• Bio
  • Contatti
  • Curriculum

Irma Loredana Galgano

Irma Loredana Galgano

Archivi della categoria: Articoli

“Il capitalismo oggi e la sua incidenza su popoli ed economie”

31 sabato Ott 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

≈ Lascia un commento

Tag

articolo, Capitalism, capitalismo, economia, geopolitica, politica

La modernità del mondo occidentale è davvero così inscindibile dal sistema capitalistico oppure esistono, o dovrebbero esistere, forme e processi economici differenti, paralleli o alternativi?
Il dibattito è aperto e animato, richiede inoltre uno sguardo a quei paesi e alle rispettive economie che sono emergenti e, a tratti, emulative dei processi economici occidentali senza dimenticare le idee di coloro i quali, al contrario, vedono nelle dinamiche del mondo occidentale l’imitazione di sistemi e strutture pregressi, avanzando il bisogno di allungare indietro lo sguardo fino ai tempi del colonialismo.

CAPITALISMO E CAPITALE

Il capitalismo ha presentato, fin dalle origini, un accentuato dualismo simbolico e concreto. Da un lato è visto come il metodo migliore per lo sviluppo economico di un paese essendo basato su una economia di libero mercato, su una divisione netta tra proprietà privata e pubblica. Un metodo di sviluppo quindi con un potenziale altissimo che ha consentito a paesi, come gli Stati Uniti d’America, di diventare potenze economiche di livello mondiale. D’altro canto però è stato sempre criticato e per le medesime ragioni, generando un sistema nel quale il lavoro diventa lavoro salariato, sfruttato al fine ultimo di ottenere il massimo profitto, utile all’illimitato bisogno di accumulo di capitale.

A partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo, allorquando ha iniziato a diffondersi, il capitalismo si è sviluppato in maniera non univoca nei diversi paesi del blocco occidentale, garantendo comunque alti livelli di crescita economica e generando, per restare negli Usa, quello che Elizabeth Warren ha definito “il più grande ceto medio che il mondo abbia mai conosciuto”. Una classe sociale nata e sviluppatasi proprio grazie la lavoro e al profitto generatosi da esso.
Uno sviluppo e una crescita enormi che hanno ingenerato però una grande quantità di problemi dovuti, in larga parte, proprio alle difficoltà inerenti l’impossibilità o quasi di sostenere gli stessi ritmi e i medesimi consumi.

CAPITALISMO, MA A QUALE PREZZO?

È la domanda che si è posta Michel Martone analizzando la situazione economica dell’Italia all’indomani della grande crisi economica che, inevitabilmente, ha riportato l’attenzione sulle dinamiche di un sistema economico, che da tempo ormai strizza l’occhio alle grandi economie libere dei paesi capitalisti per tradizione, ritenuto da molti il principale responsabile.
Oggi, nel mercato globale, per soddisfare le richieste sempre più esigenti, sia sotto il profilo della qualità che sotto quello del costo dei prodotti, si finisce per sacrificare le retribuzioni e la stabilità degli stessi lavoratori.

Ragionamento eguale a quello portato avanti dalla Warren nella sua analisi al sistema americano dove il ceto medio, una volta grande, è ormai ridotto allo stremo. Il passaggio dal capitalismo economico a quello finanziario ha lasciato indietro tanti lavoratori, un’intera classe di lavoratori, il ceto medio appunto, trasformando quelli che erano i punti cardine dello sviluppo economico (risorse e manodopera) in aspetti secondari di un sistema che è tutt’ora in continua espansione e crescita.

L'AFROMODERNITÀ COME CONDIZIONE GLOBALE?

Diversi fenomeni osservabili in Africa hanno indotto Jean e John Comaroff a considerarli prodromi e non imitazioni di quanto sta accadendo in Europa e Nordamerica.
Un’economia emergente, quella africana, tutt’altro che priva di contraddizioni, basata sul desiderio degli stati post-coloniali e dei loro governanti di guadagnare entrate spendibili nelle forme più flessibili e deregolate, a scapito della protezione dei lavoratori, dei controlli ambientali, delle imposizioni fiscali.
Così lo sviluppo economico si è spesso manifestato in forme rapinose, che massimizzano il profitto al minimo costo realizzando pochi investimenti strutturali. Soluzioni ispirate a dottrine neoliberiste ma realizzate con formulazioni estreme e incontrollabili, con il conseguente aumento di fenomeni come conflittualità, xenofobia, criminalità, esclusione sociale, corruzione.
Una violenza strutturale sembra dunque accompagnare i più recenti sviluppi di un’economia deregolamentata che inizia a diffondersi a livello globale.

La modernità è sempre stata indissociabile dal capitalismo, dalle sue determinazioni e dalle sue logiche sociali, come ricordava già Amin nel 1989, per quanto ovviamente fascismo e socialismo abbiano provato a costruire delle loro versioni.
Così, la modernità capitalista, si è realizzata, per quanto in maniera molto ineguale, nelle grandi aspirazioni del liberalismo, tra cui l’edificio politico-giuridico della democrazia, il libero mercato, i diritti e la società civile, lo stato di diritto, la separazione tra pubblico e privato, sacro e laico. Ma, per i Comaroff, ha anche privato diverse popolazioni di queste cose, in primis quelle dislocate nei vari teatri coloniali. E, per Elizabeth Warren, il contemporaneo capitalismo finanziario sta privando gli stessi americani e occidentali in generale di queste medesime cose.

IL CAPITALISMO DELLA SORVEGLIANZA

Il capitalismo sembra evolversi in risposta ai bisogni delle persone in un tempo e in un luogo determinati. È in questo modo che si sarebbe giunti, nella visione di Shoshana Zuboff, alla attuale forma di capitalismo della sorveglianza. Una logica che permea la tecnologia e la trasforma in azione. Una forma di mercato inimmaginabile fuori dal contesto digitale ma non coincidente con esso. Si appropria dell’esperienza umana usandola come materia prima da trasformare in dati sui comportamenti.

I capitalisti della sorveglianza hanno scoperto che i dati più predittivi si ottengono intervenendo attivamente sui comportamenti delle persone, consigliandole o persuadendole ad assumere quelli che generano maggiore profitto. Come il capitalismo industriale era spinto dalla continua crescita dei mezzi di produzione, così il capitalismo della sorveglianza e i suoi operatori di mercato sono costretti ad accrescere continuamente i mezzi per la modifica dei comportamenti e il potere strumentalizzante.

Karl Marx paragonava il capitalismo a un vampiro che si ciba di lavoro, nell’accezione attuale il nutrimento non è il lavoro bensì ogni aspetto della vita umana.
Come le civiltà industriali hanno potuto prosperare a discapito della natura e delle sue risorse, così una civiltà dell’informazione segnata dal capitalismo della sorveglianza prospererà, per Zuboff, a discapito della natura umana.
In questa nuova forma di capitalismo per certo ci sarà un drastico calo nello sfruttamento delle risorse della natura e questo, per Andrew McAfee, è indubbiamente un aspetto positivo.

IL NUOVO MOTTO SARÀ: DI PIÙ CON MENO?

Per quasi tutta la storia del genere umano la prosperità è stata strettamente connessa alla capacità di attingere risorse dalla Terra, ma adesso le cose sono cambiate. Negli ultimi anni abbiamo visto emergere un modello diverso: il modello del di più con meno.

Le forze gemelle del progresso tecnologico e del capitalismo scatenate durante l’Era industriale sembravano spingere verso una direzione ben precisa: la crescita della popolazione umana e dei consumi, e il concomitante degrado del pianeta.
Se il capitalismo ha proseguito per la sua strada diffondendosi sempre più, il progresso tecnologico ha permesso di consumare sempre più attingendo sempre meno dal pianeta.

I dati forniti dall’agenzia Eurostat, oggetto di attenzione da parte della Commissione Europea, mostrano come, negli ultimi anni, paesi come Germania, Francia e Italia, hanno visto generalmente stabile, se non addirittura in calo, il loro consumo totale di metalli, prodotti chimici e fertilizzanti.

I paesi in via di sviluppo, in particolare quelli con la crescita più rapida, come India e Cina, probabilmente non hanno ancora raggiunto la fase di dematerializzazione.

Attraversiamo una fase nella quale il capitalismo non è molto ben visto da tanti, eppure Andrew McAfee è di tutt’altro parere, convinto che sia stata proprio la combinazione tra innovazione incessante e mercati contendibili, in cui un gran numero di competitor cerca di ridurre le spese per i materiali, a traghettare le economie occidentali nell’era post-picco di consumo delle risorse.

OCCIDENTE O ORIENTE: CHI PERDE E CHI VINCE NELLA GRANDE 
SFIDA DELLA CRESCITA ECONOMICA?

La quota occidentale dell’economia globale continua a ridursi. Il processo sembra inevitabile e inarrestabile poiché altre realtà hanno imparato a emulare le best practices dell’Occidente.
Fino a tempi anche molto recenti, gran parte della crescita globale è venuta dalle economie del G7, non da quelle degli E7. Negli ultimi decenni la situazione si è nettamente rovesciata. Nel 2015, ad esempio, le economie del G7 hanno contribuito alla crescita globale per il 31.5 per cento, gli E7 per il 36.3 per cento.

Nell’analisi di Kishore Mahbubani, la fine della Guerra Fredda non ha significato la definitiva vittoria del mondo occidentale, bensì il suo lento e progressivo declino. La convinzione di essere insuperabile lo ha spinto a sottovalutare, tra l’altro, il risveglio dei due grandi giganti asiatici – Cina e India -, e l’ingresso della Cina nel 2001 nella World Trade Organization.
L’ingresso di quasi un miliardo di lavoratori nel sistema mondiale degli scambi avrebbe avuto per forza come risultato una massiccia “distruzione creativa” e la perdita di molti posti di lavoro in Occidente.

Nell’agosto 2017, una relazione della Banca dei Regolamenti Internazionali confermava che l’ingresso di nuovi lavoratori provenienti dalla Cina e dall’Europa Orientale nel mercato del lavoro era la causa di salari in declino e della contrazione della quota del lavoro nel reddito nazionale. Tutto ciò, ovviamente, avrebbe significato, per le economie occidentali, un aumento della diseguaglianza.

L’Unione Sovietica vedeva l’America come un avversario sul piano militare. In realtà, l’America era il suo avversario economico, ed è stato il collasso dell’economia sovietica a decretare la vittoria degli Stati Uniti.
Allo stesso modo, per l’America la Cina è un avversario economico, non militare. Più l’America accresce le sue spese militari, meno capace sarà nel lungo andare nel gestire i rapporti con un’economia cinese più forte e più grande.

La sfida che attende gli Stati Uniti tuttavia non è la stessa dell’Europa. Per i primi la sfida è la Cina. Per la seconda è “il mondo islamico sulla porta di casa”.
Finché nel Nord Africa e nel Medio Oriente saranno presenti stati in gravi difficoltà, ci saranno dei migranti che cercano di arrivare in Europa, infiammando i partiti populisti. Una possibile soluzione potrebbe essere lavorare con la Cina e non contro di essa per la crescita e lo sviluppo dell’Africa settentrionale.

PER UN MODELLO DI SVILUPPO ALTERNATIVO

Dunque, ciò che necessita ai paesi economicamente avanzati così come a quelli emergenti sono delle politiche di mutuo soccorso, per così dire. Connettere prospettive differenti con l’obiettivo precipuo di individuare una crescita equilibrata. Individuare un nuovo modello di sviluppo globale, alternativo a quello esistente, capace di coniugare le esigenze dei paesi industrializzati, quelle dei paesi in via di sviluppo nonché di quelli poveri, anche di materie prime.
Idee già espresse nel North-South, a Program for Survival, noto come Rapporto Brandt, redatto nel 1980 e basato sostanzialmente su una coppia concettuale ben definita: interdipendenza e interesse comune. Per molti, ancora oggi il Rapporto Brandt rappresenta l’unica vera alternativa sistemica alla globalizzazione neoliberista.

Per Brandt e gli altri commissari si trattava di lavorare per far sì che nel medio termine alcuni interessi, a nord come a sud, si inter-connettessero, secondo la tesi per cui un più rapido sviluppo a sud sarebbe stato vantaggioso anche per la gente del nord. Il pre-requisito di questo tentativo non poteva che essere un maggior aiuto degli Stati industrialmente avanzati a quelli più deboli, sia attraverso forme di finanziamento dirette sia mettendo in campo dei programmi di prestiti a lunga scadenza.

Sulla scia delle idee di Kenneth Arrow, Stglitz e Greenwald invitano a riflettere sui modi possibili di intervento governativo sul mercato per migliorare l’efficienza e il benessere collettivo, tenendo sempre amente che buona parte degli innalzamenti degli standard di vita sono associati al progresso tecnologico e all’apprendimento.
Nei quattro decenni trascorsi dalla fine degli anni Quaranta alla fine degli anni Ottanta, le economie socialiste si concentrarono con decisione sulle ricette di solito associate alla crescita, ossia l’accumulazione di capitale e l’istruzione. Presentavano tassi di risparmio e investimento elevati – in molti casi molto più elevati di quelli presenti in Occidente – e investirono seriamente nell’istruzione. Tuttavia, alla fine di questo periodo, presentavano risultati economici inferiori, spesso di molto.
Le economie non centralizzate si erano sviluppate migliorando costantemente la performance economica.

La situazione oggi si sta invertendo. Mahbubani afferma che il dono più grande che l’Occidente ha fatto al Resto del Mondo è stato la potenza del ragionamento logico. Filtrando nelle società asiatiche, lo spirito di razionalità e, potremmo aggiungere, conoscenza occidentali ha portato a un crescendo di ambizione, che a sua volta ha generato i molti miracoli asiatici che stanno sviluppandosi.

ALL'ALBA DI UN NUOVO MONDO

La cupa profezia sull’incipiente tramonto dell’Occidente sembra trovare sempre maggiore consenso e certezze ma, per Angelo Panebianco, è fin troppo scontato affermare che la società aperta occidentale con i suoi gioielli (rule of law, governo limitato, diritti individuali di libertà, democrazia, mercato, scienza) sia oggi a rischio. Un fenomeno caratterizzato dall’indebolimento degli intermediari politici che, secondo Bernard Manin, ha accompagnato il passaggio dalle vecchie democrazie di partito alle nuove democrazie di pubblico.

Crisi demografica e difficoltà di fronteggiare le conseguenze sociali, economiche e politiche dell’immigrazione extraeuropea – in Europa -, o latinoamericana – negli Stati Uniti – segnalano quella che viene indicata come una crisi morale che sta minando la fiducia in sé stesse delle società occidentali.
L’idea più diffusa è che siamo entrati in una nuova fase nella quale si assisterà al passaggio dalla breve stagione dell’unipolarismo americano a un nuovo multipolarismo, nel quale Stati Uniti e Cina, pur essendo le potenze più forti, dovranno comunque fare i conti con altre potenze, quali Russia, India e fors’anche Brasile, Indonesia e Sud Africa.

 

Bibliografia di riferimento

Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019. Traduzione di Paolo Bassotti.
Michel Martone, A che prezzo. L’emergenza retributiva tra riforma della contrattazione collettiva e salario minimo legale, Luiss University Press, Roma, 2019.
Jean Comaroff, John L. Comaroff, Teoria dal Sud del mondo. Ovvero, come l’Euro-America sta evolvendo verso l’Africa, Rosenberg&Sellier, Torino, 2019. Traduzione di Mario Capello.
Andrew McAfee, Di più con meno. La sorprendente storia di come abbiamo imparato a prosperare usando meno risorse, Egea UniBocconi, Milano, 2020. Traduzione di Giuseppe Maugeri.
Jacopo Perazzoli (a cura di), Per un modello di sviluppo alternativo. A quarant’anni dal Rapporto Brandt, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano, 2019.
Kishore Mahbubani, Occidente e Oriente chi vince e chi perde, Bocconi Editore, Milano, 2019. Traduzione di Giuseppe Barile.
Angelo Panebianco, Sergio Belardinelli, All’alba di un nuovo mondo, Società Editrice il Mulino, Bologna, 2019.
Elizabeth Warren, Questa lotta è la nostra lotta, Garzanti, Milano, 2020. Traduzione di Paolo Lucca.
Joseph E. Stiglitz, Bruce C. Greenwald, Creare una società dell’apprendimento. Un nuovo approccio alla crescita, allo sviluppo e al progresso sociale, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2018. Traduzione di Maria Lorenza Chiesara.


Articolo disponibile anche qui


Disclosure: Per i grafici si rimanda alla Bibliografia di riferimento. Per le immagini credits www.pixabay.com


 

© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

SPECIALE WMI: Il ruolo culturale delle biblioteche oggi in Italia

26 mercoledì Giu 2019

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

≈ Lascia un commento

Tag

articolo, biblioteche, cultura, RinnovamentoCulturaleItaliano, WMI

Qual è il ruolo culturale delle biblioteche, pubbliche e private, oggi in Italia? Perché, nella società che si definisce dell’informazione, i luoghi simbolo della cultura vera, come appunto le biblioteche, si considerano ormai obsoleti, superati, inutili? Che relazione si pone tra diritto alla conoscenza, libertà di pensiero e di espressione e libertà di accesso all’informazione? I libri e la libertà. Le biblioteche e la democrazia. Bibliotecari e pubblico. Il rapporto dei cittadini con la lettura.

Le biblioteche sono istituzioni che, inspiegabilmente, restano fuori da ogni dibattito, mediatico e istituzionale, sulla cultura. Eppure esse rappresentano non solo i luoghi fisici di conservazione della memoria del passato ma, soprattutto, la struttura, la tecnica, il metodo, la fisicità e la possibilità concreta per la creazione di una cultura, di un’informazione e anche una educazione, quanto più ampie e diffuse possibile, che non siano faziose, di parte o partitiche, settarie e limitate.
Proprio le biblioteche, le quali rimangono ancora oggi estranee ed esterne alle logiche del mercato, all’economia imperante, al consumismo e alla superficialità di una conoscenza priva di fondamenta solide e logiche.
Michel Melot sosteneva che «la biblioteca è una macchina per trasformare la convinzione in conoscenza. La credulità in sapere». Come riportato anche nella premessa al testo L’azione culturale della biblioteca pubblica di Cecilia Cognini (Editrice Bibliografica, 2014).

