estremi sempre più frequenti incidono sui tassi di mortalità complessivi, sul benessere e sui mezzi di sussistenza delle persone.
Stando ai dati del Report 2023 del Joint Research Centre, considerando le emissioni in termini pro capite, è possibile osservare come le persone anziane tendono a emettere in media più delle generazioni giovani. Nelle città le emissioni sono inferiori grazie alle economie di scala urbane – ad esempio, dalla condivisione dei trasporti pubblici. D’altra parte, queste efficienze sono contrastate dal reddito più elevato dei residenti urbani, che normalmente si traduce in maggiori consumi ed emissioni. Inoltre, le persone che vivono in città sono penalizzate dal fatto che le le famiglie, in genere, tendono a essere più piccole rispetto alle aree rurali e quindi le emissioni sono divise per un numero minore di membri della famiglia.
Crescita demografica ed emissioni di carbonio nel mondo: la trappola malthusiana
Il premio Nobel Nordhaus sottolinea che esistono tre modi per ridurre le emissioni: minore crescita della popolazione, minore crescita del tenore di vita, minore intensità di CO2 – decarbonizzazione. C’è una discrepanza della popolazione e di livelli di emissioni tra i paesi. I principali emettitori, storici e attuali, Stati Uniti, Cina e Unione Europea, sono regioni in cui la popolazione ha smesso di crescere o sta crescendo a un ritmo lento. Le regioni in cui la popolazione cresce più forte sono quelle che contribuiscono solo in minima parte al riscaldamento globale.
Dal finire del Diciottesimo secolo in poi, le richieste di risorse sono aumentate costantemente mentre sono emerse conseguenze ecologiche negative come il peggioramento della qualità dell’aria e dell’acqua, il declino delle risorse idriche e terrestri e, con il tempo, il cambiamento climatico… continua a leggere su Lampoon.it
Una delle immagini che vengono in mente quando si pensa all’antica Roma è quella dei giochi gladiatori: enormi anfiteatri gremiti di spettatori che gridano ed esultano, mentre nell’arena uomini armati si affrontano in duelli all’ultimo sangue o combattono contro bestie feroci.
Come nacquero queste manifestazioni? Qual era il reale significato?
Sono questi i quesiti da cui parte il libro di Campanelli. Un racconto in chiave storica di un aspetto assolutamente particolare della Roma antica che ancora riecheggia nell’arte, nel cinema e soprattutto nello sport.
Chi erano i gladiatori? Lo ricorda in maniera molto dettagliata l’autrice che questi altro non erano che prigionieri di guerra, criminali, schiavi e talvolta volontari, pronti a mettere in gioco la propria vita per guadagnare fama, onori o semplicemente una seconda possibilità.
Impressiona molto la dedica con cui si apre il libro al lettore: alla memoria di tutti gli animali, le donne e gli uomini perseguitati e uccisi negli anfiteatri.
Riporta la mente alla forza attrattiva esercitata dai giochi gladiatori sulla follla. Un fascino cui è stato difficile sottrarsi anche dopo l’avvento del Cristianesimo.
Il popolo amava troppo gli spettacoli per potervi rinunciare, fossero lotte tra gladiatori, battute di caccia – venationes – o simulazioni di imponenti battaglie navali – naumachiae. La sete di sangue era così intensa che si giunse ad allestire rappresentazioni teatrali sostituendo all’attore professionista un condannato alla pena capitale, così da vederlo morire realmente.
E allora Campanelli si chiede come sia stato possibile che una civiltà tanto razionale e pragmatica come quella romana, fondata sul diritto e dove ogni azione doveva essere basata sul fondamento, abbia fatto della violenza gratuita su animali e uomini una forma di svago.
Impossibile credere che tutti i romani fossero affetti da un disturbo sadico della personalità, eppure le grandi mattanze di belve, i supplizi pubblici e soprattutto i duelli cruenti tra uomini rappresentavano il passatempo preferito, finendo per diventare anche un potente strumento di condizionamento ideologico e di propaganda politica.
Inoltre l’autrice sottolinea che, nella cultura del tempo, la compassione era sinonimo di debolezza. Gli spettacoli cruenti erano parte della vita quotidiana e sottoporre un condannato a castighi feroci era considerato iustum, ovvero «conforme alla giustizia», oltre che avere un’importante valenza educativa e formativa per l’intera comunità.
Le prime esibizioni di gladiatori si tennero a Roma alla metà del III secolo a.C., ma al tempo non erano ancora quella grandiosa e avvincente forma d’intrattenimento pubblico che avrebbe ammaliato fino allo stordimento il popolo in età imperiale. Ricorda l’autrice che i giochi gladiatori derivano da una pratica di carattere sacro e privato strettamente connessa al mondo dei morti.
Il duello cruento era un omaggio offerto al defunto dai propri eredi in occasione dei ludi novendiales, i giochi funebri che chiudevano il periodo di lutto della durata di nove giorni.
I numera – giochi gladiatori – prima di trasformarsi nel genere di intrattenimento più diffuso e gradito dalla plebe, rappresentavano un voto, un impegno solenne verso gli dèi e il defunto, nella convinzione che il sangue umano versato sulla tomba riconciliasse la vita terrena con l’aldilà.
Una tradizione già in uso nell’antica Grecia.
Il popolo romano assistette per la prima volta a uno spettacolo di gladiatori nel 264 a.C.
