Il legame tra uomo e albero, tra uomo e foresta, è sempre stato strettissimo. Da essa egli ha ricavato il sostentamento vitale che non si è mai ridotto alla mera nutrizione. La forza di questo legame si trova nella grande spiritualità che lo caratterizza.
Uomo e albero è una correlazione primaria della civiltà. Nel sistema antropologico e mitologico del secolo scorso, come in quello simbolistico attuale, le piante hanno la stessa valenza delle pietre e degli animali. Nella storia religiosa europea il culto degli alberi ha avuto una parte importante. Nulla di più naturale, poiché agli albori della storia l’Europa era coperta di una immensa foresta primigenia, dove le sparse radure devono essere sembrate delle isolette in un oceano di verde. Gli scavi di antichi villaggi di palafitte nella valle del Po hanno mostrato che molto tempo prima del sorgere e probabilmente della fondazione di Roma, il Nord dell’Italia era tutto coperto di di fitte selve di olmi e di castagni e specialmente di querce (J.G. Frazer, Il ramo d’oro, Einaudi, 1950). L’esistenza di boschi sacri e la sacralità di boschi naturali, prima che venisse instaurato il culto degli dei, è attestata presso i popoli antichi. La letteratura medievale romanza e germanica è piena di tradizioni legate a culti dell’albero trasmessi dall’antichità etnologica e storica, che acquistano significati nuovi (G.B. Bronzini, 1993). Si pensi a Dante pellegrino nell’aldilà che sentì ribellarsi con voce umana il pruno da cui tolse soltanto un ramoscello. (Inf. XIII, vv. 31-33). La stessa selva nera fitta e oscura in cui Dante si ritrova sperduto è un campione reale, prima che simbolico e allegorico, delle molte foreste che occupavano l’Europa alto-medievale.
La foresta ha sempre rappresentato per le comunità umane un’importante fonte di risorse da cui ricavare cibo e acqua essenziali per la sopravvivenza, piante e funghi medicinali con cui curare le malattie, così come legno e altri materiali da costruzione. L’importanza della foresta, però, non si esaurisce nella mera dimensione materiale legata al sostentamento degli individui, ma abbraccia anche la componente spirituale. Questo è probabilmente il motivo per cui numerosi rituali associati a una iniziativa religiosa, a elementi taumaturgici o a una comunione con l’universo, sono tradizionalmente praticati in luoghi particolari situati nel cuore di una foresta, come dimostrano gli studi condotti nelle regioni più disparate del globo: dalla Siberia all’Amazzonia (S.V. Beyer, Singing to the Plants: A Guide to Mestizo Shamanism in the Upper Amazon, UNM Press, 2010; G. Harvey, The Handbook of Contemporary Animism, Acumen Publishing, 2014). I ritrovamenti di reperti preistorici sull’Appennino hanno da tempo confermato la presenza di attività umana nelle foreste di queste montagne sin dall’antichità.
Tra gli archetipi – simboli arcaici e universali dell’inconscio collettivo, ben radicati nella psiche di qualunque essere umano, a prescindere dalla specifica estrazione, etnia o retroterra culturale – vi è quello della foresta, che rappresenta il mistero e la trasformazione. Lo stretto legame dell’uomo con la foresta e i benefici psicofisici che ne derivano si possono leggere nella cornice della cosiddetta “biofilia”, ovvero dell’attrazione istintiva che l’uomo prova per la natura e le altre forme di vita. (M. Antonelli, D. Donelli, F. Firenzuoli, S. Nardini, L’uomo e la foresta: le radici lontane di un rapporto naturale in “Terapia Forestale”, CNR Edizioni, 2020). Un’immagine aulica che rimanda alla lirica dannunziana, alle sensazioni prodotte dalla pioggia che cade intensamente sulla pineta in cui si sono introdotti il poeta ed Ermione, i quali, purificati dall’acqua piovana e inebriati dai suoni e dalla musicalità della stessa, sembrano immergersi progressivamente nella natura divenendo parte di essa (G. D’Annunzio, La pioggia nel pineto, 1902).
Articolo pubblicato sul numero di giugno 2024 della rivista cartacea Leggere:Tutti
L’arte è libera perché permette di indagare ogni aspetto dell’essere umano. L’arte è libertà perché permette di vivere una vita lontano dai condizionamenti. Per Flaiano l’arte è un modo per riappropriarsi della vita.
“L’arte è libertà: di creare, di pensare. Libertà dai condizionamenti. Risiede in questa attitudine il suo potenziale rivoluzionario: e non è un caso che i regimi autoritari guardino con sospetto agli artisti e vigilino su di loro con spasmodica attenzione, spiandoli, censurandoli, persino incarcerandoli. Le dittature cercano in tutti i modi di promuovere un’arte e una cultura di Stato, che non sono altro che un’arte e una cultura fittizia, di regime, che premia il servilismo dei cantori ufficiali e punisce e reprime gli artisti autentici.” Importanti e profonde le parole del presidente Mattarella pronunciate durante il discorso al Quirinale dell’8 marzo.
L’opera d’arte è il prodotto di quell’attività umana che esprime lo spirituale nella concretezza sensibile della materia e genera, in questo modo, l’unione esteriore di concetto e natura che Hegel individua come arte bella e chiama ideale estetico.
“È affare dell’arte presentare anche esteriormente la manifestazione della vitalità e principalmente della vitalità spirituale nella sua libertà, render conforme al concetto la manifestazione sensibile, ricondurre l’indigenza della natura, il fenomeno, alla verità, al concetto” (Hotho, 1823).
L’opera d’arte, l’ideale dell’arte come unione di spirito e natura, manifesta attraverso la concretezza esteriore la vitalità dello spirito “nella sua libertà” e si tratta proprio di capire quali caratteristiche costituiscano una simile libertà. L’opera d’arte è, per chi la produce e per chi ne fruisce, fonte di liberazione. Essa sembra produrre quella quiete, per lo meno interiore, che emancipa lo spirito da uno stato di minorità. La coincidenza tra l’arte particolare più libera, ovvero la poesia, e l’epoca romantica trova una propria sintesi nell’individuazione del contenuto fondamentale della rappresentazione artistica in età moderna, ovvero l’essere umano in quanto tale, in tutta la molteplicità dei tratti del suo carattere. Questa delimitazione, a conti fatti, si traduce in un ampliamento della materia a disposizione dell’artista (Campana, 2017).
Tra gli “artisti” italiani che più hanno saputo indagare l’essere umano va per certo annoverato Ennio Flaiano. Da un punto di vista minoritario ed esterno, egli osserva quell’insieme di contraddizioni storiche e psicologiche che è l’Italia, non solo quella del benessere, e quell’individuo che è l’italiano, comico nella sua indefinibilità e unico nel suo sentirsi fuori casa ovunque, anche in casa propria (Torre, 2021).