Cognini ricorda che uno degli obiettivi dei programmi di Europa 2020 è proprio quello di «promuovere e consolidare la società della conoscenza». Ponendo al centro l’istruzione e le competenze, la ricerca, l’innovazione e la società digitale, allo scopo di favorire «un uso intelligente e consapevole delle nuove tecnologie». L’economia della conoscenza si basa sulla centralità del ‘capitale umano’ come «elemento capace di determinare un andamento positivo dello sviluppo di un paese». Nello scenario sociologico internazionale sempre di più si sta consolidando il bisogno di superare il PIL come indicatore dello stato di benessere di un paese, in Italia «lo Cnel e l’Istat hanno elaborato degli indicatori per misurare il BES, il benessere equo e sostenibile», ricollegando concettualmente il tasso di benessere di una società a fattori che «comprendono cultura e salute e altri aspetti immateriali della vita contemporanea».

Ecco che entra in gioco il concetto di apprendimento per tutto l’arco della vita, che diventa «un aspetto essenziale nella prospettiva esistenziale delle persone». L’intelligenza degli individui, ma anche quella di ognuno, non può essere ricondotta a una sola tipologia, «educare a pensare la complessità diventa un obiettivo rilevante per la società della conoscenza». L’azione della biblioteca pubblica può essere interpretata come una «sintesi efficace delle diverse vocazioni e stratificazioni di senso che il concetto di cultura rappresenta».
Affinché cultura e creatività si radichino in un territorio è necessario che si sviluppi una “atmosfera creativa”. In base al concetto largamente esposto nelle sue opere da Walter Santagata, per rendere percepibile un’atmosfera creativa è necessario che «il bagaglio di idee e creatività raggiunga un certo livello» e che siano presenti determinati ingredienti: «le reti creative, i sistemi locali della creatività, le microimprese di servizi». Anche le biblioteche, gli archivi e i musei sono soggetti essenziali da questo punto di vista, perché anch’essi qualificano il tessuto economico e sociale di un dato territorio, «aumentando la predisposizione delle persone a investire nelle loro capacità e competenze conoscitive e accrescendo la qualità sociale di una comunità».
Laddove per “qualità sociale” deve intendersi la misura secondo cui le persone sono capaci di «partecipare attivamente alla vita sociale, economica e culturale e allo sviluppo delle loro comunità», in condizioni che migliorino il benessere collettivo e il potenziale individuale.

Nella filiera del patrimonio culturale proprio le biblioteche possono conquistare «un ruolo e una rilevanza centrali, ancora solo parzialmente esplorate», e contribuire, per la loro capillarità e accessibilità e la loro vocazione alla divulgazione, a «promuovere la più ampia conoscenza e fruizione possibili del patrimonio culturale del nostro paese». Come indicato nel Manifesto IFLA/Unesco, la biblioteca pubblica svolge un «ruolo centrale anche nel promuovere la consapevolezza dell’importanza dell’eredità culturale che è propria di una comunità e di un territorio», non solo nel senso più scontato del mettere a disposizione del pubblico i fondi di storia e cultura locale o i documenti conservati nelle sezioni “Manoscritti e Rari”, ma più in generale come «promozione della capacità di lettura e interpretazione del patrimonio culturale di una comunità» al fine di trovare nuovi modi per raccontarlo, «nella consapevolezza delle nuove sfide poste dalla società multiculturale e dal digitale».

La vita degli adulti dovrebbe essere centrata sull’apprendimento continuo. Una educazione «fortemente correlata a una diversa concezione del sapere», non più focalizzato solo sull’acquisizione di abilità e contenuti ma anche di atteggiamenti e comportamenti. Esiste un sottostimato ma innegabile «legame fra formazione permanente e sviluppo democratico della comunità». L’atto di conoscere è a un tempo biologico, linguistico, culturale, sociale e storico e «la conoscenza non può essere dissociata dalla vita umana e dalla relazione sociale».
Nicholas Carr sostiene che la rete ci ha confinato nella superficialità e nell’incapacità di approfondire, mentre Rheingold Howard ritiene che questa ci aiuti a sviluppare appieno tutto il potenziale dell’intelligenza collettiva. Per Cecilia Cognini forse hanno ragione entrambi. Innegabile è di sicuro il fatto che internet e le nuove tecnologie hanno «modificato le modalità di apprendimento, i contesti e gli scenari di riferimento e con essi il ruolo delle biblioteche», da ricercarsi proprio nella formazione permanente.

La formazione permanente può avere un ruolo centrale nel «contrastare il ritardo di alfabetizzazione presente nel nostro paese».
Stando ai dati ISOFOL-PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) l’Italia è la più bassa fra i paesi Ocse per partecipazione ad attività di apprendimento formale e informale degli adulti, con appena il 24% a fronte di una media del 52%. In questo ambito la biblioteca «può promuovere una visione proattiva e non passiva della cultura».
Per Cecilia Cognini l’azione della biblioteca si esplica sostanzialmente in quattro modi:
Predisposizione all’accesso.
Formazione dei cittadini.
Definizione di un ambiente sicuro.
Costruzione della motivazione a imparare.

Nella premessa al testo di Mauro Guerrini curato da Tiziana Stagni De Bibliothecariis. Persone Idee Linguaggi (Firenze University Press, 2017) Luigi Dei, magnifico rettore dell’Università degli Studi di Firenze, definisce le biblioteche «uno dei più preziosi patrimoni che le Università posseggono o ai quali gli Atenei fanno costante riferimento come irrinunciabile stella polare per le loro missioni». Per il rettore Dei non bisogna lasciarsi intimorire dal progresso scientifico-tecnologico, dal digitale, dalla rete… perché «la nostra era non è più unica di quanto lo sembrassero le precedenti ai nostri predecessori». I nuovi media troveranno «il loro posto nelle biblioteche» e così i bibliotecari assolveranno alla loro missione secondo modalità «stupendamente innovative e con strumenti d’inenarrabile potenza e versatilità». Il destino che attende quindi queste istituzioni, secondo Luigi Dei, è quello di «rivestire nel futuro un ruolo sempre più centrale nella vita dell’uomo».

Il testo di Mauro Guerrini si apre al lettore con una citazione di Shiyali Ramamrita Ranganathan:

«Fino a quando l’obiettivo principale di una biblioteca fu la conservazione dei libri, tutto quello che si pretese dal suo personale fu che fosse costituito da guardiani capaci di combattere i quattro nemici dei libri: fuoco, acqua, parassiti e uomini. Non era strano che un posto di lavoro in biblioteca rappresentasse il rifugio possibile per le persone incapaci di fare altri lavori. Ci volle davvero molto tempo perché si comprendesse che era necessario un bibliotecario professionale.»

Per Guerrini il tronco di attività e di competenze che regge la professione bibliotecaria si basa essenzialmente su due temi caratterizzanti: gli utenti e le risorse bibliografiche. «Il bibliotecario mette in relazione positiva queste due entità». La biblioteca pubblica italiana è, in questa fase storica, chiamata a difendere la Costituzione, le istituzioni democratiche, il diritto a un’informazione libera, tempestiva e plurale, «arginando le manipolazioni che pervadono, armai da sessant’anni, l’assetto partitocratico delle istituzioni e dei mass-media». Non può esistere democrazia senza controllo. E il controllo, oltre che dalla tripartizione dei poteri, deve essere esercitato dall’elettorato: «un cittadino bene informato è un requisito della democrazia perché conosce e giudica tramite la scheda elettorale l’operato dei politici, dei potenti, della società».
La biblioteca è chiamata a documentare in modo imparziale i diversi punti di vista dai quali un tema può essere interpretato anche conflittualmente e senza avanzare, in modo evidente o tra le righe, la preferenza per nessuno.

Quella del bibliotecario è una professione, e la capacità di scindere tra orientamenti personali e comportamento professionale fa parte del bagaglio culturale e professionale, «anzi ne determina il livello di professionalità». Libro è libertà sono indissolubili. La biblioteca non è il luogo di una verità unica, e neanche della verità degli altri, è il luogo dove «il lettore deve costruirsi la propria».
Il diritto alla conoscenza, la libertà di pensiero e la libertà di espressione sono condizioni necessarie per la libertà di accesso all’informazione. «Il bibliotecario è il garante dell’accesso a un’informazione libera», senza restrizioni e non condizionata da ideologie, credi religiosi, pregiudizi razziali, condizioni sociali, ecc… «ovvero da tutto ciò che in qualsiasi misura possa rappresentare un fattore di discriminazione e di censura». Suo compito è inoltre garantire la riservatezza dell’utente e «promuovere, quale strumento di democrazia, l’efficienza del servizio bibliotecario».

Guerrini ritiene doveroso cercare di individuare le ragioni, in una prospettiva storica, sia della mancata consapevolezza da parte del cittadino dei servizi e delle potenzialità informative che le biblioteche mettono a disposizione della comunità, sia del venir meno di quei servizi essenziali verso il cittadino da parte di alcuni enti pubblici, motivati dal continuo costante e inarrestabile taglio dei finanziamenti statali. I tagli dei fondi alla cultura sono intesi e lasciati intendere come «tagli al superfluo». E allora, si chiede Mauro Guerrini: «quando si capirà che investire in biblioteche significa investire per la democrazia, lo sviluppo economico e la qualità della vita?»
L’Italia può, o meglio potrebbe, svolgere un ruolo importante a livello politico generale, come «ponte di cultura» ma anche di pace e di libertà intellettuale, di scambio informativo, di modello di conoscenza, «di incontro e di dialogo fra culture diverse, fra Nord Europa e paesi che si affacciano sul Mediterraneo». L’Italia è un Paese di confine che «subisce l’urto dei flussi migratori», ma «la nostra cultura, le nostre biblioteche possono essere un efficace strumento di pace, di diffusione della comprensione e di reciproco rispetto».

Per Antonella Agnoli, autrice de Le piazze del sapere (Editori Laterza, 2014), in una società caratterizzata da disuguaglianza crescente e dalla scomparsa o dalla privatizzazione di molti servizi sociali, «la biblioteca è diventata un presidio del welfare». Occorre fare della cultura una questione politica centrale per il paese, «chiedere al governo e agli enti locali di tornare a investire sulla scuola e sulla cultura». Tante buone pratiche si affermano a livello locale ma, alla fin fine, tutte o quasi sono costrette a cedere sotto il peso di una politica nazionale che «va in direzione opposta».
Inoltre va sottolineato che scuole, università, biblioteche e altre istituzioni culturali sul territorio «non comunicano tra loro, non agiscono in sinergia», non vanno a costituire un «ambiente globale dove i talenti possano svilupparsi e lavorare».
Le biblioteche pubbliche, per Agnoli, devono essere considerate «un servizio universale, come la scuola o l’ospedale». Ma, soprattutto, dovrebbero agire in sinergia con tutte le altre istituzioni culturali, soprattutto afferenti al sistema scolastico, secondo progetti e programmi coordinati dallo stesso Miur per ovviare a oggettivi e oramai sistemici deficit di apprendimento.
Stando ai dati Ocse-PISA (Programme for International Students Assessment), la capacità degli studenti italiani di leggere e interpretare un testo sono molto inferiori a quelli degli studenti degli altri paesi europei. Il che significa che diventeranno adulti non in grado di «leggere un libro o un giornale» e di comprenderne appieno il significato e, soprattutto, cittadini a rischio nei loro diritti elementari perché «in difficoltà a capire una scheda elettorale, una bolletta della luce o un estratto conto». Gli esempi potrebbero continuare a lungo.

Ne La biblioteca che vorrei (Editrice Bibliografica, 2014) Antonella Agnoli ricorda che ogni giorno in Italia si condividono online 5milioni di foto, Facebook ha 20milioni di iscritti mentre Twitter ne ha 10milioni e afferma che «il prezzo che paghiamo alle meraviglie offerte da iTunes, Youtube, Twitter e Instagram è la rinuncia, del tutto volontaria, ai libri. La fine della lettura». Ma è davvero così? Prima dell’avvento di internet e dei social le persone leggevano davvero molto più di adesso? E in che misura?
Tralasciando i tempi in cui il tasso di analfabetismo era ancora molto elevato e diffuso e osservando l’Italia e gli italiani della seconda metà del Novecento si deve ammettere di trovarsi di fronte un quadro dipinto per la maggiore da radio, calcio e televisione. Internet e i social sono solo il mezzo di distrazione del nuovo millennio che è andato ad aggiungersi o a sostituirsi a quelli imperanti nel secolo scorso. I lettori, quelli forti, che non si lasciavano attrarre dalla televisione nel Novecento non si lasciano sedurre neanche dai nuovi media. I numeri erano pochi allora e lo sono anche oggi. È questo il nocciolo del problema.

Andrea Capaccioni in Le biblioteche dell’Università (Maggioli Editore, 2018) sottolinea come già numerosi stati hanno incrementato gli investimenti per sostenere un più efficiente sistema di istruzione superiore e per fornire ai cittadini un accesso alla formazione lungo tutto l’arco della vita. Gli atenei sono dunque chiamati a svolgere «un ruolo sociale (civic university) sempre più importante» e a garantire livelli qualitativi elevati attraverso «periodiche verifiche dei risultati raggiunti sul piano scientifico e divulgativo». C’è un forte legame tra la biblioteca, l’insegnamento e la ricerca al punto che le biblioteche dell’università sono state definite «specchio dell’educazione superiore». Troppe volte però la biblioteca, invece di «luogo privilegiato della propria missione», viene considerata dagli atenei come mero «strumento da includere tra le attrezzature didattiche».
È tuttavia innegabile che in una società sempre più interessata alla produzione e alla gestione dell’informazione «le università costituiscono un obiettivo strategico per i governi di tutto il mondo» e con esse tutti i luoghi di produzione e conservazione delle informazioni e della cultura, comprese naturalmente le biblioteche.
Si prospetta la necessità di ripensare il ruolo e le funzioni della biblioteca nel nuovo contesto culturale e tecnologico e Capaccioni si chiede se le università siano pronte a gestire il cambiamento. Ma egli stesso rammenta poi che nel mondo è in costante crescita il numero di università che hanno individuato nelle loro biblioteche il luogo ideale per istituire dei learning center «in cui ai tradizionali servizi bibliotecari si affiancano iniziative legate alla didattica e all’information literacy».

Per John Palfrey, autore di BIBLIOTECH (Editrice Bibliografica, 2016), «le biblioteche sono in pericolo perché ci siamo dimenticati quanto esse siano eccezionali». Le biblioteche danno accesso alle abilità e alle conoscenze necessarie per adempiere al nostro ruolo di cittadini attivi. La conoscenza che le biblioteche offrono e l’aiuto che i bibliotecari forniscono «sono la linfa di una repubblica informata e impegnata». Le democrazie possono funzionare soltanto se tutti i cittadini hanno pari accesso all’informazione e alla cultura, in modo tale che possano «essere aiutati a fare buone scelte, siano esse relative alle consultazioni elettorali o ad altri aspetti della vita pubblica». E l’accesso eguale e paritario alla cultura può esserci solo laddove ci siano istituti e istituzioni pubbliche (scuole, atenei, biblioteche, archivi, …) per usufruire dei quali non è importante «quanto denaro si ha in tasca». Nel mondo digitale le biblioteche, come anche gli altri istituti della cultura, devono continuare a ricoprire le funzioni essenziali di accesso libero alla conoscenza, laboratori per lo studio, l’apprendimento e la ricerca, depositi della conoscenza. Esattamente come hanno fatto nel periodo analogico.
Il futuro delle biblioteche è importante per vari motivi, ma per Palfrey in testa alla lista delle priorità vi è fuor di dubbio il loro ruolo nel tutelare in modo certo la conoscenza culturale nel lungo periodo.
Allorquando i nuovi materiali digitalizzati verrano seriamente inclusi nei piani di studio scolastici, «un’iniziativa nazionale fra biblioteche, che renda disponibili documenti di supporto appropriati a tutti i docenti e agli studenti» potrebbe abbattere i costi della transizione per le scuole e permettere agli allievi di avere «un facile accesso e gratuito a strumenti di studio rilevanti».
La scusante che va per la maggiore, in genere, è la mancanza di risorse finanziarie, ma in molti casi le questioni relative all’educazione non hanno molto a che fare con i soldi, quanto piuttosto «con l’amministrazione, la visione, l’impegno».

La mancanza di visione e impegno rischia di continuare a lasciare i cittadini di oggi e di domani in balìa di questo immenso «rumore informazionale di fondo», un vero e proprio «turbine di gossip» che genera una diffusa condizione di alfabetizzati-illetterati storditi «dagli irrilevanti contributi di un pervadente disturbo che li strania da ogni stimolo di autentica realtà». Alfredo Serrai, in La biblioteca tra informazione e cultura (Settegiorni Editore, 2016), indica come unica strada percorribile il progettare «un salvataggio della intellettualità antica racchiusa nelle gloriose biblioteche antiche innestandola nel quadro sistematico di una sintesi culturale che la valorizzi». Naturalmente incorporandola nella storia e nella cultura del passato ma «con le estensioni, gli sviluppi e i rivolgimenti prodotti dalle acquisizioni, tecnologiche e concettuali, del pensiero moderno».
Perché, a rifletterci bene, sottolinea Serrai, il problema di fondo rimane quello del rapporto che si intende avere con il passato. Conservarlo come fossero resti mummificati oppure continuare a «sentirci il ramo più alto di uno stesso grande albero ancora vitale» e verosimilmente prosperoso. Quando le biblioteche si ridurranno a Musei, nel senso di luoghi destinati alla conservazione delle testimonianze, sarà anche la fine della cultura che le biblioteche aveva generate e alimentate.
Chiedersi se spariranno le biblioteche va di pari passo con il domandarsi se continuerà il dissolvimento di quella che si continua a riconoscere ancora come la nostra attuale cultura.