Negli stessi anni in cui comparvero i duelli gladiatori prese forma un altro genere di attrazione: la venatio, letteralmente «battuta di caccia». In realtà, rimanendo nell’ambito degli spettacoli, con questa parola gli antichi indicavano un’ampia serie di performance con animali, dalla semplice sfilata di specie esotiche come struzzi, giraffe, ippopotami e coccodrilli, al combattimento tra le belve, fino alla caccia nelle arene. A differenza dei numera, le cacce non avevano alcun valore sacrale e si configuravano piuttosto come un’attrazione strettamente connessa alla guerra di conquista e alla vertiginosa espansione dell’Urbe dalla penisola italica all’intero bacino del mediterraneo, eventi che permisero ai romani di entrare in contatto con animali esotici e sconosciuti.
Secondo i calcoli effettuati nel 2012 da Elliott Kidd, la perversa attrazione per le venationes avrebbe condotto, in cinque secoli di spettacoli, allo sterminio di circa due milioni e mezzo di animali in tutto il territorio dell’impero.1
Le naumachiae erano il più costoso e scenografico genere di spettacolo che gli antichi potessero concepire, capace di riesumare e far rivivere episodi bellici di epoche passate, con la differenza che gli attori che prendevano parte maneggiavano armi reali e spesso morivano davvero.
Esisteva anche una forma d’intrattenimento che Campanelli descrive come solo in apparenza molto diversa, segnata da un carattere di crudeltà ancora maggiore: le esecuzioni capitali. Non l’uccisione di un detenuto sulla pubblica piazza ma di vere rappresentazioni teatrali con tanto di canovaccio narrativo, maschere, costumi di scena, effetti speciali e accurate scenografie. Solo che a interpretare tali farse non erano degli attori professionisti, bensì donne e uomini torturati fino alla morte.
I gladiatori non erano solo dei «barbari» provenienti da nazioni selvagge fatti prigionieri e ridotti in schiavitù, molti di loro erano anche dei provinciali, altri giungevano persino dalla penisola italiana, Roma compresa, ed erano di condizione libera, sebbene in misura minore.
Entrando in una famiglia gladiatoria, tutti i combattenti, seppur con qualche eccezione, erano obbligati a risiedere all’interno delle caserme, dove tanto gli schiavi quanto gli uomini liberi venivano sottoposti alla rigida disciplina imposta dal lanista – istruttore o proprietario di una scuola gladiatoria – e a un regime di sorveglianza più o meno restrittivo. Il ludus era dunque un luogo molto più simile a una prigione che a una caserma e chi tentava di fuggire o di ribellarsi doveva tollerare la detenzione e subire pesanti punizioni corporale come la flagellazione e il ferro rovente.
La vita quotidiana all’interno dei ludi non era solo faticosa, ma anche scomoda. Lo stesso alloggio – di fatto una camera detentiva di non più di 10-15 metri quadrati, nel migliore dei casi 20 metri quadrati circa, sottolinea Campanelli – era occupato contemporaneamente da due o tre uomini, il più delle volte era privo di finestre e gli archeologi sostengono che non fosse nemmeno dotato di veri letti ma solo di giacigli di fortuna messi a terra.
D’altra parte, ricorda l’autrice, il disagio veniva compensato con una serie di servizi solitamente negati alla plebe urbana, a partire dall’assistenza medica. I gladiatori avevano a disposizione medici ma anche unctores, ossia i massaggiatori sportivi, che avevano il compito di ridurre la tensione muscolare e accelerare la guarigione delle contratture.
Per quanto strapazzati, i gladiatori dovevano rendere il massimo dal punto di vista fisico, diversamente il lanista non avrebbe potuto ricavarne alcun profitto.
Persino la dieta meritava un’attenzione particolare e a giudicare dal vitto si direbbe che il fisico dei gladiatori non fosse particolarmente muscoloso e asciutto come ci si aspetterebbe da un atleta. A dispetto delle durissime condizioni di vita, sottolinea Federica Campanelli quanto sia in realtà plausibile che questi uomini si nutrissero in maniera più che abbondante e con regolarità, assumendo cibo volto a favorire un buon apporto calorico e lo sviluppo di uno strato di adipe che li proteggesse dai colpi di arma da taglio cui erano esposti.
L’apertura al Cristianesimo da parte dell’impero sotto Costantino non ebbe effetti immediati sui numera, che continuarono a essere messi in scena almeno fino al principio del V secolo d.C. Al tramonto dei numera concorsero soprattutto ragioni di ordine economico, il venir meno di prigionieri di guerra – principale fonte di reclutamento dei gladiatori –, il mutato atteggiamento delle autorità pubbliche e anche il decadimento strutturale di teatri e anfiteatri.
Campanelli ricorda come l’aggressività è un impulso ancestrale, insito nella natura stessa dell’uomo, e ha costituito la prima «arma» quando gli uomini hanno dovuto combattere contro le altre creature viventi del pianeta per sopravvivere.
Ancora oggi sono milioni i seguaci di discipline sportive caratterizzate da competizione e una buona dose di aggressività, esiste tuttavia un’enorme differenza rispetto al passato: i combat sport come karate, boxe, arti marziali e wrestling mettono in scena una violenza solo simulata e anzi aiuterebbero a conoscere il proprio «lato oscuro» e a gestire gli impulsi aggressivi.
Nessun atleta contemporaneo rischierebbe menomazioni e finanche la vita per una professione miserabile, ciononostante si ha la tendenza a comparare la figura del gladiatore con le prodigiose stelle dello sport.
