Il benessere ambientale è un ritorno al passato o una proiezione verso il futuro? La correlazione tra demografia e inquinamento: il controllo delle nascite e il consumo delle risorse plasmano il mondo globale
Demografia e inquinamento, nell’era del cambiamento climatico: come trovare l’equilibrio per il benessere, dall’allarmismo anni Settanta alla fiducia nelle innovazioni tecnologiche
Il dibattito sull’impatto del numero della popolazione mondiale è riemerso a partire dal novembre 2022, quando si è raggiunto il traguardo degli 8 miliardi di persone – ma le visioni allarmistiche sulla crescita esponenziale della popolazione animavano già il dibattito negli anni Settanta.
Lo slancio demografico è pre-programmato, occorre agire su consumi ed ecologia
La crescita della popolazione mondiale nel medio termine è guidata dalla struttura dell’età giovane di alcune popolazioni mondiali. Il cosiddetto slancio demografico implica che gran parte dell’ulteriore crescita della popolazione totale nei prossimi decenni è già pre-programmata nella composizione per fasce di età della popolazione. Pertanto, le soluzioni immediate per ridurre le emissioni fino al 2050 devono provenire principalmente dall’ecologizzazione dell’economia mondiale e da un cambiamento nel consumo pro capite.
Ciò non significa che i cambiamenti nella dimensione della popolazione globale siano irrilevanti. Nel lungo termine, l’entità della popolazione avrà un impatto in termini di vulnerabilità e capacità della popolazione di adattarsi al già inevitabile cambiamento climatico. Considerando le emissioni future, la dimensione della popolazione degli attuali paesi a basse emissioni farà una grande differenza man mano che le loro economie cresceranno e i livelli di consumo aumenteranno.
La futura crescita della popolazione si concentrerà nelle regioni del mondo che attualmente presentano le emissioni pro capite più basse e una responsabilità limitata per le emissioni passate, come l’Africa. Pur partendo da un livello basso, si prevede che queste regioni registreranno i progressi più lenti in termini di decarbonizzazione, miglioramento dell’efficienza energetica e disaccoppiamento della crescita economica dalle emissioni. Spetta all’Unione Europea e alle altre regioni del primo mondo, che hanno contribuito a gran parte delle emissioni passate, guidare gli sforzi di coordinamento per ridurre l’intensità energetica, sviluppare tecnologie green e adottare modelli di consumo più sostenibili.
Tecno-ottimisti e futuristi puntano tutto su ingegno umano e tecnologia
Mentre le visioni allarmistiche di una crescita esponenziale della popolazione sono ormai scartate dalla maggior parte degli analisti, anche le preoccupazioni più moderate sull’impatto di una popolazione mondiale ancora in espansione vengono spesso minimizzate con l’argomentazione, in ultima analisi, che le emissioni sono influenzate più dal reddito che dalle dimensioni della popolazione.
Lo spostamento dell’attenzione verso il reddito è generalmente accompagnato dalla fiducia nell’ingegno umano e nel ruolo che la tecnologia può svolgere negli sforzi per decarbonizzare le economie. Alcuni studiosi, tra i quali Ian Goldin, vedono in un maggior numero di persone sul pianeta opportunità che si presentano per l’arricchimento del capitale umano e della diversità che consentiranno di affrontare al meglio le sfide globali.
I tecno-ottimisti confidano nella forza dell’innovazione e tendono a ignorare la dipendenza fondamentale delle economie dai bisogni materiali dei combustibili fossili. Ancora più estremisti sono i futuristi come Harari e Kurzweil, i quali invocano le upcoming singularities – trasformazione digitale, intelligenza artificiale, energia da fusione –, quali supporti indispensabili che consentiranno alla specie umana di continuare lungo il suo percorso di espansione economica esponenziale, indipendentemente dall’entità della popolazione e dai confini planetari.
Cambiamenti climatici e popolazione che invecchia sono le sfide europee – anziani e residenti urbani inquinano di più
Stando ai dati del Report 2023 del Joint Research Centre, considerando le emissioni in termini pro capite, è possibile osservare come le persone anziane tendono a emettere in media più delle generazioni giovani. Nelle città le emissioni sono inferiori grazie alle economie di scala urbane – ad esempio, dalla condivisione dei trasporti pubblici. D’altra parte, queste efficienze sono contrastate dal reddito più elevato dei residenti urbani, che normalmente si traduce in maggiori consumi ed emissioni. Inoltre, le persone che vivono in città sono penalizzate dal fatto che le le famiglie, in genere, tendono a essere più piccole rispetto alle aree rurali e quindi le emissioni sono divise per un numero minore di membri della famiglia.
Piuttosto che sulla dimensione e sulla crescita della popolazione, la maggior parte dei riferimenti demografici nelle politiche di mitigazione e adattamento climatico dell’Unione Europea sono legati alla necessità di far fronte alla vulnerabilità di una popolazione che invecchia, a uno status di basso reddito e al luogo di vita rurale.
La popolazione europea sta invecchiando rapidamente. Eurostat prevede che entro il 2050 nell’UE-27 ci saranno quasi mezzo milione di centenari. Questo cambiamento nella struttura per età della popolazione europea avviene parallelamente ai cambiamenti climatici. Ondate di caldo, siccità ed eventi meteorologici estremi sempre più frequenti incidono sui tassi di mortalità complessivi, sul benessere e sui mezzi di sussistenza delle persone.
Stando ai dati del Report 2023 del Joint Research Centre, considerando le emissioni in termini pro capite, è possibile osservare come le persone anziane tendono a emettere in media più delle generazioni giovani. Nelle città le emissioni sono inferiori grazie alle economie di scala urbane – ad esempio, dalla condivisione dei trasporti pubblici. D’altra parte, queste efficienze sono contrastate dal reddito più elevato dei residenti urbani, che normalmente si traduce in maggiori consumi ed emissioni. Inoltre, le persone che vivono in città sono penalizzate dal fatto che le le famiglie, in genere, tendono a essere più piccole rispetto alle aree rurali e quindi le emissioni sono divise per un numero minore di membri della famiglia.
Crescita demografica ed emissioni di carbonio nel mondo: la trappola malthusiana
Il premio Nobel Nordhaus sottolinea che esistono tre modi per ridurre le emissioni: minore crescita della popolazione, minore crescita del tenore di vita, minore intensità di CO2 – decarbonizzazione. C’è una discrepanza della popolazione e di livelli di emissioni tra i paesi. I principali emettitori, storici e attuali, Stati Uniti, Cina e Unione Europea, sono regioni in cui la popolazione ha smesso di crescere o sta crescendo a un ritmo lento. Le regioni in cui la popolazione cresce più forte sono quelle che contribuiscono solo in minima parte al riscaldamento globale.
Dal finire del Diciottesimo secolo in poi, le richieste di risorse sono aumentate costantemente mentre sono emerse conseguenze ecologiche negative come il peggioramento della qualità dell’aria e dell’acqua, il declino delle risorse idriche e terrestri e, con il tempo, il cambiamento climatico… continua a leggere su Lampoon.it
Il festival artistico senegalese Partcours 12 ha ospitato la mostra dedicata a Mauro Petroni e alle sue manifatture in ceramica – «Non fingo di essere integrato: sono un viaggiatore, che guarda tutto e capisce poco»
Partcours – la mostra Petroni 40, organizzata dall’Ambasciata Italiana e dall’Istituto Italiano di Cultura
Un evento a Dakar lega arte e territorio. Si è conclusa il 10 dicembre la manifestazione artistica Partcours iniziata lo scorso 24 novembre e giunta alla dodicesima edizione. Il festival itinerante è un’esplorazione dinamica del tessuto urbano di Dakar, a cui partecipano Artisti, curatori, galleristi e pubblico.
Partcours ha ospitato quest’anno la mostra Petroni 40, organizzata dall’Ambasciata Italiana e dall’Istituto Italiano di Cultura per omaggiare l’artista italiano Mauro Petroni e il suo lavoro creativo in Senegal. Ma numerosi sono stati gli eventi e le esposizioni che hanno visto la partecipazione di oltre cento artisti.
I luoghi di Partcours 12: Almadies Ceramics Workshop
Mauro Petroni ha esposto nell’hangar di Almadies Ceramics Workshop. Costruito all’inizio degli anni Sessanta nella foresta di Almadies, questo capannone aperto ospitava la produzione di prefabbricati in cemento, utilizzando le rocce della vicina scogliera. Dal 1984 è sede del laboratorio di Petroni, che ha prodotto interventi in ceramica per l’architettura e il patrimonio senegalese: dalla ricostruzione del mercato Kemel nel 1996 al restauro della stazione ferroviaria di Dakar nel 2018. Tutta la sua produzione è realizzata a mano con la terra rossa del Senegal, che si lega agli smalti nel forno a gas di Limoges risalente al XIX secolo.
Le ceramiche prodotte nel laboratorio di Petroni sono una commistione di radici italiane liberamente ispirate all’estetica africana. L’artista sottolinea di non aver praticamente mai lavorato la ceramica in Italia, mentre il suo lavoro in Senegal ruota completamente intorno a essa. «Ho poco dell’artista e dell’artigiano – ma amo il rigore. Non ho mai fatto ceramica in Italia. Ho bevuto tanto da tante parti e quando faccio dei pezzi che mi dico del Sahel, forse sono di una matrice etrusca, o ancora c’è un po’ di Oriente. In fin dei conti il viaggiatore quando diventa sedentario vive di sogni, e di segni».
Il viaggio artistico di Petroni fa tappa a la Gare de Dakar
Un viaggiatore, Petroni, che ha ricreato un ‘viaggio architettonico’ sui muri di Dakar – sono circa 240 i suoi interventi nella città, per creare un percorso nel tempo e attraverso il Paese. Intorno al concetto di viaggio ruota anche uno dei monumenti storici della città: la Gare de Dakar, tra le opere architettoniche pubbliche forse quella che più di tutte rappresenta l’impegno di coniugare e unire culture e tradizioni. Un’opera che vuole rappresentare il progresso, l’infrastruttura, il viaggio.
Petroni stesso ha percorso migliaia di chilometri nella sua vita. Ha vissuto più tempo in Senegal che in Italia e si sente ancora un viaggiatore e uno straniero. «In questa casa atelier dove abito ho vissuto quarant’anni, più del tempo che ho dormito in un letto italiano. Non ho mai fatto le treccine, non fingo di essere integrato: sono ‘straniero’, privilegiato, più libero di chi deve sottoporsi a regole sociali. Non so se questo si traduce anche in quello che faccio, forse sì. La lettura che posso fare delle cose è simile a quella del viaggiatore, che guarda tutto e capisce poco».
Petroni, il mercato di Kermel e l’arabisance
Un’altra opera rappresentativa dell’architettura urbana di Dakar è il mercato di Kermel, cuore vivo della città, meta anche di turisti. L’originale architettura è a pianta centrale – una struttura in acciaio e mattoni colorati, con ringhiere di ferro battuto plasmate secondo motivi floreali, richiamati anche dalle ceramiche decorative. Un edificio che parla di sogni, di fantasia, di allegria. Esso è testimonianza del padiglione a pianta centrale con struttura in acciaio secondo i modelli importati dalla Francia ma è, al tempo stesso, il volto esotico della arabisance – arabizzazione. Petroni ha lavorato alla sua restaurazione. Un lavoro per il quale nutriva molte aspettative.
«Avevo entusiasmo per quello che era il mio primo grosso cantiere, legato alla storia della città. Un mercato. Il posto di tutti gli scambi e di tutti i sogni. Quelli che avevano disegnato i decori non avevano capito niente, pensavano all’Africa come alle Mille e una notte, ma proprio lì sta la genialità. Ancora una volta la mescolanza, i fischi per fiaschi: le lune dell’Arabia nel loro decoro somigliavano a delle banane».
Petroni 40: il labirinto multiculturale dove non ci si perde ma ci si trova
Ad aprire il festival Partcours quest’anno c’è stata proprio la mostra in due parti dedicata ai 40 anni di lavoro creativo in Senegal di Mauro Petroni. Petroni 40 all’Istituto Italiano di Cultura di Dakar sarà allestita fino al 24 febbraio 2024 mentre quella all’Atelier Céramiques Almadies fino al 1 marzo 2024. La prima è proiettata verso le opere di architettura urbana e la seconda incentrata, invece, su otto collezioni iconiche dell’artista.
Petroni ha definito le sue ceramiche il filo di Arianna che gli hanno permesso di creare la tela sulla città. La tela su una città che egli definisce un labirinto nel quale invece di perdersi ci si trova. «Facile rispondere che Dakar è un labirinto – non di quelli dove ci si perde, piuttosto quelli dove ci si trova. E questo grazie al suo senso multiculturale, una città dove molte anime convivono».