Come conseguenza della aumentata velocità dei mezzi di comunicazione, della immediatezza delle comunicazioni, spesso identiche e ripetitive, si assiste a una generale e uniforme «omologazione concettuale e a un diffuso appiattimento di pensiero». Si percepisce come unicamente reale, «non solo sul piano personale ma anche su quello cosmico», soltanto il presente e l’immediato. Ma se l’informazione non diventa Cultura, ovvero «trama di un ordito molteplice e complesso» che si nutre del passato per affrontare il presente e guardare il futuro, allora è ben poca cosa, avverte Serrai. La biblioteca è e deve sempre porsi come sorgente di cultura e non di informazione o ragguaglio, come sono invece i motori di ricerca molto utilizzati nella navigazione su internet.

La motivazione a documentarsi, a interrogarsi, a immaginare ipotesi risolutive, a indagare e anche semplicemente a leggere può originarsi in «modo intrinseco solo se queste attività vengono comprese come necessarie per capire i mondi con cui si entra in contatto». Se l’intenzione è capire, non è sufficiente porsi di fronte a un testo, bisogna «costruire il proprio testo esplorando altri testi alla ricerca, in primo luogo, di ciò che non si capisce».
Tentare di motivare alla lettura attraverso la proclamazione della sua importanza, l’imposizione della sua realizzazione, la gratificazione del suo essere compiuta si rivelano, pressoché sempre, operazioni non sufficienti a produrre un’abitudine duratura nel ricorrere al documentarsi per conoscere, per capire, perché «non si basano su alcun bisogno del soggetto che dovrebbe compiere l’atto di leggere».
Attualmente in Italia la formazione scolastica «non riesce a trasmettere un approccio metodologico alla ricerca bibliografica» e, soprattutto, «non sempre aiuta a comprendere l’importanza di buoni documenti» per la ricerca e per l’approfondimento «per la vita, per il lavoro, per le scelte importanti».
Tra le convinzioni comuni c’è quasi sempre l’idea, «ben nota ai docenti e ai bibliotecari», che la rete, «o meglio un indifferenziato Google», sia la fonte documentale unica. Naturalmente non è così. È necessario dunque cominciare a trasmettere con fermezza l’idea che l’importante non è solo ottenere delle risposte immediate, indistinte e omogenee, bensì imparare a valutare «quali strumenti potrebbero aiutarci a raggiungere delle informazioni rilevanti, oltre che corrette». E così internet, invece che essere il mezzo attraverso cui si accede, «con approcci specifici, a libri elettronici, articoli scientifici da acquistare, preziosa documentazione di fonte pubblica, documenti open access da consultare, migliaia di cataloghi di biblioteche nel mondo da interrogare,» … diventa un tutto indistinto, in cui il recupero è affidato al «funzionamento di algoritmi non noti o all’uso di pochissime fonti note».
Queste alcune delle importanti indicazioni illustrate da Piero Cavaleri e Laura Ballestra nel Manuale per la didattica della ricerca documentale (Editrice Bibliografica, 2014).
L’obiettivo è quello di rendere gli studenti consapevoli del processo che conduce a «una trasformazione dei dati informativi in reali conoscenza e cultura». Consapevolezze e competenze che il personale docente dovrebbe già aver acquisito.

La lezione di Roberto Tassi del 2015, raccolta da Ugo Fantasia nel testo Luciano Canfora. Per una storia delle biblioteche ed edita da il Mulino nel 2017 è la miglior risposta possibile al quesito di senso sull’esistenza delle biblioteche.
Nel testo si compiono un’analisi e un’indagine sulle origini e sulla storia delle biblioteche, condotte attraverso i testi antichi e i documenti anche meno noti, tali da diventare esse stesse la testimonianza diretta dell’importanza della conservazione. Dal diventare la ragione evidente per la quale tutto il sapere accumulato non deve andare perduto bensì custodito, coltivato, nutrito, incrementato, fortificato.

«Studiare la storia dei testi significa studiare la storia della realtà bibliotecaria.»

Si fa tanto e presto a dire che bisogna avvicinare i giovani alla lettura. E questo è senz’altro un ottimo proposito. Ma gli adulti quanto leggono? Genitori, insegnanti, dirigenti scolastici, al ministero, la classe politica e dirigente in generale quanto leggono e quanto si documentano in realtà?
L’importanza perentoria delle biblioteche, degli archivi, dei musei e di tutti gli istituti della cultura è innegabile. Ciò che invece va accantonata, dismessa, dimenticata è la convinzione dell’inutilità della cultura e della sua scarsa incidenza sul benessere collettivo, anche economico.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

Andrea Capaccioni, Le biblioteche dell’Università. Storia, Modelli, Tendenze, Maggioli Editore (nuova edizione 2018).

Andrea Capaccioni, Le origini della biblioteca contemporanea. Un istituto in cerca d’identità tra vecchio e nuovo continente (secoli XVII-XIX), Editrice Bibliografica, 2017.

Mauro Guerrini, Tiziana Stagni (a cura di), De Bibliothecariis. Persone, Idee, Linguaggi, Firenze University Press, 2017.

Cecilia Cognini, L’azione culturale della biblioteca pubblica, Editrice Bibliografica, 2014.

John Palfrey, Elena Corradini (traduzione di), BIBLIOTECH. Perché le biblioteche sono importanti più che mai nell’era di Google, Editrice Bibliografica, 2016.

Antonella Agnoli, Le piazze del sapere. Biblioteche e libertà, Editori Laterza, 2014.

Antonella Agnoli, La biblioteca che vorrei. Spazi, Creatività, Partecipazione, Editrice Bibliografica, 2014.

Alfredo Serrai, La biblioteca tra informazione e cultura, Settegiorni Editore, 2016.

Piero Cavaleri, Laura Ballestra, Manuale per la didattica della ricerca documentale, Editrice Bibliografica, 2014.

Anna Maria Mandillo – Giovanna Merola (a cura di), Archivi Biblioteche e Innovazione. Atti del Seminario tenuto a Roma il 28 novembre 2006 (Annale 19/2008 dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli fondata da Giulio Carlo Argan), Iacobelli Editore, 2008.

Massimo Accarisi – Massimo Belotti (a cura di), La biblioteca e il suo pubblico. Centralità dell’utente e servizi d’informazione, Editrice Bibliografica, 1994.

Ugo Fantasia (a cura di), Luciano Canfora. Per una storia delle biblioteche (Lezione Roberto Tassi 2015), il Mulino, 2017.


Articolo apparso sul numero 54 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte


LEGGI ANCHE

Chi è lo scrittore più bravo al mondo? (WMI 44) 

La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Quarta: I nuovi modi di fare editoria (WMI 53)

La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Terza: I colossi dell’editoria (WMI 51) 

La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Seconda: Gli editori indipendenti (WMI 49) 

La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Prima: Piccola e Media Editoria (WMI 45) 


 

© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Perché in Italia fa così paura il concorso esterno in associazione mafiosa? Davvero “La Giustizia è Cosa nostra”?

15 sabato Giu 2019

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli, Recensioni

≈ Lascia un commento

Tag

AttilioBolzoni, GiuseppeDAvanzo, giustizia, GlifoEdizioni, LaGiustiziaèCosanostra, mafia, recensione, saggio

Il 20 aprile 2015 Panorama pubblica online un articolo a firma Maurizio Tortorella titolato Concorso esterno in associazione mafiosa: il reato che “non c’è”. L’autore entra nel merito della discussione che, a suo dire, va avanti in Italia da ben 30 anni su questo presunto reato che in realtà nel Codice penale «non esiste».

Tale impasse, secondo la redazione di diritto.it e non solo, sarebbe stata superata già a partire dall’ottobre del 1994, allorquando una sentenza delle Sezioni Unite affermava la «configurabilità del concorso esterno nel reato di associazione mafiosa per quei soggetti che, sebbene non facciano parte del sodalizio criminoso, forniscano occasionalmente un contributo all’ente delittuoso», annullando in questo modo tutte le obiezioni mosse all’esecuzione dei dettami dell’art. 416 c.p. per cui necessita il far parte in maniera stabile dell’organizzazione mafiosa.

Nel libro La Giustizia è Cosa nostra di Attilio Bolzoni e Giuseppe D’Avanzo (Glifo Edizioni, 2018), si parla in maniera approfondita della sentenza Demitry della Corte di Cassazione a sezioni unite del 5 ottobre 1994, «proprio l’anno in cui la nozione di “concorso esterno” in associazione mafiosa ha cominciato a prendere una forma definita».
Demitry era un avvocato indagato per concorso esterno e colpito da un’ordinanza di custodia cautelare con l’accusa di aver svolto «attività di intermediazione, tra un giudice e un capomafia di rilievo».
Sono poi seguite a ruota le incriminazioni per concorso esterno in associazione mafiosa «di alcuni magistrati, relativamente a ipotesi di processi aggiustati».

Nel già citato articolo di Panorama, l’autore sottolinea come fosse stato Giovanni Falcone nel 1987 a evidenziare la necessità «di una ‘tipizzazione’ capace di reprimere le condotte grigie» e di come i magistrati hanno continuato a fare «un uso pieno e disinvolto del reato-che-non-esiste».

In realtà basta una scorsa veloce ai risultati forniti dal motore di ricerca online per rendersi conto che il fenomeno è molto più esteso e preoccupante di come lo si vuol dipingere.

Un ex pubblico ministero del Tribunale di Trani, ora giudice del Tribunale di Roma, e un suo collega pm a Roma, in precedenza gip a Trani e magistrato all’ispettorato del Ministero della Giustizia, sono stati arrestati con l’accusa di «associazione per delinquere, corruzione in atti giudiziari e falso». Arrestato anche un ispettore di polizia in servizio al commissariato di Corato (Bari). Misura interdittiva (al momento dell’articolo in corso di notifica) per un imprenditore di Firenze. Interdetti dalla professione per un anno due avvocati del Foro di Trani. Alcuni degli accusati rispondono di «associazione per delinquere finalizzata a una serie di delitti contro la pubblica amministrazione, corruzione in atti giudiziari, falso ideologico e materiale», altri di «millantato credito, calunnia e corruzione in atti giudiziari».

Agli arresti domiciliari un magistrato del Tribunale di Salerno, poi di Reggio Calabria, che si sarebbe adoperato per «favorire imprenditori ai quali era legato da consolidati rapporti di amicizia, trattando cause riferibili a tali amici con esito favorevole» e «ricevendo dagli imprenditori utilità varie». Ai domiciliari un funzionario giudiziario. Divieto di dimora per quattro imprenditori, obbligo di dimora per un consulente fiscale.

Il collaboratore di giustizia Antonio Valerio «ha parlato di presunti intrecci giudiziari-massonici su cui farebbe affidamento la ‘ndrangheta per ‘aggiustare’ i processi in Corte di Cassazione». Egli stesso sarebbe stato avvicinato, mentre era nella “gabbia di sicurezza” dell’aula-bunker di Reggio Emilia, «da un avvocato che gli avrebbe detto molto esplicitamente che nei giudizi di merito di Aemilia sarebbero scaturite diverse condanne, ma che, grazie alle sue conoscenze, avrebbe potuto aggiustare il processo in Cassazione».

La notizia è del febbraio 2018. Arrestate 15 persone, tra cui l’ex pm di Siracusa, due avvocati e due imprenditori. Le accuse: «frode fiscale, reati contro la pubblica amministrazione e corruzione in atti giudiziari».

A darne inizialmente notizia è stato Il Resto del Carlino, ma le conferme sono poi arrivate anche da «ambienti investigativi». Il giudice potrebbe aver «aggiustato i processi dietro il pagamento di somme di denaro, veicolate attraverso professionisti compiacenti».

Anche il presidente del Tar Basilicata tra i magistrati che sarebbero stati in contatto con l’imprenditore arrestato insieme all’avvocato.

Gli esempi, purtroppo, abbondano da Nord a Sud della penisola. A riportarli è quasi sempre la stampa locale, tranne i casi più “eclatanti”, ovvero quelli che vedono coinvolti nomi e volti noti. Ed è allora che si fa strada il paradosso più becero. Si cerca di non associare tali comportamenti scorretti e criminali con le associazioni malavitose, come se queste fossero delle entità astratte e certamente chiuse in se stesse e non invece riconducibili a tutta una serie di azioni, comportamenti e scelte che vanno dal crimine di strada alla corruzione nei pubblici uffici.
Perché spaventa così tanto parlare di concorso esterno in associazione mafiosa? Perché addirittura si fa fatica ad ammetterne l’esistenza trincerandosi dietro cavilli e formalità legislative?

Attilio Bolzoni e Giuseppe D’Avanzo ne La Giustizia è Cosa nostra hanno parlato in maniera approfondita dei processi aggiustati, del ruolo che svolgono taluni avvocati, delle azioni di alcuni magistrati o giudici e ricostruiscono nel dettaglio alcune storie di «giustizia aggiustata». Un libro edito a dicembre 2018 da Glifo Edizioni ma uscito in prima edizione con Arnoldo Mondadori nel 1995 e passato inspiegabilmente in sordina, sia allora che oggi.

Negando o tentando di ridimensionare il fenomeno si pensa forse di riuscire a nasconderlo, lo si fa anche per l’esistenza delle stesse organizzazioni mafiose. Spiazzano e indignano le parole dell’ex magistrato ed ex presidente del Senato Pietro Grasso allorquando scrive: «Se Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tanti altri avessero gettato la spugna, se si fossero piegati alla legittima frustrazione, avrebbe vinto chi non voleva cambiare il nostro Paese e sconfiggere la mafia. Per fortuna hanno vinto loro, abbiamo vinto noi».

Hanno vinto loro? Abbiamo vinto noi? La mafia è stata sconfitta?

Nel libro Le Trattative (Imprimatur, 2018), scritto a quattro mani con il giornalista Pietro Orsatti, Antonio Ingroia afferma: «Non esito a definire Grasso la più grande delusione professionale della mia carriera. Tutte le indagini e le notizie di reato considerate politicamente scomode finivano, in un modo o nell’altro, nel cestino della procura, e la classe politica, di destra come di sinistra, gliene è sempre stata grata».
Si può anche scegliere di vedere, credere e tentare di far credere ciò che meglio piace e non ciò che realmente è. Affermare che la mafia non esiste come non esiste il reato di concorso esterno in associazione mafiosa con tale convinzione da riuscire anche a convincere gli interlocutori. Si può fare e lo si fa. Ma la realtà, beh quella è un’altra cosa.

Del resto ognuno sceglie di credere in ciò che è più in linea con i propri principi e ideali, oppure con la mancanza di questi.
Nel secondo libro della trilogia Silo (Wool, Shift, Dust) edito in Italia da Fabbri Editore nel 2014, Hugh Howey in un dialogo tra un giovane aspirante politico e un senatore ormai navigato del Congresso americano fa dire a quest’ultimo: «La negazione è l’ingrediente segreto da queste parti. È il sapore che tiene insieme tutti gli altri. Ecco cosa dico sempre ai nuovi eletti: la verità salterà fuori – salta sempre fuori – ma sarà mescolata a tutte le bugie. Devi negare ogni menzogna e ogni verità con lo stesso vigore. Lascia che siano i siti web e gli spacconi che frignano di continuo sulle malefatte del governo a confondere il pubblico al posto tuo».

Molto più realistico l’intervento di Alfonso Sabella, magistrato già sostituto procuratore nel pool antimafia di Palermo, nel libro di Bolzoni e D’Avanzo. Egli, pur riconoscendo l’immenso lavoro svolto dal team Falcone e Borsellino e da tanti suoi onesti colleghi, sottolinea come poi ci sia stato «un lento ritorno al passato» e di come oggi si è costretti ad assistere alla celebrazione e all’auto-celebrazione di «inutili professionisti dell’antimafia» che «sbucano come funghi nei talk show e nelle stanze del potere».

In un lungo articolo per penalecontemporaneo.it, rivista online di Diritto edita in collaborazione con le Università Degli Studi di Milano e Bocconi, l’avvocato e magistrato Piergiorgio Morosini entra nel vivo della discussione sulla legittimità o meno del reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
«Non condivido l’ostentato scetticismo verso l’istituto del “concorso esterno”. Soprattutto lo “scetticismo” gridato da noti esponenti del mondo politico. […] A mio avviso, è proprio grazie al concorso esterno e all’investimento di fior di risorse investigative, che molte procure hanno potuto, finalmente, esercitare un controllo di legalità più incisivo anche sul versante antimafia».

È con queste inchieste sul concorso esterno che la magistratura «ha dimostrato di non volersi fermare sulla soglia del potere». In effetti, il concorso esterno consente di indagare più efficacemente e agevolmente «sulle alleanze ombra fra clan e classe dirigente», riuscendo così a far luce «sul ‘capitale sociale’ delle cosche, in cui ritroviamo i complici nelle istituzioni, nella società, nel circuito economico-finanziario».
I punti critici della materia non possono essere inquadrati in «una inesistente prospettiva in cui si confrontano “il metodo Falcone” e il “metodo Carnevale”, secondo una sbrigativa proposizione. […] Certe affermazioni, destinate a un pubblico di non addetti ai lavori, risultano giuridicamente inutili e, per lo più, foriere di polemiche che incrinano la credibilità delle istituzioni giudiziarie».

La seconda parte di La Giustizia è Cosa Nostra di Bolzoni e D’Avanzo è interamente dedicata al giudice Corrado Carnevale e alle centinaia di processi di mafia, camorra e ‘ndrangheta cancellati dalla I sezione penale della Cassazione.
Relativamente a ipotesi di processi aggiustati, l’incriminazione di Corrado Carnevale si risolse in una condanna in Corte d’Appello nel 2001, poi annullata senza rinvio in Corte di Cassazione nel 2002. Già negli anni Ottanta «Carnevale stava per essere messo sotto procedimento disciplinare da parte del ministro della Giustizia Rognoni, cosa che non avvenne perché era intervenuto personalmente il presidente Andreotti dicendo che Carnevale non si tocca».