“Crediamo soltanto nei fenomeni soprannaturali, cioè nel teatro, che è un’esistenza più vera della vita quotidiana. Al presente crediamo tanto poco da viverlo anni e anni in una continua impazienza.” Il teatro, per Flaiano, è un luogo dove si saggia, in un complesso gioco di simulazione, un’ipotesi di società e di linguaggio. “Ho imparato che il teatro è tutto meno che spettacolo, è parola, attesa, speranza, un’altra ipotesi di noi stessi.” Il suo è stato per certo un teatro tascabile, anche perché ha sempre voluto rompere le tasche dei bacchettoni e dei conformisti, attraverso un acuto spirito satirico che critichi della società i miti e i costumi, le nevrosi e le abitudini, e cerchi di “rendere disperata una situazione, sottolineandone il lato comico.”
Articolo pubblicato sul munero di maggio 2024 della Rivista cartacea Leggere:Tutti
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«Di Gilgamesh che vide ogni cosa voglio io narrare al mondo; di colui che apprese ogni cosa rendendosi esperto di tutto. Egli andò alla ricerca dei paesi più lontani e in ogni cosa raggiunse la completa saggezza. Egli vide cose segrete, scoprì cose nascoste, riferì le leggende prima del diluvio. Egli percorse vie lontane, finché stanco e abbattuto non si fermò e fece incidere tutte le sue fatiche su una stele.» La più antica scrittura tematizzata sul viaggio, l’Epopea di Gilgamesh, presenta l’eroe eponimo glorificato come “uomo che conobbe i paesi del mondo”, che svelerà le “cose segrete” che ha appreso (Treccani, 2007).
Il rapporto tra viaggio e letteratura è molto stretto. Il viaggiatore, durante il suo percorso, si relaziona alla realtà che gli sta attorno in maniera diacronica, in quanto si interroga su quest’ultima e la scopre attraverso la successione degli elementi che la costituiscono, proprio come fossero le pagine di un libro (J. Baudrillard, Amérique, Grasset-Fasquelle, Paris, 1986). La scoperta però, in diversi casi, non riguarda soltanto la realtà in cui ci si muove. Un importante elemento spesso presente nella letteratura odeporica è la conquista del sé da parte di chi scrive (E. J. Leed, La mente del viaggiatore: dall’Odissea al turismo globale, Il Mulino, Bologna, 2007).
L’editore che pubblicò Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway affermò che il libro «potesse fare da epilogo a tutto quello che aveva imparato o aveva cercato di imparare mentre scriveva e cercava di vivere». Hemingway può essere definito un giovane individualista il quale, stanco del proprio nido borghese, esce nel mondo avventurosamente, a caccia di esperienze attraverso le quali realizzarsi. Egli è figlio dell’individualismo che ispirò la rivoluzione democratica, dello “spirito della frontiera”, ma è un figlio nato fuori dal tempo, con un’eredità di valori che subito si dimostra non più attiva, fonte solo di delusione e sconfitta. Pieno di fiducia nel proprio sogno americano, si avventura nel mondo del profitto e delle grandi guerre e il mondo spietato lo ferisce e lo disinganna (N. D.Agostino, Ernest Hemingway, Belfagor, vol.11, n.1, gennaio 1956).
La fitta descrittività che farcisce le migliaia di pagine dei romanzi di Hemingway non è eccessivo e ossessivo particolarismo, la sua attenzione è rivolta alla descrizione di ciò che accade intorno a lui, nel tentativo di tracciarne le linee essenziali. Un fare dovuto forse alla sua formazione giornalistica (A. Dalla Libera, Riportare l’antropologia. Hemingway e un sogno letterario, Dialegesthai Rivista di Filosofia, aprile 2021). Vista in quest’ottica, la funzione attribuita alla letteratura da Hemingway non è molto distante da quella di Gilgamesh.
La letteratura americana moderna nasce con Mark Twain ma la tradizione letteraria in America nasce con i pionieri, con gli europei che si scontrarono per primi con realtà inimmaginabili, diversissime dalle vite urbane nel vecchio continente e nelle neonate città di frontiera. Un leitmotiv che sembra aver accompagnato anche la produzione letteraria successiva e i pionieri di tutti i continenti.
Durante il suo viaggio in Tanzania, Hemingway affermò di voler «scrivere qualcosa sul paese e gli animali, così come sono, per chi non ne sa proprio niente» (E. Hemingway, Green Hills of Africa, Vintage Publishing, New York, 2004). A colloquio con Pop, compagno di ventura e di caccia, Hemingway rivela la sua impotenza di fronte agli spettacoli straordinari che l’Africa gli regala ogni giorno e che difficilmente riuscirà a rendere sulla pagina (A. Dalla Libera, art.cit.).
Il mondo etichettato indistintamente come indigeno racchiude la suo interno una infinità di popoli, etnie, culture differenti e uniche. È importante conoscere le usanze e, soprattutto, la spiritualità in modo da riuscire a comprendere le evoluzioni compiute da ricercatori, esploratori, studiosi e viaggiatori i quali, partiti carichi di nozioni e aspettative ben precise, hanno poi dovuto fare i conti con la realtà dei vari luoghi e dei differenti popoli incontrati. Quasi come fossero partiti con un film in bianco e nero proiettato dinanzi agli occhi e abbiano poi ben presto realizzato di trovarsi dinanzi a una tale varietà di colori da poterne restare quasi abbagliati (E. V. De Castro, Lo sguardo del giaguaro. Introduzione al prospettivismo amerindio, Meltemi Editore, Milano, 2023).
Esattamente come accaduto a Ernest Hemingway in Tanzania.
«La prima impressione che si ha di un paese è molto importante, ma probabilmente più per noi che per gli altri: questo è il male» (E. Hemingway, Green Hills of Africa). Hemingway ha cercato di rendere la propria letteratura la più convincente possibile. Per lui la prosa deve essere realistica, deve riportare ciò che realmente abbiamo vissuto e dobbiamo vivere. Lo scrittore, dice, deve organizzarsi non solo professionalmente ma nel suo essere uomo al mondo, che scopre il mondo e lo racconta.
Articolo pubblicato sul numero cartaceo di aprile di Leggere:Tutti
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Il benessere ambientale è un ritorno al passato o una proiezione verso il futuro? La correlazione tra demografia e inquinamento: il controllo delle nascite e il consumo delle risorse plasmano il mondo globale
Demografia e inquinamento, nell’era del cambiamento climatico: come trovare l’equilibrio per il benessere, dall’allarmismo anni Settanta alla fiducia nelle innovazioni tecnologiche
Il dibattito sull’impatto del numero della popolazione mondiale è riemerso a partire dal novembre 2022, quando si è raggiunto il traguardo degli 8 miliardi di persone – ma le visioni allarmistiche sulla crescita esponenziale della popolazione animavano già il dibattito negli anni Settanta.
