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Irma Loredana Galgano

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La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Quarta: I nuovi modi di fare Editoria

16 sabato Mar 2019

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Analisi dei nuovi modi di fare editoria. Pubblicazioni a pagamento, auto-pubblicazioni, scrittura social. Nuova e vecchia editoria a confronto.

 

 

Sul sito dell’Associazione Italiana Editori (AIE) si possono facilmente trovare tutte le indicazioni sulle procedure e sulle regole da seguire per diventare un editore. Viene segnalato inoltre quanto complesso sia il cumulo di norme che regolano l’esercizio dell’attività editoriale e sottolineati gli obblighi che ciascuno deve rispettare nel corso della propria attività.
Gli editori sono, in buona sostanza, degli imprenditori che commercializzano libri o periodici. Imprenditori particolari però, perché nelle loro mani passano la cultura, l’informazione, l’educazione.
Oltre l’aspetto commerciale quindi non va mai dimenticato il carattere peculiare di queste aziende chiamate case editrici.

Nell’anno 2017 sono state quasi 5mila le case editrici che hanno pubblicato almeno un titolo, ovvero un’opera letteraria. Eppure tutte queste imprese sembrano non bastare o non soddisfare le richieste dell’utenza. Di chi vuol pubblicare non di chi vuol leggere, si badi bene. Ecco allora spiegato uno dei motivi del sorgere di sempre nuovi modi di fare editoria.

Ma cosa si intende esattamente con nuovi modi di fare editoria? È bene partire da una definizione di quello “vecchio”.

In un’intervista di Ada Gigli Marchetti pubblicata sul Bollettino di storia dell’editoria in Italia, Franco Angeli sottolineava che la sua è nata come una «impresa familiare che trae finanziamenti dal prodotto che commercializza. L’editoria basa la sua prosperità sul prodotto che riesce a diffondere. E si tratta di un prodotto che paga a posteriori con i diritti d’autore». L’editoria quindi, nella visione che aveva Franco Angeli, non ha bisogno di un grosso investimento di capitali iniziale, se non per quanto riguarda le librerie, tuttavia «ha un solo vero problema, quello di azzeccare i titoli giusti e di mettere insieme un catalogo adeguato».

Quello che conta insomma è la scelta dei titoli giusti e la formazione di un catalogo adeguato. E come si fa? Lo si impara con la formazione e la pratica. Il rovescio della medaglia vede una sempre più massiccia diffusione di siti, piattaforme, start up, società, aziende e via discorrendo che sembrano voler mescolare le carte e anche le regole di questo “gioco” chiamato editoria.

Dapprima ci hanno provato quelli che si fanno chiamare egualmente editori, lasciando sottintendere di esserlo, i quali però non essendo in grado di effettuare una accurata e lungimirante scelta di titoli e, di conseguenza, di un valido catalogo che è, in buona sostanza, il biglietto da visita e al contempo la credenziale maggiore per una casa editrice, accettano di pubblicare chiunque e in qualunque momento. A volte senza neanche stare troppo a sindacare sulla forma e sul contenuto dei titoli pubblicati. Una chimera per scrittori e aspiranti tali? In genere sì. Il trucco c’è e viene prontamente svelato al momento della presentazione del conto. Agli “editori a pagamento” non andrebbe permesso l’uso di detto appellativo. Sono tipografi o stampatori, insomma operatori del settore editoriale ma non certo editori.

Serviva davvero poco affinché qualcuno iniziasse a pensare che invece di pagare un presunto tale editore che comunque non garantiva adeguati editing, promozione e diffusione, si poteva anche eliminare del tutto questa superflua figura di intermediario e pubblicarsi da soli i propri libri. In tipografie o stamperie fisiche o digitali. Ecco allora che nasce il self publishing. Il punto però è che, se non si ha accesso alla distribuzione, se non si ha un grande numero di lettori, se non ci si affida comunque a qualche professionista della promozione, il risultato che si ottiene è più o meno lo stesso della pubblicazione a pagamento. In più va detto che sono davvero pochi i titoli auto-pubblicati che meritano o meriterebbero un’adeguata pubblicazione editoriale. Lo stesso vale per le pubblicazioni con i cosiddetti editori a pagamento.

Nel 2016 gli editori italiani hanno pubblicato 61.188 titoli, per un totale di copie stampate di 128.825. A questi numeri vanno aggiunti i titoli pubblicati con editori a pagamento e quelli auto-pubblicati. E vanno aggiunti ancora tutti gli e-book. Sempre nel 2016 la quota di lettori italiani è risultata essere ancora in calo. Rispetto al totale di potenziali lettori (ovvero tutti i cittadini al disopra dei sei anni) solo il 40.5% ha dichiarato di aver letto almeno un libro in un anno. Presumibilmente tra essi ci sono anche molti degli aspiranti scrittori. Una situazione a dir poco paradossale.

Considerando la mole degli aspiranti scrittori in Italia il numero di lettori dovrebbe essere altissimo, e si parla di quelli definiti forti, che hanno letto molto più di un solo libro in un anno. Non si può davvero pensare e per lungo tempo di poter scrivere libri senza essere un lettore non forte ma fortissimo. Anche e per certi versi soprattutto per coloro i quali si professano sostenitori del progresso e dell’innovazione, in campo editoriale, che osteggiano il predominio degli arcaici colossi editoriali, che criticano il lavoro dei piccoli e medi editori, che non condividono la missione dell’editoria indipendente. Di coloro insomma che sembrano fare affidamento esclusivo sui nuovi e innovativi mezzi di socializzazione e condivisione. Essere innovativi, stare al passo con i tempi, ambire a una rivoluzione culturale non preclude affatto le competenze e le conoscenze che permangono e rimangono elemento necessario e imprescindibile.

Le piattaforme di social publishing consentono di scrivere e condividere i propri scritti, perlopiù brevi storie. Una sorta di blog collettivi cui partecipano coloro che scrivono e coloro che leggono, o dovrebbero leggere. Affinché il tutto funzioni, si afferma essere molto di aiuto la lunghezza breve delle storie. Così, senza troppo impegno, chiunque abbia cinque minuti liberi li può passare leggendo la short story. Che poi, alla fin fine, è quanto accade nei social network per così dire “tradizionali” allorquando non si condividono o non si leggono articoli e link vari provenienti da altri siti ma quelli scritti sulla timeline, i post personali. Il rischio infatti è che le caratteristiche e la qualità di quanto scritto sia in realtà molto livellata per entrambe le tipologie di piattaforma, quella del social network e quella del social publishing.

Va da sé che ognuno può scrivere ciò che gli pare, nei limiti della legge e del decoro, ovunque gli pare, anche su un papiro se è ciò che vuole, ma parlare di scrittura di un libro, di pubblicazione di un’opera letteraria, di essere o diventare uno scrittore è un’altra cosa. Che questo sia chiaro.

«Se numericamente c’è molta concorrenza, nei fatti il livello medio dei manoscritti inviati e il livello delle capacità degli aspiranti scrittori è talmente basso, il livello di totale inconsapevolezza rispetto a quel che viene scritto e impunemente inviato è così tragicamente alto, che se siete cerebralmente normodotati, lettori abituali, e fate esercizio di scrittura creativa da qualche tempo, per voi sarà quasi impossibile non riuscire a pubblicare», con un «vero piccolo, medio o grande editore». A dirlo è Marco Cubeddu, caporedattore della rivista letteraria Nuovi Argomenti in un articolo pubblicato su Linkiesta.it.
È presumibile pensare che i tanti, tantissimi aspiranti scrittori i cui manoscritti vengono dichiarati illeggibili o non pubblicabili trasmigrino prontamene, insieme alle proprie opere, in Rete, sui social, sulle piattaforme di scrittura social, su quelle di auto-pubblicazione e via discorrendo, ma nella sostanza, ovvero nella qualità degli scritti, ancora nulla è cambiato.

Cubeddu riporta un esempio che lui stesso ricorda essere banale e abusatissimo ma che funziona, perché rispecchia la realtà. «Statisticamente, la maggior parte delle volte, se sentite rumore di zoccoli, si tratta di un cavallo. Rarissimamente di una zebra. Cavallo=testi illeggibili, Zebra=testi leggibili, interessanti, pubblicabili…» e conclude affermando che «ci vuole una grande autostima per sentirsi zebre». Oppure vanagloria, allorquando ci si sente delle zebre senza aver ritenuto necessario e doveroso leggere, leggere e ancora leggere libri, senza essersi immersi nel mondo della Letteratura, della Cultura, senza essersi esercitati a scrivere, a riscrivere, a rivedere…

Da uno sguardo sommario in Rete emerge che tutti questi nuovi modi di fare editoria, lanciati nel web come importanti novità, tanto attesi affrancamenti dalla vecchia e superata editoria tradizionale, sono poi, pian piano, tutti scemati. Non che gli aspiranti abbiano smesso di scrivere o di cercare un modo alternativo per diffondere le proprie opere letterarie. Solamente che, forse, i due modi di fare editoria non sono né complementari né alternativi, sono proprio due cose diverse e così vanno viste oltre che pensate.