Si legge nel prologo del libro: «L’avvocato può avere un ruolo importante per “aggiustare” i processi ma, com’è ovvio, è il giudice che è tutto. […] Se è un giudice popolare, uno di quei cittadini estratti a sorte per far parte delle Corti d’Assise o d’Appello, allora è un gioco da ragazzi “addomesticarlo”. […] Se il giudice è massone, il lavoro viene meglio. Non si sta a perdere troppo tempo. Per questo, anche per questo, capi famiglia e capi mandamento si sono iscritti alla massoneria».

Nel corso di una video-intervista rilasciata al giornalista Sandro Ruotolo e pubblicata sul canale Youtube di Fanpage.it, l’ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Giuliano Di Bernardo parla proprio dei legami tra massoneria, politica e mafia.
Il Grande Oriente d’Italia è la maggiore organizzazione massonica in Italia con oltre 23mila fratelli divisi in 850 logge e Di Bernardo ne è stato Gran Maestro per un breve periodo, tra il 1990 e il 1993, prima di decidere di dimettersi proprio a causa dell’ambiente compromesso ivi trovato.
Descrivendo la situazione di Calabria e Sicilia afferma: «Ettore Loizzo dichiara che non c’è solo infiltrazione della n’drangheta nelle logge. Ma che, addirittura, la ‘ndrangheta controlla le logge. […] Io avevo saputo più dei siciliani che dei calabresi».
Ettore Loizzo è stato «Gran Maestro Onorario e reggente, con Eraldo Ghinoi, del Grande Oriente d’Italia nel 1993».

Ancora nel prologo del libro di Bolzoni e D’Avanzo sono riportate le parole di Leonardo Messina, collaboratore di giustizia: «È nella massoneria che si possono avere contatti totali con le istituzioni, con gli imprenditori con gli uomini che amministrano il potere, il potere diverso da quello di Cosa nostra».
Ma sono solo i mafiosi a chiedere favori?
«Quando la cosa è fatta, è logico che il giudice chieda qualche favore».
Ma sono solo i giudici, o parte di essi, a chiedere qualche cosa in cambio del favore fatto?

“Uno scandalo della giustizia italiana”, così viene indicato dalla redazione de Il Foglio l’iter giudiziario che ha visto coinvolto l’ex dirigente del Sisde (Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, agenzia di intelligenza fondata con lo scopo dichiarato di protezione degli interessi politici, militari, economici, scientifici e industriali dell’Italia).

Il 25 febbraio 2006 la Corte di appello di Palermo aveva emesso sentenza di condanna per Contrada per «concorso esterno in associazione mafiosa», sentenza diventata irrevocabile il 10 maggio 2007. Nell’aprile del 2015 la Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo giudica la sentenza illegittima in quanto considera l’accusa «non sufficientemente chiara e prevedibile per Contrada ai tempi in cui si sono svolti gli eventi in questione». In buona sostanza, all’epoca dei fatti (ovvero gli anni Ottanta) il reato di concorso in associazione mafiosa «non era chiaro né prevedibile» e per questo motivo la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia a risarcire il poliziotto.

Marcello Dell’Utri nella sentenza di I grado che lo condanna a nove anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa è considerato «l’ambasciatore, il mediatore degli interessi della mafia nel grande impero economico-finanziario lombardo, il tramite tra Cosa Nostra e uno degli imprenditori ai quali Cosa Nostra si sarebbe affidata per investire, riciclare e far fruttare il proprio denaro: Silvio Berlusconi».

È su Contrada, Dell’Utri e su gli altri nomi e volti noti che si divide l’opinione di stampa e pubblico. Ma il tema o problema del concorso esterno in associazione mafiosa non è personale o soggettivo, riguarda atteggiamenti, comportamenti e azioni che appartengono a una cultura sbagliata ma radicata al punto che in tanti faticano a riconoscerla come tale. Consuetudine che diventa abitudine, normalità. Un abisso della società che si nutre e cresce attingendo dal marcio e mascherandosi di buono. Al punto da creare una sorta di realtà parallela, invisibile ai più ma che condiziona, direttamente o indirettamente, l’esistenza di tutti e di ognuno. Quello che Massimo Carminati ha definito “il Mondo di mezzo”, «in cui tutti si incontrano e dici cazzo come è possibile […] il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si incontra […] anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno».

È un sistema di scambio. Un do ut des dove richiedenti ed esecutori vivono un perenne scambio di ruoli, favori e interessi. Il Mondo di mezzo non è solo quello di cui parla e vissuto da Massimo Carminati, è tutta la zona grigia dove si incontrano persone che appartengono a qualsiasi ceto sociale, per così dire, e svolgono qualsiasi lavoro, in qualunque parte dell’Italia o del mondo. Braccio armato, manovalanza, criminali, uomini che si appellano d’onore, colletti bianchi, commercialisti, medici, avvocati, funzionari, ingegneri, architetti, commercianti, imprenditori, finanzieri, banchieri e bancari, poliziotti, magistrati, giudici, agenti dei servizi, politici, militari… un vero e proprio esercito di persone grigie che danno origine e mantengono in vita un sistema borderline dai contorni non ben definiti, ed è proprio su questa incertezza che si vuol far perno per allontanare da sé lo spettro del concorso esterno in associazione mafiosa. Perché lo sanno tutti che questa non è una buona cosa, anche laddove dovesse mancare una legge scritta a inquadrarla come crimine mafioso.

Durante il seminario Antimafia italo-argentino, tenutosi a marzo 2019 presso la Camera dei Deputati della Repubblica Argentina, il pm Antonino Di Matteo ha evidenziato i caratteri peculiari della mafia italiana, in particolare di Cosa nostra, come riportato in un articolo pubblicato su antimafiaduemila.com a firma di Giorgio Bongiovanni. Di Matteo ha ricordato anche le motivazioni della sentenza Andreotti, «in cui si certifica come il sette volte presidente del consiglio (il cui reato è stato prescritto) abbia avuto rapporti organici con Cosa nostra almeno fino al 1980», e quella «definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa contro l’ex senatore, fondatore di Forza Italia con Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri». Sottolineando inoltre come «il potere di Cosa nostra derivi proprio dai rapporti con l’esterno, con le istituzioni deviate ed i grandi poteri».

Secondo quanto riportato dai collaboratori di giustizia, Salvatore Riina diceva sempre: «Se noi non avessimo avuto il rapporto con la politica noi eravamo solo una banda di sciacalli e lo Stato con un’azione di normale repressione ci avrebbe schiacciato». Sottolinea il pm Di Matteo che le istituzioni, in Italia ma non solo, devono comprendere che «per poter sconfiggere le mafie non è sufficiente reprimere negli aspetti più violenti ma bisognerebbe recidere ogni possibilità di rapporto con i poteri politici e istituzionali».
Riguardo il reato di concorso esterno, che deve necessariamente essere ricondotto alla categoria dei reati di durata, Nino Di Matteo precisa che «al di là dell’evoluzione giurisprudenziale è la decisiva importanza di colpire adeguatamente quelle manifestazioni criminali che, pur non apparendo immediatamente riconducibili all’associazione mafiosa, in realtà costituiscono la chiave d’accesso che le mafie utilizzano per condizionare a loro favore la politica e le attività di tutte le pubbliche amministrazioni».

«Mafia e corruzione, ne sono convinto, sono due facce della stessa medaglia: aspetti operativi distinti, ma non diversi, di un sistema criminale integrato.»

Nei commenti ai tanti articoli letti sull’argomento, tratti da testate giornalistiche nazionali e locali, di ogni colore politico possibile, ricorre una frase che fa molto riflettere: “uno o è mafioso o non lo è, che significa concorso esterno in associazione mafiosa?”. Al di là della semplicità di un simile pensiero, che può nascondere molta ingenuità oppure molta malizia, si evince il grande problema di fondo, che è culturale prima ancora che giuridico. Sono gli altri a essere dei criminali, dei mafiosi, dei delinquenti, anche se io chiedo un favore oppure lo faccio, se prendo una bustarella o se la passo a qualcuno, se infrango le regole, le leggi, i regolamenti… non sono certo un criminale, un delinquente o un mafioso. I mafiosi, quelli veri, quelli pungiuti lo sono.
La legge andrà sicuramente migliorata, meglio definita, ma questo per certo non basterà a risolvere il problema o arginarlo.
Il procuratore Franco Roberti, nella prefazione a Guardare la mafia negli occhi (Rizzoli 2017) di Elia Minari, scrive che «la forza delle mafie è fuori dalle mafie». Per Minari riuscire a contrastare la criminalità organizzata significa innanzitutto «scalfire la “mentalità mafiosa” partendo da ciascuno di noi, senza delegare agli altri, senza aspettare che arrivino leggi migliori, perché di certo non diventeremo onesti per decreto legge».


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Glifo Edizioni per la disponibilità e il materiale


LEGGI ANCHE

La vera lotta alla mafia passa anche attraverso una memoria storica che racconti la verità. “Le Trattative” di Antonio Ingroia e Pietro Orsatti (Imprimatur, 2018) 

Il maxiprocesso di Palermo ha davvero messo in ginocchio la mafia? Intervista ad Antonio Calabrò 

 “Il Patto sporco” di Nino Di Matteo e Saverio Lodato (Chiarelettere, 2018) 

Quando inizieremo a fare sul serio contro le mafie? “L’inganno della mafia” di Gratteri e Nicaso (RaiEri, 2017) 

Una lunga e scusa vicenda di sangue e potere: “Storia segreta della ‘Ndrangheta” di Gratteri e Nicaso (Mondadori, 2018)   

Non diventeremo onesti per decreto legge: “Guardare la mafia negli occhi” di Elia Minari (Rizzoli, 2017) 

Il dossier “UNDER. Giovani mafie periferie” curato da Danilo Chirico e Marco Carta per illuminare il buio dei suburbi di vita (Giulio Perrone Editore, 2017) 

“Santa Mafia. Da Palermo a Duisburg: sangue, affari, politica e devozione” (Nuovi Mondi Edizioni, 2009). Intervista a Petra Reski 


 

© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Quarta: I nuovi modi di fare Editoria

16 sabato Mar 2019

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

≈ Lascia un commento

Tag

WMI

La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Analisi dei nuovi modi di fare editoria. Pubblicazioni a pagamento, auto-pubblicazioni, scrittura social. Nuova e vecchia editoria a confronto.

 

 

Sul sito dell’Associazione Italiana Editori (AIE) si possono facilmente trovare tutte le indicazioni sulle procedure e sulle regole da seguire per diventare un editore. Viene segnalato inoltre quanto complesso sia il cumulo di norme che regolano l’esercizio dell’attività editoriale e sottolineati gli obblighi che ciascuno deve rispettare nel corso della propria attività.
Gli editori sono, in buona sostanza, degli imprenditori che commercializzano libri o periodici. Imprenditori particolari però, perché nelle loro mani passano la cultura, l’informazione, l’educazione.
Oltre l’aspetto commerciale quindi non va mai dimenticato il carattere peculiare di queste aziende chiamate case editrici.

Nell’anno 2017 sono state quasi 5mila le case editrici che hanno pubblicato almeno un titolo, ovvero un’opera letteraria. Eppure tutte queste imprese sembrano non bastare o non soddisfare le richieste dell’utenza. Di chi vuol pubblicare non di chi vuol leggere, si badi bene. Ecco allora spiegato uno dei motivi del sorgere di sempre nuovi modi di fare editoria.

Ma cosa si intende esattamente con nuovi modi di fare editoria? È bene partire da una definizione di quello “vecchio”.

In un’intervista di Ada Gigli Marchetti pubblicata sul Bollettino di storia dell’editoria in Italia, Franco Angeli sottolineava che la sua è nata come una «impresa familiare che trae finanziamenti dal prodotto che commercializza. L’editoria basa la sua prosperità sul prodotto che riesce a diffondere. E si tratta di un prodotto che paga a posteriori con i diritti d’autore». L’editoria quindi, nella visione che aveva Franco Angeli, non ha bisogno di un grosso investimento di capitali iniziale, se non per quanto riguarda le librerie, tuttavia «ha un solo vero problema, quello di azzeccare i titoli giusti e di mettere insieme un catalogo adeguato».

Quello che conta insomma è la scelta dei titoli giusti e la formazione di un catalogo adeguato. E come si fa? Lo si impara con la formazione e la pratica. Il rovescio della medaglia vede una sempre più massiccia diffusione di siti, piattaforme, start up, società, aziende e via discorrendo che sembrano voler mescolare le carte e anche le regole di questo “gioco” chiamato editoria.

Dapprima ci hanno provato quelli che si fanno chiamare egualmente editori, lasciando sottintendere di esserlo, i quali però non essendo in grado di effettuare una accurata e lungimirante scelta di titoli e, di conseguenza, di un valido catalogo che è, in buona sostanza, il biglietto da visita e al contempo la credenziale maggiore per una casa editrice, accettano di pubblicare chiunque e in qualunque momento. A volte senza neanche stare troppo a sindacare sulla forma e sul contenuto dei titoli pubblicati. Una chimera per scrittori e aspiranti tali? In genere sì. Il trucco c’è e viene prontamente svelato al momento della presentazione del conto. Agli “editori a pagamento” non andrebbe permesso l’uso di detto appellativo. Sono tipografi o stampatori, insomma operatori del settore editoriale ma non certo editori.

Serviva davvero poco affinché qualcuno iniziasse a pensare che invece di pagare un presunto tale editore che comunque non garantiva adeguati editing, promozione e diffusione, si poteva anche eliminare del tutto questa superflua figura di intermediario e pubblicarsi da soli i propri libri. In tipografie o stamperie fisiche o digitali. Ecco allora che nasce il self publishing. Il punto però è che, se non si ha accesso alla distribuzione, se non si ha un grande numero di lettori, se non ci si affida comunque a qualche professionista della promozione, il risultato che si ottiene è più o meno lo stesso della pubblicazione a pagamento. In più va detto che sono davvero pochi i titoli auto-pubblicati che meritano o meriterebbero un’adeguata pubblicazione editoriale. Lo stesso vale per le pubblicazioni con i cosiddetti editori a pagamento.

Nel 2016 gli editori italiani hanno pubblicato 61.188 titoli, per un totale di copie stampate di 128.825. A questi numeri vanno aggiunti i titoli pubblicati con editori a pagamento e quelli auto-pubblicati. E vanno aggiunti ancora tutti gli e-book. Sempre nel 2016 la quota di lettori italiani è risultata essere ancora in calo. Rispetto al totale di potenziali lettori (ovvero tutti i cittadini al disopra dei sei anni) solo il 40.5% ha dichiarato di aver letto almeno un libro in un anno. Presumibilmente tra essi ci sono anche molti degli aspiranti scrittori. Una situazione a dir poco paradossale.

Considerando la mole degli aspiranti scrittori in Italia il numero di lettori dovrebbe essere altissimo, e si parla di quelli definiti forti, che hanno letto molto più di un solo libro in un anno. Non si può davvero pensare e per lungo tempo di poter scrivere libri senza essere un lettore non forte ma fortissimo. Anche e per certi versi soprattutto per coloro i quali si professano sostenitori del progresso e dell’innovazione, in campo editoriale, che osteggiano il predominio degli arcaici colossi editoriali, che criticano il lavoro dei piccoli e medi editori, che non condividono la missione dell’editoria indipendente. Di coloro insomma che sembrano fare affidamento esclusivo sui nuovi e innovativi mezzi di socializzazione e condivisione. Essere innovativi, stare al passo con i tempi, ambire a una rivoluzione culturale non preclude affatto le competenze e le conoscenze che permangono e rimangono elemento necessario e imprescindibile.

Le piattaforme di social publishing consentono di scrivere e condividere i propri scritti, perlopiù brevi storie. Una sorta di blog collettivi cui partecipano coloro che scrivono e coloro che leggono, o dovrebbero leggere. Affinché il tutto funzioni, si afferma essere molto di aiuto la lunghezza breve delle storie. Così, senza troppo impegno, chiunque abbia cinque minuti liberi li può passare leggendo la short story. Che poi, alla fin fine, è quanto accade nei social network per così dire “tradizionali” allorquando non si condividono o non si leggono articoli e link vari provenienti da altri siti ma quelli scritti sulla timeline, i post personali. Il rischio infatti è che le caratteristiche e la qualità di quanto scritto sia in realtà molto livellata per entrambe le tipologie di piattaforma, quella del social network e quella del social publishing.

Va da sé che ognuno può scrivere ciò che gli pare, nei limiti della legge e del decoro, ovunque gli pare, anche su un papiro se è ciò che vuole, ma parlare di scrittura di un libro, di pubblicazione di un’opera letteraria, di essere o diventare uno scrittore è un’altra cosa. Che questo sia chiaro.

«Se numericamente c’è molta concorrenza, nei fatti il livello medio dei manoscritti inviati e il livello delle capacità degli aspiranti scrittori è talmente basso, il livello di totale inconsapevolezza rispetto a quel che viene scritto e impunemente inviato è così tragicamente alto, che se siete cerebralmente normodotati, lettori abituali, e fate esercizio di scrittura creativa da qualche tempo, per voi sarà quasi impossibile non riuscire a pubblicare», con un «vero piccolo, medio o grande editore». A dirlo è Marco Cubeddu, caporedattore della rivista letteraria Nuovi Argomenti in un articolo pubblicato su Linkiesta.it.
È presumibile pensare che i tanti, tantissimi aspiranti scrittori i cui manoscritti vengono dichiarati illeggibili o non pubblicabili trasmigrino prontamene, insieme alle proprie opere, in Rete, sui social, sulle piattaforme di scrittura social, su quelle di auto-pubblicazione e via discorrendo, ma nella sostanza, ovvero nella qualità degli scritti, ancora nulla è cambiato.