Lo slancio demografico è pre-programmato, occorre agire su consumi ed ecologia
La crescita della popolazione mondiale nel medio termine è guidata dalla struttura dell’età giovane di alcune popolazioni mondiali. Il cosiddetto slancio demografico implica che gran parte dell’ulteriore crescita della popolazione totale nei prossimi decenni è già pre-programmata nella composizione per fasce di età della popolazione. Pertanto, le soluzioni immediate per ridurre le emissioni fino al 2050 devono provenire principalmente dall’ecologizzazione dell’economia mondiale e da un cambiamento nel consumo pro capite.
Ciò non significa che i cambiamenti nella dimensione della popolazione globale siano irrilevanti. Nel lungo termine, l’entità della popolazione avrà un impatto in termini di vulnerabilità e capacità della popolazione di adattarsi al già inevitabile cambiamento climatico. Considerando le emissioni future, la dimensione della popolazione degli attuali paesi a basse emissioni farà una grande differenza man mano che le loro economie cresceranno e i livelli di consumo aumenteranno.
La futura crescita della popolazione si concentrerà nelle regioni del mondo che attualmente presentano le emissioni pro capite più basse e una responsabilità limitata per le emissioni passate, come l’Africa. Pur partendo da un livello basso, si prevede che queste regioni registreranno i progressi più lenti in termini di decarbonizzazione, miglioramento dell’efficienza energetica e disaccoppiamento della crescita economica dalle emissioni. Spetta all’Unione Europea e alle altre regioni del primo mondo, che hanno contribuito a gran parte delle emissioni passate, guidare gli sforzi di coordinamento per ridurre l’intensità energetica, sviluppare tecnologie green e adottare modelli di consumo più sostenibili.
Tecno-ottimisti e futuristi puntano tutto su ingegno umano e tecnologia
Mentre le visioni allarmistiche di una crescita esponenziale della popolazione sono ormai scartate dalla maggior parte degli analisti, anche le preoccupazioni più moderate sull’impatto di una popolazione mondiale ancora in espansione vengono spesso minimizzate con l’argomentazione, in ultima analisi, che le emissioni sono influenzate più dal reddito che dalle dimensioni della popolazione.
Lo spostamento dell’attenzione verso il reddito è generalmente accompagnato dalla fiducia nell’ingegno umano e nel ruolo che la tecnologia può svolgere negli sforzi per decarbonizzare le economie. Alcuni studiosi, tra i quali Ian Goldin, vedono in un maggior numero di persone sul pianeta opportunità che si presentano per l’arricchimento del capitale umano e della diversità che consentiranno di affrontare al meglio le sfide globali.
I tecno-ottimisti confidano nella forza dell’innovazione e tendono a ignorare la dipendenza fondamentale delle economie dai bisogni materiali dei combustibili fossili. Ancora più estremisti sono i futuristi come Harari e Kurzweil, i quali invocano le upcoming singularities – trasformazione digitale, intelligenza artificiale, energia da fusione –, quali supporti indispensabili che consentiranno alla specie umana di continuare lungo il suo percorso di espansione economica esponenziale, indipendentemente dall’entità della popolazione e dai confini planetari.
Cambiamenti climatici e popolazione che invecchia sono le sfide europee – anziani e residenti urbani inquinano di più
Stando ai dati del Report 2023 del Joint Research Centre, considerando le emissioni in termini pro capite, è possibile osservare come le persone anziane tendono a emettere in media più delle generazioni giovani. Nelle città le emissioni sono inferiori grazie alle economie di scala urbane – ad esempio, dalla condivisione dei trasporti pubblici. D’altra parte, queste efficienze sono contrastate dal reddito più elevato dei residenti urbani, che normalmente si traduce in maggiori consumi ed emissioni. Inoltre, le persone che vivono in città sono penalizzate dal fatto che le le famiglie, in genere, tendono a essere più piccole rispetto alle aree rurali e quindi le emissioni sono divise per un numero minore di membri della famiglia.
Piuttosto che sulla dimensione e sulla crescita della popolazione, la maggior parte dei riferimenti demografici nelle politiche di mitigazione e adattamento climatico dell’Unione Europea sono legati alla necessità di far fronte alla vulnerabilità di una popolazione che invecchia, a uno status di basso reddito e al luogo di vita rurale.
La popolazione europea sta invecchiando rapidamente. Eurostat prevede che entro il 2050 nell’UE-27 ci saranno quasi mezzo milione di centenari. Questo cambiamento nella struttura per età della popolazione europea avviene parallelamente ai cambiamenti climatici. Ondate di caldo, siccità ed eventi meteorologici estremi sempre più frequenti incidono sui tassi di mortalità complessivi, sul benessere e sui mezzi di sussistenza delle persone.
Stando ai dati del Report 2023 del Joint Research Centre, considerando le emissioni in termini pro capite, è possibile osservare come le persone anziane tendono a emettere in media più delle generazioni giovani. Nelle città le emissioni sono inferiori grazie alle economie di scala urbane – ad esempio, dalla condivisione dei trasporti pubblici. D’altra parte, queste efficienze sono contrastate dal reddito più elevato dei residenti urbani, che normalmente si traduce in maggiori consumi ed emissioni. Inoltre, le persone che vivono in città sono penalizzate dal fatto che le le famiglie, in genere, tendono a essere più piccole rispetto alle aree rurali e quindi le emissioni sono divise per un numero minore di membri della famiglia.
Crescita demografica ed emissioni di carbonio nel mondo: la trappola malthusiana
Il premio Nobel Nordhaus sottolinea che esistono tre modi per ridurre le emissioni: minore crescita della popolazione, minore crescita del tenore di vita, minore intensità di CO2 – decarbonizzazione. C’è una discrepanza della popolazione e di livelli di emissioni tra i paesi. I principali emettitori, storici e attuali, Stati Uniti, Cina e Unione Europea, sono regioni in cui la popolazione ha smesso di crescere o sta crescendo a un ritmo lento. Le regioni in cui la popolazione cresce più forte sono quelle che contribuiscono solo in minima parte al riscaldamento globale.