Dall’analisi di Campanelli emerge come, in realtà, i gladiatori erano poco più che scarti umani da dare in pasto all’arena, nulla a che vedere con il patinato e redditizio mondo sportivo attuale, soprattutto calcistico. Il mestiere del gladiatore non dava alcuna garanzia economica, quindi gli atleti moderni hanno davvero poco da spartire con i gladiatori.
Il libro
Federica Campanelli, La grande storia dei gladiatori. Dalle origini del mito agli ultimi combattimenti: tutto quello che c’è da sapere sui leggendari eroi dell’antica Roma, Newton Compton, Roma, 2023
1Elliott Kidd, Beast-Hunts in Roman Anphitheaters: the Impact of the Venationeson on Animal Populations in the Ancient Roman World in The Eagle Feather Undergraduate Research Journal – vol. 9, Università del Texas, Denton, 2012
Il festival artistico senegalese Partcours 12 ha ospitato la mostra dedicata a Mauro Petroni e alle sue manifatture in ceramica – «Non fingo di essere integrato: sono un viaggiatore, che guarda tutto e capisce poco»
Partcours – la mostra Petroni 40, organizzata dall’Ambasciata Italiana e dall’Istituto Italiano di Cultura
Un evento a Dakar lega arte e territorio. Si è conclusa il 10 dicembre la manifestazione artistica Partcours iniziata lo scorso 24 novembre e giunta alla dodicesima edizione. Il festival itinerante è un’esplorazione dinamica del tessuto urbano di Dakar, a cui partecipano Artisti, curatori, galleristi e pubblico.
Partcours ha ospitato quest’anno la mostra Petroni 40, organizzata dall’Ambasciata Italiana e dall’Istituto Italiano di Cultura per omaggiare l’artista italiano Mauro Petroni e il suo lavoro creativo in Senegal. Ma numerosi sono stati gli eventi e le esposizioni che hanno visto la partecipazione di oltre cento artisti.
I luoghi di Partcours 12: Almadies Ceramics Workshop
Mauro Petroni ha esposto nell’hangar di Almadies Ceramics Workshop. Costruito all’inizio degli anni Sessanta nella foresta di Almadies, questo capannone aperto ospitava la produzione di prefabbricati in cemento, utilizzando le rocce della vicina scogliera. Dal 1984 è sede del laboratorio di Petroni, che ha prodotto interventi in ceramica per l’architettura e il patrimonio senegalese: dalla ricostruzione del mercato Kemel nel 1996 al restauro della stazione ferroviaria di Dakar nel 2018. Tutta la sua produzione è realizzata a mano con la terra rossa del Senegal, che si lega agli smalti nel forno a gas di Limoges risalente al XIX secolo.
Le ceramiche prodotte nel laboratorio di Petroni sono una commistione di radici italiane liberamente ispirate all’estetica africana. L’artista sottolinea di non aver praticamente mai lavorato la ceramica in Italia, mentre il suo lavoro in Senegal ruota completamente intorno a essa. «Ho poco dell’artista e dell’artigiano – ma amo il rigore. Non ho mai fatto ceramica in Italia. Ho bevuto tanto da tante parti e quando faccio dei pezzi che mi dico del Sahel, forse sono di una matrice etrusca, o ancora c’è un po’ di Oriente. In fin dei conti il viaggiatore quando diventa sedentario vive di sogni, e di segni».
Il viaggio artistico di Petroni fa tappa a la Gare de Dakar
Un viaggiatore, Petroni, che ha ricreato un ‘viaggio architettonico’ sui muri di Dakar – sono circa 240 i suoi interventi nella città, per creare un percorso nel tempo e attraverso il Paese. Intorno al concetto di viaggio ruota anche uno dei monumenti storici della città: la Gare de Dakar, tra le opere architettoniche pubbliche forse quella che più di tutte rappresenta l’impegno di coniugare e unire culture e tradizioni. Un’opera che vuole rappresentare il progresso, l’infrastruttura, il viaggio.
Petroni stesso ha percorso migliaia di chilometri nella sua vita. Ha vissuto più tempo in Senegal che in Italia e si sente ancora un viaggiatore e uno straniero. «In questa casa atelier dove abito ho vissuto quarant’anni, più del tempo che ho dormito in un letto italiano. Non ho mai fatto le treccine, non fingo di essere integrato: sono ‘straniero’, privilegiato, più libero di chi deve sottoporsi a regole sociali. Non so se questo si traduce anche in quello che faccio, forse sì. La lettura che posso fare delle cose è simile a quella del viaggiatore, che guarda tutto e capisce poco».
Petroni, il mercato di Kermel e l’arabisance
Un’altra opera rappresentativa dell’architettura urbana di Dakar è il mercato di Kermel, cuore vivo della città, meta anche di turisti. L’originale architettura è a pianta centrale – una struttura in acciaio e mattoni colorati, con ringhiere di ferro battuto plasmate secondo motivi floreali, richiamati anche dalle ceramiche decorative. Un edificio che parla di sogni, di fantasia, di allegria. Esso è testimonianza del padiglione a pianta centrale con struttura in acciaio secondo i modelli importati dalla Francia ma è, al tempo stesso, il volto esotico della arabisance – arabizzazione. Petroni ha lavorato alla sua restaurazione. Un lavoro per il quale nutriva molte aspettative.
«Avevo entusiasmo per quello che era il mio primo grosso cantiere, legato alla storia della città. Un mercato. Il posto di tutti gli scambi e di tutti i sogni. Quelli che avevano disegnato i decori non avevano capito niente, pensavano all’Africa come alle Mille e una notte, ma proprio lì sta la genialità. Ancora una volta la mescolanza, i fischi per fiaschi: le lune dell’Arabia nel loro decoro somigliavano a delle banane».