Cubeddu riporta un esempio che lui stesso ricorda essere banale e abusatissimo ma che funziona, perché rispecchia la realtà. «Statisticamente, la maggior parte delle volte, se sentite rumore di zoccoli, si tratta di un cavallo. Rarissimamente di una zebra. Cavallo=testi illeggibili, Zebra=testi leggibili, interessanti, pubblicabili…» e conclude affermando che «ci vuole una grande autostima per sentirsi zebre». Oppure vanagloria, allorquando ci si sente delle zebre senza aver ritenuto necessario e doveroso leggere, leggere e ancora leggere libri, senza essersi immersi nel mondo della Letteratura, della Cultura, senza essersi esercitati a scrivere, a riscrivere, a rivedere…

Da uno sguardo sommario in Rete emerge che tutti questi nuovi modi di fare editoria, lanciati nel web come importanti novità, tanto attesi affrancamenti dalla vecchia e superata editoria tradizionale, sono poi, pian piano, tutti scemati. Non che gli aspiranti abbiano smesso di scrivere o di cercare un modo alternativo per diffondere le proprie opere letterarie. Solamente che, forse, i due modi di fare editoria non sono né complementari né alternativi, sono proprio due cose diverse e così vanno viste oltre che pensate.


Articolo apparso sul numero 53 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte


LEGGI ANCHE

La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Terza: I colossi dell’Editoria 

La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Seconda: Gli editori indipendenti 

La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Prima: Piccola e Media Editoria 

Chi è lo scrittore più bravo al mondo? 


 

© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Ancora minacce al Movimento Agende Rosse – sezione Modena e Brescello. Le attiviste non si arrendono. Che la loro lotta diventi di tutti gli italiani

10 venerdì Ago 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

≈ Lascia un commento

Tag

articolo, mafia

Il 22 luglio scorso attiviste del Movimento antimafia Agende Rosse – sezione di Modena e Brescello allestiscono un banchetto a Serramazzoni nell’ambito del tour Donne contro la mafia–19luglio1992 che vede numerose tappe, oltre a quella nella cittadina emiliana.

Il fomat vede la presenza di donne, impegnate a vario titolo nella lotto contro le mafie, che si prefiggono un unico grande obiettivo: opporsi fermamente a un sistema mafioso che da decenni si è radicato anche nel Nord Italia.

L’incontro-banchetto del 22 luglio prevedeva la trasmissione dei discorsi del 19 luglio, registrati a Palermo in occasione della commemorazione della strage di via D’Amelio, e l’affissionedi striscioni e altro materiale inerente il processo Aemilia.

Secondo quanto riportato anche dalla Gazzetta di Modena, durante la manifestazione pacifica e informativo-divulgativa, alcuni uomini si sono avvicinati al banchetto e, mantenendo sguardi fissi e minacciosi, hanno tentato di dissuadere le attiviste con plateali e inequivocabili gesti dellamano, come a voler dire: “finitela qui e andatevene via subito”. Una foto sarebbe stata scattata, come fosse una segnalazione di schedatura e poi il pedinamento di una delle tre attiviste allorquando si è allontanata, da sola, dal luogo del banchetto.

Sabrina Natali, una delle attiviste che da anni ormai segue l’inchiesta e i dibattimenti in aula del processo Aemilia contro le infiltrazioni della ‘ndrangheta nel Nord Italia, sul suo profilo social ha ringraziato tutti coloro che le hanno mostrato solidarietà. Ha ribadito che “questi segnali di fastidio” sono e restano tali e non riusciranno a intimorire né tantomeno fermare il Movimento, il tour e il lavoro tutto che portano avanti. Fondamentale però è la rete, che deve esserci, e che deve fare quadrato intorno a loro, come a tutti gli attivisti o cronisti minacciati.

Una rete fatta di persone, di parole e di azioni concrete. Una rete che deve, o meglio dovrebbe, passare anche attraverso l’informazione, i media. Perché quanto sta accadendo in Emilia Romagna non è molto dissimile da quanto accade in Calabria, in Puglia, in Campania, in Sicilia, in Lombardia, in Veneto… e tentare, inutilmente, di catalogare i fatti come fraintendimenti, le azioni come visionarie e paranoiche immagini di pochi, le inchieste e i processi come una persecuzione giudiziaria, di fatto, non cambierà la realtà delle cose e non renderà l’Emilia Romagna e l’Italia intera un posto migliore solo perché, per non urtare interessi, turismo e commercio, si sceglie e si preferisce non parlare, non vedere, non capire. O meglio fingere di non vedere e non capire.

Al banchetto era presente anche Catia Silva, ex-consigliere al comune di Brescello, primo nel Nord Italia a essere stato sciolto per mafia, più volte oggetto di minaccia.

La tempestiva comunicazione alle forze dell’ordine di quanto accaduto durante il banchetto del 22 luglio ha reso possibile l‘immediato inizio delle attività investigative. Intanto le attiviste dichiarano di non avere intenzione alcuna di arretrare e confermano un nuovo incontro a Serramazzoni per il 19 agosto e la presenza costante in aula alla ripresa delle udienze per il processo Aemilia a partire dal 6 settembre.

Ecco perché la rete della comunità deve farsi ancora più forte e folta e quella dei media ancora più luminosa, affinché una accecante luce abbagli anche l’ombra di tutta quella zona grigia che vorrebbe e chiede invece profilo basso e silenzio per continuare ad agire indisturbata.


Articolo originale qui


LEGGI ANCHE

Ci sono verità che si vorrebbe tenere nascoste per sempre eppure “Quel terribile ’92″… 

Non diventeremo onesti per decreto legge: “Guardare la mafia negli occhi” di Elia Minari (Rizzoli, 2017) 

Grande raccordo criminale. Intervista agli autori 

Quando inizieremo a fare sul serio contro le mafie? “L’inganno della mafia” di Gratteri e Nicaso (RaiEri, 2017) 


 

© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Segnalazione Videocontest Urban Nature: WWF e Videomakeroftheyear insieme per la biodiversità

25 mercoledì Lug 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

≈ Lascia un commento


LEGGI ANCHE

Il futuro della comunicazione sono i video? Nasce a Milano il Festival #videomakeroftheyear 


 

© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Ci sono verità che si vorrebbe tenere nascoste per sempre eppure “Quel terribile ’92”…

01 domenica Lug 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

≈ Lascia un commento

Tag

AaronPettinari, Imprimatur, Italia, mafia, PietroOrsatti, Quelterribile92

Ci sono errori che non si vorrebbe mai ammettere di aver commesso e verità che si vorrebbe tenere per sempre nascoste. Quella su quanto accaduto in Italia durante la Prima Repubblica e che ha direttamente condotto agli attentati del 1992, per esempio, è una di queste. Perché? La domanda è tutt’altro che retorica e la risposta affatto scontata.

Eppure uno dei modi migliori per evitare di incorrere negli stessi errori è mantenere quanto più vivi possibile la memoria storica e il racconto veritiero di quanto accaduto.

In occasione dei venticinque anni dagli attentati del ’92, Imprimatur pubblica il libro, raccolta di venticinque testimonianze, di Aaron Pettinari e Pietro Orsatti, che si apre al lettore con una citazione di José Saramago.

«Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non meritiamo di esistere».

Parole che hanno un significato profondo. La memoria non si costruisce, o meglio non si dovrebbe costruire, con il semplice racconto di una cosiddetta versione ufficiale dei fatti accaduti. No, la sua costruzione dovrebbe essere un procedimento molto più complesso, invece tutto quello che non è gradito al mainstream semplicemente sembra scomparire oppure diventare una visione complottistica.

Nel suo testo sulla Shock Economy Naomi Klein parla in maniera dettagliata della privazione sensoriale, ovvero la tecnica largamente utilizzata per indurre monotonia, che causa la perdita di capacità critica e crea il vuoto mentale in maniera tale che la gran parte delle persone non tenteranno nemmeno di analizzare criticamente i fatti loro raccontati, prendendo sempre e comunque per buona la versione loro narrata. Che, intendiamoci, non è detto che sia sempre falsa o falsata. Il punto è la capacità critica che ognuno dovrebbe avere, anche difronte alla verità.

Orsatti e Pettinari hanno raccolto il racconto di venticinque testimoni appartenenti al mondo del giornalismo, dello spettacolo, della musica, del teatro… e ognuno di loro ha descritto quel terribile ’92 dal suo punto di vista. Il quadro che emerge è abbastanza preoccupante: per le inchieste arenatesi, per i ripetuti depistaggi, per tutto ciò su cui non si è voluto indagare, che non si è voluto conoscere, preferendo invece abbracciare l’illusione del cambiamento, del rinnovamento, il giornalismo italiano che ha preferito in massa cavalcare l’onda anomala del vuoto assoluto lasciando che fossero «la satira e il teatro» a occuparsi di “informazione”. I venti anni del berlusconismo che altro non sono stati che il prosieguo di quanto esattamente accadeva prima perché è inutile continuare a negare che «c’è sempre stata una forte relazione tra sesso e potere». Una sinistra fittizia che a parole continua a urlare ideali e valori ma poi, a conti fatti, non ha fatto altro che uniformarsi al fiume in piena del degrado morale ed etico.

Il contributo più illuminante è certamente quello di Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo. Lui che in poche parole non racconta solo gli attentati e quel terribile ’92, ma l’ipocrisia di un Paese intero e della classe dirigente che lo governa.

«Venticinque anni è non puoi più dimenticare. Perché tuo fratello è andato in guerra ma ad ucciderlo non è stato il fuoco del nemico che era andato a combattere, ma il fuoco di chi stava alle sue spalle, di chi avrebbe dovuto proteggerlo, di chi avrebbe dovuto combattere insieme a lui».

«Venticinque anni e ogni anno in via d’Amelio per impedire quei funerali di Stato che la nostra famiglia rifiutò fin dal primo momento. Per impedire che degli avvoltoi arrivino in via d’Amelio portando i loro simboli di morte per accertarsi che Paolo sia veramente morto».

Perché la vera lotta alla mafia non si fa con le manifestazioni, con i cortei, con le celebrazioni… la mafia, fuori e dentro lo Stato, si combatte chiedendo Verità e Giustizia, costruendo una memoria storica collettiva basata sui fatti non sui racconti.
Ed è proprio a coloro che hanno il coraggio di lottare, che non vogliono dimenticare e non si stancano di essere “eretici” che vanno i ringraziamenti di Aaron Pettinari a margine del libro. Persone che ci sono, che operano ogni giorno, su tutto il territorio nazionale e non solo in Sicilia Calabria e Campania, persone ai margini della società e troppo spesso marginalizzate dalla stessa.

Nel libro L’inganno della mafia. Quando i criminali diventano eroi, Nicola Gratteri e Antonio Nicaso analizzano a fondo il processo di legittimazione di cui sempre «hanno goduto in Italia mafia, ‘ndrangheta e camorra; una legittimazione che ne spiega il successo più di ogni altra cosa». Se le mafie durano da due secoli «ciò vuol dire che esse non hanno rappresentato un potere alternativo e contrapposto a quello ufficiale, ma un potere relazionato ad esso». Relazioni che Antonio Belnome, ex affiliato alla ‘ndrangheta, chiama «gemellaggi con lo Stato».

Non si può certo dire che il dibattito sulla mafia oggi sia un tema trascurato nella discussione pubblica, ma resta il problema di come se ne parla. Perlopiù con «l’immagine stereotipata e romanzata della mafia», descritta come una «piovra invincibile» contro cui si oppongono “eroi” che possono essere indistintamente magistrati, poliziotti, giornalisti, persone comuni ma che restano sempre dei “lupi solitari” «destinati a soccombere». In molti sostengono che lo spettacolo è altro rispetto all’educazione, all’istruzione e all’informazione, «ma non si può certo ignorare che la spettacolarizzazione del mondo criminale rischia di essere molto pericolosa». Soprattutto in quei film e serie tv dove lo Stato e la società civile sono praticamente del tutto assenti ed esistono solo le lotte intestine all’interno dei clan per decretare di volta in volta il boss più grande, feroce, ricco e potente… una visione distorta e contorta che finisce per creare negli spettatori il desiderio di emulazione addirittura. Come accade anche, ad esempio, per i videogiochi di mafia che sono sempre i più richiesti e venduti. Un problema vero che diventa gioco e spettacolo e uno Stato che letteralmente scompare.

E così, paradossalmente, le stesse persone che sono appassionate di una serie tv o di un film di mafia, si disinteressano completamente, per esempio, del processo durato sei anni sulla Trattativa Stato-Mafia che ha visto concretizzarsi poche settimane fa la sentenza di condanna in primo grado e, incredibilmente, la notizia sembra non aver scosso né toccato che una ristretta parte di cittadinanza italiana.

In tantissimi sui social e nella Rete hanno calorosamente mostrato la loro solidarietà a Roberto Saviano laddove si profilava l’eventualità di eliminare la scorta che lo segue da anni ormai. Saviano notissimo al grande pubblico anche perché autore di una delle serie televisive di cui sopra. È bene precisare che chi scrive non chiede e non vuole che venga tolta la scorta a Saviano, piuttosto che sia data a tutti coloro che a vario titolo combattono le mafie. L’esempio è stato riportato solo perché appare paradossale che le medesime persone che si sono così infervorate per quanto potenzialmente potrebbe accadere al giornalista sceneggiatore non hanno pressoché battuto ciglio per la sentenza di primo grado nel processo sulla Trattativa Stato-Mafia che ha visto condannati il 20 aprile 2018:

Bagarella Leoluca e Cinà Antonino
De Donno Giuseppe, Mori Mario e Subrani Antonio
Dell’Utri Marcello
Ciancimino Massimo

Uomini dello Stato e uomini di Mafia colpevoli.

Appare inoltre paradossale che la sospensione della scorta all’ex magistrato Antonio Ingroia, già deliberata dal governo Gentiloni e attuata nel maggio 2018, non abbia ricevuto pressoché alcuna eco mediatica. Per certo la notizia non ha destato il clamore dell’ipotesi di sospensione a quella di Roberto Saviano.

È evidente che c’è una abominevole distorsione nella percezione mediatica delle informazioni da parte del pubblico. Altrimenti non si potrebbe spiegare il motivo per cui a coloro a cui sta tanto a cuore la sicurezza del giornalista Roberto Saviano perché impegnato contro la mafia non interessa affatto o interessa poco la sorte dell’ex magistrato Antonio Ingroia sempre impegnato nella lotta alle mafie come anche nel processo sulla Trattativa.

Una trattativa tra lo Stato e la mafia che spesso, troppo spesso si preferisce ignorare quando proprio non negare nell’informazione e, di conseguenza, nell’immaginario collettivo. Quasi si desiderasse non far mai rientrare nella formazione della memoria storica del Paese.

Ed ecco che ritornano le immagini dei funerali degli agenti della scorta del giudice Paolo Borsellino, allorquando dal pubblico si alzavano cori di protesta contro le autorità presenti, tra cui il neopresidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro costretto a lasciare la chiesa scortato e spintonato. “Assassini” veniva urlato e ancora “Fuori la mafia dalla Stato”.

Il fuoco amico di cui parla Salvatore Borsellino.

Eppure ci sono coloro che nel giornalismo, nella televisione, nel cinema e, sopratutto, nella magistratura hanno scelto di continuare a urlare queste parole. A loro però spesso viene riservato un trattamento tutt’altro che piacevole e facilmente diventano esibizionisti, paranoici, complottisti, megalomani. Questo quando non sono o non si riesce proprio a isolarli o ignorarli del tutto.

Nel 2014 Sabina Guzzanti gira il docu-film LaTrattativa nel quale, seguendo i fatti e le testimonianze si cerca di ricostruire quanto accaduto. Nel maggio 2018 Corsiero Editore insieme ad Antimafiaduemila pubblicano il libro di Saverio Lodato Avanti Mafia! Perché le mafie hanno vinto che raccoglie tutti gli articoli scritti dal giornalista durante i sei anni del processo sulla Trattativa. Anni caratterizzati da «un silenzio diffuso, assordante, interrotto soltanto da alcuni giornalisti», come sottolinea il pubblico ministero Nino di Matteo intervenuto alla presentazione del libro a Palermo il 12 giugno scorso.

Lo stesso inquietante silenzio e il medesimo scarso interesse da parte del pubblico, ovvero dei cittadini italiani, mostrato per il processo Aemilia. Il maxi-processo per mafia del Nord Italia dove oggi si sperimenta quanto accaduto nel Sud Italia del secolo scorso, semplicemente l’esistenza della mafia si preferisce negarla, fingere di non vederla. Eppure sono tanti anni ormai che un all’inizio gruppo di liceali ne parla, ne scrive, ne denuncia. Sono i ragazzi di Corto Circuito capitanati da Elia Minari. Inchieste raccolte anche nel libro Guardare la mafia negli occhi.

Il titolo del libro di Elia Minari è molto illuminante perché è proprio questo che bisognerebbe fare: guardare la mafia negli occhi. E non limitarsi alle immagini stereotipate che di essa sono pieni i giornali, i telegiornali, i film e le serie tv. La mafia dentro e fuori lo Stato. Quella mafia che ha deciso la morte dei giudici Falcone e Borsellino, degli uomini e delle donne delle loro scorte, di tutte le persone a Roma, Bologna, Firenze e di tutti coloro che sono caduti perché divenuti intralcio al potere o ostacolo al “gemellaggio con lo Stato”. In nome di questo orrendo sistema tante vite sono state spezzate, tanti crimini atroci commessi, tanti diritti cancellati, tanta parte di territorio devastata… e c’è stato chi per rimorso o convenienza alla fine ha ceduto, si è pentito e ha raccontato. Ma ciò che fa davvero rabbrividire è che si è trattato sempre e solo di “uomini d’onore”, di quella parte di mafia operante fuori dallo Stato. Dall’altra parte invece mai nessuno ha ceduto, ha tentennato, ha parlato, si è pentito o ha denunciato. Mai. E, riprendendo le parole di Nino di Matteo, è doveroso sottolineare che «non potrà mai dirsi archiviata la stagione delle stragi fino a quando non si sarà fatta chiarezza sulle collusioni ad alto livello».