Dal finire del Diciottesimo secolo in poi, le richieste di risorse sono aumentate costantemente mentre sono emerse conseguenze ecologiche negative come il peggioramento della qualità dell’aria e dell’acqua, il declino delle risorse idriche e terrestri e, con il tempo, il cambiamento climatico… continua a leggere su Lampoon.it
Il festival artistico senegalese Partcours 12 ha ospitato la mostra dedicata a Mauro Petroni e alle sue manifatture in ceramica – «Non fingo di essere integrato: sono un viaggiatore, che guarda tutto e capisce poco»
Partcours – la mostra Petroni 40, organizzata dall’Ambasciata Italiana e dall’Istituto Italiano di Cultura
Un evento a Dakar lega arte e territorio. Si è conclusa il 10 dicembre la manifestazione artistica Partcours iniziata lo scorso 24 novembre e giunta alla dodicesima edizione. Il festival itinerante è un’esplorazione dinamica del tessuto urbano di Dakar, a cui partecipano Artisti, curatori, galleristi e pubblico.
Partcours ha ospitato quest’anno la mostra Petroni 40, organizzata dall’Ambasciata Italiana e dall’Istituto Italiano di Cultura per omaggiare l’artista italiano Mauro Petroni e il suo lavoro creativo in Senegal. Ma numerosi sono stati gli eventi e le esposizioni che hanno visto la partecipazione di oltre cento artisti.
I luoghi di Partcours 12: Almadies Ceramics Workshop
Mauro Petroni ha esposto nell’hangar di Almadies Ceramics Workshop. Costruito all’inizio degli anni Sessanta nella foresta di Almadies, questo capannone aperto ospitava la produzione di prefabbricati in cemento, utilizzando le rocce della vicina scogliera. Dal 1984 è sede del laboratorio di Petroni, che ha prodotto interventi in ceramica per l’architettura e il patrimonio senegalese: dalla ricostruzione del mercato Kemel nel 1996 al restauro della stazione ferroviaria di Dakar nel 2018. Tutta la sua produzione è realizzata a mano con la terra rossa del Senegal, che si lega agli smalti nel forno a gas di Limoges risalente al XIX secolo.
Le ceramiche prodotte nel laboratorio di Petroni sono una commistione di radici italiane liberamente ispirate all’estetica africana. L’artista sottolinea di non aver praticamente mai lavorato la ceramica in Italia, mentre il suo lavoro in Senegal ruota completamente intorno a essa. «Ho poco dell’artista e dell’artigiano – ma amo il rigore. Non ho mai fatto ceramica in Italia. Ho bevuto tanto da tante parti e quando faccio dei pezzi che mi dico del Sahel, forse sono di una matrice etrusca, o ancora c’è un po’ di Oriente. In fin dei conti il viaggiatore quando diventa sedentario vive di sogni, e di segni».
Il viaggio artistico di Petroni fa tappa a la Gare de Dakar
Un viaggiatore, Petroni, che ha ricreato un ‘viaggio architettonico’ sui muri di Dakar – sono circa 240 i suoi interventi nella città, per creare un percorso nel tempo e attraverso il Paese. Intorno al concetto di viaggio ruota anche uno dei monumenti storici della città: la Gare de Dakar, tra le opere architettoniche pubbliche forse quella che più di tutte rappresenta l’impegno di coniugare e unire culture e tradizioni. Un’opera che vuole rappresentare il progresso, l’infrastruttura, il viaggio.
Petroni stesso ha percorso migliaia di chilometri nella sua vita. Ha vissuto più tempo in Senegal che in Italia e si sente ancora un viaggiatore e uno straniero. «In questa casa atelier dove abito ho vissuto quarant’anni, più del tempo che ho dormito in un letto italiano. Non ho mai fatto le treccine, non fingo di essere integrato: sono ‘straniero’, privilegiato, più libero di chi deve sottoporsi a regole sociali. Non so se questo si traduce anche in quello che faccio, forse sì. La lettura che posso fare delle cose è simile a quella del viaggiatore, che guarda tutto e capisce poco».
Petroni, il mercato di Kermel e l’arabisance
Un’altra opera rappresentativa dell’architettura urbana di Dakar è il mercato di Kermel, cuore vivo della città, meta anche di turisti. L’originale architettura è a pianta centrale – una struttura in acciaio e mattoni colorati, con ringhiere di ferro battuto plasmate secondo motivi floreali, richiamati anche dalle ceramiche decorative. Un edificio che parla di sogni, di fantasia, di allegria. Esso è testimonianza del padiglione a pianta centrale con struttura in acciaio secondo i modelli importati dalla Francia ma è, al tempo stesso, il volto esotico della arabisance – arabizzazione. Petroni ha lavorato alla sua restaurazione. Un lavoro per il quale nutriva molte aspettative.
«Avevo entusiasmo per quello che era il mio primo grosso cantiere, legato alla storia della città. Un mercato. Il posto di tutti gli scambi e di tutti i sogni. Quelli che avevano disegnato i decori non avevano capito niente, pensavano all’Africa come alle Mille e una notte, ma proprio lì sta la genialità. Ancora una volta la mescolanza, i fischi per fiaschi: le lune dell’Arabia nel loro decoro somigliavano a delle banane».
Petroni 40: il labirinto multiculturale dove non ci si perde ma ci si trova
Ad aprire il festival Partcours quest’anno c’è stata proprio la mostra in due parti dedicata ai 40 anni di lavoro creativo in Senegal di Mauro Petroni. Petroni 40 all’Istituto Italiano di Cultura di Dakar sarà allestita fino al 24 febbraio 2024 mentre quella all’Atelier Céramiques Almadies fino al 1 marzo 2024. La prima è proiettata verso le opere di architettura urbana e la seconda incentrata, invece, su otto collezioni iconiche dell’artista.
Petroni ha definito le sue ceramiche il filo di Arianna che gli hanno permesso di creare la tela sulla città. La tela su una città che egli definisce un labirinto nel quale invece di perdersi ci si trova. «Facile rispondere che Dakar è un labirinto – non di quelli dove ci si perde, piuttosto quelli dove ci si trova. E questo grazie al suo senso multiculturale, una città dove molte anime convivono».
I chiaroscuri della cultura e della società senegalese
Dakar è la città più grande del Senegal. Situata sulla costa occidentale dell’Africa è un centro multiculturale vibrante e vivace. Fondata dai colonizzatori francesi nel 1857, ospita numerosi gruppi etnici: Wolof, Serer, Puhl, Diola, Mandingo. La presenza francese è evidente nella ristorazione, nel commercio e nell’architettura, con gli edifici coloniali che si affiancano a moderne strutture africane. Un labirinto di strade, case, arte, cultura le cui caratteristiche si intrecciano per creare quella peculiare società che Petroni definisce una vera e propria rampa di lancio.