Petroni 40: il labirinto multiculturale dove non ci si perde ma ci si trova
Ad aprire il festival Partcours quest’anno c’è stata proprio la mostra in due parti dedicata ai 40 anni di lavoro creativo in Senegal di Mauro Petroni. Petroni 40 all’Istituto Italiano di Cultura di Dakar sarà allestita fino al 24 febbraio 2024 mentre quella all’Atelier Céramiques Almadies fino al 1 marzo 2024. La prima è proiettata verso le opere di architettura urbana e la seconda incentrata, invece, su otto collezioni iconiche dell’artista.
Petroni ha definito le sue ceramiche il filo di Arianna che gli hanno permesso di creare la tela sulla città. La tela su una città che egli definisce un labirinto nel quale invece di perdersi ci si trova. «Facile rispondere che Dakar è un labirinto – non di quelli dove ci si perde, piuttosto quelli dove ci si trova. E questo grazie al suo senso multiculturale, una città dove molte anime convivono».
I chiaroscuri della cultura e della società senegalese
Dakar è la città più grande del Senegal. Situata sulla costa occidentale dell’Africa è un centro multiculturale vibrante e vivace. Fondata dai colonizzatori francesi nel 1857, ospita numerosi gruppi etnici: Wolof, Serer, Puhl, Diola, Mandingo. La presenza francese è evidente nella ristorazione, nel commercio e nell’architettura, con gli edifici coloniali che si affiancano a moderne strutture africane. Un labirinto di strade, case, arte, cultura le cui caratteristiche si intrecciano per creare quella peculiare società che Petroni definisce una vera e propria rampa di lancio.
Cambiamenti bruschi, radicali. Petroni ha iniziato a frequentare il Senegal dagli anni Settanta e vi si è trasferito in maniera definitiva nel 1983. Una nazione dove ha trovato, al suo arrivo, la libertà di espressione e movimento. «Era un posto dove trovavo la libertà di essere, di muovermi, di esprimermi. Prima tutto era largo, ora tutto sembra essere così stretto. Non voglio dire che era meglio, era così»... continua a leggere su Lampoon.it
Dopo il lungo periodo di dominio della teoria keynesiana che ha seguito la crisi del 1929, Milton Friedman è stato il maggior artefice del ritorno in auge dell’idea che i mercati siano quasi sempre in grado di fare meglio della mano pubblica.
Francesco Saraceno sottolinea come, il ritorno sulla scena di Friedman, sia stato spettacolare e inarrestabile non appena l’inflazione si è riaffacciata nel 2021.
I prezzi hanno iniziato a impennarsi nel 2021 con la ripresa successiva alla pandemia e sono in seguito stati alimentati dalla crisi energetica e dall’invasione dell’Ucraina.
È sicuramente temporanea la necessità delle imprese di rimpolpare le scorte dopo il Covid. Come temporaneo è il disallineamento tra domanda e offerta per molti beni, a seguito della ricomposizione dei panieri di consumo delle famiglie.
Ma anche gli aumenti dei prezzi dell’energia apparivano temporanei, frutto di un eccesso di domanda dovuto alla ripartenza dell’economia e ad altri fattori contingenti, come le temperature estreme prima nell’estate e poi nell’inverno del 2021.
Saraceno evidenzia come questi fattori sono quasi completamente rientrati. Sia gli indicatori di tensione sulle catene del valore sia i prezzi dell’energia sono tornati a livelli che non si vedevano dalla pandemia. Cionostante, l’inflazione di fondo, quella depurata dai prezzi dei beni più volatili, scende con troppa lentezza.
Ragion per cui, oggi come già negli anni Settanta, economisti e policy maker dibattono animatamente su quali siano gli strumenti migliori per far fronte all’aumento dei prezzi.
Alcuni ritengono che gli strumenti per affrontare un’inflazione alimentata dai prezzi delle materie prime, da strozzature e da costi di produzione in aumento siano la politica di bilancio, la regolamentazione e, nel medio-lungo periodo, la politica industriale. A questi si contrappongono coloro – la maggioranza – i quali, ispirandosi alle idee monetariste, propugnano politiche monetarie restrittive, indipendentemente dalla natura temporanea dello shock, per convincere – «whatever it takes» – i mercati finanziari, le famiglie e le imprese che le banche centrali, uniche depositarie della lotta contro l’inflazione, siano serie nel loro sforzo di contrasto all’aumento dei prezzi.
È certamente vero, argomenta l’autore, che le banche centrali possono riportare l’inflazione sotto controllo, qualunque sia la natura della fiammata inflazionistica: contraendo l’offerta di moneta e aumentando i tassi di interesse possono rendere più difficile e costoso per imprese e famiglie prendere in prestito somme per investimenti o consumi, più oneroso pagare i debiti e più redditizio risparmiare.Tutto ciò riduce la domanda aggregata portando a una diminuzione del livello dei prezzi e a un aumento della disoccupazione. In altre parole, per Saraceno vi sono pochi dubbi sull’efficacia di una restrizione monetaria nel far fronte all’inflazione. Quello su cui infuria la discussione è se, nella contingenza attuale, questa sia davvero la migliore opzione per riportare i prezzi sotto controllo, o si possa fare ricorso ad altri strumenti senza infliggere all’economia un rallentamento o addirittura una recessione.
Dalla fine del Diciannovesimo secolo a oggi i picchi di inflazione si sono verificati in genere a seguito di distruzioni: dopo le guerre, in seguito agli shock petroliferi degli anni Settanta, oggi con la crisi energetica che segue alla ripresa post-Covid e purtroppo ancora una guerra.