Articolo apparso sul numero 53 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte


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© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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10 venerdì Ago 2018

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articolo, mafia

Il 22 luglio scorso attiviste del Movimento antimafia Agende Rosse – sezione di Modena e Brescello allestiscono un banchetto a Serramazzoni nell’ambito del tour Donne contro la mafia–19luglio1992 che vede numerose tappe, oltre a quella nella cittadina emiliana.

Il fomat vede la presenza di donne, impegnate a vario titolo nella lotto contro le mafie, che si prefiggono un unico grande obiettivo: opporsi fermamente a un sistema mafioso che da decenni si è radicato anche nel Nord Italia.

L’incontro-banchetto del 22 luglio prevedeva la trasmissione dei discorsi del 19 luglio, registrati a Palermo in occasione della commemorazione della strage di via D’Amelio, e l’affissionedi striscioni e altro materiale inerente il processo Aemilia.

Secondo quanto riportato anche dalla Gazzetta di Modena, durante la manifestazione pacifica e informativo-divulgativa, alcuni uomini si sono avvicinati al banchetto e, mantenendo sguardi fissi e minacciosi, hanno tentato di dissuadere le attiviste con plateali e inequivocabili gesti dellamano, come a voler dire: “finitela qui e andatevene via subito”. Una foto sarebbe stata scattata, come fosse una segnalazione di schedatura e poi il pedinamento di una delle tre attiviste allorquando si è allontanata, da sola, dal luogo del banchetto.

Sabrina Natali, una delle attiviste che da anni ormai segue l’inchiesta e i dibattimenti in aula del processo Aemilia contro le infiltrazioni della ‘ndrangheta nel Nord Italia, sul suo profilo social ha ringraziato tutti coloro che le hanno mostrato solidarietà. Ha ribadito che “questi segnali di fastidio” sono e restano tali e non riusciranno a intimorire né tantomeno fermare il Movimento, il tour e il lavoro tutto che portano avanti. Fondamentale però è la rete, che deve esserci, e che deve fare quadrato intorno a loro, come a tutti gli attivisti o cronisti minacciati.

Una rete fatta di persone, di parole e di azioni concrete. Una rete che deve, o meglio dovrebbe, passare anche attraverso l’informazione, i media. Perché quanto sta accadendo in Emilia Romagna non è molto dissimile da quanto accade in Calabria, in Puglia, in Campania, in Sicilia, in Lombardia, in Veneto… e tentare, inutilmente, di catalogare i fatti come fraintendimenti, le azioni come visionarie e paranoiche immagini di pochi, le inchieste e i processi come una persecuzione giudiziaria, di fatto, non cambierà la realtà delle cose e non renderà l’Emilia Romagna e l’Italia intera un posto migliore solo perché, per non urtare interessi, turismo e commercio, si sceglie e si preferisce non parlare, non vedere, non capire. O meglio fingere di non vedere e non capire.

Al banchetto era presente anche Catia Silva, ex-consigliere al comune di Brescello, primo nel Nord Italia a essere stato sciolto per mafia, più volte oggetto di minaccia.

La tempestiva comunicazione alle forze dell’ordine di quanto accaduto durante il banchetto del 22 luglio ha reso possibile l‘immediato inizio delle attività investigative. Intanto le attiviste dichiarano di non avere intenzione alcuna di arretrare e confermano un nuovo incontro a Serramazzoni per il 19 agosto e la presenza costante in aula alla ripresa delle udienze per il processo Aemilia a partire dal 6 settembre.

Ecco perché la rete della comunità deve farsi ancora più forte e folta e quella dei media ancora più luminosa, affinché una accecante luce abbagli anche l’ombra di tutta quella zona grigia che vorrebbe e chiede invece profilo basso e silenzio per continuare ad agire indisturbata.


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Ci sono verità che si vorrebbe tenere nascoste per sempre eppure “Quel terribile ’92”…

01 domenica Lug 2018

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AaronPettinari, Imprimatur, Italia, mafia, PietroOrsatti, Quelterribile92

Ci sono errori che non si vorrebbe mai ammettere di aver commesso e verità che si vorrebbe tenere per sempre nascoste. Quella su quanto accaduto in Italia durante la Prima Repubblica e che ha direttamente condotto agli attentati del 1992, per esempio, è una di queste. Perché? La domanda è tutt’altro che retorica e la risposta affatto scontata.

Eppure uno dei modi migliori per evitare di incorrere negli stessi errori è mantenere quanto più vivi possibile la memoria storica e il racconto veritiero di quanto accaduto.

In occasione dei venticinque anni dagli attentati del ’92, Imprimatur pubblica il libro, raccolta di venticinque testimonianze, di Aaron Pettinari e Pietro Orsatti, che si apre al lettore con una citazione di José Saramago.

«Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non meritiamo di esistere».

Parole che hanno un significato profondo. La memoria non si costruisce, o meglio non si dovrebbe costruire, con il semplice racconto di una cosiddetta versione ufficiale dei fatti accaduti. No, la sua costruzione dovrebbe essere un procedimento molto più complesso, invece tutto quello che non è gradito al mainstream semplicemente sembra scomparire oppure diventare una visione complottistica.

Nel suo testo sulla Shock Economy Naomi Klein parla in maniera dettagliata della privazione sensoriale, ovvero la tecnica largamente utilizzata per indurre monotonia, che causa la perdita di capacità critica e crea il vuoto mentale in maniera tale che la gran parte delle persone non tenteranno nemmeno di analizzare criticamente i fatti loro raccontati, prendendo sempre e comunque per buona la versione loro narrata. Che, intendiamoci, non è detto che sia sempre falsa o falsata. Il punto è la capacità critica che ognuno dovrebbe avere, anche difronte alla verità.

Orsatti e Pettinari hanno raccolto il racconto di venticinque testimoni appartenenti al mondo del giornalismo, dello spettacolo, della musica, del teatro… e ognuno di loro ha descritto quel terribile ’92 dal suo punto di vista. Il quadro che emerge è abbastanza preoccupante: per le inchieste arenatesi, per i ripetuti depistaggi, per tutto ciò su cui non si è voluto indagare, che non si è voluto conoscere, preferendo invece abbracciare l’illusione del cambiamento, del rinnovamento, il giornalismo italiano che ha preferito in massa cavalcare l’onda anomala del vuoto assoluto lasciando che fossero «la satira e il teatro» a occuparsi di “informazione”. I venti anni del berlusconismo che altro non sono stati che il prosieguo di quanto esattamente accadeva prima perché è inutile continuare a negare che «c’è sempre stata una forte relazione tra sesso e potere». Una sinistra fittizia che a parole continua a urlare ideali e valori ma poi, a conti fatti, non ha fatto altro che uniformarsi al fiume in piena del degrado morale ed etico.

Il contributo più illuminante è certamente quello di Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo. Lui che in poche parole non racconta solo gli attentati e quel terribile ’92, ma l’ipocrisia di un Paese intero e della classe dirigente che lo governa.

«Venticinque anni è non puoi più dimenticare. Perché tuo fratello è andato in guerra ma ad ucciderlo non è stato il fuoco del nemico che era andato a combattere, ma il fuoco di chi stava alle sue spalle, di chi avrebbe dovuto proteggerlo, di chi avrebbe dovuto combattere insieme a lui».

«Venticinque anni e ogni anno in via d’Amelio per impedire quei funerali di Stato che la nostra famiglia rifiutò fin dal primo momento. Per impedire che degli avvoltoi arrivino in via d’Amelio portando i loro simboli di morte per accertarsi che Paolo sia veramente morto».

Perché la vera lotta alla mafia non si fa con le manifestazioni, con i cortei, con le celebrazioni… la mafia, fuori e dentro lo Stato, si combatte chiedendo Verità e Giustizia, costruendo una memoria storica collettiva basata sui fatti non sui racconti.
Ed è proprio a coloro che hanno il coraggio di lottare, che non vogliono dimenticare e non si stancano di essere “eretici” che vanno i ringraziamenti di Aaron Pettinari a margine del libro. Persone che ci sono, che operano ogni giorno, su tutto il territorio nazionale e non solo in Sicilia Calabria e Campania, persone ai margini della società e troppo spesso marginalizzate dalla stessa.

Nel libro L’inganno della mafia. Quando i criminali diventano eroi, Nicola Gratteri e Antonio Nicaso analizzano a fondo il processo di legittimazione di cui sempre «hanno goduto in Italia mafia, ‘ndrangheta e camorra; una legittimazione che ne spiega il successo più di ogni altra cosa». Se le mafie durano da due secoli «ciò vuol dire che esse non hanno rappresentato un potere alternativo e contrapposto a quello ufficiale, ma un potere relazionato ad esso». Relazioni che Antonio Belnome, ex affiliato alla ‘ndrangheta, chiama «gemellaggi con lo Stato».

Non si può certo dire che il dibattito sulla mafia oggi sia un tema trascurato nella discussione pubblica, ma resta il problema di come se ne parla. Perlopiù con «l’immagine stereotipata e romanzata della mafia», descritta come una «piovra invincibile» contro cui si oppongono “eroi” che possono essere indistintamente magistrati, poliziotti, giornalisti, persone comuni ma che restano sempre dei “lupi solitari” «destinati a soccombere». In molti sostengono che lo spettacolo è altro rispetto all’educazione, all’istruzione e all’informazione, «ma non si può certo ignorare che la spettacolarizzazione del mondo criminale rischia di essere molto pericolosa». Soprattutto in quei film e serie tv dove lo Stato e la società civile sono praticamente del tutto assenti ed esistono solo le lotte intestine all’interno dei clan per decretare di volta in volta il boss più grande, feroce, ricco e potente… una visione distorta e contorta che finisce per creare negli spettatori il desiderio di emulazione addirittura. Come accade anche, ad esempio, per i videogiochi di mafia che sono sempre i più richiesti e venduti. Un problema vero che diventa gioco e spettacolo e uno Stato che letteralmente scompare.