Cambiamenti bruschi, radicali. Petroni ha iniziato a frequentare il Senegal dagli anni Settanta e vi si è trasferito in maniera definitiva nel 1983. Una nazione dove ha trovato, al suo arrivo, la libertà di espressione e movimento. «Era un posto dove trovavo la libertà di essere, di muovermi, di esprimermi. Prima tutto era largo, ora tutto sembra essere così stretto. Non voglio dire che era meglio, era così»... continua a leggere su Lampoon.it
I bambini sono il futuro di una comunità: nelle guerre etniche sono nemici da eliminare – fragilità umana, e distress psicologico, dal Secondo dopoguerra a oggi
Gli effetti dei conflitti armati sui bambini: i numeri da Gaza all’Ucraina e l’impatto sulla salute mentale
Sono oltre 260mila le violazioni gravi verificate sui bambini tra il 2005 e il 2020 in oltre trenta conflitti a livello globale. Più di 100mila bambini uccisi o mutilati in situazioni di conflitto armato. Oltre 90mila sono stati reclutati e utilizzati da parti del conflitto. Almeno 25mila sono stati rapiti. Circa 14mila vittime di stupri, sfruttamento sessuale, matrimoni forzati o altre gravi forme di violenza. I numeri del conflitto in Ucraina e a Gaza sono in evoluzione mentre si scrive.
Tra le regole che l’uomo si è imposto per delimitare la pratica della violenza bellica, l’esclusione di bambini dal coinvolgimento diretto: una norma la cui violazione è sempre stata condannata con unanimemente. Eppure, proprio a partire dall’età del massimo sviluppo tecnologico, il mondo ha assistito a quasi duecento conflitti armati il cui prezzo, in termini di vite umane e sofferenze di ogni genere, è stato pagato da chi non indossava alcuna divisa: donne, anziani, bambini. Nelle guerre odierne, il 90% delle vittime sono civili.
I bambini sono il futuro di una comunità: per questo nelle guerre etniche sono nemici da eliminare
La ragione del maggiore coinvolgimento dei bambini nelle guerre va ricercata nella natura delle stesse. Non si parla più di conflitti internazionali, combattuti da eserciti regolari, bensì scontri armati per ragioni etniche, religiose, sociali o territoriali. Nella guerra etnica l’obiettivo primario non è la conquista del territorio bensì l’espulsione o l’annichilimento di un gruppo. Le generazioni più giovani sono considerate alla stregua di nemici in crescita.
In Rwanda, prima dell’inizio del conflitto del 1994 tra autoctoni zairesi e banyarwanda, che ben presto si trasformò in una guerra di tutti contro i tutsi, Radio Mille Collines diffondeva tra gli hutu il messaggio che «per sterminare i topi grossi, bisognava ammazzare i topi piccoli». In poche settimane, 300mila topi piccoli furono uccisi.
Il coinvolgimento dei bambini nei conflitti odierni: tra il 2005 e il 2022 oltre 105mila bambini sono stati reclutati e usati
Il coinvolgimento dei bambini nei conflitti odierni non si limita alla loro inclusione fra gli obiettivi strategici. Adolescenti, ragazzi e bambini sono spesso utilizzati nelle operazioni militari.
Tra il 2005 e il 2022 oltre 105mila bambini sono stati reclutati e usati nei conflitti. È stato documentato l’impiego di bambini soldato nei conflitti armati in Afghanistan, Camerun, Colombia, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, India, Mali, Myanmar, Nigeria, Libia, Filippine, Pakistan, Somalia, Sudan, Siria, Yemen.
I bambini soldato sono parte integrante di eserciti governativi, gruppi paramilitari, fazioni armate irregolari, tra cui ribelli e terroristi. La loro età media è inferiore ai 13 anni. Uno dei fattori che ha permesso il crescente utilizzo dei bambini come soldati è stato il mutamento delle caratteristiche tecniche delle armi da guerra. Per utilizzare le armi premoderne occorreva molta forza e l’allenamento di un adulto, mentre oggi il perfezionamento tecnologico consente anche ai bambini di partecipare attivamente alle guerre… continua a leggere su Lampoon.it
L’uso strumentale della pena di morte ai fini della propaganda politica e religiosa: differenze tra Occidente e Oriente quando si parla di rispetto umano – e il ruolo delle case farmaceutiche
La condanna a morte di Kenneth Smith in Alabama tramite ipossia di azoto
Kenneth Smith, cittadino statunitense condannato a morte per omicidio, rischia l’esecuzione della pena con ipossia di azoto. Una pratica mai utilizzata finora. Smith è già stato sottoposto a un primo tentativo di esecuzione della pena lo scorso anno. Non andato a buon fine perché non si è riusciti a trovare una vena utile per la somministrazione dei farmaci letali. Ora rischia una seconda esecuzione con un metodo ritenuto particolarmente atroce.
Ipossia di azoto – cosa è l’azoto puro, il gas inerte e soffocante, e perché può essere letale
L’azoto in Italia è classificato come gas inerte. In Germania, è chiamato stickoff, ovvero gas soffocante. Se una persona entra in atmosfera ricca di azoto può perdere conoscenza in alcune decine di secondi, senza avvertire alcun sintomo o malessere. Dopo alcuni minuti insorge la morte. La persona cade a terra come fosse stata colpita al capo. I sensi umani non rilevano la diminuzione della concentrazione d ossigeno. Manca la percezione della rapidità con la quale le condizioni di asfissia possono condurre alla morte. L’inalazione di azoto puro è mortale.
L’azoto puro inibirà completamente l’anidride carbonica e l’ossigeno dai polmoni facendo arrestare immediatamente la respirazione. L’esecuzione mediante inalazione di azoto puro è stata valutata e approvata, a partire dal 2015, da tre stati: Alabama, Mississippi e Oklahoma, come possibile alternativa alle iniezioni letali. Il caso Smith sarebbe la prima volta che viene applicato.
Al condannato viene fatta indossare una maschera, inizialmente collegata a tubi di gas respirabile. Dopo l’ultima dichiarazione del detenuto, il gas respirabile verrà sostituito con azoto puro. La durata del procedimento potrebbe variare tra i cinque e i quindici minuti.
Iniezione letale e ipossia di azoto: vecchi e nuovi metodi di esecuzione
L’iniezione letale è praticata seguendo un protocollo che prevede la somministrazione separata di tre farmaci. La procedura inizia con l’iniezione di un sedativo, allo scopo di risparmiare al condannato le sofferenze fisiche ed emotive dell’esecuzione, il secondo farmaco iniettato paralizza i polmoni e il diaframma, mentre il terzo provoca la morte per arresto cardiaco. Alcune volte si è proceduto con un’unica iniezione letale ma, in generale, il procedimento seguito è quello delle tre somministrazioni. Tutte le trentacinque giurisdizioni statunitensi che conservano la pena di morte hanno previsto l’iniezione letale come metodo primario per le esecuzioni. In venti essa è stata addirittura l’unico metodo contemplato.La prima esecuzione per iniezione letale è avvenuta negli Stati Uniti nel 1982. In poco più di quarant’anni, oltre mille e trecento esecuzioni hanno avuto luogo con l’iniezione letale.