Solo quando si riuscirà realmente a tirare “fuori la mafia dallo Stato” si potrà allora pensare di combattere quella che agisce fuori da esso. Fino a quel momento le dichiarazioni, le celebrazioni, le manifestazioni a cui parteciperà lo Stato e i suoi rappresentanti avranno sempre il sapore amaro dell’ipocrisia e della finzione. Purtroppo.


Articolo originale qui


LEGGI ANCHE

Quando inizieremo a fare sul serio contro le mafie? “L’inganno della mafia” di Gratteri e Nicaso (RaiEri, 2017) 

Non diventeremo onesti per decreto legge: “Guardare la mafia negli occhi” di Elia Minari (Rizzoli, 2017) 

“Grande Raccordo Criminale” di Orsatti e Bulfon (Imprimatur, 2014). Intervista agli autori 

“Grande Raccordo Criminale” di Bulfon e Orsatti (Imprimatur, 2014) 

“Il linguaggio mafioso. Scritto, parlato, non detto” di Giuseppe Paternostro (Aut Aut Edizioni, 2017) 

Il maxi processo di Palermo ha davvero messo in ginocchio la mafia? Intervista ad Antonio Calabrò 


 

© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

PLUTONOMY vs DEMOCRACY: far vincere la Democrazia contro la Shock Economy è il vero potere del popolo

09 sabato Giu 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

≈ Lascia un commento

Tag

Capitalism, Democracy, Democraziadiretta, Europa, Italia, italiani, NWO, Occidente, Piigs, ShockEconomy, terrore, TheCorporation

«Questo è il Capitalismo: tutti cercano di guadagnare sulle disgrazie altrui.»

A dirlo è un agente immobiliare della Florida ai microfoni del documentarista Michael Moore per Capitalism: a love story, lavoro che risale all’anno 2009.

Ma se il Capitalismo è il male, come ha fatto a resistere così a lungo?

Il sistema sarebbe costituito e basato su quella che viene definita propaganda, ovvero l’abilità di convincere le persone, che restano quindi vittime dello stesso sistema, a sostenere il medesimo e a credere che sia buono, la scelta migliore.

Ma come si fa a convincere milioni di persone in tutto il mondo che l’unica scelta utile per il benessere collettivo sia il Capitalismo?

Naomi Klein in Shock Economy, pubblicato la prima volta nel 2007, racconta la privazione sensoriale. Tecniche di persuasione volte a indurre la monotonia, la perdita di capacità critica, il vuoto mentale. Ma che significa “perdita di capacità critica”?

Sostanzialmente si tratta dell’incapacità, troppo spesso indotta anche da istruzione, informazione e pubblicità pilotate, di porsi delle domande, di analizzare dati e fatti con spirito critico appunto, invece di immagazzinare passivamente notizie e, soprattutto, immagini stereotipate e artefatte.

«Se ti è stato ripetuto per un’intera vita che le cose stanno come ti dicono gli altri, iniziare a pensare di cambiarle è una cosa grossa.»

A dirlo è un’operaia della Republic in sciopero da giorni con i colleghi contro la repentina chiusura della fabbrica e la ferma volontà di non corrispondere ai lavoratori i salari e la liquidazione già maturata. La lotta civile da loro portata avanti si è conclusa con il riconoscimento dei propri diritti e il versamento di quanto dovuto.

Combattere, lottare, protestare, scioperare solo per vedere riconosciuti i«servizi basilari»o essenziali, che in realtà sarebbero diritti. Perché in fondo ha ragione Erri De Luca che in Piigs sostiene che, con il Capitalismo sfrenato e deregolato, «i diritti sono diventati servizi. E i servizi hanno un costo e quindi vi può accedere solo chi se li può permettere».

Ea coloro che non possono permetterseli che succede? Già.

Questa «corrente selvaggia del Capitalismo» nel quale viviamo, il Capitalismo senza limiti, «ha conquistato il pianeta». Ed è basato sulle idee di un economista di nome Milton Friedman, per il quale tutto deve essere privatizzato tranne «la spesa militare, i tribunali e alcune strade e autostrade». Ma quando i doveri a cui dovrebbe adempiere il governo, lo Stato, vengono delegati a società private, che hanno naturalmente scopo di lucro, che succede?

Nel Rapporto 2005 della Citibank, stilato per i suoi investitori più ricchi, gli operatori di uno dei gruppi bancari più grandi che opera e ha interessi praticamente in tutto il mondo, compresa l’Italia, giungevano alla conclusione che «gli Stati Uniti non erano più una Democrazia, ma erano diventati una Plutonomia». Una società controllata esclusivamente da e per l’1% dell’élite che dispone di ricchezze maggiori di quelle del 95% della popolazione. «I ricchi sono la nuova aristocrazia e non si vede la fine della miniera che stanno sfruttando». Tutto bello, dal loro punto di vista, se non fosse per un problema, un intoppo cui ancora non erano riusciti a trovare la soluzione. Secondo Citigroup la minaccia peggiore e a breve termine sarebbe stata la richiesta, da parte della società, di una suddivisione più equa della ricchezza. Citigroup lamentava il fatto che i non ricchi potessero anche non avere potere economico, ma avevano lo stesso potere di voto dei ricchi. Infatti ogni persona ha diritto a un voto, indipendentemente dal suo potere economico. «Ed ecco quello che davvero li spaventa: che i non ricchi possano ancora votare. E hanno il 99% dei voti».

C‘è qualcosa che non torna però in questo ragionamento. Se i non ricchi rappresentano il 99% e hanno quindi un potere di voto enorme perché il tutto non cambia e loro lo sopportano passivamente? Per la propaganda?

In parte è vero ma ciò sarebbe dovuto a un effetto indiretto di essa. L’emulazione. Secondo quanto si legge nel Rapporto Citigroup, i non ricchi sopportano tutto perché «la maggior parte di essi è convinta che un giorno potrà anch’essa diventare ricca».

Cosa succede quando realizza che non accadrà mai? Succedono le rivolte, le rivoluzioni, gli scioperi, gli scontri, le proteste… a volte pacifici e consumati nelle cabine elettorali, altre volte nelle piazzecon risultati più o meno tragici, ma sempre per i non ricchi. Il Cile di Pinochet, i Desaparecidos in Argentina, la Gran Bretagna della Iron Lady Margaret Thatcher, la Russia di Yeltsin e poi ci sono le rivolte in Grecia e in Spagna contro l’austerità dell’Unione Europea… Tutte duramente represse in nome del benessere del Capitalismo.

Il Capitalismo per poter funzionare necessita ancora del consenso e dell’appoggio incontrastato della popolazione, di quel 95% di cui scrivono i relatori della Citigroup che ha il diritto di voto e quindi il potere di mandare al governo esecutori o meno degli interessi degli investitori, degli operatori finanziari, delle Corporation, delle banche… Un metodo per aggirare l’ostacolo del diritto di voto, o quantomeno indirizzarlo verso la direzione voluta,però è stato trovato.

«Se ti servi della paura riesci a far fare alla gente ciò che vuoi».

Ancora Friedman, quando insegnava economia all’Università di Chicago, durante le sue lezioni affermava: «la terapia di shock economico può stimolare le società ad accettare la più pura forma di capitalismo deregolato». La Dottrina dello Shock, che la Klein ha studiato e analizzato nel suo libro, ovvero «il sistematico saccheggio della sfera pubblica dopo un disastro», quando le persone sono molto concentrate su un’emergenza, su una catastrofe che può essere un evento naturale o il risultato di politiche e tattiche, può essere un terremoto, un’alluvione, uno tsunami oppure una rivolta, un conflitto, un attentato terroristico… Non importa, perché sempre e comunque il Capitalismo, deregolato e senza limiti, per tramite dei suoi fautori e operatori, troverà il modo per trarne profitto, un grande profitto che finirà sempre e comunque nelle mani di quella élite dell’1% che da sola detiene in mano le ricchezze praticamente dell’intero pianeta. E per ricchezze non vanno intesi solo denaro e preziosi ma i beni, quelli sìdavvero preziosi, che il pianeta fornisce per la vita dei suoi abitanti, come l’acqua e l’aria pulite, per esempio.

L‘opinione di Michael Moore sul Capitalismo è molto drastica, per lui «è il male. Non si può regolamentare. Bisogna sostituirlo con qualcosa di buono. E questo qualcosa si chiama Democrazia». Ma per farlo è necessario, innanzitutto, che le popolazioni sviluppino la «resistenza allo shock» con la conoscenza, la lotta pacifica, la resilienza, lo sciopero, l’organizzazione e la solidarietà. Non da ultimo, e di pari passo con la conoscenza, il mantenimento della memoria collettiva, la rivalutazione degli insegnamenti del passato, della Storia, frutto di uno studio critico e diapprofondimento non di mnemonica assimilazione di contenuti e concetti preconfezionati. In maniera tale che i non ricchi smettano di desiderare, di sognare di diventare ricchi pensando che questo porti loro felicità e benessere e non avidità e insano potere, come invece accade, e ritrovino o trovino in prima istanza l’importanza, la sacralità della vita, degli esseri umani, delle risorse del nostro pianeta e smettano di idolatrare persone, come Phil Gramm, per esempio, ex-senatore Usa e vice-presidente di UBS Investment Bank, il quale ha dichiarato di considerare Wall Street «un luogo sacro».In realtà è tutt’altro che un luogo sacro. Somiglia piuttosto a «un folle Casinò, dove si scommette su qualunque cosa».Anche sulla vita umana.

Nel suo intervento durante il dibattimento in Senato precedente la votazione per il governo del cambiamento, Mario Monti ha detto: «Non il Presidente del Consiglio, ma l’intero vostro Governo nascerebbe oggi come governo dimezzato se altre forze politiche non avessero dato, in un momento difficilissimo della vita del Paese, prova di grande responsabilità». Ovvero l’appoggio al suo governo e alle misure di austerità imposte come “sacrificio necessario” per evitare al Paese, cioè all’Italia, la “vergogna” dellaGrecia, ossia la Troika. Ma attenzione, avverte ancora Monti, «non è escluso che l’Italia possa dover subire ciò che ha evitato allora, l’umiliazione della Troika». Shock Economy.

Le misure economiche poste in essere dall’allora Governo presieduto dallo stesso Monti e che egli dichiara hanno portato l’Italia «fuori dalla grave crisi finanziaria»hanno riguardato, soprattutto, e continuano a riguardare il taglio della spesa pubblica per diminuire il deficit di Bilancio.

Detto in parole più semplici, il taglio della spesa pubblica diviene quasi sempre un taglio alle spese sociali, che equivalea diretaglio dei servizi.

In Italia, stando ai dati diffusi dal Censis, i finanziamenti dati alle Regioni e legati ai servizi sociali si sono ridotti di circa l’80% dal 2007 al 2014 (da 1.600milioni di euro a 297milioni di euro). Per quantificare un esempio, ma i tagli dal 2007 a oggi hanno riguardato anche la scuola pubblica e quindi l’istruzione, la sanità e quindi la salute dei cittadini e la loro assistenza. E via discorrendo…

Sempre del Censis i dati relativi all’indebitamento di oltre 7milioni di italiani per pagare le cure mediche. Ci sono poi anche quelli che non si indebitano ma, semplicemente, rinunciano a curarsi perché i soldi non li hanno. E questa è l’amara realtà conseguenza diretta dell’austerità, di quel “sacrificio necessario” richiesto da Monti, dal suo governo e da quelli successivi.

Una domanda però bisogna porsela: perché c’è stata la cosiddetta esplosione del debito pubblico italiano che ha reso necessario gli interventi di riordino dei conti pubblici pena la Troika?

Sul sito della Consob, l’Autorità italiana per la vigilanza dei mercati finanziari, si legge che la crisi finanziaria del 2007 ha avuto inizio, in realtà, negli Stati Uniti già a partire dal 2003, allorquando «cominciò ad aumentare in modo significativo l’erogazione di mutui ad alto rischio», ossia a clienti che in condizioni normali non avrebbero ottenuto credito perché «non sarebbero stati in grado di fornire sufficienti garanzie». Ciò è stato reso possibile dalla cosiddetta bolla immobiliare, favorita dalla Federal Reserve che ha consentito al prezzo degli immobili di salire mantenendo tassi di interesse bassi. Ma, soprattutto, dalla cartolarizzazione, ovvero dalla possibilità per gli istituti di credito, le banche, di trasferire i mutui, dopo averli “trasformati” in titoli, a soggetti terzi e recuperare così buona parte del credito vantato. In questo modo le istituzioni finanziarie «poterono espandere enormemente le attività in rapporto al capitale proprio», realizzando profitti molto elevati, ma esponendosi anche al «rischio di perdite ingenti».

«I titoli cartolarizzati sono stati sottoscritti da molti investitori sia negli Usa che in Europa».

Bill Black, uno dei supervisori bancari americani, ricorda, intervistato in Capitalism di Moore, che l’FBI «iniziò ad allertare l’opinione pubblica nel settembre del 2004 sul fatto che ci fosse un’epidemia di frodi sui mutui messa in atto dalle banche». Ma l’amministrazione Bush destinò centinaia di agenti specializzati in crimini finanziari ad altre mansioni, nonostante «stavamo entrando, durante tutto il periodo dell’amministrazione Bush, nella più grande ondata di crimini finanziari del Paese ma, in realtà, della storia mondiale».

Ritornando all’analisi della crisi fatta dalla Consob, si legge che le operazioni di cartolarizzazione generavano prodotti strutturati molto complessi, poco standardizzati e poco liquidi. I prodotti strutturati, inoltre, venivano scambiati prevalentemente over the counter (OTC), ossia «al di fuori dei mercati regolamentati, e in assenza di prezzi significativi, cioè di prezzi utilizzabili per una loro valutazione condivisa dagli operatori di mercato». In quella circostanza fu palese che le agenzie «avevano assegnato rating troppo generosi (anche per effetto di conflitti di interessi che creavano incentivi in tale direzione) e si erano dimostrate troppo caute nel rivedere il proprio giudizio sugli emittenti che incominciavano a manifestare i primi segnali di crisi».

«Le istituzioni finanziarie coinvolte nell’erogazione dei mutui subprime registrarono pesanti perdite».Tali titoli, ormai ampiamente diffusi sul mercato, persero ogni valore e diventarono illiquidabili. La banca di investimento Lehman Brothers avviò le procedure fallimentari il 15 settembre del 2008 e questo innescò un ulteriore processo di «tensione e incertezza sui mercati».

La crisi apparve sempre più nella sua «natura sistemica», con “turbolenze” senza precedenti che si estesero dal mercato dei prodotti strutturati ai mercati azionari e, progressivamente, all’intero sistema finanziario evidenziando un «elevato grado di interconnessione».

In breve tempo la crisi dei mutui si trasferì all’economia reale statunitense ed europea provocando «una caduta di reddito e occupazione». Sempre sul sito della Consob si legge che, nel complesso, gli aiuti erogati alle banche dei rispettivi sistemi nazionali in Europa ammontano a 3.166miliardi di euro, sotto forma di «garanzie (2.443miliardi), ricapitalizzazioni (472miliardi) e linee di credito e prestiti (251miliardi)». La Consob dichiara di far riferimento a dati MBRES del dicembre 2013.

3.166miliardi di euro.

«I salvataggi bancari accrebbero in modo significativo il debito pubblico dei paesi coinvolti, gettando i presupposti per la cosiddetta crisi del debito sovrano».

La crisi del debito sovrano dei paesi europei è dovuta quindi alla crisi finanziaria partita da Wall Street ed estesasi fino agli istituti finanziari europei che hanno poi ricevuto, in complesso, 3.166miliardi di euro di aiuti.

Ora la domanda che viene da porsi è: perché per far rientrare il debito pubblico non è stato richiesto un sacrificio alle banche invece che ai cittadini?

Ma sorgono anche altri interrogativi. Ipotizzando anche e volendo dare per buona la versione che sostiene l’effetto sorpresa della crisi del 2007, ovvero che ha avuto un effetto domino perché inaspettata, allora ci si chiede cosa in concreto sia stato fatto per evitare che accada di nuovo. I mercati finanziari deregolati sono stati regolamentati? Se gli aiuti a sostegno delle banche hanno come conseguenza l’esplosione dei debiti pubblici degli Stati è stato previsto un piano differente di intervento in caso di nuova crisi? Invece di darli alle banche tutti quei miliardi di euro non potrebbero essere destinati direttamente all’economia reale? Al welfare? Al pubblico impiego? Al sociale? All’istruzione? Alla sanità? Cosa hanno poi fatto le banche con quei soldi pubblici? Contano di restituirli?

Ripensando alle parole di Mario Monti sembrerebbe proprio di no. Piuttosto pare ci sia una qualche tanto grave quanto incomprensibile responsabilità dei cittadini e dell’allora opposizioni incapaci di comprendere fino in fondo la serietà della “vergogna della Troika”. Con il 92% del consenso in Parlamento il governo Monti sarebbe riuscito a portare l’Italia fuori dalla crisi finanziaria e ad avviare una «seppur lenta, ripresa». Forza Italia, Partito Democratico, Fratelli d’Italia… li nomina tutti come sostenitori tranne la Lega, unica forza politica di opposizione nel Parlamento di allora, e Movimento Cinque Stelle come esterno alle istituzioni. All’epoca c’erano solo il blog di Grillo e i meetup.

Uno dei punti chiave su cui si è tanto insistito, lo ha fatto il governo Monti e lo ha fatto anche il governo Renzi, era il precetto del 3%. Se il deficit restava al di sotto di questa percentuale la ripresa e con essa la crescita dell’Italia sarebbero arrivate più fervide che mai. In più sedi istituzionali e conferenze Matteo Renzi ha sottolineato la coerenza del suo esecutivo nel rispettare questa direttiva.

Restare al di sotto del 3% significa mantenere la politica di tagli alla spesa pubblica.

Ma da dove viene fuori questo 3%? Funziona davvero?