E così, paradossalmente, le stesse persone che sono appassionate di una serie tv o di un film di mafia, si disinteressano completamente, per esempio, del processo durato sei anni sulla Trattativa Stato-Mafia che ha visto concretizzarsi poche settimane fa la sentenza di condanna in primo grado e, incredibilmente, la notizia sembra non aver scosso né toccato che una ristretta parte di cittadinanza italiana.

In tantissimi sui social e nella Rete hanno calorosamente mostrato la loro solidarietà a Roberto Saviano laddove si profilava l’eventualità di eliminare la scorta che lo segue da anni ormai. Saviano notissimo al grande pubblico anche perché autore di una delle serie televisive di cui sopra. È bene precisare che chi scrive non chiede e non vuole che venga tolta la scorta a Saviano, piuttosto che sia data a tutti coloro che a vario titolo combattono le mafie. L’esempio è stato riportato solo perché appare paradossale che le medesime persone che si sono così infervorate per quanto potenzialmente potrebbe accadere al giornalista sceneggiatore non hanno pressoché battuto ciglio per la sentenza di primo grado nel processo sulla Trattativa Stato-Mafia che ha visto condannati il 20 aprile 2018:

Bagarella Leoluca e Cinà Antonino
De Donno Giuseppe, Mori Mario e Subrani Antonio
Dell’Utri Marcello
Ciancimino Massimo

Uomini dello Stato e uomini di Mafia colpevoli.

Appare inoltre paradossale che la sospensione della scorta all’ex magistrato Antonio Ingroia, già deliberata dal governo Gentiloni e attuata nel maggio 2018, non abbia ricevuto pressoché alcuna eco mediatica. Per certo la notizia non ha destato il clamore dell’ipotesi di sospensione a quella di Roberto Saviano.

È evidente che c’è una abominevole distorsione nella percezione mediatica delle informazioni da parte del pubblico. Altrimenti non si potrebbe spiegare il motivo per cui a coloro a cui sta tanto a cuore la sicurezza del giornalista Roberto Saviano perché impegnato contro la mafia non interessa affatto o interessa poco la sorte dell’ex magistrato Antonio Ingroia sempre impegnato nella lotta alle mafie come anche nel processo sulla Trattativa.

Una trattativa tra lo Stato e la mafia che spesso, troppo spesso si preferisce ignorare quando proprio non negare nell’informazione e, di conseguenza, nell’immaginario collettivo. Quasi si desiderasse non far mai rientrare nella formazione della memoria storica del Paese.

Ed ecco che ritornano le immagini dei funerali degli agenti della scorta del giudice Paolo Borsellino, allorquando dal pubblico si alzavano cori di protesta contro le autorità presenti, tra cui il neopresidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro costretto a lasciare la chiesa scortato e spintonato. “Assassini” veniva urlato e ancora “Fuori la mafia dalla Stato”.

Il fuoco amico di cui parla Salvatore Borsellino.

Eppure ci sono coloro che nel giornalismo, nella televisione, nel cinema e, sopratutto, nella magistratura hanno scelto di continuare a urlare queste parole. A loro però spesso viene riservato un trattamento tutt’altro che piacevole e facilmente diventano esibizionisti, paranoici, complottisti, megalomani. Questo quando non sono o non si riesce proprio a isolarli o ignorarli del tutto.

Nel 2014 Sabina Guzzanti gira il docu-film LaTrattativa nel quale, seguendo i fatti e le testimonianze si cerca di ricostruire quanto accaduto. Nel maggio 2018 Corsiero Editore insieme ad Antimafiaduemila pubblicano il libro di Saverio Lodato Avanti Mafia! Perché le mafie hanno vinto che raccoglie tutti gli articoli scritti dal giornalista durante i sei anni del processo sulla Trattativa. Anni caratterizzati da «un silenzio diffuso, assordante, interrotto soltanto da alcuni giornalisti», come sottolinea il pubblico ministero Nino di Matteo intervenuto alla presentazione del libro a Palermo il 12 giugno scorso.

Lo stesso inquietante silenzio e il medesimo scarso interesse da parte del pubblico, ovvero dei cittadini italiani, mostrato per il processo Aemilia. Il maxi-processo per mafia del Nord Italia dove oggi si sperimenta quanto accaduto nel Sud Italia del secolo scorso, semplicemente l’esistenza della mafia si preferisce negarla, fingere di non vederla. Eppure sono tanti anni ormai che un all’inizio gruppo di liceali ne parla, ne scrive, ne denuncia. Sono i ragazzi di Corto Circuito capitanati da Elia Minari. Inchieste raccolte anche nel libro Guardare la mafia negli occhi.

Il titolo del libro di Elia Minari è molto illuminante perché è proprio questo che bisognerebbe fare: guardare la mafia negli occhi. E non limitarsi alle immagini stereotipate che di essa sono pieni i giornali, i telegiornali, i film e le serie tv. La mafia dentro e fuori lo Stato. Quella mafia che ha deciso la morte dei giudici Falcone e Borsellino, degli uomini e delle donne delle loro scorte, di tutte le persone a Roma, Bologna, Firenze e di tutti coloro che sono caduti perché divenuti intralcio al potere o ostacolo al “gemellaggio con lo Stato”. In nome di questo orrendo sistema tante vite sono state spezzate, tanti crimini atroci commessi, tanti diritti cancellati, tanta parte di territorio devastata… e c’è stato chi per rimorso o convenienza alla fine ha ceduto, si è pentito e ha raccontato. Ma ciò che fa davvero rabbrividire è che si è trattato sempre e solo di “uomini d’onore”, di quella parte di mafia operante fuori dallo Stato. Dall’altra parte invece mai nessuno ha ceduto, ha tentennato, ha parlato, si è pentito o ha denunciato. Mai. E, riprendendo le parole di Nino di Matteo, è doveroso sottolineare che «non potrà mai dirsi archiviata la stagione delle stragi fino a quando non si sarà fatta chiarezza sulle collusioni ad alto livello».

Solo quando si riuscirà realmente a tirare “fuori la mafia dallo Stato” si potrà allora pensare di combattere quella che agisce fuori da esso. Fino a quel momento le dichiarazioni, le celebrazioni, le manifestazioni a cui parteciperà lo Stato e i suoi rappresentanti avranno sempre il sapore amaro dell’ipocrisia e della finzione. Purtroppo.


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PLUTONOMY vs DEMOCRACY: far vincere la Democrazia contro la Shock Economy è il vero potere del popolo

09 sabato Giu 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Capitalism, Democracy, Democraziadiretta, Europa, Italia, italiani, NWO, Occidente, Piigs, ShockEconomy, terrore, TheCorporation

«Questo è il Capitalismo: tutti cercano di guadagnare sulle disgrazie altrui.»

A dirlo è un agente immobiliare della Florida ai microfoni del documentarista Michael Moore per Capitalism: a love story, lavoro che risale all’anno 2009.

Ma se il Capitalismo è il male, come ha fatto a resistere così a lungo?

Il sistema sarebbe costituito e basato su quella che viene definita propaganda, ovvero l’abilità di convincere le persone, che restano quindi vittime dello stesso sistema, a sostenere il medesimo e a credere che sia buono, la scelta migliore.

Ma come si fa a convincere milioni di persone in tutto il mondo che l’unica scelta utile per il benessere collettivo sia il Capitalismo?

Naomi Klein in Shock Economy, pubblicato la prima volta nel 2007, racconta la privazione sensoriale. Tecniche di persuasione volte a indurre la monotonia, la perdita di capacità critica, il vuoto mentale. Ma che significa “perdita di capacità critica”?

Sostanzialmente si tratta dell’incapacità, troppo spesso indotta anche da istruzione, informazione e pubblicità pilotate, di porsi delle domande, di analizzare dati e fatti con spirito critico appunto, invece di immagazzinare passivamente notizie e, soprattutto, immagini stereotipate e artefatte.

«Se ti è stato ripetuto per un’intera vita che le cose stanno come ti dicono gli altri, iniziare a pensare di cambiarle è una cosa grossa.»

A dirlo è un’operaia della Republic in sciopero da giorni con i colleghi contro la repentina chiusura della fabbrica e la ferma volontà di non corrispondere ai lavoratori i salari e la liquidazione già maturata. La lotta civile da loro portata avanti si è conclusa con il riconoscimento dei propri diritti e il versamento di quanto dovuto.

Combattere, lottare, protestare, scioperare solo per vedere riconosciuti i«servizi basilari»o essenziali, che in realtà sarebbero diritti. Perché in fondo ha ragione Erri De Luca che in Piigs sostiene che, con il Capitalismo sfrenato e deregolato, «i diritti sono diventati servizi. E i servizi hanno un costo e quindi vi può accedere solo chi se li può permettere».

Ea coloro che non possono permetterseli che succede? Già.