I chiaroscuri della cultura e della società senegalese
Dakar è la città più grande del Senegal. Situata sulla costa occidentale dell’Africa è un centro multiculturale vibrante e vivace. Fondata dai colonizzatori francesi nel 1857, ospita numerosi gruppi etnici: Wolof, Serer, Puhl, Diola, Mandingo. La presenza francese è evidente nella ristorazione, nel commercio e nell’architettura, con gli edifici coloniali che si affiancano a moderne strutture africane. Un labirinto di strade, case, arte, cultura le cui caratteristiche si intrecciano per creare quella peculiare società che Petroni definisce una vera e propria rampa di lancio.
Cambiamenti bruschi, radicali. Petroni ha iniziato a frequentare il Senegal dagli anni Settanta e vi si è trasferito in maniera definitiva nel 1983. Una nazione dove ha trovato, al suo arrivo, la libertà di espressione e movimento. «Era un posto dove trovavo la libertà di essere, di muovermi, di esprimermi. Prima tutto era largo, ora tutto sembra essere così stretto. Non voglio dire che era meglio, era così»... continua a leggere su Lampoon.it
I bambini sono il futuro di una comunità: nelle guerre etniche sono nemici da eliminare – fragilità umana, e distress psicologico, dal Secondo dopoguerra a oggi
Gli effetti dei conflitti armati sui bambini: i numeri da Gaza all’Ucraina e l’impatto sulla salute mentale
Sono oltre 260mila le violazioni gravi verificate sui bambini tra il 2005 e il 2020 in oltre trenta conflitti a livello globale. Più di 100mila bambini uccisi o mutilati in situazioni di conflitto armato. Oltre 90mila sono stati reclutati e utilizzati da parti del conflitto. Almeno 25mila sono stati rapiti. Circa 14mila vittime di stupri, sfruttamento sessuale, matrimoni forzati o altre gravi forme di violenza. I numeri del conflitto in Ucraina e a Gaza sono in evoluzione mentre si scrive.
Tra le regole che l’uomo si è imposto per delimitare la pratica della violenza bellica, l’esclusione di bambini dal coinvolgimento diretto: una norma la cui violazione è sempre stata condannata con unanimemente. Eppure, proprio a partire dall’età del massimo sviluppo tecnologico, il mondo ha assistito a quasi duecento conflitti armati il cui prezzo, in termini di vite umane e sofferenze di ogni genere, è stato pagato da chi non indossava alcuna divisa: donne, anziani, bambini. Nelle guerre odierne, il 90% delle vittime sono civili.
I bambini sono il futuro di una comunità: per questo nelle guerre etniche sono nemici da eliminare
La ragione del maggiore coinvolgimento dei bambini nelle guerre va ricercata nella natura delle stesse. Non si parla più di conflitti internazionali, combattuti da eserciti regolari, bensì scontri armati per ragioni etniche, religiose, sociali o territoriali. Nella guerra etnica l’obiettivo primario non è la conquista del territorio bensì l’espulsione o l’annichilimento di un gruppo. Le generazioni più giovani sono considerate alla stregua di nemici in crescita.
In Rwanda, prima dell’inizio del conflitto del 1994 tra autoctoni zairesi e banyarwanda, che ben presto si trasformò in una guerra di tutti contro i tutsi, Radio Mille Collines diffondeva tra gli hutu il messaggio che «per sterminare i topi grossi, bisognava ammazzare i topi piccoli». In poche settimane, 300mila topi piccoli furono uccisi.
Il coinvolgimento dei bambini nei conflitti odierni: tra il 2005 e il 2022 oltre 105mila bambini sono stati reclutati e usati
Il coinvolgimento dei bambini nei conflitti odierni non si limita alla loro inclusione fra gli obiettivi strategici. Adolescenti, ragazzi e bambini sono spesso utilizzati nelle operazioni militari.
Tra il 2005 e il 2022 oltre 105mila bambini sono stati reclutati e usati nei conflitti. È stato documentato l’impiego di bambini soldato nei conflitti armati in Afghanistan, Camerun, Colombia, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, India, Mali, Myanmar, Nigeria, Libia, Filippine, Pakistan, Somalia, Sudan, Siria, Yemen.
I bambini soldato sono parte integrante di eserciti governativi, gruppi paramilitari, fazioni armate irregolari, tra cui ribelli e terroristi. La loro età media è inferiore ai 13 anni. Uno dei fattori che ha permesso il crescente utilizzo dei bambini come soldati è stato il mutamento delle caratteristiche tecniche delle armi da guerra. Per utilizzare le armi premoderne occorreva molta forza e l’allenamento di un adulto, mentre oggi il perfezionamento tecnologico consente anche ai bambini di partecipare attivamente alle guerre… continua a leggere su Lampoon.it
L’uso strumentale della pena di morte ai fini della propaganda politica e religiosa: differenze tra Occidente e Oriente quando si parla di rispetto umano – e il ruolo delle case farmaceutiche
La condanna a morte di Kenneth Smith in Alabama tramite ipossia di azoto
Kenneth Smith, cittadino statunitense condannato a morte per omicidio, rischia l’esecuzione della pena con ipossia di azoto. Una pratica mai utilizzata finora. Smith è già stato sottoposto a un primo tentativo di esecuzione della pena lo scorso anno. Non andato a buon fine perché non si è riusciti a trovare una vena utile per la somministrazione dei farmaci letali. Ora rischia una seconda esecuzione con un metodo ritenuto particolarmente atroce.
Ipossia di azoto – cosa è l’azoto puro, il gas inerte e soffocante, e perché può essere letale
L’azoto in Italia è classificato come gas inerte. In Germania, è chiamato stickoff, ovvero gas soffocante. Se una persona entra in atmosfera ricca di azoto può perdere conoscenza in alcune decine di secondi, senza avvertire alcun sintomo o malessere. Dopo alcuni minuti insorge la morte. La persona cade a terra come fosse stata colpita al capo. I sensi umani non rilevano la diminuzione della concentrazione d ossigeno. Manca la percezione della rapidità con la quale le condizioni di asfissia possono condurre alla morte. L’inalazione di azoto puro è mortale.
L’azoto puro inibirà completamente l’anidride carbonica e l’ossigeno dai polmoni facendo arrestare immediatamente la respirazione. L’esecuzione mediante inalazione di azoto puro è stata valutata e approvata, a partire dal 2015, da tre stati: Alabama, Mississippi e Oklahoma, come possibile alternativa alle iniezioni letali. Il caso Smith sarebbe la prima volta che viene applicato.
Al condannato viene fatta indossare una maschera, inizialmente collegata a tubi di gas respirabile. Dopo l’ultima dichiarazione del detenuto, il gas respirabile verrà sostituito con azoto puro. La durata del procedimento potrebbe variare tra i cinque e i quindici minuti.
Iniezione letale e ipossia di azoto: vecchi e nuovi metodi di esecuzione
L’iniezione letale è praticata seguendo un protocollo che prevede la somministrazione separata di tre farmaci. La procedura inizia con l’iniezione di un sedativo, allo scopo di risparmiare al condannato le sofferenze fisiche ed emotive dell’esecuzione, il secondo farmaco iniettato paralizza i polmoni e il diaframma, mentre il terzo provoca la morte per arresto cardiaco. Alcune volte si è proceduto con un’unica iniezione letale ma, in generale, il procedimento seguito è quello delle tre somministrazioni. Tutte le trentacinque giurisdizioni statunitensi che conservano la pena di morte hanno previsto l’iniezione letale come metodo primario per le esecuzioni. In venti essa è stata addirittura l’unico metodo contemplato.La prima esecuzione per iniezione letale è avvenuta negli Stati Uniti nel 1982. In poco più di quarant’anni, oltre mille e trecento esecuzioni hanno avuto luogo con l’iniezione letale.
Le obiezioni all’impiego dell’ipossia da azoto come metodo per l’esecuzione di una condanna a morte riguardano la modalità, ritenuta atroce e disumana, e il fatto che sia un metodo mai utilizzato e, quindi, potrebbe avere degli sviluppi inaspettati. Diversi sono stati i casi in cui anche l’iniezione letale non ha funzionato come ci si aspettava: il sedativo non ha fatto effetto, non si è riusciti a trovare una vena utile – come nel caso di Kenneth Smith -, il soggetto ha manifestato sintomi inaspettati e la morte è avvenuta dopo molti minuti, alcune volte per sopraggiunto infarto… continua a leggere suLampoon.it
Lo slow living come reazione alla globalizzazione: lavoro e guadagno rimpiazzati da benessere e cura di sé – ma aleggia un sentimento di melanconia, il nichilismo dei nostri giorni
Il tempo non è denaro perché il tempo non esiste: la teoria loop quantum gravity
La nostra idea di tempo come unità quantizzabile e misurabile, è piuttosto recente e legata all’idea di produttività. Il concetto di ‘il tempo è denaro’ spiega bene la concezione di una vita consacrata alla produzione di beni e al guadagno. Il tempo dedicato alla produzione quantificabile dei beni, diventa esso stesso un qualcosa da misurare. Società ed economia sembrano ruotare intorno al concetto di tempo proprio mentre in fisica esso viene del tutto annullato.
I fisici sono arrivati a sostenere l’idea dell’inesistenza del tempo. La teoria loop quantum gravity descrive come si muovono le cose l’una rispetto all’altra, senza alcuna necessità di parlare di tempo. Concepito per la vita quotidiana, il tempo smette di essere necessario quando si studiano le strutture più generali del mondo. Si ha quindi una soggettivazione del concetto di tempo. Anche in antropologia il tempo è un costrutto sociale. Il fondamento delle categorie di tempo è il ritmo della vita sociale. Le attività organizzate in ciò che usiamo chiamare ‘lo scorrere del tempo’ sono un costrutto storico-culturale e il calendario scandisce il ritmo delle attività collettive regolarizzandole.
Lockdown e auto-sospensioni per combattere il male dell’infinito, la prima fragilità umana
Dietro questo c’è un distacco della cultura occidentale, dalla natura e una paura del suo arresto. Ciò che manca alla nostra civiltà è l’idea del limite. La nostra cultura è priva dell’illuminazione che proviene dalla pratica delle auto-sospensioni. Potrebbe essere proprio questa brama dell’oltre ogni limite, chiamata anche ‘il male dell’infinito’, la fonte dei problemi che affliggono la società moderna, la nostra fragilità umana.
I lockdown in piena pandemia hanno arrestato gli ingranaggi di questa macchina economica che siamo abituati a pensare non solo come inarrestabile ma anche come universale, come un qualcosa di sacro e intoccabile. Tutti hanno dovuto ripensare i propri spazi e tempi all’insegna di un unico e collettivo scopo: rallentare. Una vita slow dettata dalla necessità che richiama un differente stile di vita praticato da sempre più persone in tutto il mondo ormai. Un approccio lento alla vita che promuove benessere e sostenibilità ambientale.
Cambiare stile di vita per prendersi cura di se stessi: l’individuo e la sua appartenenza alla comunità
Oltre il novanta per cento degli italiani si dichiara pronto a cambiare il proprio stile di vita per una società più sostenibile, di questi, circa il quaranta per cento è pronto ad attuare un cambio radicale delle proprie abitudini, dalla mobilità ai consumi alimentari. L’identità non è soltanto l’atto di partire da sé per attuare un cambiamento, essa è anche un tornare a sé. La necessità di occuparsi di sé. Che è una responsabilità, a volte un peso. Ci si chiede se sfuggire alla solitudine, intesa come la cura di sé, non rappresenti anche un alleggerimento di questa responsabilità. Un discorso applicabile sia all’individuo sia alla sua appartenenza alla comunità… continua a leggere su Lampoon.it
Il 40% delle donne africane si sottopone a trattamenti per schiarire la pelle, spesso con creme che contengono mercurio. Federico Faloppa indaga le origini e il presente del desiderio di Sbiancare un etiope
Creme, unguenti e gel sbiancanti per la pelle: una pratica dannosa per la salute
Solo sul mercato africano esistono più di centocinquanta marche di creme, unguenti e altri gel sbiancanti, facilmente acquistabili, ma quasi sempre illegali, e dannosi per la salute. Quando un prodotto sparisce dal mercato, perché dichiarato troppo nocivo, subito viene sostituito da rimedi fatti in casa. Spesso definiti naturali, non per questo meno tossici.
Il problema non è solo medico e non riguarda solo il continente africano. Un’inchiesta di Le Monde del 2008 già rilevava la tendenza diffusa da parte delle persone di colore a volersi sbiancare la pelle. Un desiderio comune anche tra le cittadine francesi di origine africana. Oggi, lo storico Pap Ndiaye – che nel 2022 ha assunto l’incarico di ministro dell’educazione nazionale in Francia – sostiene si tratti di un problema tout court, risolvibile solo attraverso una lotta più efficace contro le discriminazioni, le gerarchie sociali e quelle mélaniques – basate sulla melanina, ereditate dalla colonizzazione.