Guy Abeille, ex funzionario del Ministero delle Finanze francese, ai microfoni dei giornalisti di PresaDiretta, intervista poi ripresa anche nel documentario Piigs, dichiara che, una sera del 1981, l’allora Presidente Mitterrand lo chiama perché necessita di una norma che fissasse il tetto del debito pubblico. «Il Presidente voleva qualcosa di semplice, di pratico. Non cercava una teoria economica ma uno strumento a uso interno». Siccome tutte le soluzioni sembravano complicate, Abeille e colleghi hanno pensato di rapportare il deficit al Pil. Il risultato di questa elementare operazione matematica è stato 3. Ed ecco il 3%. «Nessun criterio scientifico».

Qualche anno più tardi, quando a Maastricht bisogna trovare una regola per l’unione monetaria, Trichet disse: «Noi abbiamo un numero che ha funzionato benissimo in Francia». Da quando il 3% è diventato una regola, continua Abeille, «tutti hanno dovuto legittimarlo agli occhi dell’opinione pubblica, della gente che vota», gli economisti hanno elaborato mille spiegazioni scientifiche, ma «io posso garantire che le cose sono andate esattamente come ho raccontato».

Sembra una barzelletta ma in realtà è molto triste. Sarà per questo motivo, forse, che alla prima votazione utile il popolo italiano ha premiato proprio quelle forze politiche che hanno scelto, nel tempo, di rimanere fuori da quel 92% che ha preferito invece imporre “sacrifici” alla popolazione tra cui proprio la regola del 3%.

In effetti lo scrivevano anche i relatori del Rapporto Citigroup in America che il diritto di voto equanime può essere un grande problema, perché i non ricchi non hanno potere economico ma sono in tanti, tantissimi, e siccome ogni persona ha diritto a un solo voto, il loro complessivamente supera di gran lunga quello delle élite, ovvero di coloro che, da questa immensa crisi finanziaria che ha investito l’economia reale di praticamente tutti i Paesi, sono riusciti forse anche a guadagnarci. Ho scritto forse ma penso di sicuro.

La Consob segnala che, nel novembre 2012, è stato adottato il nuovo Regolamento europeo come contromossa della crisi che ha messo in discussione anche «la capacità di tenuta di quasi tutti i comparti della regolamentazione del sistema finanziario», per l’attitudine a «creare un sistema di incentivi distorto e deresponsabilizzante». Gli eventi occorsi hanno messo in evidenza «la necessità di una riforma degli assetti istituzionali della supervisione finanziaria in Europa e negli Usa» e di rivedere «l’approccio tradizionalmente improntato all’autodisciplina» in alcuni settori del mercato finanziario, tra i quali «quello relativo ad agenzie di rating, fondi speculativi e mercati cosiddetti over the counter». In Europa è stata disegnata una nuova «architettura istituzionale» volta a promuovere «regole armonizzate e prassi uniformi di vigilanza e applicazione delle norme».

Sulle politiche di austerity invece permane la visione condivisa di governi locali e comunitari.

Riacquistare la capacità critica, la forza di volontà, creare gli anticorpi alla dottrina della shock economy, riappropriarsi degli strumenti utili a dar voce alle popolazioni e ai loro diritti, lo sciopero, la piazza, la cabina elettorale… Ecco la vera forza del popolo, della Democrazia.

Michael Moore sostiene che, nonostante i contenuti, le case di produzione e distribuzione cinematografica scelgano di produrre e distribuire egualmente i suoi documentari perché convinte che forniranno comunque un incasso e che la gente, anche se li guarderà, poi non farà nulla di così rivoluzionario da mettere in bilico il sistema. Moore è convinto del contrario e continua a lavorare a sempre nuovi documentari-inchiesta. Chi ha ragione? Solo il popolo, le scelte e le decisioni che prenderà potranno dirlo.

Le parole dell’operaia della Republic in sciopero per far valere i propri diritti di lavoratrice e cittadina sintetizzano alla perfezione il mix di meraviglia ed entusiasmo che accompagna la scoperta della possibilità di liberarsi della privazione sensoriale cui si viene costantemente sottoposti: «Se ti è stato ripetuto per un’intera vita che le cose stanno come ti dicono gli altri, iniziare a pensare di cambiarle è una cosa grossa». Immaginate riuscirsi cosa sarà.


Articolo originale qui


LEGGI ANCHE

The Corporation e Piigs: fin dove si spingono i tentacoli del libero mercato? È questa l’Europa che vogliamo? 

Stampa di Palazzo e fake news. Fermare gli “Stregoni della notizia”. Intervista a Marcello Foa 

“È solo denaro altrui”. L’incredibile viaggio nel mondo dei banchieri di Joris Luyendijk raccontato in “Nuotare con gli squali” (Einaudi, 2016) 

Guerre dichiarate e guerre segrete. Analisi geostrategica della guerra delle informazioni combattuta nel conflitto civile siriano 


 

© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

The Corporation e Piigs: fin dove si spingono i tentacoli del libero mercato? È questa l’Europa che vogliamo?

05 martedì Giu 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

≈ Lascia un commento

Tag

articolo, Europa, Italia, italiani, NWO, Piigs, TheCorporation, USA

La questione in fondo si riduce a due semplici quesiti: fin dove sono disposti ad arrivare i business men per raggiungere il loro tanto agognato profitto? Fino a che punto cittadini e governi sono disposti a rinunciare a doveri e diritti pur di rispettare le impunite leggi del libero mercato?

Originariamente il ruolo e lo scopo delle Corporation era tutt’altro rispetto a quello attuale e somigliava più a una cordata di persone o società che appaltavano un grosso lavoro dallo Stato, il quale stabiliva rigidamente tempi, costi e regole. Così sono stati costruiti la gran parte dei ponti americani e le immense ferrovie che attraversano il Paese.
Oggi sono persone giuridiche cui vengono riconosciuti tutti i diritti delle persone e anche più, in quanto sono indicate come particolari. Per legge hanno il solo scopo di tutelare gli azionisti e non la comunità o la forza lavoro. «Non hanno un’anima da salvare o un corpo da incarcerare» e sono prive di «coscienza morale» come sottolinea Noam Chomsky, uno dei tanti intervistati del documentario The Corporation appunto, prodotto da Jennifer Abbott, Mark Achbar e Joel Bakan nel 2003.

La Corporation è ormai un’istituzione dominante nella realtà contemporanea. Grandi, enormi società di capitali con poteri altrettanto sconfinati e controlli sempre più limitati.
Le Corporation oggi sono globali ed essendo tali, in sostanza, i governi hanno perso qualsiasi forma di controllo su di loro. A dirlo è l’ex amministratore delegato della Goodyear, una delle Corporation che si scoprì aveva preso parte al complotto ordito per spodestare il presidente Roosevelt. Oggi queste azioni, questi complotti sono inutili perché «il Capitalismo è il padrone incontrastato». Rappresenta ormai a tutti gli effetti «l’Oligarchia regnante del nostro sistema».

Un sistema che nel 2008 ha portato il mondo intero ad affrontare una delle crisi economiche più terribili mai presentatesi dove, ancora una volta, a rimetterci sono stati i deboli e i meno furbi. In Europa, per esempio, a farne le spese sono stati i Paesi additati come deboli o peggio come piigs. Infelice acronimo che voleva sottolineare le porcine economy dei Paesi con un’economia debole e un debito pubblico insostenibile, «i Paesi maiali sono Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna». Un acronimo che è diventato anche il titolo del documentario di Adriano Cutraro, Federico Greco, Mirko Melchiorre girato nel 2017.

Come il documentario The Corporation anche Piigs risulta essere molto illuminante per quello che si scopre e non si conosceva e per quello che viene invece confermato da chi, magari, in altre sedi tende a negare o minimizzare.

Stefano Fassina sostiene che la distinzione tra economie forti e deboli all’interno dell’eurozona, e che dà adito a stereotipi e luoghi comuni duri da scalfire, sia in realtà «una lettura strumentale» fatta, «come sempre avviene nella Storia, da chi è più forte, da chi orienta la comunicazione, da chi orienta l’interpretazione» e lo fa per «scaricare su una parte problemi che invece erano sistemici». E va avanti sottolineando il fatto che i Paesi virtuosi erano tali proprio per i problemi dei Paesi periferici: «la Germania cresceva per le esportazioni e la Grecia, che era in debito, riceveva dei prestiti perché qualcuno premeva per importare Mercedes dalla Germania».

Chi esercitava dette pressioni? Gli interessi di chi stanno tutelando in questo modo gli Stati e l’UE?
Possiamo ipotizzare che anche in Europa le Corporation, che chiamiamo Multinazionali o Società di Capitali, si beffano dei diritti dei cittadini e delle leggi per raggiungere i loro tanto amati profitti? Ma laddove i Governi accettano e acconsentono il loro “gioco” non vengono minati i principi fondamentali della Democrazia?

Yanis Varoufakis sostiene che, in realtà, «la Democrazia non è mai stata la caratteristica principale dell’Unione Europea». E racconta nel dettaglio le risposte che si è sentito dare nel momento in cui vi si è recato per contrattare i termini di una eventuale soluzione per il suo Paese. Soluzione che per molti versi poteva sembrare una vera e propria punizione, per un popolo, quello greco, che aveva osato alzare la testa e la voce contro i ferrei diktat dell’austerity. Per esempio, l’Europa nello «spostare le perdite delle banche sulle spalle dei contribuenti più deboli ha rivelato il suo autoritarismo».

Sergio Mattarella lo scorso 26 maggio ha sottolineato come la funzione e il ruolo del Presidente della Repubblica sia di garanzia e non può quindi né deve subire imposizioni di alcun tipo, dichiarando di poter accettare tutte le nomine proposte tranne quella del Ministro dell’Economia. «La designazione del Ministro dell’Economia costituisce sempre un messaggio immediato di fiducia o di allarme per gli operatori economici e finanziari». L’incertezza della nostra posizione nell’euro «ha posto in allarme gli investitori e i risparmiatori italiani e stranieri che hanno investito nei nostri titoli di Stato e nelle nostre aziende».

Paolo Barnard, sempre all’interno del documentario Piigs, afferma che il debito pubblico è un problema quando uno stato contrae passivi con una moneta non sua. Gli fanno eco Stephanie Kelton e Paul De Grawe. «I Paesi eurozona riscuotono le tasse in euro, spendono in euro ma non hanno sovranità monetaria». Il risultato di questo è che «i mercati possono mettere in sofferenza lo Stato italiano, vendendo in massa i titoli sapendo che il governo non ha euro per ripagare i detentori dei titoli».

Federico Rampini invece sottolinea la necessità di «riprendere l’economia perché è il nostro futuro». E rimarca «l’analfabetismo economico» di cui soffrono gli italiani. Che non suona tanto come un’offesa quanto come una mera constatazione del fatto che si stenta a capire i concetti base di economia. Si continua a credere che tutto ciò che riguarda l’economia rimanga «nel mondo magico» della stessa. Bisogna invece iniziare a riflettere sul fatto che «tutto è economia»: le guerre, lo sfruttamento, l’abbandono dello stato sociale, della sanità, dell’istruzione…

Per i broker di Wall Street l’Undici Settembre è stata una «benedizione camuffata». Tutti quelli che non erano nelle Torri Gemelle e si sono salvati hanno immediatamente investito in oro e hanno raddoppiato il capitale. A raccontarlo alla telecamera degli operatori di The Corporation è un broker di Wall Street.
Quando l’America bombardò l’Iraq nel 1991, tutti i broker tifavano affinché Saddam Hussein continuasse a dare problemi, a incendiare pozzi, così il prezzo del petrolio sarebbe continuato a salire e loro a guadagnare. «Noi speravamo in una pioggia di bombe su Saddam». Quella, al pari dell’Undici Settembre, era una tragedia, una vera e propria catastrofe con bombardamenti, guerre, morti… il broker si rende conto di questo ma ammette che anche «la devastazione crea opportunità».

Fin dove si spingono questi operatori dei mercati, mediatori o investitori che siano? Esiste un limite oltre il quale si rifiutano di pescare nel torbido?

Stando ai dati forniti da un Rapporto del Dipartimento del Tesoro, in una sola settimana 56 Corporation americane sono state multate per aver commerciato con nemici ufficiali degli Stati Uniti, «compresi terroristi, tiranni e regimi dittatoriali». Le Corporation sono in grado di produrre grande ricchezza ma anche «enormi danni, molto spesso taciuti».

Le politiche governative e statali non possono e non devono piegarsi sempre e comunque agli umori del libero mercato, in considerazione anche e soprattutto del fatto che a guadagnarci, come anche a rimetterci, sono sempre gli stessi. Da un lato le grandi società di capitali, gli investitori e i broker e dall’altro i piccoli investitori e le popolazioni.
Ancora il Presidente Mattarella, sempre nel corso dell’intervento per motivare la bocciatura di Paolo Savona a Ministro dell’Economia, sottolinea come la manifesta volontà di uscire dall’euro è cosa ben diversa «da un atteggiamento vigoroso, nell’ambito dell’Unione Europea, per cambiarla in meglio dal punto di vista italiano». E i cambiamenti necessari da porre in essere sarebbero davvero tanti.

A chiusura del documentario Piigs c’è la lunga e amara analisi di Giuliano Amato sulla sovranità monetaria e su quella economica dei Paesi membri e dell’intera Unione Europea. Egli stesso ammette che la soluzione da loro trovata e poi posta in essere è stata sconsigliata da molti economisti, specie americani. «La vostra Banca Centrale se non è la Banca Centrale di uno Stato non può assolvere alla stessa funzione a cui assolve la Banca Centrale di uno Stato che, quando lo Stato lo decide, diventa il pagatore senza limiti di ultima istanza». Che poi è quanto affermato anche da Paolo Barnard. Ma gli “architetti” ideatori dell’eurozona, tra cui appunto lo stesso Amato, non hanno voluto dar retta a questi economisti, stabilendo addirittura nei Trattati dei «vincoli che impedissero di aiutare chi era in difficoltà». L’Unione Europea in sostanza non si assume la responsabilità degli impegni dei singoli stati e la Banca Centrale Europea non può comprare direttamente i titoli pubblici dei singoli stati. Non sono previste agevolazioni creditizie e finanziarie per i singoli stati… insomma, moneta unica dell’eurozona ma ciascuno deve essere in grado di provvedere a se stesso. «Era davvero difficile che funzionasse e ne abbiamo visto tutti i problemi», chiosa Giuliano Amato.

«Certo che ci saranno trasferimenti di sovranità. Ma non sarebbe intelligente da parte mia richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su questo» (Jean-Claude Juncker, Presidente della Commissione Europea, Europe Agency, 24 giugno 2007).

I problemi, che già sapevano esserci in potenza, sono aumentati notevolmente dopo la crisi del 2008 ma, soprattutto, in conseguenza delle misure intraprese per “superarla”. Politiche che, nell’opinione di Stefano Fassina, «hanno aggravato i problemi invece di risolverli».
Si pensi, per esempio, al Fiscal Compact. Il Patto di Pareggio di Bilancio. L’anticristo del Bilancio di un’istituzione pubblica che, paradossalmente, può garantire maggiore benessere ai cittadini lavorando in sofferenza. Perché l’istituzione pubblica è l’unica società esistente al mondo che non ha scopo di lucro, quindi non opera per il profitto ma per i servizi ai cittadini. Basti pensare al New Deal lanciato dal Presidente americano Roosevelt che, forse anche per politiche come questa, si inimicò le Corporation che tramarono per destituirlo.
«Il pareggio di Bilancio dà priorità alla stabilità dei prezzi mettendo in secondo piano il diritto al lavoro, alla salute e a un salario dignitoso… per esempio».

Ma se tutti sapevano l’inutilità, o meglio la nocività di questi provvedimenti per i singoli Stati e, soprattutto, per i cittadini, perché sono stati posti in essere comunque? Sono stati imposti a reale beneficio di chi? Del mercato? Delle Corporation, che in Europa diventano le Multinazionali?

A seguito del veto del Presidente Mattarella, il capo politico del Movimento Cinque Stelle Luigi Di Maio diffonde un video nel quale sottolinea che il governo del cambiamento sia stato stoppato non per Paolo Savona e l’impossibilità di trovargli un sostituto, bensì perché chiunque, nel corso della sua carriera, fosse stato in qualche misura critico sull’euro non andava bene. Non poteva andare bene. «Se siamo in queste condizioni non siamo in una Democrazia libera». Nel Contratto di Governo non c’è l’uscita dall’euro, è prevista la modifica dei Trattati, la rivisitazione di alcune regole europee. Il veto quindi si basava su opinioni non su reali intenzioni. Eppure il tutto andava fermato o cambiato. Perché?

Nel momento stesso in cui Luigi Di Maio ha palesato l’eventualità di procedere con l’iter per la messa in stato di accusa del Presidente il dibattito sui media ma, soprattutto, sui social si è infervorato generando due aperte fazioni che, prontamente, si sono schierate a favore o contro Sergio Mattarella. Gli interventi vertevano tutti o quasi sul diritto costituzionale o meno che aveva o che ha il Presidente della Repubblica di opporsi alla nomina di un singolo Ministro e su quali motivazioni detta scelta debba basarsi. Nessuno però o quasi si è posto l’unico interrogativo utile, ovvero: i mercati e gli investitori sono una motivazione valida?
La risposta è arrivata, qualche giorno più tardi le dichiarazioni di Mattarella, da Günther Oettinger, commissario UE al Bilancio: «I mercati insegneranno agli italiani a votare nella giusta direzione» (“The markets will teach the Italians to vote for the right thing”). Il giornalista Bernd Thomas Riegert ha poi rimosso questo tweet e lo ha sostituito adducendo come motivazione il fatto di non aver riportato fedelmente la citazione di Oettinger. Il succo di quanto scrive in seguito non si discosta poi tanto dalla prima versione. Si tratta semplicemente di un messaggio meno chiaro, meno esplicito ma di eguale sostanza.
Un modo meno “aggressivo” di dire la stessa cosa, diciamo nei termini usati anche dal Presidente Mattarella.