Eppure l’autore ricorda che i tassi di inflazione di oggi ci sembrano eccezionali soprattutto perché seguono un lungo periodo di moderazione dei prezzi, ma non sono tali in una prospettiva storica. Fino all’inverno 2021, tutte le generazioni nate dopo il 1965 non hanno mai vissuto l’inflazione durante la loro età adulta.
Nonostante la sua confutazione in ambito accademico, la riproposizione del mantra per cui l’inflazione è un fenomeno monetario finisce per far apparire al pubblico come inevitabile l’uso di politiche monetarie restrittive per affrontare l’aumento dei prezzi.
Il procedimento è questo: inventiamo un linguaggio basato su una teoria immaginaria e ce ne serviamo per piegare la realtà ai nostri bisogni, per limitare la nostra comprensione al frammento più improbabile del reale.1
Lo scopo principale del lavoro di Francesco Saraceno in Oltre le banche centrali è in primo luogo uscire dalla neolingua e convincere il lettore che l’inflazione non è sempre e solo un fenomeno monetario. Tale viene considerata per l’incapacità dei policy maker di affrancarsi dall’influenza di vecchi schemi di pensiero.
Oltre cento anni dopo il primo conflitto mondiale i governi e i popoli dell’intero pianeta si pongono i medesimi interrogativi, di nuovo.
Come si accumulano rischi enormi, poco compresi e poco controllabili? In che modo i quadri di riferimento anacronistici e obsoleti ci impediscono di capire cosa sta succedendo intorno a noi? Il motore di ogni instabilità è forse lo sviluppo disomogeneo e combinato del capitalismo globale? Possiamo raggiungere una stabilità e una pace perpetue?
La crisi nell’eurozona è stata affrontata in maniera disomogenea, una confusione di visioni contrastanti che hanno portato alla messa in scena di un dramma sconfortante di occasioni mancate, fallimenti nella leadership e nelle azioni collettive. La crisi finanziaria ed economica del 2007-2013 si è trasformata, tra il 2013 e il 2017, in una crisi politica e geopolitica globale dell’ordine mondiale uscito dalla guerra fredda. Questa nuova politica del periodo successivo alla crisi è stata demonizzata come populismo, trattata alla stregua degli anni Trenta o addirittura attribuita alla malvagia influenza russa, invece va osservata, secondo Tooze, come un segno della vitalità delle democrazie europee davanti al deplorevole fallimento dei governi, riassumibile nelle parole di Jean-Claude Juncker: «quando le cose si fanno serie, bisogna mentire».2
Per Francesco Saraceno, ciò che emerge con chiarezza, della cronaca degli ultimi tre lustri, è che la fiducia indiscussa nelle capacità dei mercati di assorbire gli shock è venuta meno e che il ruolo dello Stato deve essere rivalutato.
La complessità delle crisi odierne richiede la mobilitazione di strumenti diversi e complementari. Torna, in una versione più complessa, il policy mix che aveva caratterizzato le Trente Glorieuses, il trentennio di crescita stabile e robusta dell’immediato dopoguerra.
Di fronte all’impennata dell’inflazione le banche centrali sono state caute, almeno inizialmente, mettendo l’accento sul fatto che le fonti dell’inflazione erano inusuali e temporanee. Ma nella primavera del 2022 è iniziata lo stesso la corsa alla restrizione monetaria, giustificata da un’inflazione troppo elevata e persistente.
Per meglio comprendere il continuo e perseverante ricorso alla ricetta della restrizione monetaria come strumento per combattere l’inflazione da parte delle banche centrali l’autore rimanda alla storia dell’ubriaco che cerca le chiavi sotto al lampione, pur sapendo di averle perdute altrove, perché solo lì la strada è illuminata.3
Per far fronte all’inflazione, i paesi avanzati hanno introdotto qualche forma di controllo dei prezzi, soprattutto nei mercati dell’energia.
Secondo la Bce, una transizione ecologica ben gestita minimizzerebbe l’impatto inflazionistico del riscaldamento climatico. Intanto perché ne ridurrebbe la portata, poi perché la frequenza degli eventi estremi diminuirebbe, riducendo i costi legati alla mitigazione. Tuttavia, sottolinea Saraceno, ci sono ragioni per credere che anche la transizione ecologica porterà a un aumento temporaneo dell’inflazione, attraverso più di un canale.
Intanto, l’aumentata tassazione sulle energie fossili e l’aumento dei prezzi delle emissioni annunciato dalla Commissione nel suo pacchetto Fit for 55 nel quadro dell’Emission Trading System saranno in parte trasferiti a consumatori e imprese, comportando un aumento dei prezzi alla produzione e al consumo.
Per cui, per l’autore, se si vogliono veramente proteggere i più poveri da shock che in un mondo sempre più instabile saranno inevitabilmente più frequenti, sembra ineludibile un serio programma di contrasto alla disuguaglianza che, negli ultimi quarant’anni, è aumentata quasi ovunque.
Le soluzioni per invertire la tendenza si dividono in due categorie.
Da un lato: riduzione della precarietà sui mercati del lavoro, salari minimi di importo significativo, sistemi di istruzione e formazione più accessibili ed efficaci, regolamentazione dei mercati volta a ridurre rendite ed eccessivo potere di mercato.
Dall’altro: misure volte a ridurre la disuguaglianza ex-post – utilizzando il sistema fiscale per redistribuire i redditi generati dai mercati. Queste spaziano da un recupero della progressività dei sistemi fiscali all’introduzione di strumenti universali di sostegno ai redditi o ancora al rafforzamento di imposte patrimoniali e di successione.