Quando nasce la necessità di sbiancare i neri e perché? Un libro ne ripercorre le tappe salienti
Lo studio e la ricerca condotti da Federico Faloppa – autore di Sbiancare un etiope. La costruzione di un immaginario razzista, Utet, De Agostini Libri, Milano, 2022 – ripercorrono i tratti salienti della nascita della necessità di sbiancare una persona dalla pelle scura.
Dal vecchio al nuovo continente, la superiorità della razza bianca è stata sbandierata dalla maggior parte della popolazione – da gruppi estremisti quali i membri del Ku Klux Klan ma, anche da molti afferenti la NAACP (National Association for the Advancement of Coloured People), convinti che i neri non avrebbero mai ottenuto la pienezza dei diritti civili e politici senza modificare le loro abitudini e il loro modo di presentarsi, seguendo i modelli, anche estetici, dei bianchi. La prima ambizione di un colonizzato è di diventare come il colonizzatore, il quale assurge a modello di riferimento… continua a leggere su Lampoon.it
Quali sono i reali effetti della violenza sull’essere umano, soprattutto se ne rimane colpito in giovane età? Esiste un limite invalicabile tra reale e virtuale quando si parla di violenza oppure è fin troppo facile passare dall’uno all’altro tipo?
Nel Rapporto Unicef 2023 si legge che, complessivamente, nel 2022 quasi 37milioni di bambini in tutto il mondo sono sfollati a causa di conflitti e violenze. Un numero che non si contava dalla Seconda guerra mondiale. Cifra che non comprende i bambini sfollati a causa della povertà, dei cambiamenti climatici o alla ricerca di una vita migliore. E non comprende nemmeno i bambini sfollati a causa della guerra in Ucraina. Per la gran parte si tratta di bambini senza uno status ufficiale di migrante o accesso all’istruzione e all’assistenza sanitaria.
Presumibilmente una larga parte di questi minori ha subito o subirà una qualche forma di violenza o vi abbia assistito.
Stando ai dati diffusi da Save the Children a novembre 2021, in Italia sono stati 427mila i minorenni che nell’arco temporale 2009-2014 hanno vissuto la violenza dentro casa. Diretta o indiretta. In questo secondo caso si parla di violenza passiva, definita dal Cismai – Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso dell’Infanzia – come «il fare esperienza da parte del/la bambino/a di qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulti e minori».
La violenza domestica, diretta e indiretta, ha degli effetti dal punto di vista fisico, cognitivo, comportamentale e sulle capacità di socializzazione dei bambini e degli adolescenti.
Un quarto di tutti gli adulti dichiara di aver subito abusi fisici durante l’infanzia.
Una donna su 5 e un uomo su 13 dichiarano di aver subito violenze sessuali nell’infanzia.
Tra le conseguenze dei maltrattamenti infantili ci sono ricadute permanenti sulla salute fisica e mentale, le cui ripercussioni a livello sociale e occupazionale possono finire per rallentare lo sviluppo economico e sociale di un Paese.
Prevenire i maltrattamenti infantili prima che inizino è possibile e richiede un approccio multisettoriale.
I maltrattamenti infantili sono un problema mondiale, che comporta gravi conseguenze per l’intera durata dell’esistenza. Lo stress causato dai maltrattamenti è associato a ritardi nella fase iniziale dello sviluppo cerebrale. Uno stress estremo può compromettere lo sviluppo del sistema nervoso e di quello immunitario. Di conseguenza, gli adulti che hanno subito maltrattamenti nell’infanzia presentano un rischio maggiore di sviluppare problemi comportamentali, fisici e mentali, quali:
Commettere o subire violenze.
Depressione.
Fumo.
Obesità.
Comportamenti sessuali ad alto rischio.
Gravidanze indesiderate.
Abuso di alcol e droghe.
Non tutti i bambini abusati si trasformano in aggressori, ce ne sono alcuni la cui triste sorte sembra essere la condanna a rimanere vittime.1
Ogni evento di natura maltrattante, specialmente se sperimentato precocemente e ripetutamente nelle relazioni primarie di cura, cioè con le figure che dovrebbero garantire sicurezza, affidabilità, stabilità, contenimento affettivo ed emotivo, in carenza o assenza di fattori protettivi e di “resilienza” nel bambino, produce trauma psichico/interpersonale, che colpisce e danneggia le principali funzioni dello sviluppo, provoca una grave deprivazione del potere e del controllo personale, una rilevante distorsione dell’immagine di sé e del mondo circostante.2
Dunque le persone, in particolare bambini e adolescenti, traumatizzate da qualsiasi forma di violenza manifestano una rilevante distorsione dell’immagine di sé e del mondo circostante. E allora ci si domanda cosa accade in coloro che assistono a una violenza continua “filtrata e somministrata” attraverso qualsivoglia dispositivo: media, pubblicazioni, video, videogiochi, musica, internet e via discorrendo. In particolare ci si chiede se, in un certo qual modo, tutta questa violenza possa essere considerata una forma di violenza assistita.
Tecnicamente per violenza assistita da minori in ambito famigliare si intende il fare esperienza da parte dell’infante di qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulte e minori. Si includono le violenza messe in atto da minori e/o su altri membri della famiglia, gli abbandoni e i maltrattamenti ai danni di animali domestici.
Il bambino può fare esperienza di tali atti:
Direttamente: quando avvengono nel suo campo percettivo.
Indirettamente: quando ne è a conoscenza e/o ne percepisce gli effetti.3
L’utilizzo abituale da parte di bambini e ragazzi delle nuove tecnologie e di internet in particolare, se da una parte rappresenta un’opportunità di ampliare le possibilità di esperienza e di relazione, dall’altro ha modificato le modalità di comunicare e si è rivelato lo scenario di possibili forme di violenza anche molto gravi. Recenti ricerche hanno messo in evidenza l’estrema diffusione, anche nel nostro paese, dell’utilizzo di internet da parte delle nuove generazioni, e come si stiano diffondendo condizioni di rischio di vittimizzazione sessuale.4
Anche quando l’infante o l’adolescente non è o non diventa vittima di abuso, reale o online, ma è sottoposto costantemente a immagini, video, videogiochi, narrazioni varie di violenza, cosa accade nella sua mente? Si corre egualmente il rischio di una rilevante distorsione dell’immagine di sé e del mondo circostante?
La quasi totalità dei ragazzi oggi dichiara che la fonte unica, primaria e assoluta di insegnamento, apprendimento e ispirazione per la propria sessualità è la pornografia attraverso il web.
La pornografia basa i propri bias sulla carnalità e l’assenza di contesti, emozioni, sentimenti, responsabilità, maturità… le persone diventano corpi-oggetto atti a soddisfare pulsioni. È evidente e palese che il ricorso a questo tipo di visione produca effetti non proprio lodevoli negli adulti quindi si possono facilmente immaginare le conseguenze nefaste che causano sui giovani.5
Presumibilmente analoghe conseguenze negative si hanno anche per tutte le altre forme di violenza e aggressività.
161 bambini dai 9 ai 12 anni e 354 studenti universitari sono stati testati assegnando loro, in maniera casuale, un videogioco violento o non violento, di tutti i partecipanti è stata previamente studiata la storia recente come i comportamenti violenti e le preferenze di videogiochi, programmi televisivi o film, dimostrando come l’esposizione alla violenza mediatica sia associata a un comportamento aggressivo e a una desensibilizzazione degli utenti in associazione con mancata empatia e capacità di avere un comportamento prosociale.6
La battaglia tra chi crede fermamente che la sovraesposizione a una violenza simulata possa condurre quindi un individuo ad avere comportamenti aggressivi nella vita reale e chi, invece, non è convinto esista questa diretta correlazione si combatte tutt’oggi su un campo prettamente teorico, fatto di cifre, statistiche, metodi, studi e conseguenti smentite, critiche su campioni usati per le analisi e nuovi e più ampi soggetti di studio.7 Ciò che è per certo inconfutabile è il fatto che negli ultimi decenni la violenza – nelle serie televisive come nei videogiochi, in internet e sui social – è notevolmente aumentata. Intendendo con il termine generico “violenza” scene di aggressività, criminalità, maltrattamenti fisici e sessuali e via discorrendo.
Un problema che andrebbe sottolineato di più è quello dell’effetto di abituazione, ovvero un processo per il quale la ripetizione continuata di uno stimolo determina la diminuzione dell’intensità e della durata di una risposta – tipicamente innata -, fino all’estinzione della risposta stessa che dipende dal confronto tra un modello, formatosi nel cervello relativamente allo stimolo già presentato e il nuovo stimolo in arrivo. L’abituazione è, in sostanza, il contrario della sensibilizzazione.
Ovviamente non si può imputare tutto ai media, ma non si può nemmeno ignorare l’impatto che essi hanno sulla psiche di chi guarda e che, senza una guida sapiente e responsabile accanto, può davvero perdere il senso di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.8
Il male affascina, lo ha sempre fatto. Un racconto con un mistero, un crimine, un delitto, una violenza è certamente più appetibile per molti, altrimenti non si spiegherebbe l’aumento della violenza trasmessa in tutte le sue forme da media, social e internet. Tuttavia non ci si può esimere dal riflettere sul fatto che, forse, l’attrazione alla violenza sia in un certo qual modo una richiesta di aiuto, un tentativo di esorcizzare la paura stessa della violenza. Diventarne artefici per non esserne vittime.
È notevolmente troppo alto il numero di aggressioni inferte, ad esempio, da giovani di ambo i sessi ai danni di loro coetanei, spesso posti in essere come vere e proprie spedizioni punitive che diventano anche virali sui social. La cronaca quotidiana ne riporta talmente tanti che si teme, anche per questo genere di violenza, il fenomeno dell’abituazione.
Ci si chiede quale sia il reale scopo che vogliono ottenere questi giovani e quali sono i modelli comportamentali a cui fanno riferimento.
Tralasciando le condizioni dell’ambito clinico caratterizzate da fragilità narcisistica patologica, discontrollo degli impulsi, tendenze antisociali, di frequente, connesse a quanto si esprime come violenza, è possibile rinvenire rabbia da frustrazione – sono tante le ragioni per cui i ragazzi oggi si sentono frustrati -, noia – intesa come stato emotivo spiacevole o come anestesia emotiva e ideativa-, moda. Quest’ultima può sembrare meno associabile alla violenza, ma se si pensa per esempio alla musica quale dimensione che impegna la fase adolescenziale, si può verificare l’attualità del genere trap, così comune e diffuso tra i ragazzi fin dall’età della scuola secondaria di primo grado, che di fatto inneggia alla violenza con testi cupi e minacciosi, i cui temi tipici di vita da strada tra criminalità e disagio, povertà e droga, sembrano orami diffusi come cultura giovanile.
La diffusione tramite strumenti digitali sfrutta l’immagine che ha le caratteristiche di una comunicazione immediata e molto reale, oltre che una diffusione istantanea su larga scala che non tiene conto dell’interlocutore o di eventuali sue fragilità. Per alcuni comportamenti può accadere che questo tipo di comunicazioni inneschi un effetto di contagio sociale, secondo il quale l’azione condivisa diventa una sorta di prescrizione nell’orientamento del comportamento di altri che si riconoscono simili. Il meccanismo alla base di questo è l’imitazione, che è una caratteristica innata dell’essere umano.9
Il rapporto fra adulti e giovani evidenzia oggi una deconflittualizzazione delle relazioni. Il conflitto nel recente passato ha costituito la modalità più frequente con cui le generazioni più giovani si contrapponevano a quelle adulte per affermare la propria indipendenza e la propria identità. Se, fino agli anni Ottanta, i conflitti intergenerazionali di natura culturale caratterizzavano i rapporti genitori-figli e insegnanti-alunni, i decenni successivi hanno evidenziato una progressiva e generale deconflittualizzazione che, tuttavia, non si è accompagnata a una maggiore coesione sociale. Gli adulti di riferimento, tradizionalmente individuabili nelle figure parentali e in quelle dei docenti, sembrano essere venuti a far parte, nella percezione generalizzata dei giovani, di una massa quasi indistinta di soggetti poco significativi e con quasi nessuna capacità di influenzare, di orientare , tanto meno, di incidere stabilmente attraverso i meccanismi di socializzazione secondaria sulle loro esistenze.