Questa «corrente selvaggia del Capitalismo» nel quale viviamo, il Capitalismo senza limiti, «ha conquistato il pianeta». Ed è basato sulle idee di un economista di nome Milton Friedman, per il quale tutto deve essere privatizzato tranne «la spesa militare, i tribunali e alcune strade e autostrade». Ma quando i doveri a cui dovrebbe adempiere il governo, lo Stato, vengono delegati a società private, che hanno naturalmente scopo di lucro, che succede?

Nel Rapporto 2005 della Citibank, stilato per i suoi investitori più ricchi, gli operatori di uno dei gruppi bancari più grandi che opera e ha interessi praticamente in tutto il mondo, compresa l’Italia, giungevano alla conclusione che «gli Stati Uniti non erano più una Democrazia, ma erano diventati una Plutonomia». Una società controllata esclusivamente da e per l’1% dell’élite che dispone di ricchezze maggiori di quelle del 95% della popolazione. «I ricchi sono la nuova aristocrazia e non si vede la fine della miniera che stanno sfruttando». Tutto bello, dal loro punto di vista, se non fosse per un problema, un intoppo cui ancora non erano riusciti a trovare la soluzione. Secondo Citigroup la minaccia peggiore e a breve termine sarebbe stata la richiesta, da parte della società, di una suddivisione più equa della ricchezza. Citigroup lamentava il fatto che i non ricchi potessero anche non avere potere economico, ma avevano lo stesso potere di voto dei ricchi. Infatti ogni persona ha diritto a un voto, indipendentemente dal suo potere economico. «Ed ecco quello che davvero li spaventa: che i non ricchi possano ancora votare. E hanno il 99% dei voti».

C‘è qualcosa che non torna però in questo ragionamento. Se i non ricchi rappresentano il 99% e hanno quindi un potere di voto enorme perché il tutto non cambia e loro lo sopportano passivamente? Per la propaganda?

In parte è vero ma ciò sarebbe dovuto a un effetto indiretto di essa. L’emulazione. Secondo quanto si legge nel Rapporto Citigroup, i non ricchi sopportano tutto perché «la maggior parte di essi è convinta che un giorno potrà anch’essa diventare ricca».

Cosa succede quando realizza che non accadrà mai? Succedono le rivolte, le rivoluzioni, gli scioperi, gli scontri, le proteste… a volte pacifici e consumati nelle cabine elettorali, altre volte nelle piazzecon risultati più o meno tragici, ma sempre per i non ricchi. Il Cile di Pinochet, i Desaparecidos in Argentina, la Gran Bretagna della Iron Lady Margaret Thatcher, la Russia di Yeltsin e poi ci sono le rivolte in Grecia e in Spagna contro l’austerità dell’Unione Europea… Tutte duramente represse in nome del benessere del Capitalismo.

Il Capitalismo per poter funzionare necessita ancora del consenso e dell’appoggio incontrastato della popolazione, di quel 95% di cui scrivono i relatori della Citigroup che ha il diritto di voto e quindi il potere di mandare al governo esecutori o meno degli interessi degli investitori, degli operatori finanziari, delle Corporation, delle banche… Un metodo per aggirare l’ostacolo del diritto di voto, o quantomeno indirizzarlo verso la direzione voluta,però è stato trovato.

«Se ti servi della paura riesci a far fare alla gente ciò che vuoi».

Ancora Friedman, quando insegnava economia all’Università di Chicago, durante le sue lezioni affermava: «la terapia di shock economico può stimolare le società ad accettare la più pura forma di capitalismo deregolato». La Dottrina dello Shock, che la Klein ha studiato e analizzato nel suo libro, ovvero «il sistematico saccheggio della sfera pubblica dopo un disastro», quando le persone sono molto concentrate su un’emergenza, su una catastrofe che può essere un evento naturale o il risultato di politiche e tattiche, può essere un terremoto, un’alluvione, uno tsunami oppure una rivolta, un conflitto, un attentato terroristico… Non importa, perché sempre e comunque il Capitalismo, deregolato e senza limiti, per tramite dei suoi fautori e operatori, troverà il modo per trarne profitto, un grande profitto che finirà sempre e comunque nelle mani di quella élite dell’1% che da sola detiene in mano le ricchezze praticamente dell’intero pianeta. E per ricchezze non vanno intesi solo denaro e preziosi ma i beni, quelli sìdavvero preziosi, che il pianeta fornisce per la vita dei suoi abitanti, come l’acqua e l’aria pulite, per esempio.

L‘opinione di Michael Moore sul Capitalismo è molto drastica, per lui «è il male. Non si può regolamentare. Bisogna sostituirlo con qualcosa di buono. E questo qualcosa si chiama Democrazia». Ma per farlo è necessario, innanzitutto, che le popolazioni sviluppino la «resistenza allo shock» con la conoscenza, la lotta pacifica, la resilienza, lo sciopero, l’organizzazione e la solidarietà. Non da ultimo, e di pari passo con la conoscenza, il mantenimento della memoria collettiva, la rivalutazione degli insegnamenti del passato, della Storia, frutto di uno studio critico e diapprofondimento non di mnemonica assimilazione di contenuti e concetti preconfezionati. In maniera tale che i non ricchi smettano di desiderare, di sognare di diventare ricchi pensando che questo porti loro felicità e benessere e non avidità e insano potere, come invece accade, e ritrovino o trovino in prima istanza l’importanza, la sacralità della vita, degli esseri umani, delle risorse del nostro pianeta e smettano di idolatrare persone, come Phil Gramm, per esempio, ex-senatore Usa e vice-presidente di UBS Investment Bank, il quale ha dichiarato di considerare Wall Street «un luogo sacro».In realtà è tutt’altro che un luogo sacro. Somiglia piuttosto a «un folle Casinò, dove si scommette su qualunque cosa».Anche sulla vita umana.

Nel suo intervento durante il dibattimento in Senato precedente la votazione per il governo del cambiamento, Mario Monti ha detto: «Non il Presidente del Consiglio, ma l’intero vostro Governo nascerebbe oggi come governo dimezzato se altre forze politiche non avessero dato, in un momento difficilissimo della vita del Paese, prova di grande responsabilità». Ovvero l’appoggio al suo governo e alle misure di austerità imposte come “sacrificio necessario” per evitare al Paese, cioè all’Italia, la “vergogna” dellaGrecia, ossia la Troika. Ma attenzione, avverte ancora Monti, «non è escluso che l’Italia possa dover subire ciò che ha evitato allora, l’umiliazione della Troika». Shock Economy.

Le misure economiche poste in essere dall’allora Governo presieduto dallo stesso Monti e che egli dichiara hanno portato l’Italia «fuori dalla grave crisi finanziaria»hanno riguardato, soprattutto, e continuano a riguardare il taglio della spesa pubblica per diminuire il deficit di Bilancio.

Detto in parole più semplici, il taglio della spesa pubblica diviene quasi sempre un taglio alle spese sociali, che equivalea diretaglio dei servizi.

In Italia, stando ai dati diffusi dal Censis, i finanziamenti dati alle Regioni e legati ai servizi sociali si sono ridotti di circa l’80% dal 2007 al 2014 (da 1.600milioni di euro a 297milioni di euro). Per quantificare un esempio, ma i tagli dal 2007 a oggi hanno riguardato anche la scuola pubblica e quindi l’istruzione, la sanità e quindi la salute dei cittadini e la loro assistenza. E via discorrendo…

Sempre del Censis i dati relativi all’indebitamento di oltre 7milioni di italiani per pagare le cure mediche. Ci sono poi anche quelli che non si indebitano ma, semplicemente, rinunciano a curarsi perché i soldi non li hanno. E questa è l’amara realtà conseguenza diretta dell’austerità, di quel “sacrificio necessario” richiesto da Monti, dal suo governo e da quelli successivi.

Una domanda però bisogna porsela: perché c’è stata la cosiddetta esplosione del debito pubblico italiano che ha reso necessario gli interventi di riordino dei conti pubblici pena la Troika?

Sul sito della Consob, l’Autorità italiana per la vigilanza dei mercati finanziari, si legge che la crisi finanziaria del 2007 ha avuto inizio, in realtà, negli Stati Uniti già a partire dal 2003, allorquando «cominciò ad aumentare in modo significativo l’erogazione di mutui ad alto rischio», ossia a clienti che in condizioni normali non avrebbero ottenuto credito perché «non sarebbero stati in grado di fornire sufficienti garanzie». Ciò è stato reso possibile dalla cosiddetta bolla immobiliare, favorita dalla Federal Reserve che ha consentito al prezzo degli immobili di salire mantenendo tassi di interesse bassi. Ma, soprattutto, dalla cartolarizzazione, ovvero dalla possibilità per gli istituti di credito, le banche, di trasferire i mutui, dopo averli “trasformati” in titoli, a soggetti terzi e recuperare così buona parte del credito vantato. In questo modo le istituzioni finanziarie «poterono espandere enormemente le attività in rapporto al capitale proprio», realizzando profitti molto elevati, ma esponendosi anche al «rischio di perdite ingenti».

«I titoli cartolarizzati sono stati sottoscritti da molti investitori sia negli Usa che in Europa».