Il ritorno in auge della politica di bilancio ripropone la questione del coordinamento delle diverse politiche economiche, un tema che Saraceno ritiene particolarmente importante per i paesi europei. Il Trattato di Maastricht e il Patto di stabilità e crescita delimitano il campo d’azione della Bce – Banca centrale europea – al solo controllo dell’inflazione e quello dei governi al solo operare degli stabilizzatori automatici. Infine, l’Unione Europea ha per decenni identificato la politica industriale con la sola politica per la concorrenza. La lotta alle posizioni dominanti e alle intese anticoncorrenziali, il controllo sulle fusioni e la proibizione degli aiuti di Stato erano tutto quello che si chiedeva alla mano pubblica, che poi doveva lasciar fare ai mercati per selezionare nuovi mercati e imprese capaci di innovare e far crescere reddito e produttività.
Le modifiche inizialmente proposte per il nuovo Patto di Stabilità, in discussione da oltre un anno, contengono due miglioramenti significativi, come sottolinea l’autore: in primo luogo, il riconoscimento della specificità di ogni paese e dell’importanza che il piano sia predisposto dai paesi e non imposto dall’alto. In secondo luogo, l’adozione di una prospettiva di medio periodo, l’unica ragionevole quando si parla di sostenibilità delle finanze pubbliche.
Ora il testo deve passare al “trilogo” con Commissione e Parlamento europeo per raggiungere la versione finale, presumibilmente entro gennaio 2024. Tuttavia, rispetto alla proposta originaria della Commissione, l’accordo sul nuovo Patto di stabilità non semplifica le regole e prevede vincoli più rigidi e uniformi, con il rischio di generare una spinta deflattiva per l’intera area. L’accordo è stato in qualche modo subito dall’Italia, che non ha partecipato al rush finale della contrattazione tra i ministri delle Finanze francese e tedesco.4
Permane poi il problema del mandato della Bce perché, per Saraceno, in un’unione monetaria il compito delle autorità monetarie dovrebbe essere quello di reagire agli shock comuni, mentre gli shock idiosincratici, che colpiscono i singoli paesi, dovrebbero essere affrontati da governi nazionali. In assenza di un bilancio federale, vincolare la banca centrale a perseguire solo l’obiettivo di inflazione, di fatto lascia uno degli obiettivi, la risposta agli shock comuni, senza uno strumento per perseguirlo.
Le scelte delle banche centrali possono radicalmente cambiare l’esistenza di famiglie e imprese strette tra potere d’acquisto in crollo verticale, crisi geopolitiche e incertezza sul futuro.
Francesco Saraceno delinea politiche alternative che consentirebbero di riportare le economie verso una crescita più equa e sostenibile.
Il libro
Francesco Saraceno, Oltre le banche centrali. Inflazione, disuguaglianza e politiche economiche, Luiss University Press. Roma, 2023
1Jean-Paul Fitoussi, La neolingua dell’economia. Ovvero come dire a un malato che è in buona salute (a cura di F. Pierantozzi), Einaudi, Torino, 2019.
2Adam Tooze, Lo schianto. 2008-2018 come un decennio di crisi economica ha cambiato il mondo, Mondadori, Milano, 2018.
3Jean-Paul Fitoussi, Il teorema del lampione. O come mettere fine alla sofferenza sociale, Einaudi, Torino, 2013.
4Massimo Bordignon, Nasce il nuovo Patto di stabilità e crescita, LaVoce.info, 22/12/2023
I bambini sono il futuro di una comunità: nelle guerre etniche sono nemici da eliminare – fragilità umana, e distress psicologico, dal Secondo dopoguerra a oggi
Gli effetti dei conflitti armati sui bambini: i numeri da Gaza all’Ucraina e l’impatto sulla salute mentale
Sono oltre 260mila le violazioni gravi verificate sui bambini tra il 2005 e il 2020 in oltre trenta conflitti a livello globale. Più di 100mila bambini uccisi o mutilati in situazioni di conflitto armato. Oltre 90mila sono stati reclutati e utilizzati da parti del conflitto. Almeno 25mila sono stati rapiti. Circa 14mila vittime di stupri, sfruttamento sessuale, matrimoni forzati o altre gravi forme di violenza. I numeri del conflitto in Ucraina e a Gaza sono in evoluzione mentre si scrive.
Tra le regole che l’uomo si è imposto per delimitare la pratica della violenza bellica, l’esclusione di bambini dal coinvolgimento diretto: una norma la cui violazione è sempre stata condannata con unanimemente. Eppure, proprio a partire dall’età del massimo sviluppo tecnologico, il mondo ha assistito a quasi duecento conflitti armati il cui prezzo, in termini di vite umane e sofferenze di ogni genere, è stato pagato da chi non indossava alcuna divisa: donne, anziani, bambini. Nelle guerre odierne, il 90% delle vittime sono civili.
I bambini sono il futuro di una comunità: per questo nelle guerre etniche sono nemici da eliminare
La ragione del maggiore coinvolgimento dei bambini nelle guerre va ricercata nella natura delle stesse. Non si parla più di conflitti internazionali, combattuti da eserciti regolari, bensì scontri armati per ragioni etniche, religiose, sociali o territoriali. Nella guerra etnica l’obiettivo primario non è la conquista del territorio bensì l’espulsione o l’annichilimento di un gruppo. Le generazioni più giovani sono considerate alla stregua di nemici in crescita.