Un effetto della erosione delle certezze e degli orizzonti di senso collettivi è il diffondersi della violenza reiteratamente agita nei gruppi – reali o virtuali – dei pari. Si evidenzia inoltre una qualche sommaria accettazione acritica della violenza nel suo espressivizzarsi routinario contro coetanei più facilmente stigmatizzabili – stranieri, omosessuali, diversamente abili ecc. – da parte delle giovani generazioni, che sfocia in una banalizzazione delle condotte violente nel mondo quotidiano dei più giovani. La soglia di accettazione della violenza, nel suo plurimo riprodursi (materiale e immateriale, agito o epserito), va però messa in relazione con la scarsa, quando non addirittura inesistente, consapevolezza della natura effettivamente violenta di quell’azione.
Ecco allora che in questo Zeitgeist caratterizzato da una generale incertezza sul presente e sul futuro, la violenza di gruppo diviene una modalità sostitutiva del conflitto, proprio perché è il micro-rituale violento a definire ruoli e funzioni altrimenti inaccessibili a un numero sempre più grande di adolescenti.10
Per sconfiggere le paure ci si avvicina al male e la trasgressiva violenza sembra diventare l’unico modo che i giovani conoscono per “chiedere aiuto”, supporto, punti di riferimento e, perché no, anche regole precise utili a ridefinire ruoli e realtà. Visto il numero elevato di violenza e aggressioni non bisognerebbe mai tentare di ridurre il tutto a fatti isolati o, peggio, scherzi e quant’altro sminuisca un fenomeno che invece è generalizzato, protratto e dilatato. Educare giovani e anche adulti a un decisivo cambio di paradigma potrebbe aiutare a ridefinire il problema, punto essenziale quando si vogliono davvero cercare delle valide soluzioni.
5M. Lanfranco, Crescere uomini. Le parole dei ragazzi su sessualità, pornografia, sessismo, Erickson, 2019: https://irmaloredanagalgano.it/2020/04/25/3497/
6C.A. Anderson, D.A. Gentile, K.E. Buckley, Videogiochi violenti. Effetti su bambini e adolescenti, Centro Scientifico Editore, Milano, 2008.
10I. Bartholini, L’opacizzarsi del conflitto fra giovani e adulti e l’affermarsi della violenza fra pari, Studi di Sociologia, Anno 51, Fasc. ¾ (Luglio-Dicembre 2013), V&P – Vita e Pensiero/Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore: https://www.jstor.org/stable/43923998
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Lo scorso 29 maggio, 30 militari del contingente Nato Kfor, tra cui 11 italiani, sono rimasti feriti negli scontri con i dimostranti serbi a Zvecan, nel nord del Kosovo.
I militari erano intervenuti per disperdere i dimostranti serbi in protesta contro il nuovo sindaco di etnia albanese.
L’episodio si colloca all’interno di una serie di scontri tra la polizia kosovara e i manifestanti serbi intenzionati a bloccare l’insediamento di alcuni sindaci, sempre di etnia albanese, eletti in città a maggioranza serba, dopo un’elezione boicottata fin da principio dagli stessi serbi. Le città interessate sono Zubin Potok, Leposavic e Mitrovica Nord.
Le elezioni svoltesi il 23 aprile hanno visto la partecipazione di meno del 4% degli aventi diritto.
Il Kosovo è una ex provincia serba a maggioranza albanese che ha dichiarato l’indipendenza nel 2008, atto non riconosciuto da Belgrado, da Russia a Cina e da alcuni paesi dell’Unione europea.
Agli inizi di quest’anno, altri nove paesi africani hanno revocato la loro precedente decisione di riconoscere l’indipendenza della provincia serba del Kosovo. Sono, quindi, 25 gli stati dell’Africa che non riconoscono l’autonomia kosovara e questo potrebbe anche dipendere dalla volontà di distanziarsi sempre più dall’Occidente e proseguire il percorso di avvicinamento alle potenze emergenti, alla Russia, alla Cina, ai BRICS.
L’indipendenza del Kosovo non è stata proclamata a seguito di un referendum bensì di una votazione dell’Assemblea regionale kosovara. Contrariamente alla prima dichiarazione di indipendenza del 1990, questa del 2008 ha visto dei riconoscimenti dagli altri stati – la prima fu riconosciuta da nessuno. Ma la Serbia non l’ha mai riconosciuta, indicandola come illegale perché in netta violazione dell’articolo 8 della Costituzione serba. Ma nessuna violazione del diritto internazionale, per cui la Corte internazionale di Giustizia ha respinto il ricorso.
Il processo di dialogo e cooperazione, tanto auspicato dalle Nazioni Unite, non c’è mai veramente stato e la situazione nel paese, tra alti e bassi, è stata sempre paragonabile a una miccia pronta a far esplodere le bombe a ogni minima scintilla.
Dopo l’incontro a Ohrid, in Macedonia del Nord, avvenuto lo scorso 18 marzo, sembrava si potevano fare passi in avanti nel Piano europeo in 11 punti avanzato da Bruxelles, su iniziativa di Francia e Germania, per raggiungere una stabilizzazione nell’area. Anche se va ribadito che non erano stati siglati documenti ufficiali e proprio il premier kosovaro Kurti ha manifestato le più evidenti resistenze, motivandole con il diniego alla formazione di una Associazione delle municipalità a maggioranza serba nel nord del Kosovo.1 Le medesime in forte agitazione in questi giorni. Una questione identitaria, politica e istituzionale che rimanda alla complessità della storia passata e attuale dell’intera area della ex-Jugoslavia.
Belgrado dal canto suo, pur senza la necessità di un ufficiale riconoscimento dell’indipendenza, dovrebbe smettere di ostacolare l’ingresso di Pristina nelle organizzazioni internazionali.2
L’interscambio commerciale tra Italia e Kosovo ha registrato un’apprezzabile espansione negli ultimi anni e l’Italia è tra i principali partner economici di Pristina. In particolare, nel 2021 l’Italia è risultata quinta sia come fornitore (dopo Germania, Turchia, Cina e Serbia) che come cliente del Kosovo (dopo Stati Uniti, Albania, Macedonia e Germania) e seconda tra i paesi UE dopo la Germania.
L’Italia è anche uno dei più importanti investitori in Serbia. La presenza di imprese italiane si concentra in diversi settori strategici, tra cui l’energia, l’agricoltura, la finanza e l’industria tessile. L’Italia è stata nel 2021 il terzo partner commerciale della Serbia e quarto paese fornitore (preceduta da Cina, Germania, Russia) e terzo paese acquirente (dopo la Germania e la Bosnia-Erzegovina).3
Provenendo da un ambito prettamente agricolo, la debole economia del Paese è oggi essenzialmente sostenuta dal settore dei servizi, con i comparti industriali e agricoli troppo deboli per produrre a sufficienza e per sostenere una normale dialettica economica con altri stati partner. Il Kosovo, infatti, esporta meno di qualsiasi altro stato dell’Europa, in larga misura prodotti agricoli e materie prime di basso valore, mentre l’import riguarda quasi tutti gli ambiti merceologici.
Lo sviluppo economico degli ultimi anni sta provocando un cambiamento nella composizione della popolazione, che sta lentamente abbandonando le campagne per trasferirsi nelle aree urbane, principalmente attorno alla capitale. Il reddito pro-capite dei cittadini del Kosovo rimane tra i più bassi d’Europa e il tasso di disoccupazione – intorno al 40% – sommato al grande numero di poveri – circa il 30% della popolazione vive sotto la soglia di povertà – hanno favorito il sorgere di attività illegali nel territorio.
La corruzione, i traffici illeciti e soprattutto il crimine organizzato sono i problemi più gravi che devono essere affrontati dal governo. La libertà di espressione risulta di fatto limitata a causa della mancanza di sicurezza.4
Secondo il World Press Freedom 2023 il Kosovo si trova alla 56esima posizione su un totale di 180 stati inseriti nell’elenco. Posizionamento non di certo ottimale, tra l’altro non così distante da quello italiano che è al 41esimo posto. A onor del vero va comunque sottolineato il fatto che entrambi i paesi sono in risalita rispetto al rapporto precedentemente pubblicato.
Agli inizi del ‘900, quando il Kosovo faceva ancora parte dell’Impero ottomano, gli albanesi costituivano i due terzi della popolazione. Agli albori del secondo conflitto mondiale, la politica serba di ripopolazione della provincia provocò l’aumento percentuale della popolazione serba – che raggiunse il 34.4% -. Negli anni della Repubblica federale socialista jugoslavia, la popolazione albanese ha sempre continuato a crescere, fino a raggiungere agli inizi degli anni Novanta l’81.6% della popolazione.
Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, i Balcani vennero invasi dalle truppe italo-tedesche: il Kosovo e la parte occidentale della Macedonia furono occupate militarmente dall’Italia e, successivamente, unite all’Albania fino a quando, dopo la resa dell’Esercito italiano nel settembre ’43, i territori albanesi non rimasero occupati dalle truppe tedesche intente a realizzare una Grande Albania nazista. Fallita l’esperienza, nel 1944, gli albanesi finirono per frammentarsi al loro interno proprio sulla base della resistenza comunista al nazismo.
Con l’avvento del 1968, la regione si infiammerà nuovamente con la richiesta da parte degli albanesi di trasformare il Kosovo in una Repubblica indipendente, la settima della Federazione jugoslava.
Il Kosovo restò una provincia autonoma della Serbia e, alla morte del maresciallo Tito nel 1980, gli studenti fomentarono nuove manifestazioni, rivendicando non solo migliori condizioni di vita ma, soprattutto e ancora, l’indipendenza della Repubblica del Kosovo.
Nel 1987 Slobodan Milošević, allora leader della Lega dei Comunisti di Jugoslavia in Serbia, venne inviato in Kosovo per tentare una pacificazione, tuttavia egli prese ben presto le parti dei serbi.1 Allorquando divenne presidente della Repubblica di Serbia le cose per certo non migliorarono. La nuova dichiarazione di indipendenza del 1990 venne riconosciuta solamente dall’Albania.
Negli anni successivi, nuovi innesti di profughi in Kosovo, operati dal governo serbo nel tentativo di modificarne l’equilibrio demografico, provocarono lo sdegno di diversi Paesi, che prosegui fino al 1995, momento in cui, dopo la fine della guerra in Bosnia-Erzegovina, una parte degli albanesi kosovari scelse la lotta armata indipendentista. Guidati dalla Ushtria Çlirimtare e Kosovës (UCK), un’organizzazione che si avvalse anche di veterani di guerra, gli indipendentisti si macchiarono però di una serie di crimini indiscriminati non solo verso la popolazione kosovara slavofona, ma anche verso quella componente kosovaro-albanese rimasta neutrale e pertanto giudicata colpevole di tradimento.
A questa nuova spirale di violenza, il governo di Belgrado rispose con altrettanta determinazione e, visto che la questione del Kosovo non era stata sollevata dalle potenze occidentali intervenute nella regione con gli accordi di Dayton, Miloševič si sentì con le mani libere per dare inizio alla sua politica repressiva contro i kosovari di etnia albanese: si registrarono veri e propri massacri di civili, distruzioni di case, scuole e luoghi di culto. Circa 11.000 albanesi, secondo stime parziali, restarono uccisi, altri 800.000 furono costretti a fuggire verso Albania e Macedonia, ove si rifugiarono anche i vari combattenti dell’UCK che avrebbe continuato a fomentare ribellioni nella regione fino a quando, nel 1999, non esplosero in vero e proprio conflitto armato. L’intervento di alcune forze internazionali in difesa della componente albanese del Kosovo pose fine alla pulizia etnica, e le due parti vennero invitate a trovare una soluzione comune.
In base alle Risoluzione 1244/99 del CdS dell’Onu, in Kosovo si sono insediati un governo e un Parlamento provvisorio sotto il protettorato internazionale UNMIK e Nato e, negli anni successivi, la situazione sarebbe andata lentamente normalizzandosi. Dal 2006, dopo la morte del presidente Rugova, vennero avviati nuovi negoziati tra la delegazione kosovara serba e albanese sotto mediazione Onu per la definizione del futuro status della provincia. Nonostante numerosi incontri tra le parti, il piano finale previsto non fu mai condiviso. Nel frattempo, grazie a una nuova fase di democratizzazione della Serbia, il governo di Belgrado garantì al Kosovo lo status di ‘’Provincia Autonoma’’. L’Unione europea, nel 2008, ha approvato l’invio in Kosovo della missione civile “EULEX”, sostituendola a quella Nato, per favorire la transizione del Paese verso un assetto adeguato alla modernità. Si registrarono comunque proteste fondate sul presupposto dell’assenza di un mandato diretto da parte dell’Onu. La stessa Russia definì l’iniziativa non conforme al dettato normativo disposto in Consiglio di Sicurezza.