Le obiezioni all’impiego dell’ipossia da azoto come metodo per l’esecuzione di una condanna a morte riguardano la modalità, ritenuta atroce e disumana, e il fatto che sia un metodo mai utilizzato e, quindi, potrebbe avere degli sviluppi inaspettati. Diversi sono stati i casi in cui anche l’iniezione letale non ha funzionato come ci si aspettava: il sedativo non ha fatto effetto, non si è riusciti a trovare una vena utile – come nel caso di Kenneth Smith -, il soggetto ha manifestato sintomi inaspettati e la morte è avvenuta dopo molti minuti, alcune volte per sopraggiunto infarto… continua a leggere suLampoon.it
Lo slow living come reazione alla globalizzazione: lavoro e guadagno rimpiazzati da benessere e cura di sé – ma aleggia un sentimento di melanconia, il nichilismo dei nostri giorni
Il tempo non è denaro perché il tempo non esiste: la teoria loop quantum gravity
La nostra idea di tempo come unità quantizzabile e misurabile, è piuttosto recente e legata all’idea di produttività. Il concetto di ‘il tempo è denaro’ spiega bene la concezione di una vita consacrata alla produzione di beni e al guadagno. Il tempo dedicato alla produzione quantificabile dei beni, diventa esso stesso un qualcosa da misurare. Società ed economia sembrano ruotare intorno al concetto di tempo proprio mentre in fisica esso viene del tutto annullato.
I fisici sono arrivati a sostenere l’idea dell’inesistenza del tempo. La teoria loop quantum gravity descrive come si muovono le cose l’una rispetto all’altra, senza alcuna necessità di parlare di tempo. Concepito per la vita quotidiana, il tempo smette di essere necessario quando si studiano le strutture più generali del mondo. Si ha quindi una soggettivazione del concetto di tempo. Anche in antropologia il tempo è un costrutto sociale. Il fondamento delle categorie di tempo è il ritmo della vita sociale. Le attività organizzate in ciò che usiamo chiamare ‘lo scorrere del tempo’ sono un costrutto storico-culturale e il calendario scandisce il ritmo delle attività collettive regolarizzandole.
Lockdown e auto-sospensioni per combattere il male dell’infinito, la prima fragilità umana
Dietro questo c’è un distacco della cultura occidentale, dalla natura e una paura del suo arresto. Ciò che manca alla nostra civiltà è l’idea del limite. La nostra cultura è priva dell’illuminazione che proviene dalla pratica delle auto-sospensioni. Potrebbe essere proprio questa brama dell’oltre ogni limite, chiamata anche ‘il male dell’infinito’, la fonte dei problemi che affliggono la società moderna, la nostra fragilità umana.
I lockdown in piena pandemia hanno arrestato gli ingranaggi di questa macchina economica che siamo abituati a pensare non solo come inarrestabile ma anche come universale, come un qualcosa di sacro e intoccabile. Tutti hanno dovuto ripensare i propri spazi e tempi all’insegna di un unico e collettivo scopo: rallentare. Una vita slow dettata dalla necessità che richiama un differente stile di vita praticato da sempre più persone in tutto il mondo ormai. Un approccio lento alla vita che promuove benessere e sostenibilità ambientale.
Cambiare stile di vita per prendersi cura di se stessi: l’individuo e la sua appartenenza alla comunità
Oltre il novanta per cento degli italiani si dichiara pronto a cambiare il proprio stile di vita per una società più sostenibile, di questi, circa il quaranta per cento è pronto ad attuare un cambio radicale delle proprie abitudini, dalla mobilità ai consumi alimentari. L’identità non è soltanto l’atto di partire da sé per attuare un cambiamento, essa è anche un tornare a sé. La necessità di occuparsi di sé. Che è una responsabilità, a volte un peso. Ci si chiede se sfuggire alla solitudine, intesa come la cura di sé, non rappresenti anche un alleggerimento di questa responsabilità. Un discorso applicabile sia all’individuo sia alla sua appartenenza alla comunità… continua a leggere su Lampoon.it
Il 40% delle donne africane si sottopone a trattamenti per schiarire la pelle, spesso con creme che contengono mercurio. Federico Faloppa indaga le origini e il presente del desiderio di Sbiancare un etiope
Creme, unguenti e gel sbiancanti per la pelle: una pratica dannosa per la salute
Solo sul mercato africano esistono più di centocinquanta marche di creme, unguenti e altri gel sbiancanti, facilmente acquistabili, ma quasi sempre illegali, e dannosi per la salute. Quando un prodotto sparisce dal mercato, perché dichiarato troppo nocivo, subito viene sostituito da rimedi fatti in casa. Spesso definiti naturali, non per questo meno tossici.
Il problema non è solo medico e non riguarda solo il continente africano. Un’inchiesta di Le Monde del 2008 già rilevava la tendenza diffusa da parte delle persone di colore a volersi sbiancare la pelle. Un desiderio comune anche tra le cittadine francesi di origine africana. Oggi, lo storico Pap Ndiaye – che nel 2022 ha assunto l’incarico di ministro dell’educazione nazionale in Francia – sostiene si tratti di un problema tout court, risolvibile solo attraverso una lotta più efficace contro le discriminazioni, le gerarchie sociali e quelle mélaniques – basate sulla melanina, ereditate dalla colonizzazione.
Quando nasce la necessità di sbiancare i neri e perché? Un libro ne ripercorre le tappe salienti
Lo studio e la ricerca condotti da Federico Faloppa – autore di Sbiancare un etiope. La costruzione di un immaginario razzista, Utet, De Agostini Libri, Milano, 2022 – ripercorrono i tratti salienti della nascita della necessità di sbiancare una persona dalla pelle scura.
Dal vecchio al nuovo continente, la superiorità della razza bianca è stata sbandierata dalla maggior parte della popolazione – da gruppi estremisti quali i membri del Ku Klux Klan ma, anche da molti afferenti la NAACP (National Association for the Advancement of Coloured People), convinti che i neri non avrebbero mai ottenuto la pienezza dei diritti civili e politici senza modificare le loro abitudini e il loro modo di presentarsi, seguendo i modelli, anche estetici, dei bianchi. La prima ambizione di un colonizzato è di diventare come il colonizzatore, il quale assurge a modello di riferimento… continua a leggere su Lampoon.it
Quali sono i reali effetti della violenza sull’essere umano, soprattutto se ne rimane colpito in giovane età? Esiste un limite invalicabile tra reale e virtuale quando si parla di violenza oppure è fin troppo facile passare dall’uno all’altro tipo?