Bill Black, uno dei supervisori bancari americani, ricorda, intervistato in Capitalism di Moore, che l’FBI «iniziò ad allertare l’opinione pubblica nel settembre del 2004 sul fatto che ci fosse un’epidemia di frodi sui mutui messa in atto dalle banche». Ma l’amministrazione Bush destinò centinaia di agenti specializzati in crimini finanziari ad altre mansioni, nonostante «stavamo entrando, durante tutto il periodo dell’amministrazione Bush, nella più grande ondata di crimini finanziari del Paese ma, in realtà, della storia mondiale».

Ritornando all’analisi della crisi fatta dalla Consob, si legge che le operazioni di cartolarizzazione generavano prodotti strutturati molto complessi, poco standardizzati e poco liquidi. I prodotti strutturati, inoltre, venivano scambiati prevalentemente over the counter (OTC), ossia «al di fuori dei mercati regolamentati, e in assenza di prezzi significativi, cioè di prezzi utilizzabili per una loro valutazione condivisa dagli operatori di mercato». In quella circostanza fu palese che le agenzie «avevano assegnato rating troppo generosi (anche per effetto di conflitti di interessi che creavano incentivi in tale direzione) e si erano dimostrate troppo caute nel rivedere il proprio giudizio sugli emittenti che incominciavano a manifestare i primi segnali di crisi».

«Le istituzioni finanziarie coinvolte nell’erogazione dei mutui subprime registrarono pesanti perdite».Tali titoli, ormai ampiamente diffusi sul mercato, persero ogni valore e diventarono illiquidabili. La banca di investimento Lehman Brothers avviò le procedure fallimentari il 15 settembre del 2008 e questo innescò un ulteriore processo di «tensione e incertezza sui mercati».

La crisi apparve sempre più nella sua «natura sistemica», con “turbolenze” senza precedenti che si estesero dal mercato dei prodotti strutturati ai mercati azionari e, progressivamente, all’intero sistema finanziario evidenziando un «elevato grado di interconnessione».

In breve tempo la crisi dei mutui si trasferì all’economia reale statunitense ed europea provocando «una caduta di reddito e occupazione». Sempre sul sito della Consob si legge che, nel complesso, gli aiuti erogati alle banche dei rispettivi sistemi nazionali in Europa ammontano a 3.166miliardi di euro, sotto forma di «garanzie (2.443miliardi), ricapitalizzazioni (472miliardi) e linee di credito e prestiti (251miliardi)». La Consob dichiara di far riferimento a dati MBRES del dicembre 2013.

3.166miliardi di euro.

«I salvataggi bancari accrebbero in modo significativo il debito pubblico dei paesi coinvolti, gettando i presupposti per la cosiddetta crisi del debito sovrano».

La crisi del debito sovrano dei paesi europei è dovuta quindi alla crisi finanziaria partita da Wall Street ed estesasi fino agli istituti finanziari europei che hanno poi ricevuto, in complesso, 3.166miliardi di euro di aiuti.

Ora la domanda che viene da porsi è: perché per far rientrare il debito pubblico non è stato richiesto un sacrificio alle banche invece che ai cittadini?

Ma sorgono anche altri interrogativi. Ipotizzando anche e volendo dare per buona la versione che sostiene l’effetto sorpresa della crisi del 2007, ovvero che ha avuto un effetto domino perché inaspettata, allora ci si chiede cosa in concreto sia stato fatto per evitare che accada di nuovo. I mercati finanziari deregolati sono stati regolamentati? Se gli aiuti a sostegno delle banche hanno come conseguenza l’esplosione dei debiti pubblici degli Stati è stato previsto un piano differente di intervento in caso di nuova crisi? Invece di darli alle banche tutti quei miliardi di euro non potrebbero essere destinati direttamente all’economia reale? Al welfare? Al pubblico impiego? Al sociale? All’istruzione? Alla sanità? Cosa hanno poi fatto le banche con quei soldi pubblici? Contano di restituirli?

Ripensando alle parole di Mario Monti sembrerebbe proprio di no. Piuttosto pare ci sia una qualche tanto grave quanto incomprensibile responsabilità dei cittadini e dell’allora opposizioni incapaci di comprendere fino in fondo la serietà della “vergogna della Troika”. Con il 92% del consenso in Parlamento il governo Monti sarebbe riuscito a portare l’Italia fuori dalla crisi finanziaria e ad avviare una «seppur lenta, ripresa». Forza Italia, Partito Democratico, Fratelli d’Italia… li nomina tutti come sostenitori tranne la Lega, unica forza politica di opposizione nel Parlamento di allora, e Movimento Cinque Stelle come esterno alle istituzioni. All’epoca c’erano solo il blog di Grillo e i meetup.

Uno dei punti chiave su cui si è tanto insistito, lo ha fatto il governo Monti e lo ha fatto anche il governo Renzi, era il precetto del 3%. Se il deficit restava al di sotto di questa percentuale la ripresa e con essa la crescita dell’Italia sarebbero arrivate più fervide che mai. In più sedi istituzionali e conferenze Matteo Renzi ha sottolineato la coerenza del suo esecutivo nel rispettare questa direttiva.

Restare al di sotto del 3% significa mantenere la politica di tagli alla spesa pubblica.

Ma da dove viene fuori questo 3%? Funziona davvero?

Guy Abeille, ex funzionario del Ministero delle Finanze francese, ai microfoni dei giornalisti di PresaDiretta, intervista poi ripresa anche nel documentario Piigs, dichiara che, una sera del 1981, l’allora Presidente Mitterrand lo chiama perché necessita di una norma che fissasse il tetto del debito pubblico. «Il Presidente voleva qualcosa di semplice, di pratico. Non cercava una teoria economica ma uno strumento a uso interno». Siccome tutte le soluzioni sembravano complicate, Abeille e colleghi hanno pensato di rapportare il deficit al Pil. Il risultato di questa elementare operazione matematica è stato 3. Ed ecco il 3%. «Nessun criterio scientifico».

Qualche anno più tardi, quando a Maastricht bisogna trovare una regola per l’unione monetaria, Trichet disse: «Noi abbiamo un numero che ha funzionato benissimo in Francia». Da quando il 3% è diventato una regola, continua Abeille, «tutti hanno dovuto legittimarlo agli occhi dell’opinione pubblica, della gente che vota», gli economisti hanno elaborato mille spiegazioni scientifiche, ma «io posso garantire che le cose sono andate esattamente come ho raccontato».

Sembra una barzelletta ma in realtà è molto triste. Sarà per questo motivo, forse, che alla prima votazione utile il popolo italiano ha premiato proprio quelle forze politiche che hanno scelto, nel tempo, di rimanere fuori da quel 92% che ha preferito invece imporre “sacrifici” alla popolazione tra cui proprio la regola del 3%.

In effetti lo scrivevano anche i relatori del Rapporto Citigroup in America che il diritto di voto equanime può essere un grande problema, perché i non ricchi non hanno potere economico ma sono in tanti, tantissimi, e siccome ogni persona ha diritto a un solo voto, il loro complessivamente supera di gran lunga quello delle élite, ovvero di coloro che, da questa immensa crisi finanziaria che ha investito l’economia reale di praticamente tutti i Paesi, sono riusciti forse anche a guadagnarci. Ho scritto forse ma penso di sicuro.

La Consob segnala che, nel novembre 2012, è stato adottato il nuovo Regolamento europeo come contromossa della crisi che ha messo in discussione anche «la capacità di tenuta di quasi tutti i comparti della regolamentazione del sistema finanziario», per l’attitudine a «creare un sistema di incentivi distorto e deresponsabilizzante». Gli eventi occorsi hanno messo in evidenza «la necessità di una riforma degli assetti istituzionali della supervisione finanziaria in Europa e negli Usa» e di rivedere «l’approccio tradizionalmente improntato all’autodisciplina» in alcuni settori del mercato finanziario, tra i quali «quello relativo ad agenzie di rating, fondi speculativi e mercati cosiddetti over the counter». In Europa è stata disegnata una nuova «architettura istituzionale» volta a promuovere «regole armonizzate e prassi uniformi di vigilanza e applicazione delle norme».

Sulle politiche di austerity invece permane la visione condivisa di governi locali e comunitari.

Riacquistare la capacità critica, la forza di volontà, creare gli anticorpi alla dottrina della shock economy, riappropriarsi degli strumenti utili a dar voce alle popolazioni e ai loro diritti, lo sciopero, la piazza, la cabina elettorale… Ecco la vera forza del popolo, della Democrazia.

Michael Moore sostiene che, nonostante i contenuti, le case di produzione e distribuzione cinematografica scelgano di produrre e distribuire egualmente i suoi documentari perché convinte che forniranno comunque un incasso e che la gente, anche se li guarderà, poi non farà nulla di così rivoluzionario da mettere in bilico il sistema. Moore è convinto del contrario e continua a lavorare a sempre nuovi documentari-inchiesta. Chi ha ragione? Solo il popolo, le scelte e le decisioni che prenderà potranno dirlo.

Le parole dell’operaia della Republic in sciopero per far valere i propri diritti di lavoratrice e cittadina sintetizzano alla perfezione il mix di meraviglia ed entusiasmo che accompagna la scoperta della possibilità di liberarsi della privazione sensoriale cui si viene costantemente sottoposti: «Se ti è stato ripetuto per un’intera vita che le cose stanno come ti dicono gli altri, iniziare a pensare di cambiarle è una cosa grossa». Immaginate riuscirsi cosa sarà.