Il 17 febbraio 2008, riunitosi in seduta straordinaria, il Parlamento di Pristina ha approvato la dichiarazione di indipendenza del Kosovo, adottando propri simboli nazionali. Il discorso pronunciato dal premier Thaci delinea una Repubblica democratica, secolare e multietnica, fondata sulla legge. Passati nemmeno dieci minuti da quella proclamazione, il governo di Belgrado ha dichiarato illegittima e illegale simile rivendicazione. Su posizioni contrarie anche la Russia e la Cina, entrambe dotate di potere di veto in seno al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che mai si è pronunciato in favore dell’indipendenza kosovara, ritenendo formalmente valida la risoluzione 1244/99.
Con la ratifica della nuova Costituzione, controfirmata dal capo della missione “EULEX”, si è aperta una nuova pagina nella storia del Kosovo. Esso viene ritenuto in linea con gli indirizzi proposti dagli Stati europei: la Costituzione infatti dispone l’assetto di diritto tipico delle società occidentali moderne, sancendo che il governo di Pristina si impegnerà ad attuare uno Stato laico, rispettoso delle libertà di culto e in grado di garantire pienamente i diritti di tutte le comunità etniche locali. A fronte dell’assenza di un’organizzazione statale pienamente definita, le forze internazionali continuano a mantenere le proprie truppe sul territorio, con scopi di formazione e protezione. Con la ratifica, inoltre, si è chiusa la fase di operatività della missione “UNMIK”, attraverso il passaggio di consegne alla missione “EULEX”.
Con la Costituzione del 2008 alcuni poteri esecutivi tenuti dall’UNMIK sono inoltre stati trasferiti al governo kosovaro, la cui autorità, tuttavia, non è stata ancora riconosciuta nel Kosovo del Nord, nonostante i vari tentativi operati dalla comunità internazionale sui piani della legittimazione e della stabilizzazione. Secondo il governo serbo infatti, la risoluzione 1244 si applicherebbe unicamente sui territori del “Kosovo a maggioranza albanese”.2
Territorio soggetto a una crescente presenza delle forze dell’ISIS, arretrato economicamente e attraversato da grandi rischi di violenti disordini interni, il Kosovo rimane ad oggi uno Stato giovane che deve far fronte a molteplici sfide. La posizione lungo la rotta balcanica e la sua stessa storia ne fanno però un attore che sarà inevitabilmente coinvolto nei mutamenti geopolitici regionali. Nonostante l’apparente continuo avvicinamento ai Paesi membri o vicini all’Alleanza Atlantica, ad oggi il Kosovo non ha ancora raggiunto quel grado di stabilità, sviluppo e credibilità nazionale necessari ad una normalizzazione dei rapporti diplomatici. Rapporti che con l’Occidente, vista la presenza delle forze internazionali sul territorio (sia in campo militare sia come supporto istituzionale) e vista la dipendenza del governo di Pristina dal credito estero, rimarranno solidi fino a quando la Repubblica del Kosovo si dimostrerà capace di attuare le riforme necessarie a trasformare uno Stato arretrato in un Paese moderno.
In Europa, la contestazione al riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo che più salta all’occhio è certamente quella della Russia. Storicamente legata a Belgrado dalla comune appartenenza slavo-ortodossa, Mosca ritiene che l’indipendenza del Kosovo violi i principi del diritto internazionale e possa costituire un precedente per analoghe situazioni.
Di tono analogo a quello russo sono state le reazioni degli stati dell’area caucasica, da tempo impegnati a fronteggiare tendenze separatiste all’interno dei loro confini. Il caso dell’Azerbaigian, per esempio, da sempre praticamente alle prese con la questione del Nagomo-Karabakh, l’enclave a maggioranza armena che ha cercato la secessione. Negative anche le prime reazioni da parte della Georgia, della Moldavia, della Bielorussia e dell’Ucraina.
La Spagna teme che il Kosovo possa favorire non tanto le aspirazioni indipendentiste della Catalogna quanto quelle delle Province Basche. Stesse posizioni per la Romania per il nodo della minoranza ungherese all’interno dei suoi confini.
I dubbi avanzati dal Portogallo hanno riguardato l’anormalità dell’indipendenza del Kosovo sotto il profilo giuridico mentre Cipro aveva motivato il suo no per i pericoli nei rapporti internazionali e per non creare un precedente al quale si sarebbe potuta appoggiare la Repubblica Turca di Cipro del Nord, l’entità statale autoproclamata e riconosciuta solo da Ankara.
Più sfumata è sempre apparsa la posizione della Grecia, per la quale è necessaria un’intesa consensuale tra le parti, tenendo in considerazione il particolare ruolo svolto dalla Serbia per gli equilibri e la stabilità nella regione.
Tra i paesi asiatici spicca il no della Cina, ufficialmente per i rischi di una destabilizzazione dell’area, ma sempre legato ai timori della creazione di un precedente che potrebbe essere poi applicato dalle regioni dove più forti sono le spinte autonomistiche, quali Tibet, Sinkiang e Taiwan. E, proprio quest’ultima, che si era schierata a favore dell’indipendenza ha poi ricevuto dal Kosovo parere negativo riguardo le sue spinte autonomistiche.1
Tra le cause dell’inasprirsi delle relazioni tra Kosovo e Serbia molti hanno voluto vedere o ipotizzare un coinvolgimento diretto della Russia, principale alleato politico serbo. In realtà, fin dalla crisi del 2022, Mosca ha avuto un ruolo passivo giovando comunque dei benefici derivanti dalla situazione. Più i Balcani sono instabili, maggiori saranno gli ostacoli nel loro processo di integrazione europea.
Per Bruxelles, risolvere la questione del Kosovo significa rilanciare la propria assertività nei Balcani, obbligando il governo Vucic a una scelta di politica estera univoca. Per anni il presidente serbo ha goduto di ottimi rapporti commerciali con l’Unione europea e di un’alleanza strategica con la Russia. L’attività diplomatica europea e il nuovo piano proposto, mira quindi a imporre l’Unione come unico attore globale sulla questione kosovara, occupando il principale campo d’azione dell’influenza russa.2
I kosovari percepiscono una duplicità nell’atteggiamento politico e diplomatico europeo. Emblematico il caso dell’annosa questione dei visti. Il Kosovo resta l’unico paese dei Balcani Occidentali la cui popolazione è di fatto isolata dal continente, nonostante la Commissione europea abbia accertato il soddisfacimento di tutti i requisiti formali per la revoca dell’obbligo di visto d’ingresso. Parigi e L’Aja sono additate come principali responsabili dello stallo ma il malumore della popolazione, cavalcato da tutte le forse politiche, non fa distinzioni e viene rivolto contro l’intera Unione. Questi sentimenti sono a volte ricambiati dalle istituzioni europee, dove si registra una forte delusione per le iniziative unilaterali come la fuga in avanti della trasformazione delle forze di sicurezza kosovare in forze armate vere e proprie, o l’imposizione di aggressivi dazi sulle importazioni dalla Serbia e dalla Bosnia-Erzegovina, revocati solo dopo intense pressioni americane ed europee.
Benché il quadrante veda crescere la competizione tra sfere d’influenza occidentale, turca, russa e persino cinese, almeno per ora lo sguardo del Kosovo sembra rivolto a ovest. I kosovari forse accettano a fatica di non poter ambire a diventare il 51esimo stato a stelle e strisce, ma, sentendosi europei – nella variante mediterranea -, e avamposto europeo prima dell’Oriente, si risentono per la presunta alterigia di Bruxelles.
L’aspirazione europea e atlantica del Kosovo è fuori discussione, ma Pristina si dichiara non disposta a pagare qualunque prezzo per entrare in Ue, soprattutto se ciò implica rinunce territoriali o la rimessa in discussione della propria sovranità. L’Italia risulta essere un interlocutore privilegiato tanto di Pristina quanto di Belgrado3 ma l’Europa tutta dovrebbe agire sempre con una voce unica e rinunciare a progetti di nicchia che, inseguendo improbabili ambizioni di leadership continentale, indeboliscono, anziché rafforzare, il peso stesso dell’Unione nelle trattative e nel processo di integrazione.
1R. Bastianelli, Panorama Internazionale: Chi ha detto no all’indipendenza del Kosovo, Informazioni della Difesa, n° 2 – 2009 ( www.difesa.it )
3N. Orlando, Europa e Kosovo: il momento delle scelte e il ruolo dell’Italia, Dibattito: La UE e i Balcani: la scommessa dell’allargamento, CESPi – Centro Studi di Politica internazionale: https://www.cespi.it/it/eventi-attualita/dibattiti/la-ue-i-balcani-la-scommessa-dellallargamento
Il Novecento, fin dal principio, porta in sé le contraddizioni ereditate dal secolo precedente. Cosa ha lasciato il Novecento letterario al nuovo Millennio? Quali sono i luoghi della cultura oggi?
Uno degli aspetti più importanti della cultura italiana del Novecento è il ruolo particolare che hanno avuto le riviste come centri di raccolta e di aggregazione degli intellettuali, come strumenti di orientamento teorico e di progettazione ideologica.
Sono per la gran parte riviste programmaticamente anti-accademiche o anaccademiche. Da ciò la critica e il rifiuto dell’intellettuale accademico, tradizionalmente separato dalla prassi sociale e politica.
Questi intellettuali sono, dunque, e contemporaneamente, critici del sistema e oppositori della cultura tradizionale, e la loro funzione nella società italiana fu notevole per il ruolo eccezionale svolto in Italia dalla cultura.1
Forse è bene ricordare che l’università italiana, per ragioni connesse alle scelte di politica culturale compiute dalle classi dirigenti post-risorgimentali, non è nata né come centro di ricerca scientifica, secondo il modello tedesco, né come centro di preparazione professionale, secondo il modello francese. Essa è sorta come luogo di alta cultura, ossia come un’istituzione di tipo medievale, fortemente selettiva sul piano culturale, è perciò fortemente refrattaria agli orientamenti che non sorgono al suo interno ma al di fuori, e per tale motivo considerati portatori di richieste e progetti culturali eversivi. Così, questi intellettuali, che hanno rappresentato una cultura d’avanguardia, con una notevole capacità di stabilire rapporti diretti e produttivi con la cultura europea più avanzata, hanno vissuto perlopiù una costante oscillazione fra opposti estremismi: tra un ribellismo di tipo anarcoide o una conclusiva integrazione nel sistema.2
Nei primi decenni del Novecento, proprio mentre la scienza e la tecnologia modificano la vita dell’individuo e della collettività in una misura mai vista prima, si afferma la convinzione che la realtà non sia oggettivamente conoscibile e inquadrabile entro rigide categorie.
L’ideologia ottimistica della scienza e del progresso è messa in crisi, oltre che dalle nuove teorie scientifiche e psicologiche, dalle stesse trasformazioni socioeconomiche. La nascita della società di massa mostra infatti gli evidenti limiti della filosofia positivista, che concepisce l’evoluzione e la tecnica legate al benessere e alla giustizia sociale. Gli squilibri sociopolitici, la violenza dell’imperialismo, le tentazioni autoritarie dei governi e, in ambito culturale, la crisi della letteratura e del letterato – che fa i conti con una sempre più marcata mercificazione dell’opera d’arte e con la svalutazione del proprio ruolo – sono tutti elementi che concorrono a creare un nuovo clima culturale.3
Le caratteristiche della società di massa erano già in parte evidenti alla fine dell’Ottocento, quando molte categorie sociali avevano cominciato a fruire di beni, servizi e diritti in precedenza patrimonio di esigue minoranze, diventando interpreti attive della vita civile ed economica.
Già Friedrich Nietzsche aveva parlato del movimento democratico come di una gigantesca «sollevazione della plebe e degli schiavi» che sarebbe sfociata, se non fosse stata energicamente contrastata, in un perverso ribaltamento della gerarchia naturale dei valori.
Le critiche alla democrazia provengono da posizioni politiche anche differenti, accomunate però da uno stesso disprezzo per il parlamentarismo e alimentate da correnti ideologiche irrazionalistiche.
Il groviglio di riferimenti politico-culturali che alimentano le correnti ideologiche antidemocratiche trova espressione in Italia soprattutto all’interno di alcune riviste. Tra le principali: Leonardo, Il Regno, Hermes, La Voce, animate da intellettuali che si sentono distanti dalla classe a cui appartengono, la borghesia, ma al contempo si battono contro la minaccia rappresentata dal proletariato organizzato.4
Per rompere i ponti con il passato, avvertono la necessità di attribuire alla loro visione ideologica una componente militante e aggressiva, analogamente a quanto avviene nel mondo dell’arte, in Italia e nel resto d’Europa, con il fenomeno delle avanguardie – dal Futurismo al Cubismo, dall’Espressionismo all’Astrattismo, dal Dadaismo al Surrealismo.