Gli italiani però si sono offesi per le sue parole, quelle del commissario UE, e questi allora si è pubblicamente scusato. Va bene, scuse accettate ma la sostanza non cambia. È vero oppure non lo è che i mercati influenzano i governi? È vero oppure non lo è che se un Ministro dell’Economia non piace ai mercati il ministro non lo può fare? È vero oppure non lo è che, se i singoli Paesi mantengono la responsabilità sui debiti pubblici pur avendo abbandonato la sovranità monetaria, è necessario quantomeno rinegoziare i Trattati?

Nell’intervista rilasciata per il documentario Piigs, Noam Chomsky evidenzia quanto sia «interessante osservare le reazioni in Europa quando qualche politico suggerisce che forse la gente dovrebbe avere voce su ciò che la riguarda». Citando, per esempio, i Referendum popolari indetti in Grecia nel 2015. «La reazione è stata di incredulità: Come osate chiedere alla gente cosa deve accadergli? Non sono affari loro. Devono seguire gli ordini. Prendiamo noi le decisioni…».
Yanis Varoufakis ricorda che al primo Eurogruppo cui ha presenziato propose un accordo, un compromesso tra la Troika e il Governo greco, «a metà tra le loro imposizioni e il mandato elettorale». Wolfgang Schauble rispose: «Le elezioni non possono essere permesse se modificano il programma economico della Grecia».

«La Grecia è stata selvaggiamente punita per aver osato chiedere un Referendum e i tecnocrati europei hanno imposto misure ancora più dure, per togliere loro dalla testa l’idea folle che la democrazia possa avere un qualche valore». (Noam Chomsky)

Fin dove si spingono i tentacoli del libero mercato? È questa l’Europa che vogliamo?


Articolo originale qui


LEGGI ANCHE

“Chi sono i padroni del mondo”, il lato oscuro delle potenze democratiche nell’analisi di Noam Chomsky 

“È solo denaro altrui”. L’incredibile viaggio nel mondo dei banchieri di Joris Luyendijk raccontato in “Nuotare con gli squali” (Einaudi, 2016) 

Perché la sinistra ha fallito? Ecco i motivi… Intervista a Maurizio Pallante 

“Il collasso della modernizzazione: dal crollo del socialismo di caserma alla crisi dell’economia mondiale” di Robert Kurz (Mimesis, 2017 a cura di Samuele Cerea) 


 

© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Liberi dall’amianto? I numeri parlano chiaro e non danno certo conforto

27 domenica Mag 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

≈ Lascia un commento

Tag

Italia, italiani, Legambiente, NWO

Tra il 1945 e il 1992 in Italia sono state prodotte 3.7milioni di tonnellate di amianto grezzo e importate 1.9milioni di tonnellate. Con la legge 257/1992 è stata decretata la cessazione dell’impiego dell’amianto sull’intero territorio nazionale. In 26 anni sono stati registrati 21.463 casi di mesotelioma maligno, di cui il 93% a carico della pleura e il 6.5% del peritoneo. Oltre 6mila morti l’anno.

In occasione della giornata mondiale delle vittime dell’amianto, che cade il 28 aprile, Legambiente ha pubblicato il dossier Liberi dall’amianto? e ribadito «l’urgenza e la necessità improrogabile per il nostro Paese di agire attraverso una concreta azione di risanamento e bonifica del territorio».

A distanza di 26 anni dall’approvazione della legge, «il Piano Regionale Amianto non è stato approvato in tutte le Regioni». L’indagine posta in essere da Legambiente ha stimato un totale di quasi 58milioni di metri quadri di coperture in cemento amianto. Si parla di 370mila strutture di cui oltre 20mila sono siti industriali, 50.744 edifici pubblici, 214.469 edifici privati, oltre 60mila le coperture in cemento amianto e 18.945 altra tipologia di siti.
Sono oltre 1.195 i siti ricadenti in I Classe, ovvero a maggiore rischio, e 12.995 quelli in II Classe.

Molto a rilento vanno avanti le attività di bonifica. Rilevamenti ISPRA del 2015 parlano di 369mila tonnellate di rifiuti contenenti amianto prodotti (71% al Nord, 18.4% al Centro e 10.6% al Sud), di cui 227mila tonnellate smaltite in discarica e 145mila tonnellate esportate nelle miniere dismesse della Germania a fronte di quasi 40milioni di tonnellate di amianto presenti sul territorio.

E molto scarse sono anche le attività di formazione del personale tecnico, con programmi e momenti di aggiornamento che risultano solo in otto Regioni (Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Valle d’Aosta e Veneto) e nella Provincia Autonoma di Trento, nonché le attività di formazione e informazione rivolte ai cittadini. Scarse, sporadiche e comunque risalenti a diversi anni fa.

Stando ai dati forniti dal Ministero dell’Ambiente, aggiornati al novembre 2017, in Italia «ci sono circa 86mila siti interessati dalla presenza di amianto, di cui 7.669 risultano bonificati e 1.778 parzialmente bonificati». Tra questi rientrano anche i «779 impianti industriali (attivi o dismessi)» e «10 SIN (Siti di Interesse Nazionale da bonificare) che presentano problemi connessi al rischio amianto». Numeri che lo stesso Ministero dell’Ambiente «ritiene essere sottostimati» in quanto i dati raccolti dalle Regioni «non consentono una copertura omogenea del territorio nazionale».

Inoltre 20 anni di produzione normativa ha generato «una situazione ingarbugliata e spesso contraddittoria tra norma e norma». Alla risoluzione di questo problema era preposto il Testo Unico per il riordino, il coordinamento e l’integrazione di tutta la normativa in materia di amianto, presentato a novembre 2016 al Senato e realizzato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno degli infortuni e delle malattie professionali. «Il Testo Unico è al momento ancora fermo in Senato».

Il monitoraggio delle fibre disperse in aria è «una delle attività fondamentali che gli Enti preposti dovrebbero mettere in campo» per prevenire l’insorgere di rischi sanitari per i cittadini. I dati forniti dalle Regioni in tal senso «sono però scoraggianti».

Il V Rapporto fornito dall’INAIL attraverso il ReNaM (Registro Nazionale dei Mesoteliomi), risalente al 2015, sottolinea come «l’Italia è attualmente uno dei Paesi al mondo maggiormente colpiti dall’epidemia di malattie amianto correlate». L’incisività della malattia è rarissima fino a 45 anni («il 2% dei casi registrati»). L’età media della diagnosi è «69.2 anni, senza distinzione significativa di genere». Il 69.5% dei casi analizzati presenta un’esposizione professionale («certa, probabile, possibile»), il 4.8% famigliare, il 4.2% ambientale, l’1.6% per un’attività extralavorativa di svago o hobby.
Per quanto riguarda i casi da esposizione professionale, i settori di attività maggiormente coinvolti risultano essere:
Edilizia
Industria pesante

Sul sito del Ministero della Salute si legge che «la presenza delle fibre di amianto o asbesto nell’ambiente comporta inevitabilmente dei danni a carico della salute, anche in presenza di pochi elementi fibrosi». I danni a carico della salute sono “inevitabili” anche in presenza di pochi elementi fibrosi perché si tratta di «un agente cancerogeno». Particolarmente nocivo è il fibrocemento (“eternit”), una mistura di amianto e cemento particolarmente friabile e quindi soggetta a danneggiamento o frantumazione, infatti «i rischi maggiori sono legati alla presenza delle fibre nell’aria» che, una volta inalate, «si possono depositare all’interno delle vie aeree e sulle cellule polmonari». Asbestosi, mesotelioma (tumore che si sviluppa a carico della membrana che riveste i polmoni, pleura, o gli altri organi interni, peritoneo), tumore dei polmoni… queste le conseguenze che possono e in genere si manifestano anche a distanza di molti anni dall’esposizione e a bassi livelli di asbesto.

In questo opuscolo ministeriale informativo ci tengono a ribadire che, essendo un agente cancerogeno, «occorre evitare l’esposizione anche a bassi livelli di concentrazione» poiché basta «una minima esposizione per subirne gli effetti nocivi». Già. Ma se le tonnellate di amianto sparse, disseminate e abbandonate lungo tutto il territorio nazionale non vengono bonificate come si fa a evitare l’esposizione anche a minime quantità di asbesto, magari aerodisperso? La risposta a questa domanda però non si trova nell’opuscolo e nemmeno negli allegati a esso accorpati sul sito ministeriale.

Qualche indicazione viene data in caso di bonifica o smaltimento di manufatti già esistenti. Viene consigliato in questi casi di non procedere da autodidatta bensì di «rivolgersi sempre a personale qualificato» in maniera tale da «non recare danni maggiori a se stessi e agli altri».

Si legge ancora che l’articolo 4 della Legge 257/92 «prevedeva l’istituzione della Commissione per la valutazione dei problemi ambientali e dei rischi sanitari connessi all’impiego dell’amianto». L’ultimo mandato di suddetta Commissione si è concluso nel 2005, con proroga fino al 2006. Dopodiché è cessata l’attività di monitoraggio come anche quella di «produzione di documenti tecnici affidati a essa come compiti fondamentali». Per «mantenere tuttavia vivo l’interesse per le tematiche rimaste in sospeso e mettere in luce le nuove problematiche emergenti», il Ministero ha previsto la costituzione di un Gruppo di studio che, nel 2012, ha elaborato «un rapporto finale, che fotografa lo stato dell’arte della problematica».

Il rapporto sullo “stato dell’arte” ci dice che ogni Regione, ad accezione di Molise e P.A. di Bolzano, ha istituito un Centro Operativo (COR) con compiti di identificazione di tutti i casi di mesotelioma insorti nel proprio territorio e di analisi della storia professionale, residenziale, famigliare e ambientale dei soggetti ammalati. «La rilevazione avviene coinvolgendo tutte le fonti informative utili (ospedali pubblici e cliniche private) e conducendo la ricerca attiva dei casi». Nella relazione gli operatori del Gruppo di lavoro si dichiarano abbastanza soddisfatti della raccolta dati al riguardo. Stessa cosa non può dirsi per i tumori polmonari, in quanto «non esiste in Italia un sistema di registrazione esaustivo dei casi integrato dalla raccolta anamnestica delle circostanze che espongono ad amianto». Per l’asbestosi si fa invece riferimento alle «statistiche INAIL di denunce e di riconoscimento di malattie professionali» e viene precisato che «l’attendibilità delle statistiche INAIL sulle denunce e riconoscimento delle asbestosi non è mai stata valutata attraverso un confronto con un adeguato golden standard».

Diverse Regioni hanno approvato programmi di sorveglianza sanitaria per gli ex-esposti ad amianto. Ma si tratta di protocolli estremamente eterogenei, si passa infatti dalla «Regione Campania, che prevede la sistematica fornitura di strumenti diagnostici tecnologicamente avanzati e quella delle Regioni Piemonte e Friuli Venezia Giulia che delegano le decisioni, caso per caso, ai medici di base». Nella relazione si legge anche che, per quanto riguarda l’estero, «l’esperienza più esaustiva è quella finlandese», che integra uno screening per tutte le malattie correlate all’amianto (compresa l’offerta di Tac spirale), servizi di igiene e di analisi chimica, progetti di ricerca e cooperazione internazionale.

Anche la relazione del Gruppo di Lavoro pone l’accento sul censimento a macchie di leopardo e i ritardi nelle bonifiche, spesso fatte anche male. «Questi censimenti, nonostante il cospicuo e ripetuto impegno economico, hanno in realtà prodotto risultati di non eccessivo rilievo e di limitata fruibilità». Stesso discorso vale per la bonifica e lo smaltimento. Ci sono stati sicuramente dei miglioramenti nella conoscenza del processo di dismissione dell’amianto «ma se non esteso a tutte le Regioni non permette di avere un quadro completo a livello nazionale del trend in atto, con particolare riferimento al destino finale dei rifiuti di amianto, che attualmente non risulta ben conosciuto nel sue caratteristiche».

Le informazioni che si evincono dalla relazione sommate ai numeri del dossier di Legambiente fanno emergere un quadro davvero allarmante o, se si preferisce, disarmante della situazione italiana a 26 anni dalla messa al bando di questo elemento fibroso altamente nocivo per la salute dei cittadini. «Quanto fatto sino ad oggi non può quindi considerarsi un punto di arrivo in quanto l’esigenza di costante e sempre più approfondita conoscenza della tematica è elemento essenziale per assicurare oltre alla correttezza delle azioni anche la tutela degli operatori, dei cittadini, dell’ambiente».

Essendo molti i Paesi che ancora estraggono e lavorano fibra di amianto viene riscontrato, «con frequenze non eccessive ma certamente meritevoli di attenzione», l’arrivo sul territorio nazionale di merce non conforme ai dettami normativi in materia di amianto. L’obiettivo da porsi è, quindi, «evitare, per quanto possibile, l’ingresso in Italia di prodotti realizzati con componentistiche vietate dalla normativa vigente riguardanti materiali con fibre di amianto» e per raggiungere detto scopo è necessaria una «organica interazione tra i vari soggetti coinvolti o comunque cointeressati». Organi centrali, Regioni, Asl, dogane portuali e aeroportuali.

Anche il Gruppo di Lavoro ministeriale, come Legambiente, giunge alla conclusione che sia necessario redarre quanto prima un Testo Unico normativo di riferimento. «Diversi Ministeri (Ambiente, Industria, Sanità) hanno nel tempo legiferato per le proprie competenze, ma non sempre si è tenuto conto di altri precedenti provvedimenti di diverse amministrazioni con cui vi potevano essere elementi di non chiarezza applicativa».

Per la tutela degli operatori, dei cittadini e dell’ambiente ci si attenderebbe quindi quanto prima l’approvazione di un Testo Unico articolato ed esaustivo, un censimento che vada a coprire l’intero territorio nazionale e una bonifica altrettanto plenaria.

A giugno 2012 il Ministero della Salute pubblica il Quaderno n°15 sullo «stato dell’arte e prospettive in materia di contrasto alle patologie asbesto-correlate». Ma quali sono esattamente le patologie asbesto-correlate?
Sono respirabili tutte le fibre, «come generalmente quelle di asbesto», con diametro inferiore a 3.5micron. Le fibre comprese tra 5 e 10 micron di lunghezza, arrivando all’interstizio e per via linfatica alle sierose, «possono determinare lesioni interstiziali e pleuriche»:
Fibrosi
Ispessimenti e Placche pleuriche
Neoplasie
Quelle di lunghezza superiore ai 10micron, arrestandosi a livello alveolare, «possono provocare lesioni alveolari (alveolite asbestosica)».

Tra le patologie asbesto-correlate vengono quindi inserite:
Asbestosi
Pleuropatie asbesto-correlate (Placche pleuriche e Ispessimento pleurico diffuso)
Versamenti pleurici benigni (pleuriti benigne da asbesto)
Tumore polmonare
Mesotelioma (Mesotelioma pleurico e Mesotelioma maligno extrapleurico)

Vanno evidenziate poi le patologie extrapolmonari da asbesto. «Una possibile correlazione è stata evidenziata tra l’esposizione ad asbesto e le patologie autoimmunitarie». Gli effetti sull’apparato gastrointestinale «sono prevalentemente riconducibili all’insorgenza di tumore dello stomaco». Per quanto riguarda l’apparato riproduttivo, «una possibile correlazione è stata documentata con il tumore ovarico». La IARC (International Agency for Research on Cancer) definisce come «sufficiente l’evidenza di insorgenza di cancro alla laringe e dell’ovaio in seguito a esposizione ad asbesto e limitata quella per tumore della faringe, stomaco, colon-retto».

Negli Stati Uniti e in Svezia, dove i consumi di amianto sono diminuiti più precocemente, «si assiste già a una diminuzione dei tassi di mortalità e di incidenza». Laddove i consumi sono cresciuti, come nei Paesi in via di sviluppo, «le limitate statistiche disponibili suggeriscono che l’epidemia sia attualmente al suo esordio». Il declino del consumo di amianto in Italia è avvenuto «in ritardo rispetto ad altri Paesi occidentali». La bonifica e lo smaltimento dell’amianto messo al bando orami dal lontano 1992 sono ancora procedure in fase di rodaggio. Per il nostro Paese si prevede una diminuzione dei picchi di mortalità e incidenza a partire dal 2015-2020. Si prevede. O meglio si suppone. Si potrebbe anche immaginare che la gran parte dell’amianto prodotto e importato tra il 1945 e il 1992 fosse stato tempestivamente censito, smaltito e i siti, pubblici e privati, bonificati… già si potrebbe ma quello che proprio non si può fare è cambiare la realtà, lo stato delle cose. E quello è disastroso.

Tre verbi che devono diventare azioni concrete e diffuse: censire, bonificare, smaltire. Tutto e ovunque. E farlo in tempi brevi. Tutto il resto sono parole, o meglio chiacchiere inutili.


Articolo originale qui


LEGGI ANCHE

“La legge sugli scordati sta dando i suoi frutti”, parola di Legambiente: 574 scordati, 971 persone e 43 aziende denunciate nel 2016 

L’Italia infuocata dai rifiuti nel libro-confessione di Gaetano Vassallo (Sperling&Kupfer, 2016)


 

© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

← Vecchi Post

Articoli recenti

  • “Tattilismo e lo splendore geometrico e meccanico” di Filippo Tommaso Marinetti (FVE, 2020)
  • “Daphne Caruana Galizia. Un omicidio di stato”
  • “La terra del sogno” di Mariana Campoamor (Mondadori, 2020)
  • “Lezioni per il futuro” di Ivan Krastev (Mondadori, 2020)
  • “L’impero irresistibile”: gli Usa di Trump e la fine del dominio americano

Archivi

Categorie

  • Articoli
  • Interviste
  • Recensioni
  • Senza categoria

Meta

  • Accedi
  • RSS degli articoli
  • RSS dei commenti
  • WordPress.org

Proudly powered by WordPress

Questo sito utilizza i cookie per migliorarne l'esperienza d'uso. Continuando la navigazione l'utente ne accetta l'uso in conformità con le nostre linee guida.OKMaggiori informazioni sui cookie