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The Corporation e Piigs: fin dove si spingono i tentacoli del libero mercato? È questa l’Europa che vogliamo?

05 martedì Giu 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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articolo, Europa, Italia, italiani, NWO, Piigs, TheCorporation, USA

La questione in fondo si riduce a due semplici quesiti: fin dove sono disposti ad arrivare i business men per raggiungere il loro tanto agognato profitto? Fino a che punto cittadini e governi sono disposti a rinunciare a doveri e diritti pur di rispettare le impunite leggi del libero mercato?

Originariamente il ruolo e lo scopo delle Corporation era tutt’altro rispetto a quello attuale e somigliava più a una cordata di persone o società che appaltavano un grosso lavoro dallo Stato, il quale stabiliva rigidamente tempi, costi e regole. Così sono stati costruiti la gran parte dei ponti americani e le immense ferrovie che attraversano il Paese.
Oggi sono persone giuridiche cui vengono riconosciuti tutti i diritti delle persone e anche più, in quanto sono indicate come particolari. Per legge hanno il solo scopo di tutelare gli azionisti e non la comunità o la forza lavoro. «Non hanno un’anima da salvare o un corpo da incarcerare» e sono prive di «coscienza morale» come sottolinea Noam Chomsky, uno dei tanti intervistati del documentario The Corporation appunto, prodotto da Jennifer Abbott, Mark Achbar e Joel Bakan nel 2003.

La Corporation è ormai un’istituzione dominante nella realtà contemporanea. Grandi, enormi società di capitali con poteri altrettanto sconfinati e controlli sempre più limitati.
Le Corporation oggi sono globali ed essendo tali, in sostanza, i governi hanno perso qualsiasi forma di controllo su di loro. A dirlo è l’ex amministratore delegato della Goodyear, una delle Corporation che si scoprì aveva preso parte al complotto ordito per spodestare il presidente Roosevelt. Oggi queste azioni, questi complotti sono inutili perché «il Capitalismo è il padrone incontrastato». Rappresenta ormai a tutti gli effetti «l’Oligarchia regnante del nostro sistema».

Un sistema che nel 2008 ha portato il mondo intero ad affrontare una delle crisi economiche più terribili mai presentatesi dove, ancora una volta, a rimetterci sono stati i deboli e i meno furbi. In Europa, per esempio, a farne le spese sono stati i Paesi additati come deboli o peggio come piigs. Infelice acronimo che voleva sottolineare le porcine economy dei Paesi con un’economia debole e un debito pubblico insostenibile, «i Paesi maiali sono Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna». Un acronimo che è diventato anche il titolo del documentario di Adriano Cutraro, Federico Greco, Mirko Melchiorre girato nel 2017.

Come il documentario The Corporation anche Piigs risulta essere molto illuminante per quello che si scopre e non si conosceva e per quello che viene invece confermato da chi, magari, in altre sedi tende a negare o minimizzare.

Stefano Fassina sostiene che la distinzione tra economie forti e deboli all’interno dell’eurozona, e che dà adito a stereotipi e luoghi comuni duri da scalfire, sia in realtà «una lettura strumentale» fatta, «come sempre avviene nella Storia, da chi è più forte, da chi orienta la comunicazione, da chi orienta l’interpretazione» e lo fa per «scaricare su una parte problemi che invece erano sistemici». E va avanti sottolineando il fatto che i Paesi virtuosi erano tali proprio per i problemi dei Paesi periferici: «la Germania cresceva per le esportazioni e la Grecia, che era in debito, riceveva dei prestiti perché qualcuno premeva per importare Mercedes dalla Germania».

Chi esercitava dette pressioni? Gli interessi di chi stanno tutelando in questo modo gli Stati e l’UE?
Possiamo ipotizzare che anche in Europa le Corporation, che chiamiamo Multinazionali o Società di Capitali, si beffano dei diritti dei cittadini e delle leggi per raggiungere i loro tanto amati profitti? Ma laddove i Governi accettano e acconsentono il loro “gioco” non vengono minati i principi fondamentali della Democrazia?

Yanis Varoufakis sostiene che, in realtà, «la Democrazia non è mai stata la caratteristica principale dell’Unione Europea». E racconta nel dettaglio le risposte che si è sentito dare nel momento in cui vi si è recato per contrattare i termini di una eventuale soluzione per il suo Paese. Soluzione che per molti versi poteva sembrare una vera e propria punizione, per un popolo, quello greco, che aveva osato alzare la testa e la voce contro i ferrei diktat dell’austerity. Per esempio, l’Europa nello «spostare le perdite delle banche sulle spalle dei contribuenti più deboli ha rivelato il suo autoritarismo».

Sergio Mattarella lo scorso 26 maggio ha sottolineato come la funzione e il ruolo del Presidente della Repubblica sia di garanzia e non può quindi né deve subire imposizioni di alcun tipo, dichiarando di poter accettare tutte le nomine proposte tranne quella del Ministro dell’Economia. «La designazione del Ministro dell’Economia costituisce sempre un messaggio immediato di fiducia o di allarme per gli operatori economici e finanziari». L’incertezza della nostra posizione nell’euro «ha posto in allarme gli investitori e i risparmiatori italiani e stranieri che hanno investito nei nostri titoli di Stato e nelle nostre aziende».

Paolo Barnard, sempre all’interno del documentario Piigs, afferma che il debito pubblico è un problema quando uno stato contrae passivi con una moneta non sua. Gli fanno eco Stephanie Kelton e Paul De Grawe. «I Paesi eurozona riscuotono le tasse in euro, spendono in euro ma non hanno sovranità monetaria». Il risultato di questo è che «i mercati possono mettere in sofferenza lo Stato italiano, vendendo in massa i titoli sapendo che il governo non ha euro per ripagare i detentori dei titoli».

Federico Rampini invece sottolinea la necessità di «riprendere l’economia perché è il nostro futuro». E rimarca «l’analfabetismo economico» di cui soffrono gli italiani. Che non suona tanto come un’offesa quanto come una mera constatazione del fatto che si stenta a capire i concetti base di economia. Si continua a credere che tutto ciò che riguarda l’economia rimanga «nel mondo magico» della stessa. Bisogna invece iniziare a riflettere sul fatto che «tutto è economia»: le guerre, lo sfruttamento, l’abbandono dello stato sociale, della sanità, dell’istruzione…

Per i broker di Wall Street l’Undici Settembre è stata una «benedizione camuffata». Tutti quelli che non erano nelle Torri Gemelle e si sono salvati hanno immediatamente investito in oro e hanno raddoppiato il capitale. A raccontarlo alla telecamera degli operatori di The Corporation è un broker di Wall Street.
Quando l’America bombardò l’Iraq nel 1991, tutti i broker tifavano affinché Saddam Hussein continuasse a dare problemi, a incendiare pozzi, così il prezzo del petrolio sarebbe continuato a salire e loro a guadagnare. «Noi speravamo in una pioggia di bombe su Saddam». Quella, al pari dell’Undici Settembre, era una tragedia, una vera e propria catastrofe con bombardamenti, guerre, morti… il broker si rende conto di questo ma ammette che anche «la devastazione crea opportunità».

Fin dove si spingono questi operatori dei mercati, mediatori o investitori che siano? Esiste un limite oltre il quale si rifiutano di pescare nel torbido?

Stando ai dati forniti da un Rapporto del Dipartimento del Tesoro, in una sola settimana 56 Corporation americane sono state multate per aver commerciato con nemici ufficiali degli Stati Uniti, «compresi terroristi, tiranni e regimi dittatoriali». Le Corporation sono in grado di produrre grande ricchezza ma anche «enormi danni, molto spesso taciuti».

Le politiche governative e statali non possono e non devono piegarsi sempre e comunque agli umori del libero mercato, in considerazione anche e soprattutto del fatto che a guadagnarci, come anche a rimetterci, sono sempre gli stessi. Da un lato le grandi società di capitali, gli investitori e i broker e dall’altro i piccoli investitori e le popolazioni.
Ancora il Presidente Mattarella, sempre nel corso dell’intervento per motivare la bocciatura di Paolo Savona a Ministro dell’Economia, sottolinea come la manifesta volontà di uscire dall’euro è cosa ben diversa «da un atteggiamento vigoroso, nell’ambito dell’Unione Europea, per cambiarla in meglio dal punto di vista italiano». E i cambiamenti necessari da porre in essere sarebbero davvero tanti.

A chiusura del documentario Piigs c’è la lunga e amara analisi di Giuliano Amato sulla sovranità monetaria e su quella economica dei Paesi membri e dell’intera Unione Europea. Egli stesso ammette che la soluzione da loro trovata e poi posta in essere è stata sconsigliata da molti economisti, specie americani. «La vostra Banca Centrale se non è la Banca Centrale di uno Stato non può assolvere alla stessa funzione a cui assolve la Banca Centrale di uno Stato che, quando lo Stato lo decide, diventa il pagatore senza limiti di ultima istanza». Che poi è quanto affermato anche da Paolo Barnard. Ma gli “architetti” ideatori dell’eurozona, tra cui appunto lo stesso Amato, non hanno voluto dar retta a questi economisti, stabilendo addirittura nei Trattati dei «vincoli che impedissero di aiutare chi era in difficoltà». L’Unione Europea in sostanza non si assume la responsabilità degli impegni dei singoli stati e la Banca Centrale Europea non può comprare direttamente i titoli pubblici dei singoli stati. Non sono previste agevolazioni creditizie e finanziarie per i singoli stati… insomma, moneta unica dell’eurozona ma ciascuno deve essere in grado di provvedere a se stesso. «Era davvero difficile che funzionasse e ne abbiamo visto tutti i problemi», chiosa Giuliano Amato.