Insieme a questo culto dell’azione, gli intellettuali di inizio Novecento, soprattutto italiani, accolgono atteggiamenti ribellistici di diversa provenienza – dal dannunzianesimo al superomismo – convinti che l’omologazione imperante possa essere contrastata grazie all’impegno di una minoranza di uomini superiori cui affidare il potere.
Quella promossa dalle riviste è una concezione dell’esistenza fondata sul culto dell’individuo e della pienezza vitale, sulla visione idealistica del soggetto creatore e su un’idea elitaria dell’arte e della cultura, che oppone l’irrazionalismo al razionalismo, il nazionalismo al cosmopolitismo, lo spiritualismo al materialismo, l’azione al pensiero astratto.
Non sorprende pertanto di trovare spesso, in questi periodici, l’esaltazione della guerra, celebrata come un’occasione propizia per cancellare la banale volgarità dal mondo e per rappresentare una via d’uscita dalla mediocrità della democrazia, azzerando la civiltà della massa e del numero per costruirne una basata sul genio e sull’individualità.5
Il crollo del fascismo, il periodo della Resistenza e l’arrivo della democrazia sono eventi che generano un radicale cambiamento nella vita del paese che poi si riflette in tutta la produzione letteraria di quegli anni. Attorno alle riviste Rinascita, Belfagor, Politecnico, Ponte si anima un vivace dibattito politico-culturale attraverso il quale si analizza, tra l’altro, l’isolamento della letteratura durante il ventennio, la mancanza di rapporti con la realtà da cui ne emerge un’ansia di superamento mediante l’impegno sociale e il pieno coinvolgimento da parte degli intellettuali nella fase postbellica di ricostruzione e reazione del paese.
Nasce una letteratura nuova, impegnata ed immersa nella realtà: il Neorealismo, che, proprio per questo coinvolgimento politico e sociale, si esaurisce già nella seconda metà degli anni cinquanta allorquando si assiste allo svanire delle speranze di rinnovamento sociale, alla crisi delle sinistre, al processo di destalinizzazione e i moduli di rappresentazione neorealista risultano inappropriati per rendere una realtà singola e collettiva tanto complessa come quella neocapitalistica italiana.6
In ambito letterario le risposte a questi nuovi fermenti sono state antitetiche.
Letterati quali Tomasi di Lampedusa e Bassani manifestano il disagio con un desiderio di fuga dalla società attraverso la scelta di temi esistenziali, evasione elegiaca, compiacimenti intimistici e lamento della condizione umana. Altri, quali Sanguineti e Porta, denunciano l’inutilità della società capitalistica, l’incomunicabilità, la commercializzazione dell’arte attraverso le tecniche delle avanguardie storiche e, per questo, identificati nel movimento della Neoavanguardia.
Durante gli anni cinquanta si assiste all’apertura di un altro acceso dibattito, questa volta innescato dalla delusione generale diffusa per la mancata ripresa dopo il cambiamento politico. In seguito a eventi sulla scena internazionale destabilizzanti per la sinistra, il marxismo viene riesaminato su riviste di partito e non. Una fiorente produzione di saggistica si occupa della tematica mentre sempre acceso rimane il dibattito tra l’esigenza di una cultura come bene di consumo, come merce, e un’estremizzazione della ricerca formale, dello sperimentalismo che si oppone proprio all’ovvio e al consumabile. Riviste simbolo di questi ambiti di ricerca sono Officina, Verri, Il Menabò. Il gruppo letterario denominato Gruppo ’63 nasce in seno all’esigenza di contestare la mercificazione culturale di quegli anni.7
Le rivendicazioni della controcultura studentesca, la critica radicale alla società del benessere e il rifiuto del conformismo e dell’omologazione hanno spesso, come referente culturale, un marxismo critico molto diverso da quello di matrice leninista, tipico della burocrazia oppressiva dell’Unione Sovietica. Il nuovo pensiero di opposizione nasce invece nel cuore dei paesi capitalistici – a partire dalle università nordamericane ed europee -, dove una nutrita schiera di filosofi e intellettuali elabora analisi che pongono in discussione i meccanismi del mercato e la condizione umana nella ricca società occidentale.8
La società industriale – sia capitalistica che comunista – si dimostra totalitaria e disumana, in quanto l’applicazione della scienza e della tecnica ai processi produttivi e l’organizzazione scientifica del lavoro comportano inevitabilmente un’utilizzazione tecnico-strumentale degli esseri umani che si muovono come ingranaggi, secondo un modo di pensare e di comportarsi perfettamente adeguato al meccanismo in cui sono inseriti.
In un sistema di questo tipo l’opposizione, formalmente garantita e tollerata, è di fatto impossibile, essendo inglobata all’interno di una realtà che mira ad assorbire ogni tendenza, anche quelle che si propongono di confutarla.
Nell’Ottocento Marx aveva individuato nella classe operaia il soggetto capace di rovesciare la borghesia. Ma ora? Il movimento operaio, integrato nella società dei consumi, non rappresenta più un’alternativa: la sua mentalità e le sue aspirazioni, infatti, non sono più in contrasto con la società, di cui invece accettano valori e pensieri.
Gli unici soggetti capaci di tenere vivo un «pensiero negativo» alternativo a quello dominante, sono quelli che si trovano del tutto al di fuori del sistema capitalistico: gli esclusi, gli emarginati, i declassati, cioè le frazioni di proletariato urbano ancora combattivo e i popoli del Terzo mondo.9
La società di massa si è trasformata, a partire dagli anni Ottanta, in un «villaggio globale». In esso, la parola e l’immagine diventano un patrimonio a disposizione di tutti, destinato al consumo di massa. Eppure, già dalla fine degli anni Settanta, matura la sensazione di vivere un paradosso: proprio mentre l’umanità allarga in modo incommensurabile le sue conoscenze e dispone di nuovi strumenti per verificare valore e diffusione, sembrano prevalere l’incertezza, il dubbio, la crisi dell’idea di una conoscenza oggettiva e scientifica del reale.10
La mescolanza di etnie, popoli, culture e religioni, il labile confine tra le comunicazioni reali e virtuali, la globalizzazione dei mercati, la robotizzazione del lavoro, sono tutti elementi che generano conseguenze problematiche e che contribuiscono a determinare la sensazione che la società umana non si trovi più, come nella civiltà moderna, sulla strada di un continuo progresso. Si vive invece in un labirinto senza uscita, in un tempo successivo a quello in cui tutto è stato detto, fatto, visto e vissuto. L’umanità si trova insomma nella postmodernità, una condizione antropologica e culturale conseguente al tramonto della modernità nella società del capitalismo maturo, in una fase caratterizzata dalle dimensioni planetarie dell’economia e dei mercati finanziari, dall’aggressività dei messaggi pubblicitari, dall’invadenza della televisione, dal flusso ininterrotto delle informazioni sulle reti telematiche. Tale condizione si caratterizza soprattutto per una disincantata rilettura della Storia, interpretata senza più prospettive e approdi cui tendere, e per l’abbandono delle grandi visioni del mondo e dei grandi progetti di trasformazione propri dell’età moderna.11
Nel dopoguerra, il ceto intellettuale torna a sentirsi protagonista di una stagione democratica ricca di aspettative. Giornali e periodici sono palestre privilegiate per ospitare dibattiti culturali e politici. Gli stessi partiti politici sono importanti poli di aggregazione culturale. Così, mentre il Neorealismo sollecita gli scrittori a occuparsi delle problematiche sociali, molti di loro assumono il compito di educare le masse, per renderle consapevoli del loro ruolo e prepararle alla rivoluzione, che si crede o si spera imminente.
Dalla metà degli anni Settanta, la trasformazione della società genera uno scenario completamente nuovo.
Il ruolo della tecnologia e della scienza mette in discussione la funzione stessa della letteratura. Ci si interroga allora sul modo in cui può configurarsi ancora l’impegno intellettuale. Su come possa sopravvivere una coscienza critica in un mondo omologato.12
Gli intellettuali si possono distinguere in «apocalittici» e «integrati». I primi propugnatori di una pratica di avanguardia capace di costruire un’arte che non scenda a compromessi con il sistema e rifiuti di integrarsi nel mercato che lo sostiene; i secondi disposti a sfruttare gli spazi democratici aperti dall’informazione telematica.13
Le riviste di cultura del Novecento italiano sono state determinanti per lo sviluppo non solo, culturale, ma anche storico. Portando avanti il loro discorso culturale, ma strettamente interconnesso ai fatti storici, sociali e politici, esse costruirono i binari su cui indirizzare l’evoluzione futura. Sono state espressione di gruppi, più o meno compatti, di intellettuali dediti ad agire sulla realtà del tempo, specchio della propria epoca, luogo di costruzione di un pensiero comune.
Pensare a un tanto prominente ruolo culturale per le pubblicazioni di oggi, con la velocità che lo caratterizza e la soglia di attenzione media che si abbassa costantemente – senza voler considerare anche le sacche di semianalfabetismo, specie di ritorno, tutt’ora presenti in Italia -, sembra più una vena nostalgica che un vero e possibile progetto.
La fretta, il feticcio della novità in sé, il generale disincentivo al ragionamento critico – provocato anche dalle discutibili scelte della classe dirigente degli ultimi venticinque anni – sembrano distruggere il terreno sul quale si edificava il ruolo pubblico delle riviste.14
Se con il supporto cartaceo era ed è il mercato a imporre la circolazione o l’oblio di una rivista, in base a criteri che vanno dalle scelte di librai ed edicolanti a quelle più personali del lettore, sul web tutto trova spazio.
Se il pluralismo, di per sé, è sempre un valore positivo e una fonte di arricchimento, non si può non ammettere che alcune webzines hanno abbassato, sia linguisticamente che culturalmente, il livello qualitativo del dibattito, e spesso non assolvono alla vecchia funzione di luogo di elaborazione di teorie comuni, ma diventano mere vetrine di “firme” in cerca di visibilità.
Questo è, probabilmente, il reale ostacolo strutturale di internet alla diffusione di vera cultura: il suo affollamento e, soprattutto, la rapidità con cui quello si forma.
Il futuro delle riviste culturali che vogliano intervenire materialmente sul proprio tempo, com’è stato per quelle novecentesche, potrà nascere dalla sintesi del nuovo strumento con la vecchia e inesausta vocazione alla riflessione critica e alla prospettiva di cambiamento.15
Le riviste di cultura hanno difficoltà a incontrare nuovi lettori, dal momento che nelle librerie i periodici sono sempre meno numerosi e peggio esposti. Certo però che non è colpa dei librai se venderli non conviene più. Inoltre, più la rivista è specialistica più tende a diffondersi in circoli chiusi, perdendo così la possibilità di espansione del proprio lettorato. Stato centrale, Regioni, Province dovrebbero incentivare le occasioni di incontro delle riviste tra loro e con potenziali nuovi lettori, promuovendo fiere, festival e conferenze.
Non si tratta di «alfabetizzare» quote crescenti di cittadini, ma in un certo senso di ri-alfabetizzare a quel confronto collettivo che le riviste consentono.16
In Italia il Centro per il libro e per lettura, istituito nel 2007, non ha competenza sulle riviste di cultura, che dipendono direttamente dalla Direzione generale Biblioteche e diritto d’autore. In Francia invece il Centre National du Livre, creato oltre dieci anni prima di quello italiano, sostiene direttamente il Salon de la Revue.
Il 17% delle riviste culturali italiane ha visto un certo aumento di lettori durante i mesi della pandemia e quasi l’80% ha iniziato a lanciare eventi online e continuato poi a farlo, secondo una modalità pressoché sconosciuta al 70% delle riviste fino all’esplosione dell’emergenza sanitaria.17
Sono dati che mostrano la grande flessibilità avuta da un comparto della cultura considerato rigido e ravvivano, perdipiù, la convinzione che la strada per un futuro florido della comunicazione culturale passi anche attraverso un sapiente impiego della rete.18
La potenza di generare cambiamento nel Novecento è stata monopolio delle idee, non a caso infatti tra i vari epiteti associati al ventesimo c’è quello di «secolo delle ideologie», oggi esse hanno perso quella forza. Ciò che ha più valore, nel mondo globalizzato e ipervelocizzato, sono i dati, le informazioni.
L’esempio delle avanguardie novecentesche insegna che non c’è movimento che sia puramente culturale. Anche quando si fa solo cultura (arte, letteratura, musica), ci si adagia su una concezione che è di cambiamento globale. Il ruolo degli intellettuali è pubblico perché essi interpretano la realtà, i fatti che accadono. Anche oggi gli intellettuali devono, o dovrebbero, essere comunque in grado di “controllare” l’informazione.