Nel Rapporto Unicef 2023 si legge che, complessivamente, nel 2022 quasi 37milioni di bambini in tutto il mondo sono sfollati a causa di conflitti e violenze. Un numero che non si contava dalla Seconda guerra mondiale. Cifra che non comprende i bambini sfollati a causa della povertà, dei cambiamenti climatici o alla ricerca di una vita migliore. E non comprende nemmeno i bambini sfollati a causa della guerra in Ucraina. Per la gran parte si tratta di bambini senza uno status ufficiale di migrante o accesso all’istruzione e all’assistenza sanitaria.
Presumibilmente una larga parte di questi minori ha subito o subirà una qualche forma di violenza o vi abbia assistito.
Stando ai dati diffusi da Save the Children a novembre 2021, in Italia sono stati 427mila i minorenni che nell’arco temporale 2009-2014 hanno vissuto la violenza dentro casa. Diretta o indiretta. In questo secondo caso si parla di violenza passiva, definita dal Cismai – Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso dell’Infanzia – come «il fare esperienza da parte del/la bambino/a di qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulti e minori».
La violenza domestica, diretta e indiretta, ha degli effetti dal punto di vista fisico, cognitivo, comportamentale e sulle capacità di socializzazione dei bambini e degli adolescenti.
Un quarto di tutti gli adulti dichiara di aver subito abusi fisici durante l’infanzia.
Una donna su 5 e un uomo su 13 dichiarano di aver subito violenze sessuali nell’infanzia.
Tra le conseguenze dei maltrattamenti infantili ci sono ricadute permanenti sulla salute fisica e mentale, le cui ripercussioni a livello sociale e occupazionale possono finire per rallentare lo sviluppo economico e sociale di un Paese.
Prevenire i maltrattamenti infantili prima che inizino è possibile e richiede un approccio multisettoriale.
I maltrattamenti infantili sono un problema mondiale, che comporta gravi conseguenze per l’intera durata dell’esistenza. Lo stress causato dai maltrattamenti è associato a ritardi nella fase iniziale dello sviluppo cerebrale. Uno stress estremo può compromettere lo sviluppo del sistema nervoso e di quello immunitario. Di conseguenza, gli adulti che hanno subito maltrattamenti nell’infanzia presentano un rischio maggiore di sviluppare problemi comportamentali, fisici e mentali, quali:
Commettere o subire violenze.
Depressione.
Fumo.
Obesità.
Comportamenti sessuali ad alto rischio.
Gravidanze indesiderate.
Abuso di alcol e droghe.
Non tutti i bambini abusati si trasformano in aggressori, ce ne sono alcuni la cui triste sorte sembra essere la condanna a rimanere vittime.1
Ogni evento di natura maltrattante, specialmente se sperimentato precocemente e ripetutamente nelle relazioni primarie di cura, cioè con le figure che dovrebbero garantire sicurezza, affidabilità, stabilità, contenimento affettivo ed emotivo, in carenza o assenza di fattori protettivi e di “resilienza” nel bambino, produce trauma psichico/interpersonale, che colpisce e danneggia le principali funzioni dello sviluppo, provoca una grave deprivazione del potere e del controllo personale, una rilevante distorsione dell’immagine di sé e del mondo circostante.2
Dunque le persone, in particolare bambini e adolescenti, traumatizzate da qualsiasi forma di violenza manifestano una rilevante distorsione dell’immagine di sé e del mondo circostante. E allora ci si domanda cosa accade in coloro che assistono a una violenza continua “filtrata e somministrata” attraverso qualsivoglia dispositivo: media, pubblicazioni, video, videogiochi, musica, internet e via discorrendo. In particolare ci si chiede se, in un certo qual modo, tutta questa violenza possa essere considerata una forma di violenza assistita.
Tecnicamente per violenza assistita da minori in ambito famigliare si intende il fare esperienza da parte dell’infante di qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulte e minori. Si includono le violenza messe in atto da minori e/o su altri membri della famiglia, gli abbandoni e i maltrattamenti ai danni di animali domestici.
Il bambino può fare esperienza di tali atti:
Direttamente: quando avvengono nel suo campo percettivo.
Indirettamente: quando ne è a conoscenza e/o ne percepisce gli effetti.3
L’utilizzo abituale da parte di bambini e ragazzi delle nuove tecnologie e di internet in particolare, se da una parte rappresenta un’opportunità di ampliare le possibilità di esperienza e di relazione, dall’altro ha modificato le modalità di comunicare e si è rivelato lo scenario di possibili forme di violenza anche molto gravi. Recenti ricerche hanno messo in evidenza l’estrema diffusione, anche nel nostro paese, dell’utilizzo di internet da parte delle nuove generazioni, e come si stiano diffondendo condizioni di rischio di vittimizzazione sessuale.4
Anche quando l’infante o l’adolescente non è o non diventa vittima di abuso, reale o online, ma è sottoposto costantemente a immagini, video, videogiochi, narrazioni varie di violenza, cosa accade nella sua mente? Si corre egualmente il rischio di una rilevante distorsione dell’immagine di sé e del mondo circostante?
La quasi totalità dei ragazzi oggi dichiara che la fonte unica, primaria e assoluta di insegnamento, apprendimento e ispirazione per la propria sessualità è la pornografia attraverso il web.
La pornografia basa i propri bias sulla carnalità e l’assenza di contesti, emozioni, sentimenti, responsabilità, maturità… le persone diventano corpi-oggetto atti a soddisfare pulsioni. È evidente e palese che il ricorso a questo tipo di visione produca effetti non proprio lodevoli negli adulti quindi si possono facilmente immaginare le conseguenze nefaste che causano sui giovani.5
Presumibilmente analoghe conseguenze negative si hanno anche per tutte le altre forme di violenza e aggressività.
161 bambini dai 9 ai 12 anni e 354 studenti universitari sono stati testati assegnando loro, in maniera casuale, un videogioco violento o non violento, di tutti i partecipanti è stata previamente studiata la storia recente come i comportamenti violenti e le preferenze di videogiochi, programmi televisivi o film, dimostrando come l’esposizione alla violenza mediatica sia associata a un comportamento aggressivo e a una desensibilizzazione degli utenti in associazione con mancata empatia e capacità di avere un comportamento prosociale.6
La battaglia tra chi crede fermamente che la sovraesposizione a una violenza simulata possa condurre quindi un individuo ad avere comportamenti aggressivi nella vita reale e chi, invece, non è convinto esista questa diretta correlazione si combatte tutt’oggi su un campo prettamente teorico, fatto di cifre, statistiche, metodi, studi e conseguenti smentite, critiche su campioni usati per le analisi e nuovi e più ampi soggetti di studio.7 Ciò che è per certo inconfutabile è il fatto che negli ultimi decenni la violenza – nelle serie televisive come nei videogiochi, in internet e sui social – è notevolmente aumentata. Intendendo con il termine generico “violenza” scene di aggressività, criminalità, maltrattamenti fisici e sessuali e via discorrendo.