«Certo che ci saranno trasferimenti di sovranità. Ma non sarebbe intelligente da parte mia richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su questo» (Jean-Claude Juncker, Presidente della Commissione Europea, Europe Agency, 24 giugno 2007).

I problemi, che già sapevano esserci in potenza, sono aumentati notevolmente dopo la crisi del 2008 ma, soprattutto, in conseguenza delle misure intraprese per “superarla”. Politiche che, nell’opinione di Stefano Fassina, «hanno aggravato i problemi invece di risolverli».
Si pensi, per esempio, al Fiscal Compact. Il Patto di Pareggio di Bilancio. L’anticristo del Bilancio di un’istituzione pubblica che, paradossalmente, può garantire maggiore benessere ai cittadini lavorando in sofferenza. Perché l’istituzione pubblica è l’unica società esistente al mondo che non ha scopo di lucro, quindi non opera per il profitto ma per i servizi ai cittadini. Basti pensare al New Deal lanciato dal Presidente americano Roosevelt che, forse anche per politiche come questa, si inimicò le Corporation che tramarono per destituirlo.
«Il pareggio di Bilancio dà priorità alla stabilità dei prezzi mettendo in secondo piano il diritto al lavoro, alla salute e a un salario dignitoso… per esempio».

Ma se tutti sapevano l’inutilità, o meglio la nocività di questi provvedimenti per i singoli Stati e, soprattutto, per i cittadini, perché sono stati posti in essere comunque? Sono stati imposti a reale beneficio di chi? Del mercato? Delle Corporation, che in Europa diventano le Multinazionali?

A seguito del veto del Presidente Mattarella, il capo politico del Movimento Cinque Stelle Luigi Di Maio diffonde un video nel quale sottolinea che il governo del cambiamento sia stato stoppato non per Paolo Savona e l’impossibilità di trovargli un sostituto, bensì perché chiunque, nel corso della sua carriera, fosse stato in qualche misura critico sull’euro non andava bene. Non poteva andare bene. «Se siamo in queste condizioni non siamo in una Democrazia libera». Nel Contratto di Governo non c’è l’uscita dall’euro, è prevista la modifica dei Trattati, la rivisitazione di alcune regole europee. Il veto quindi si basava su opinioni non su reali intenzioni. Eppure il tutto andava fermato o cambiato. Perché?

Nel momento stesso in cui Luigi Di Maio ha palesato l’eventualità di procedere con l’iter per la messa in stato di accusa del Presidente il dibattito sui media ma, soprattutto, sui social si è infervorato generando due aperte fazioni che, prontamente, si sono schierate a favore o contro Sergio Mattarella. Gli interventi vertevano tutti o quasi sul diritto costituzionale o meno che aveva o che ha il Presidente della Repubblica di opporsi alla nomina di un singolo Ministro e su quali motivazioni detta scelta debba basarsi. Nessuno però o quasi si è posto l’unico interrogativo utile, ovvero: i mercati e gli investitori sono una motivazione valida?
La risposta è arrivata, qualche giorno più tardi le dichiarazioni di Mattarella, da Günther Oettinger, commissario UE al Bilancio: «I mercati insegneranno agli italiani a votare nella giusta direzione» (“The markets will teach the Italians to vote for the right thing”). Il giornalista Bernd Thomas Riegert ha poi rimosso questo tweet e lo ha sostituito adducendo come motivazione il fatto di non aver riportato fedelmente la citazione di Oettinger. Il succo di quanto scrive in seguito non si discosta poi tanto dalla prima versione. Si tratta semplicemente di un messaggio meno chiaro, meno esplicito ma di eguale sostanza.
Un modo meno “aggressivo” di dire la stessa cosa, diciamo nei termini usati anche dal Presidente Mattarella.

Gli italiani però si sono offesi per le sue parole, quelle del commissario UE, e questi allora si è pubblicamente scusato. Va bene, scuse accettate ma la sostanza non cambia. È vero oppure non lo è che i mercati influenzano i governi? È vero oppure non lo è che se un Ministro dell’Economia non piace ai mercati il ministro non lo può fare? È vero oppure non lo è che, se i singoli Paesi mantengono la responsabilità sui debiti pubblici pur avendo abbandonato la sovranità monetaria, è necessario quantomeno rinegoziare i Trattati?

Nell’intervista rilasciata per il documentario Piigs, Noam Chomsky evidenzia quanto sia «interessante osservare le reazioni in Europa quando qualche politico suggerisce che forse la gente dovrebbe avere voce su ciò che la riguarda». Citando, per esempio, i Referendum popolari indetti in Grecia nel 2015. «La reazione è stata di incredulità: Come osate chiedere alla gente cosa deve accadergli? Non sono affari loro. Devono seguire gli ordini. Prendiamo noi le decisioni…».
Yanis Varoufakis ricorda che al primo Eurogruppo cui ha presenziato propose un accordo, un compromesso tra la Troika e il Governo greco, «a metà tra le loro imposizioni e il mandato elettorale». Wolfgang Schauble rispose: «Le elezioni non possono essere permesse se modificano il programma economico della Grecia».

«La Grecia è stata selvaggiamente punita per aver osato chiedere un Referendum e i tecnocrati europei hanno imposto misure ancora più dure, per togliere loro dalla testa l’idea folle che la democrazia possa avere un qualche valore». (Noam Chomsky)

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27 domenica Mag 2018

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Italia, italiani, Legambiente, NWO

Tra il 1945 e il 1992 in Italia sono state prodotte 3.7milioni di tonnellate di amianto grezzo e importate 1.9milioni di tonnellate. Con la legge 257/1992 è stata decretata la cessazione dell’impiego dell’amianto sull’intero territorio nazionale. In 26 anni sono stati registrati 21.463 casi di mesotelioma maligno, di cui il 93% a carico della pleura e il 6.5% del peritoneo. Oltre 6mila morti l’anno.

In occasione della giornata mondiale delle vittime dell’amianto, che cade il 28 aprile, Legambiente ha pubblicato il dossier Liberi dall’amianto? e ribadito «l’urgenza e la necessità improrogabile per il nostro Paese di agire attraverso una concreta azione di risanamento e bonifica del territorio».

A distanza di 26 anni dall’approvazione della legge, «il Piano Regionale Amianto non è stato approvato in tutte le Regioni». L’indagine posta in essere da Legambiente ha stimato un totale di quasi 58milioni di metri quadri di coperture in cemento amianto. Si parla di 370mila strutture di cui oltre 20mila sono siti industriali, 50.744 edifici pubblici, 214.469 edifici privati, oltre 60mila le coperture in cemento amianto e 18.945 altra tipologia di siti.
Sono oltre 1.195 i siti ricadenti in I Classe, ovvero a maggiore rischio, e 12.995 quelli in II Classe.

Molto a rilento vanno avanti le attività di bonifica. Rilevamenti ISPRA del 2015 parlano di 369mila tonnellate di rifiuti contenenti amianto prodotti (71% al Nord, 18.4% al Centro e 10.6% al Sud), di cui 227mila tonnellate smaltite in discarica e 145mila tonnellate esportate nelle miniere dismesse della Germania a fronte di quasi 40milioni di tonnellate di amianto presenti sul territorio.

E molto scarse sono anche le attività di formazione del personale tecnico, con programmi e momenti di aggiornamento che risultano solo in otto Regioni (Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Valle d’Aosta e Veneto) e nella Provincia Autonoma di Trento, nonché le attività di formazione e informazione rivolte ai cittadini. Scarse, sporadiche e comunque risalenti a diversi anni fa.

Stando ai dati forniti dal Ministero dell’Ambiente, aggiornati al novembre 2017, in Italia «ci sono circa 86mila siti interessati dalla presenza di amianto, di cui 7.669 risultano bonificati e 1.778 parzialmente bonificati». Tra questi rientrano anche i «779 impianti industriali (attivi o dismessi)» e «10 SIN (Siti di Interesse Nazionale da bonificare) che presentano problemi connessi al rischio amianto». Numeri che lo stesso Ministero dell’Ambiente «ritiene essere sottostimati» in quanto i dati raccolti dalle Regioni «non consentono una copertura omogenea del territorio nazionale».

Inoltre 20 anni di produzione normativa ha generato «una situazione ingarbugliata e spesso contraddittoria tra norma e norma». Alla risoluzione di questo problema era preposto il Testo Unico per il riordino, il coordinamento e l’integrazione di tutta la normativa in materia di amianto, presentato a novembre 2016 al Senato e realizzato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno degli infortuni e delle malattie professionali. «Il Testo Unico è al momento ancora fermo in Senato».

Il monitoraggio delle fibre disperse in aria è «una delle attività fondamentali che gli Enti preposti dovrebbero mettere in campo» per prevenire l’insorgere di rischi sanitari per i cittadini. I dati forniti dalle Regioni in tal senso «sono però scoraggianti».