In Rwanda, prima dell’inizio del conflitto del 1994 tra autoctoni zairesi e banyarwanda, che ben presto si trasformò in una guerra di tutti contro i tutsi, Radio Mille Collines diffondeva tra gli hutu il messaggio che «per sterminare i topi grossi, bisognava ammazzare i topi piccoli». In poche settimane, 300mila topi piccoli furono uccisi.
Il coinvolgimento dei bambini nei conflitti odierni: tra il 2005 e il 2022 oltre 105mila bambini sono stati reclutati e usati
Il coinvolgimento dei bambini nei conflitti odierni non si limita alla loro inclusione fra gli obiettivi strategici. Adolescenti, ragazzi e bambini sono spesso utilizzati nelle operazioni militari.
Tra il 2005 e il 2022 oltre 105mila bambini sono stati reclutati e usati nei conflitti. È stato documentato l’impiego di bambini soldato nei conflitti armati in Afghanistan, Camerun, Colombia, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, India, Mali, Myanmar, Nigeria, Libia, Filippine, Pakistan, Somalia, Sudan, Siria, Yemen.
I bambini soldato sono parte integrante di eserciti governativi, gruppi paramilitari, fazioni armate irregolari, tra cui ribelli e terroristi. La loro età media è inferiore ai 13 anni. Uno dei fattori che ha permesso il crescente utilizzo dei bambini come soldati è stato il mutamento delle caratteristiche tecniche delle armi da guerra. Per utilizzare le armi premoderne occorreva molta forza e l’allenamento di un adulto, mentre oggi il perfezionamento tecnologico consente anche ai bambini di partecipare attivamente alle guerre… continua a leggere su Lampoon.it
L’uso strumentale della pena di morte ai fini della propaganda politica e religiosa: differenze tra Occidente e Oriente quando si parla di rispetto umano – e il ruolo delle case farmaceutiche
La condanna a morte di Kenneth Smith in Alabama tramite ipossia di azoto
Kenneth Smith, cittadino statunitense condannato a morte per omicidio, rischia l’esecuzione della pena con ipossia di azoto. Una pratica mai utilizzata finora. Smith è già stato sottoposto a un primo tentativo di esecuzione della pena lo scorso anno. Non andato a buon fine perché non si è riusciti a trovare una vena utile per la somministrazione dei farmaci letali. Ora rischia una seconda esecuzione con un metodo ritenuto particolarmente atroce.
Ipossia di azoto – cosa è l’azoto puro, il gas inerte e soffocante, e perché può essere letale
L’azoto in Italia è classificato come gas inerte. In Germania, è chiamato stickoff, ovvero gas soffocante. Se una persona entra in atmosfera ricca di azoto può perdere conoscenza in alcune decine di secondi, senza avvertire alcun sintomo o malessere. Dopo alcuni minuti insorge la morte. La persona cade a terra come fosse stata colpita al capo. I sensi umani non rilevano la diminuzione della concentrazione d ossigeno. Manca la percezione della rapidità con la quale le condizioni di asfissia possono condurre alla morte. L’inalazione di azoto puro è mortale.
L’azoto puro inibirà completamente l’anidride carbonica e l’ossigeno dai polmoni facendo arrestare immediatamente la respirazione. L’esecuzione mediante inalazione di azoto puro è stata valutata e approvata, a partire dal 2015, da tre stati: Alabama, Mississippi e Oklahoma, come possibile alternativa alle iniezioni letali. Il caso Smith sarebbe la prima volta che viene applicato.
Al condannato viene fatta indossare una maschera, inizialmente collegata a tubi di gas respirabile. Dopo l’ultima dichiarazione del detenuto, il gas respirabile verrà sostituito con azoto puro. La durata del procedimento potrebbe variare tra i cinque e i quindici minuti.
Iniezione letale e ipossia di azoto: vecchi e nuovi metodi di esecuzione
L’iniezione letale è praticata seguendo un protocollo che prevede la somministrazione separata di tre farmaci. La procedura inizia con l’iniezione di un sedativo, allo scopo di risparmiare al condannato le sofferenze fisiche ed emotive dell’esecuzione, il secondo farmaco iniettato paralizza i polmoni e il diaframma, mentre il terzo provoca la morte per arresto cardiaco. Alcune volte si è proceduto con un’unica iniezione letale ma, in generale, il procedimento seguito è quello delle tre somministrazioni. Tutte le trentacinque giurisdizioni statunitensi che conservano la pena di morte hanno previsto l’iniezione letale come metodo primario per le esecuzioni. In venti essa è stata addirittura l’unico metodo contemplato.La prima esecuzione per iniezione letale è avvenuta negli Stati Uniti nel 1982. In poco più di quarant’anni, oltre mille e trecento esecuzioni hanno avuto luogo con l’iniezione letale.
Le obiezioni all’impiego dell’ipossia da azoto come metodo per l’esecuzione di una condanna a morte riguardano la modalità, ritenuta atroce e disumana, e il fatto che sia un metodo mai utilizzato e, quindi, potrebbe avere degli sviluppi inaspettati. Diversi sono stati i casi in cui anche l’iniezione letale non ha funzionato come ci si aspettava: il sedativo non ha fatto effetto, non si è riusciti a trovare una vena utile – come nel caso di Kenneth Smith -, il soggetto ha manifestato sintomi inaspettati e la morte è avvenuta dopo molti minuti, alcune volte per sopraggiunto infarto… continua a leggere suLampoon.it
Lo slow living come reazione alla globalizzazione: lavoro e guadagno rimpiazzati da benessere e cura di sé – ma aleggia un sentimento di melanconia, il nichilismo dei nostri giorni
Il tempo non è denaro perché il tempo non esiste: la teoria loop quantum gravity
La nostra idea di tempo come unità quantizzabile e misurabile, è piuttosto recente e legata all’idea di produttività. Il concetto di ‘il tempo è denaro’ spiega bene la concezione di una vita consacrata alla produzione di beni e al guadagno. Il tempo dedicato alla produzione quantificabile dei beni, diventa esso stesso un qualcosa da misurare. Società ed economia sembrano ruotare intorno al concetto di tempo proprio mentre in fisica esso viene del tutto annullato.