Un problema che andrebbe sottolineato di più è quello dell’effetto di abituazione, ovvero un processo per il quale la ripetizione continuata di uno stimolo determina la diminuzione dell’intensità e della durata di una risposta – tipicamente innata -, fino all’estinzione della risposta stessa che dipende dal confronto tra un modello, formatosi nel cervello relativamente allo stimolo già presentato e il nuovo stimolo in arrivo. L’abituazione è, in sostanza, il contrario della sensibilizzazione.
Ovviamente non si può imputare tutto ai media, ma non si può nemmeno ignorare l’impatto che essi hanno sulla psiche di chi guarda e che, senza una guida sapiente e responsabile accanto, può davvero perdere il senso di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.8
Il male affascina, lo ha sempre fatto. Un racconto con un mistero, un crimine, un delitto, una violenza è certamente più appetibile per molti, altrimenti non si spiegherebbe l’aumento della violenza trasmessa in tutte le sue forme da media, social e internet. Tuttavia non ci si può esimere dal riflettere sul fatto che, forse, l’attrazione alla violenza sia in un certo qual modo una richiesta di aiuto, un tentativo di esorcizzare la paura stessa della violenza. Diventarne artefici per non esserne vittime.
È notevolmente troppo alto il numero di aggressioni inferte, ad esempio, da giovani di ambo i sessi ai danni di loro coetanei, spesso posti in essere come vere e proprie spedizioni punitive che diventano anche virali sui social. La cronaca quotidiana ne riporta talmente tanti che si teme, anche per questo genere di violenza, il fenomeno dell’abituazione.
Ci si chiede quale sia il reale scopo che vogliono ottenere questi giovani e quali sono i modelli comportamentali a cui fanno riferimento.
Tralasciando le condizioni dell’ambito clinico caratterizzate da fragilità narcisistica patologica, discontrollo degli impulsi, tendenze antisociali, di frequente, connesse a quanto si esprime come violenza, è possibile rinvenire rabbia da frustrazione – sono tante le ragioni per cui i ragazzi oggi si sentono frustrati -, noia – intesa come stato emotivo spiacevole o come anestesia emotiva e ideativa-, moda. Quest’ultima può sembrare meno associabile alla violenza, ma se si pensa per esempio alla musica quale dimensione che impegna la fase adolescenziale, si può verificare l’attualità del genere trap, così comune e diffuso tra i ragazzi fin dall’età della scuola secondaria di primo grado, che di fatto inneggia alla violenza con testi cupi e minacciosi, i cui temi tipici di vita da strada tra criminalità e disagio, povertà e droga, sembrano orami diffusi come cultura giovanile.
La diffusione tramite strumenti digitali sfrutta l’immagine che ha le caratteristiche di una comunicazione immediata e molto reale, oltre che una diffusione istantanea su larga scala che non tiene conto dell’interlocutore o di eventuali sue fragilità. Per alcuni comportamenti può accadere che questo tipo di comunicazioni inneschi un effetto di contagio sociale, secondo il quale l’azione condivisa diventa una sorta di prescrizione nell’orientamento del comportamento di altri che si riconoscono simili. Il meccanismo alla base di questo è l’imitazione, che è una caratteristica innata dell’essere umano.9
Il rapporto fra adulti e giovani evidenzia oggi una deconflittualizzazione delle relazioni. Il conflitto nel recente passato ha costituito la modalità più frequente con cui le generazioni più giovani si contrapponevano a quelle adulte per affermare la propria indipendenza e la propria identità. Se, fino agli anni Ottanta, i conflitti intergenerazionali di natura culturale caratterizzavano i rapporti genitori-figli e insegnanti-alunni, i decenni successivi hanno evidenziato una progressiva e generale deconflittualizzazione che, tuttavia, non si è accompagnata a una maggiore coesione sociale. Gli adulti di riferimento, tradizionalmente individuabili nelle figure parentali e in quelle dei docenti, sembrano essere venuti a far parte, nella percezione generalizzata dei giovani, di una massa quasi indistinta di soggetti poco significativi e con quasi nessuna capacità di influenzare, di orientare , tanto meno, di incidere stabilmente attraverso i meccanismi di socializzazione secondaria sulle loro esistenze.
Un effetto della erosione delle certezze e degli orizzonti di senso collettivi è il diffondersi della violenza reiteratamente agita nei gruppi – reali o virtuali – dei pari. Si evidenzia inoltre una qualche sommaria accettazione acritica della violenza nel suo espressivizzarsi routinario contro coetanei più facilmente stigmatizzabili – stranieri, omosessuali, diversamente abili ecc. – da parte delle giovani generazioni, che sfocia in una banalizzazione delle condotte violente nel mondo quotidiano dei più giovani. La soglia di accettazione della violenza, nel suo plurimo riprodursi (materiale e immateriale, agito o epserito), va però messa in relazione con la scarsa, quando non addirittura inesistente, consapevolezza della natura effettivamente violenta di quell’azione.
Ecco allora che in questo Zeitgeist caratterizzato da una generale incertezza sul presente e sul futuro, la violenza di gruppo diviene una modalità sostitutiva del conflitto, proprio perché è il micro-rituale violento a definire ruoli e funzioni altrimenti inaccessibili a un numero sempre più grande di adolescenti.10
Per sconfiggere le paure ci si avvicina al male e la trasgressiva violenza sembra diventare l’unico modo che i giovani conoscono per “chiedere aiuto”, supporto, punti di riferimento e, perché no, anche regole precise utili a ridefinire ruoli e realtà. Visto il numero elevato di violenza e aggressioni non bisognerebbe mai tentare di ridurre il tutto a fatti isolati o, peggio, scherzi e quant’altro sminuisca un fenomeno che invece è generalizzato, protratto e dilatato. Educare giovani e anche adulti a un decisivo cambio di paradigma potrebbe aiutare a ridefinire il problema, punto essenziale quando si vogliono davvero cercare delle valide soluzioni.
5M. Lanfranco, Crescere uomini. Le parole dei ragazzi su sessualità, pornografia, sessismo, Erickson, 2019: https://irmaloredanagalgano.it/2020/04/25/3497/
6C.A. Anderson, D.A. Gentile, K.E. Buckley, Videogiochi violenti. Effetti su bambini e adolescenti, Centro Scientifico Editore, Milano, 2008.
10I. Bartholini, L’opacizzarsi del conflitto fra giovani e adulti e l’affermarsi della violenza fra pari, Studi di Sociologia, Anno 51, Fasc. ¾ (Luglio-Dicembre 2013), V&P – Vita e Pensiero/Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore: https://www.jstor.org/stable/43923998
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