Il settore dell’informazione è da considerarsi estremamente importante per fini culturali. È necessario dotarsi e fornire una educazione e una formazione culturale in generale prima e poi specifica per ogni ambito. Una società tanto numerosa e sottoposta a tanti stimoli diversi non può permettere che l’informazione sia controllata da interessi altri rispetto a quelli educativi e “propedeutici”.19
3R. Carnero, G. Iannaccone, I colori della letteratura. Dal secondo Ottocento a oggi, vol. 3, Giunti T.V.P. Editori/Treccani, Firenze, seconda ristampa giugno 2019.
13Umberto Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano, 2001.
14P. Zambrin, Le riviste di cultura in Italia: problemi e prospettive, Diacritica, A. VIII, fsc.2 (44), 25 maggio 2022, vol.1 https://diacritica.it/storia-dell-editoria/le-riviste-di-cultura-in-italia-problemi-e-prospettive.html
Tra le macerie del ponte Morandi c’era anche un carico di droga destinato a uomini di Scampia e Secondigliano. E la ‘ndrangheta provò a recuperare quei 900 chili di hashish nascosti dentro il camion giallo, coinvolto nel crollo del viadotto Polcevera il 14 agosto 2018. Nulla era emerso dagli atti giudiziari e non si sa se il recupero della droga sia mai veramente avvenuto.1 Il punto però è un altro: 900 chili di hashish che viaggiavano indisturbati su un comune mezzo percorrendo una qualsiasi strada.
Nel 2020, a livello globale la diffusione delle droghe è stata:2
Cannabis 209.220.000
Oppioidi 61.290.000
Oppiacei 31.100.000
Cocaina 21.470.000
Anfetamine e simili 34.080.000
Ecstasy 20.040.000
Un grammo di eroina in Italia, sempre nel 2020, costava tra i 55 e i 68 dollari americani. Un grammo di cocaina aveva un prezzo variabile tra gli 80 e i 100 dollari americani. Il prezzo della cannabis, nelle varianti di marijuana e hashish, rispettivamente compreso tra i 9 e i 22 e i 12 e i 14 dollari americani. Le anfetamine tra i 24 e i 28, mentre le metanfetamine tra i 35 e i 44.
Il prezzo delle droghe varia anche di molto da paese a paese e nelle varie aree del pianeta, risulta quindi molto complesso procedere con il calcolo dell’incasso totale dovuto dalla vendita delle dosi delle varie droghe. Ma viene da sé che si sta parlando di cifre enormi.
Il dato è in continuo aumento, ma alle 18:21 del 16 dicembre 2022 l’ammontare dei soldi spesi in droga quest’anno era calcolato in 383.307.297.851 dollari.3 Il dato è meramente indicativo del volume globale di denaro e interessi che ruotano intorno al fattore droga.
È stato stimato che nel 2018 269milioni di persone, equivalenti al 5.4 per cento della popolazione globale compresa tra i 15 e i 64 anni, hanno fatto uso di droga. Per il 2030 si prevede un incremento fino all’ 11 per cento, ovvero 299milioni di persone.4
La carta5 definisce con molta chiarezza quali sono le tratte attraverso le quali si muovono gli ingenti quantitativi di droga e, soprattutto, la direzione verso cui viaggiano: il Vecchio Continente e gli Stati Uniti d’America.
La “guerra alla droga” condotta dagli USA si è trasformata da metafora in realtà con attività di contrasto in patria, sul confine e all’estero. Non c’è droga che sia stata obiettivo militare più della cocaina. Fu il boom della coca a offrire la motivazione per classificare ufficialmente la droga, dal 1986, come una minaccia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. L’ossessione per la cocaina ha portato alla militarizzazione delle attività di polizia e al ricorso a operazioni militari per questioni interne, facendo sfumare il confine tra scontro bellico e lotta alla criminalità in tutte le Americhe.
Mentre la guerra statunitense contro la cocaina dilagava, nel Centroamerica la droga contribuiva silenziosamente a finanziare un tipo di guerra molto insolito: la campagna dei ribelli Contras, sostenuti dagli Stati Uniti, in opposizione al governo rivoluzionario sandinista del Nicaragua. Episodio simile alle vicende degli insorti anticomunisti finanziati dai proventi della droga nel Sudest asiatico e in Afghanistan.
Un’inchiesta congressuale, durata tre anni e guidata dal senatore del Massachusetts John Kerry, rivelò che alcune delle società di trasporto aereo occultamente ingaggiate dalla CIA per spedire rifornimenti ai Contras erano coinvolte anche nel traffico di cocaina.6
Perché si è ritenuto necessario iniziare e protrarre una guerra alla droga perlopiù esterna ai propri confini piuttosto che concentrare ogni sforzo nella cura e assistenza nonché, prioritariamente, nella prevenzione?
Quanto a lungo potevano tollerare i governi occidentali che milioni di dollari si riversassero di continuo in America latina?
Si impara presto che la vita è ben più complessa di come la si immagina, e che Bene e Male sono concetti relativi non assoluti.
Più di qualunque altro presidente, fu George H.W. Bush a usare il suo potere di comandante in capo per reclutare l’esercito americano nella guerra alla droga. Con la fine della Guerra fredda l’entusiasmo con cui il Pentagono assunse compiti di contrasto alla droga aumentò notevolmente. La possibilità di riciclare le tecnologie della Guerra Fredda per le missioni della guerra alla droga offrì un nuovo margine di crescita agli appaltatori della difesa, che faticavano ad adattarsi al mutato ambiente della sicurezza. L’allora senatore Joseph Biden, rispecchiando lo stato d’animo dell’epoca, sostenne nel 1990 che «molte delle tecnologie più promettenti [per il controllo della droga] sono già state sviluppate negli ultimi dieci anni dal dipartimento della Difesa a fini militari» ed esortò l’adozione e disponibilità di queste tecnologie per le attività antinarcotici.7
All’indomani degli attacchi terroristici dell’11 settembre, i guerrieri antidroga statunitensi, che tipicamente avevano avuto poco o nulla a che fare con la lotta al terrorismo, si adoperarono per riadattare e ridefinire i loro compiti in un ambiente della sicurezza improvvisamente mutato. I funzionari della DEA (Drug Enforcement Administration) insisterono per integrare la guerra alla droga con la guerra al terrore, con una nuova attenzione al “narcoterrorismo” e sollecitando un focus più accurato sui presunti legami tra traffico di droga e attività terroristiche.8
A fine 2001, il presidente George W. Bush sottolineò quanto sia importante per gli americani sapere che il traffico di droga finanzia le attività del Terrore. E che smettendo di drogarsi si partecipa alla lotta conto il terrorismo.9
La guerra alla droga non è mai cessata eppure nel tempo la produzione e il consumo delle droghe non ha fatto che aumentare, inoltre ci sono altri aspetti e conseguenze dirette di ciò che meritano una riflessione.
Nei primi decenni del XXI secolo, l’America Latina è diventata il capoluogo mondiale degli omicidi, con oltre 2milioni di morti violente dall’anno 2000 in poi. Un numero di gran lunga superiore alle circa 900mila vittime dei conflitti in Siria, Iraq e Afghanistan. In America Latina vive solo l’8 per cento della popolazione mondiale, ma si è verificato un terzo di tutti gli assassini. Inoltre, le dieci città più violente del mondo sono tutte in quella regione.10
La droga e la guerra alla droga rappresentano solo una parte della risposta, ma soprattutto in paesi come Messico, Colombia e Brasile si tratta di un aspetto cruciale.11
E sul versante opposto, ovvero nei paesi prevalentemente consumatori di droga, cosa accade?
Secondo i Centers for Disease Control and Prevention (Cdc), ci sono stati oltre 100mila morti per overdose negli Stati Uniti nell’anno compreso tra aprile 2020 e aprile 2021.12
In Italia, i decessi riconducibili all’abuso di sostanze stupefacenti nell’anno 2021 sono 293, in calo rispetto agli anni precedenti ( 2020 – 309; 2019 – 374). La gran parte imputabili all’eroina (135), segue la cocaina (64).13 Negli Stati Uniti invece a causare più decessi è il fentanyl, un oppiode sintetico, 50 volte più potente dell’eroina.
In Europa, nell’anno 2020, i decessi per overdose sono stati 5.800.14
Nel 2021 tra le persone seguite dai Ser.D. – i servizi pubblici per le dipendenze patologiche del Sistema Sanitario Nazionale – dislocati lungo tutto il territorio nazionale italiano si contano:15
8.790 assistiti che presentavano almeno una patologia psichiatrica.
1.513 positivi al test per l’HIV (sindrome da immunodeficienza acquisita).
572 positivi al test per l’HBV (virus dell’epatite B).
10.505 positivi al test per l’HCV (virus dell’epatite C).
Il 4.3 per cento dei soggetti testati è risultato positivo a tutti e tre i test sopra elencati.
15.468 persone ricoverate in ospedale con diagnosi correlate all’uso di droghe, con ricoveri ordinari, e 6.233 accessi al Pronto Soccorso.
Le stime sono tendenzialmente al ribasso, in quanto bisogna considerare che si parla di coloro che sono già seguiti dai Ser.D. sul territorio. Andrebbero quindi aggiunti, o quantomeno tenuti in considerazione tutti gli altri, i consumatori più o meno abituali di droga che non si sono o non si sono ancora rivolti a detti servizi pubblici.
L’uso di sostanze tra gli adolescenti spazia dalla sperimentazione ai gravi disturbi da uso di sostanze. Tutti gli usi di sostanze, anche quelli sperimentali, mettono gli adolescenti a rischio di problemi a termine come incidenti, liti, rapporti sessuali non voluti, overdose. L’uso di sostanze interferisce anche con lo sviluppo cerebrale. Gli adolescenti sono vulnerabili agli effetti provocati dall’uso di sostanze e corrono un rischio più alto di sviluppare conseguenze a lungo termine come disturbi mentali e scarso rendimento intellettivo. Disturbi dovuti anche all’uso di alcol, cannabis e nicotina.16
31.914 le segnalazioni per violazione dell’Art. 75 del DPR n. 309/1990 (possesso ad uso personale di sostanze stupefacenti o psicotrope), riferite a 30.166 persone. Nel 2019 le segnalazioni erano nell’ordine di 53.016. La netta diminuzione è con molta probabilità riferibile alle restrizioni da COVID-19.
30.083 le persone segnalate per reati penali commessi droga-correlati, con un decremento del solo 5 per cento rispetto al 2020. La maggior parte delle denunce ha riguardato la detenzione di cocaina/crack, a seguire cannabis e derivati, eroina/altri oppiacei, sostanze sintetiche.
91.943 i procedimenti penali pendenti per reato di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope. 186.517 le persone coinvolte, con una media quindi di due ogni provvedimento. I minorenni costituiscono il 4 per cento del totale delle persone coinvolte. In termini assoluti, i valori più elevati si riscontrano in Lazio, Lombardia e Sicilia.
12.594 le persone condannate per reati droga-correlati.
Due dei punti cardine sull’andamento della “guerra alla droga” sono gli arresti e i sequestri. Il tempo però ha insegnato a tutti che l’arresto di piccoli, medi o grandi spacciatori come pure di cosiddetti capi significa solo, alla fin fine, più o meno tempo per la riorganizzazione della filiera di distribuzione e vendita. I sequestri poi, anche laddove riguardano quantità che possono sembrare enormi, vanno o andrebbero valutati nella giusta prospettiva.
Nel 2021 sono stati sequestrati 91.152,45 chilogrammi di droga in Italia.18 Passando dalle circa 59 tonnellate del 2020 alle oltre 91 del 2021 non si può non interrogarsi su cosa stia effettivamente accadendo.
Le forze di polizia potrebbero aver sviluppato tecniche più sofisticate per intercettare i carichi di droga in arrivo e in circolazione nel nostro Paese ma potrebbe anche esserci un costante aumento degli stessi. Oppure entrambe le cose insieme. La droga in arrivo aumenta e con essa aumentano anche le probabilità di essere intercettata.
Gli analisti dell’antimafia ipotizzano, in linea generale, che per ogni chilo sequestrato riesce a superare le ispezioni un quantitativo superiore di almeno tre volte. La parte che finisce sotto sequestro è un costo fisiologico messo in conto dalle mafie.19
E se i sequestri aumentano e la produzione e il consumo anche non si può non chiedersi se questa “guerra alla droga” la si sta davvero combattendo oppure si vuole solo dare l’impressione di farlo.
È opinione condivisa che in guerra la prima vittima è sempre la verità? Ciò vale anche per la guerra alla droga?
Nel post-Guerra fredda la guerra alla droga ha ormai definitivamente contribuito a spostare l’attenzione degli apparati di sicurezza statali dalle tradizionali minacce militari alle nuove “minacce transnazionali”. La convenzionale distinzione tra il combattere un conflitto bellico e la lotta al crimine si è dissolta sempre più, cambiando la natura stessa della guerra.