I fisici sono arrivati a sostenere l’idea dell’inesistenza del tempo. La teoria loop quantum gravity descrive come si muovono le cose l’una rispetto all’altra, senza alcuna necessità di parlare di tempo. Concepito per la vita quotidiana, il tempo smette di essere necessario quando si studiano le strutture più generali del mondo. Si ha quindi una soggettivazione del concetto di tempo. Anche in antropologia il tempo è un costrutto sociale. Il fondamento delle categorie di tempo è il ritmo della vita sociale. Le attività organizzate in ciò che usiamo chiamare ‘lo scorrere del tempo’ sono un costrutto storico-culturale e il calendario scandisce il ritmo delle attività collettive regolarizzandole.
Lockdown e auto-sospensioni per combattere il male dell’infinito, la prima fragilità umana
Dietro questo c’è un distacco della cultura occidentale, dalla natura e una paura del suo arresto. Ciò che manca alla nostra civiltà è l’idea del limite. La nostra cultura è priva dell’illuminazione che proviene dalla pratica delle auto-sospensioni. Potrebbe essere proprio questa brama dell’oltre ogni limite, chiamata anche ‘il male dell’infinito’, la fonte dei problemi che affliggono la società moderna, la nostra fragilità umana.
I lockdown in piena pandemia hanno arrestato gli ingranaggi di questa macchina economica che siamo abituati a pensare non solo come inarrestabile ma anche come universale, come un qualcosa di sacro e intoccabile. Tutti hanno dovuto ripensare i propri spazi e tempi all’insegna di un unico e collettivo scopo: rallentare. Una vita slow dettata dalla necessità che richiama un differente stile di vita praticato da sempre più persone in tutto il mondo ormai. Un approccio lento alla vita che promuove benessere e sostenibilità ambientale.
Cambiare stile di vita per prendersi cura di se stessi: l’individuo e la sua appartenenza alla comunità
Oltre il novanta per cento degli italiani si dichiara pronto a cambiare il proprio stile di vita per una società più sostenibile, di questi, circa il quaranta per cento è pronto ad attuare un cambio radicale delle proprie abitudini, dalla mobilità ai consumi alimentari. L’identità non è soltanto l’atto di partire da sé per attuare un cambiamento, essa è anche un tornare a sé. La necessità di occuparsi di sé. Che è una responsabilità, a volte un peso. Ci si chiede se sfuggire alla solitudine, intesa come la cura di sé, non rappresenti anche un alleggerimento di questa responsabilità. Un discorso applicabile sia all’individuo sia alla sua appartenenza alla comunità… continua a leggere su Lampoon.it
Il 40% delle donne africane si sottopone a trattamenti per schiarire la pelle, spesso con creme che contengono mercurio. Federico Faloppa indaga le origini e il presente del desiderio di Sbiancare un etiope
Creme, unguenti e gel sbiancanti per la pelle: una pratica dannosa per la salute
Solo sul mercato africano esistono più di centocinquanta marche di creme, unguenti e altri gel sbiancanti, facilmente acquistabili, ma quasi sempre illegali, e dannosi per la salute. Quando un prodotto sparisce dal mercato, perché dichiarato troppo nocivo, subito viene sostituito da rimedi fatti in casa. Spesso definiti naturali, non per questo meno tossici.
Il problema non è solo medico e non riguarda solo il continente africano. Un’inchiesta di Le Monde del 2008 già rilevava la tendenza diffusa da parte delle persone di colore a volersi sbiancare la pelle. Un desiderio comune anche tra le cittadine francesi di origine africana. Oggi, lo storico Pap Ndiaye – che nel 2022 ha assunto l’incarico di ministro dell’educazione nazionale in Francia – sostiene si tratti di un problema tout court, risolvibile solo attraverso una lotta più efficace contro le discriminazioni, le gerarchie sociali e quelle mélaniques – basate sulla melanina, ereditate dalla colonizzazione.
Quando nasce la necessità di sbiancare i neri e perché? Un libro ne ripercorre le tappe salienti
Lo studio e la ricerca condotti da Federico Faloppa – autore di Sbiancare un etiope. La costruzione di un immaginario razzista, Utet, De Agostini Libri, Milano, 2022 – ripercorrono i tratti salienti della nascita della necessità di sbiancare una persona dalla pelle scura.
Dal vecchio al nuovo continente, la superiorità della razza bianca è stata sbandierata dalla maggior parte della popolazione – da gruppi estremisti quali i membri del Ku Klux Klan ma, anche da molti afferenti la NAACP (National Association for the Advancement of Coloured People), convinti che i neri non avrebbero mai ottenuto la pienezza dei diritti civili e politici senza modificare le loro abitudini e il loro modo di presentarsi, seguendo i modelli, anche estetici, dei bianchi. La prima ambizione di un colonizzato è di diventare come il colonizzatore, il quale assurge a modello di riferimento… continua a leggere su Lampoon.it