Una guerra contro la droga, anche quando non risulta particolarmente efficace nel reprimere gli stupefacenti, può diventare un mezzo utile per il perseguimento di altri obiettivi strategici, tra cui quello di attaccare e delegittimare i nemici. Ciò fu evidente, per esempio, nel corso della Guerra fredda, allorquando il governo americano accusò la Cina rossa e la Cuba castrista di inondare gli Stati Uniti di droga, mentre in realtà la Cina si era in gran parte ritirata dal narcotraffico internazionale e i cubani più coinvolti in affari erano anticomunisti esiliati a Miami o altrove. Quando la Guerra fredda si concluse e il Congresso e l’opinione pubblica statunitense non furono più disposti a sovvenzionare campagne controinsurrezionali anticomuniste, le agenzie antidroga offrirono agli strateghi di Washington un comodo canale alternativo per finanziare il supporto militare alla guerra del governo colombiano contro le insurrezioni di sinistra.20
Dalla Birmania al Messico, alla Colombia, i narcotrafficanti rafforzano la loro capacità militare per difendere o cercare di conquistare con la violenza i mercati della droga. Negli ultimi anni le dispute tra gruppi rivali che si contendono il territorio hanno imposto un tributo particolarmente pesante al Messico, dove il conto dei morti ha superato quello della maggior parte delle guerre civili.
Probabilmente le attuali battaglie tra gang della droga rivali possono essere viste come una forma criminale di guerra commerciale, resa possibile sia dalla proibizione delle droghe sia dalla facile disponibilità di arsenali militari e di soldati addestrati dall’esercito.
Bisogna sottolineare che la “guerra per la droga” può interagire strettamente con la “guerra contro la droga”, ed esserne alimentata. Quando un’organizzazione è smantellata o indebolita dalla “guerra contro la droga”, altri narcotrafficanti intraprendono una “guerra per la droga”: una violenta competizione per accaparrarsi i territori rimasti vacanti. Questi combattimenti rappresentano anche delle “guerre grazie alla droga”, nella misura in cui sono finanziati con i proventi dei traffici illeciti.21
Un ulteriore effetto interattivo è che i narcotrafficanti possono lanciare una “guerra per la droga” come reazione difensiva a una “guerra contro la droga”, assassinando giudici, poliziotti e politici. La prassi tipica della maggior parte dei narcotrafficanti è sfuggire allo stato, anziché scontrarvisi con la forza, ma in casi eccezionali si è arrivati anche a una dichiarazione di guerra totale contro lo stato.22
L’attuale guerra contro la droga può anche essere vista come una vicenda di affermazione dello stato. Spesso i leader di governo hanno giustificato le campagne antidroga come uno sforzo per proteggere i cittadini, pacificare gli attori violenti non statali, presidiare i confini e imporre l’ordine pubblico: prerogative dello stato per eccellenza.23
E anche se la guerra contro la droga ha fallito ripetutamente, a volte in maniera sensazionale, la connessa escalation delle attività militari ha ampliato e potenziato notevolmente gli apparati di sicurezza dello stato. Attraverso la guerra contro la droga i controlli di polizia si sono notevolmente estesi, e in alcuni luoghi ciò ha persino comportato la trasformazione dei soldati in poliziotti. Una delle conseguenze è stata quella di mettere in dubbio fin dalle basi la tradizionale distinzione fra combattere una guerra e combattere la criminalità.24
Non bisogna dimenticare poi che la guerra contro la droga ha permesso di riscuotere cospicue entrate grazie a leggi ad ampio raggio per la confisca dei beni, che hanno reso le attività di polizia altamente redditizie.25
E c’è stata una massiccia, anche se non registrata, riscossione informale di entrate nella forma di tangenti e bustarelle, che può essere concepita come un’imposta de facto sul traffico di droga.26
Con l’atto di criminalizzare la droga, lo stato crea la minaccia – gonfiando bruscamente i profitti ricavati dai narcotici e mettendo il business clandestino nelle mani di criminali pesantemente armati -, e ciò a sua volta offre allo stato una ragione per reagire con una guerra alla droga sempre più militarizzata. E poiché i trafficanti eliminati e la droga sequestrata che gli stati usano come misura del loro “successo” sono facilmente sostituibili, e politici e burocrati hanno forti incentivi a insistere e intensificare gli sforzi anziché a riconsiderarli, la guerra alla droga continua a trascinarsi.27
Viene allora da interrogarsi su dove ci porterà tutto questo. Si vincono le battaglie della guerra alla droga, ma la guerra non finisce. E la dinamica della guerra si autoperpetua in maniera perversa: le vittorie sul campo pongono involontariamente le condizioni per ampliare il conflitto; chiudere le vecchie rotte e togliere di mezzo i trafficanti fa semplicemente emergere nuove rotte e più trafficanti. Oltretutto, ne conseguono lotte per il territorio che possono alimentare ancor di più la violenza che l’invio di militari avrebbe dovuto sedare. E se il passato può in qualche modo guidarci al futuro, è lecito aspettarsi che le cose continuino così.28
Molti consumatori di eroina americani si sono votati alla droga solo dopo essere diventati dipendenti da antidolorifici oppiodi regolarmente prescritti. Quella contro la droga, tuttavia, è una guerra altamente selettiva, che evita in tutti i modi di prendere seriamente di mira le case farmaceutiche che hanno pubblicizzato con tanta aggressività prodotti che creano dipendenza.29
Ma cosa accadrebbe se la guerra alla droga dovesse in qualche modo finire? Finirebbe anche la violenza?
La legalizzazione priverebbe l’enorme commercio illegale planetario dei suoi profitti gonfiati dal proibizionismo, che alimentano la violenza e finanziano terroristi e insorti. Probabilmente i narcotrafficanti diversificherebbero i loro affari e si rivolgerebbero ad altre attività illecite, come fecero i boss mafiosi statunitensi dopo la revoca del proibizionismo dell’alcol, ma il loro flusso di entrate più rilevante sarebbe prosciugato.
Non bisogna dimenticare che la proibizione della droga e gli elevati volumi del narcotraffico precedono di gran lunga, per esempio, le ondate di violenza in Messico. Non sono solo il proibizionismo e i flussi di droga in sé a innescare la violenza, ma le modalità specifiche con cui le leggi antidroga vengono applicate o disattese.30
Troppo spesso la politica impregnata di moralismo della guerra alla droga esclude approcci più pragmatici.31
Se da un lato gli eserciti contemporanei vengono schierati su un numero di fronti sempre maggiore per combattere la droga, dall’altro combattono sempre più “fatti” di droga. Molti di coloro ai quali è è affidato il compito di fare la guerra continueranno a cercare aiuto nelle droghe, che siano prescritte o auto-prescritte. Se è vero che il combattere da strafatti ha una lunga tradizione, oggi sono disponibili più droghe per un numero di soldati più alto che mai, e lo stato continua a essere uno dei principali spacciatori.32
Circa 270milioni di persone nel mondo fanno o hanno fatto uso di droga. È necessario quindi andare oltre l’immagine stereotipata del tossico eroinomane che giace inerme con una siringa infilata in un braccio. Bisogna andare oltre. Molto oltre.
Rientra nella più assoluta “normalità” l’identikit del cocainomane socialmente inserito emersa dall’attività del centro clinico cocainomani di Brescia: età compresa tra i 25 e 34 anni, con titoli di studio, lavoro e famiglia e con l’abitudine di fare una o più “piste” di cocaina al giorno.33
Nel 2006 il Garante della Privacy bloccò la messa in onda dell’inchiesta condotta dalla troupe della trasmissione televisivaLe Iene – un parlamentare su tre positivo ai test antidroga – perché lesiva dell’immagine e dell’onorabilità dell’istituzione. Dieci anni dopo, sempre i parlamentari italiani hanno bocciato l’ordine del giorno per introdurre cani e test antidroga anche in Parlamento. E allora si è provata la strada già percorsa dal «Sun» nel 2013 che diede origine a quello che fu definito lo “scandalo cocaina a Westminster”: utilizzare i kit pronti all’uso per testare le superfici dei bagni del Parlamento. Le tracce sono state trovate e i test hanno dato esiti positivi.34
Bisognerebbe poi riconoscere che la guerra stessa può essere pensata come una droga, la quale probabilmente durerà nel tempo, mentre la popolarità di altre sostanze stupefacenti va e viene.
L’unica cosa che si può prevedere con una qualche certezza è che la droga e la guerra proseguiranno nel loro abbraccio mortale: l’una farà e rifarà l’altra ancora negli anni e nei decenni a venire.35
E intanto possiamo sempre continuare o iniziare a guardarci intorno, anche su una qualsiasi strada, e chiederci quante auto, camion o altri veicoli imbottiti di droga ci sono intorno a noi. Domandarci quante sono le persone che fanno uso di droga e perché. Chiedere a noi stessi quante sono le persone che realmente combattono la guerra contro la droga e perché lo fanno.
Perché se non si conosce a fondo e per intero il problema globale della droga e della guerra alla droga si rischia di ridurlo a un mero problema esistenziale di persone con delle fragilità. Invece è un problema globale, di salute pubblica ma anche di geopolitica, di economia e malavita, di malapolitica e corruzione, di scelte e di opportunismo, di vittime e di carnefici. Di Stato e di Mafia.
1Il Fatto Quotidiano, edizione online 14 dicembre 2022: https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/12/14/ponte-morandi-anche-un-camion-con-900-chili-di-droga-coinvolto-nel-crollo-la-ndrangheta-tento-di-recuperare-il-carico/6905572/
2United Nation World Drug Report 2022: https://www.unodc.org/unodc/en/data-and-analysis/world-drug-report-2022.html
8Federal Documents Clearing House, FDCH Political Transcripts, U.S. Senator Orrin Hatch (R-UT) Holds Hearing on International Drug Trafficking and Terrorism, 20 maggio 2003.
9G. Thomson, Trafficking in Terror, in «New Yorker», il 14 dicembre 2015.
10D. Luhnow, Latin America Is the Murder Capital of the World, in «Wall Street Journal», 20 settembre 2018.
12«Il Fatto Quotidiano», 20 novembre 2021: https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/11/20/la-pandemia-silenziosa-degli-usa-oltre-100mila-morti-di-overdose-in-un-anno-guerra-che-uccide-piu-di-armi-e-incidenti-stradali-messi-insieme/6397531/
14EMCDDA Relazione europea sulla droga – Tendenze e Sviluppi – 2022: https://www.emcdda.europa.eu/system/files/publications/14644/20222419_TDAT22001ITN_PDF.pdf
15Rapporto Tossicodipendenze del Ministero della Salute 2022 (sui dati del 2021): https://www.salute.gov.it/portale/documentazione/p6_2_2_1.jsp?lingua=italiano&id=3272
16S. Levy, MD MPH Harvard Medical School, MSD Manual luglio 2022 Uso di sostanze negli adolescenti: https://www.msdmanuals.com/it-it/casa/problemi-di-salute-dei-bambini/problemi-negli-adolescenti/uso-e-abuso-di-sostanze-nell-adolescenza
17Presidenza del Consiglio dei Ministri, Relazione Annuale al Parlamento sul Fenomeno delle Tossicodipendenze in Italia, anno 2022: https://www.politicheantidroga.gov.it/it/notizie/notizie/relazione-annuale-al-parlamento-2022/
18Relazione della Direzione Centrale per i Servizi Antidroga (relativa al 2021): https://antidroga.interno.gov.it/wp-content/uploads/2022/06/Sintesi-2022.pdf
19I. Cimmarusti, Mafia Spa, l’import-expot di droga e rifiuti triplica nell’anno della pandemia, «Il Sole 24 Ore», 30 settembre 2021: https://www.ilsole24ore.com/art/mafia-spa-l-import-export-droga-e-rifiuti-triplica-nell-anno-pandemia-AEjf3Pk?refresh_ce=1
33S. Ghilardi, La cocaina «sfonda» tra i colletti bianchi, «Corriere della Sera» edizione Brescia, 8 ottobre 2014: https://brescia.corriere.it/notizie/cronaca/14_ottobre_08/cocaina-sfonda-colletti-bianchi-476c2ade-4ebe-11e4-b3e6-b91ef8141370.shtml
34T. Mackinson, La Camera se la tira, tracce di cocaina nel bagno dei deputati – L’inchiesta su FQ Millenium del 2017, «Il Fatto Quotidiano», 6 dicembre 2021: https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/12/06/la-camera-se-la-tira-tracce-di-cocaina-nel-bagno-dei-deputati-linchiesta-su-fq-millennium-del-2017/6417647/