Il V Rapporto fornito dall’INAIL attraverso il ReNaM (Registro Nazionale dei Mesoteliomi), risalente al 2015, sottolinea come «l’Italia è attualmente uno dei Paesi al mondo maggiormente colpiti dall’epidemia di malattie amianto correlate». L’incisività della malattia è rarissima fino a 45 anni («il 2% dei casi registrati»). L’età media della diagnosi è «69.2 anni, senza distinzione significativa di genere». Il 69.5% dei casi analizzati presenta un’esposizione professionale («certa, probabile, possibile»), il 4.8% famigliare, il 4.2% ambientale, l’1.6% per un’attività extralavorativa di svago o hobby.
Per quanto riguarda i casi da esposizione professionale, i settori di attività maggiormente coinvolti risultano essere:
Edilizia
Industria pesante

Sul sito del Ministero della Salute si legge che «la presenza delle fibre di amianto o asbesto nell’ambiente comporta inevitabilmente dei danni a carico della salute, anche in presenza di pochi elementi fibrosi». I danni a carico della salute sono “inevitabili” anche in presenza di pochi elementi fibrosi perché si tratta di «un agente cancerogeno». Particolarmente nocivo è il fibrocemento (“eternit”), una mistura di amianto e cemento particolarmente friabile e quindi soggetta a danneggiamento o frantumazione, infatti «i rischi maggiori sono legati alla presenza delle fibre nell’aria» che, una volta inalate, «si possono depositare all’interno delle vie aeree e sulle cellule polmonari». Asbestosi, mesotelioma (tumore che si sviluppa a carico della membrana che riveste i polmoni, pleura, o gli altri organi interni, peritoneo), tumore dei polmoni… queste le conseguenze che possono e in genere si manifestano anche a distanza di molti anni dall’esposizione e a bassi livelli di asbesto.

In questo opuscolo ministeriale informativo ci tengono a ribadire che, essendo un agente cancerogeno, «occorre evitare l’esposizione anche a bassi livelli di concentrazione» poiché basta «una minima esposizione per subirne gli effetti nocivi». Già. Ma se le tonnellate di amianto sparse, disseminate e abbandonate lungo tutto il territorio nazionale non vengono bonificate come si fa a evitare l’esposizione anche a minime quantità di asbesto, magari aerodisperso? La risposta a questa domanda però non si trova nell’opuscolo e nemmeno negli allegati a esso accorpati sul sito ministeriale.

Qualche indicazione viene data in caso di bonifica o smaltimento di manufatti già esistenti. Viene consigliato in questi casi di non procedere da autodidatta bensì di «rivolgersi sempre a personale qualificato» in maniera tale da «non recare danni maggiori a se stessi e agli altri».

Si legge ancora che l’articolo 4 della Legge 257/92 «prevedeva l’istituzione della Commissione per la valutazione dei problemi ambientali e dei rischi sanitari connessi all’impiego dell’amianto». L’ultimo mandato di suddetta Commissione si è concluso nel 2005, con proroga fino al 2006. Dopodiché è cessata l’attività di monitoraggio come anche quella di «produzione di documenti tecnici affidati a essa come compiti fondamentali». Per «mantenere tuttavia vivo l’interesse per le tematiche rimaste in sospeso e mettere in luce le nuove problematiche emergenti», il Ministero ha previsto la costituzione di un Gruppo di studio che, nel 2012, ha elaborato «un rapporto finale, che fotografa lo stato dell’arte della problematica».

Il rapporto sullo “stato dell’arte” ci dice che ogni Regione, ad accezione di Molise e P.A. di Bolzano, ha istituito un Centro Operativo (COR) con compiti di identificazione di tutti i casi di mesotelioma insorti nel proprio territorio e di analisi della storia professionale, residenziale, famigliare e ambientale dei soggetti ammalati. «La rilevazione avviene coinvolgendo tutte le fonti informative utili (ospedali pubblici e cliniche private) e conducendo la ricerca attiva dei casi». Nella relazione gli operatori del Gruppo di lavoro si dichiarano abbastanza soddisfatti della raccolta dati al riguardo. Stessa cosa non può dirsi per i tumori polmonari, in quanto «non esiste in Italia un sistema di registrazione esaustivo dei casi integrato dalla raccolta anamnestica delle circostanze che espongono ad amianto». Per l’asbestosi si fa invece riferimento alle «statistiche INAIL di denunce e di riconoscimento di malattie professionali» e viene precisato che «l’attendibilità delle statistiche INAIL sulle denunce e riconoscimento delle asbestosi non è mai stata valutata attraverso un confronto con un adeguato golden standard».

Diverse Regioni hanno approvato programmi di sorveglianza sanitaria per gli ex-esposti ad amianto. Ma si tratta di protocolli estremamente eterogenei, si passa infatti dalla «Regione Campania, che prevede la sistematica fornitura di strumenti diagnostici tecnologicamente avanzati e quella delle Regioni Piemonte e Friuli Venezia Giulia che delegano le decisioni, caso per caso, ai medici di base». Nella relazione si legge anche che, per quanto riguarda l’estero, «l’esperienza più esaustiva è quella finlandese», che integra uno screening per tutte le malattie correlate all’amianto (compresa l’offerta di Tac spirale), servizi di igiene e di analisi chimica, progetti di ricerca e cooperazione internazionale.

Anche la relazione del Gruppo di Lavoro pone l’accento sul censimento a macchie di leopardo e i ritardi nelle bonifiche, spesso fatte anche male. «Questi censimenti, nonostante il cospicuo e ripetuto impegno economico, hanno in realtà prodotto risultati di non eccessivo rilievo e di limitata fruibilità». Stesso discorso vale per la bonifica e lo smaltimento. Ci sono stati sicuramente dei miglioramenti nella conoscenza del processo di dismissione dell’amianto «ma se non esteso a tutte le Regioni non permette di avere un quadro completo a livello nazionale del trend in atto, con particolare riferimento al destino finale dei rifiuti di amianto, che attualmente non risulta ben conosciuto nel sue caratteristiche».

Le informazioni che si evincono dalla relazione sommate ai numeri del dossier di Legambiente fanno emergere un quadro davvero allarmante o, se si preferisce, disarmante della situazione italiana a 26 anni dalla messa al bando di questo elemento fibroso altamente nocivo per la salute dei cittadini. «Quanto fatto sino ad oggi non può quindi considerarsi un punto di arrivo in quanto l’esigenza di costante e sempre più approfondita conoscenza della tematica è elemento essenziale per assicurare oltre alla correttezza delle azioni anche la tutela degli operatori, dei cittadini, dell’ambiente».

Essendo molti i Paesi che ancora estraggono e lavorano fibra di amianto viene riscontrato, «con frequenze non eccessive ma certamente meritevoli di attenzione», l’arrivo sul territorio nazionale di merce non conforme ai dettami normativi in materia di amianto. L’obiettivo da porsi è, quindi, «evitare, per quanto possibile, l’ingresso in Italia di prodotti realizzati con componentistiche vietate dalla normativa vigente riguardanti materiali con fibre di amianto» e per raggiungere detto scopo è necessaria una «organica interazione tra i vari soggetti coinvolti o comunque cointeressati». Organi centrali, Regioni, Asl, dogane portuali e aeroportuali.

Anche il Gruppo di Lavoro ministeriale, come Legambiente, giunge alla conclusione che sia necessario redarre quanto prima un Testo Unico normativo di riferimento. «Diversi Ministeri (Ambiente, Industria, Sanità) hanno nel tempo legiferato per le proprie competenze, ma non sempre si è tenuto conto di altri precedenti provvedimenti di diverse amministrazioni con cui vi potevano essere elementi di non chiarezza applicativa».

Per la tutela degli operatori, dei cittadini e dell’ambiente ci si attenderebbe quindi quanto prima l’approvazione di un Testo Unico articolato ed esaustivo, un censimento che vada a coprire l’intero territorio nazionale e una bonifica altrettanto plenaria.

A giugno 2012 il Ministero della Salute pubblica il Quaderno n°15 sullo «stato dell’arte e prospettive in materia di contrasto alle patologie asbesto-correlate». Ma quali sono esattamente le patologie asbesto-correlate?
Sono respirabili tutte le fibre, «come generalmente quelle di asbesto», con diametro inferiore a 3.5micron. Le fibre comprese tra 5 e 10 micron di lunghezza, arrivando all’interstizio e per via linfatica alle sierose, «possono determinare lesioni interstiziali e pleuriche»:
Fibrosi
Ispessimenti e Placche pleuriche
Neoplasie
Quelle di lunghezza superiore ai 10micron, arrestandosi a livello alveolare, «possono provocare lesioni alveolari (alveolite asbestosica)».

Tra le patologie asbesto-correlate vengono quindi inserite:
Asbestosi
Pleuropatie asbesto-correlate (Placche pleuriche e Ispessimento pleurico diffuso)
Versamenti pleurici benigni (pleuriti benigne da asbesto)
Tumore polmonare
Mesotelioma (Mesotelioma pleurico e Mesotelioma maligno extrapleurico)

Vanno evidenziate poi le patologie extrapolmonari da asbesto. «Una possibile correlazione è stata evidenziata tra l’esposizione ad asbesto e le patologie autoimmunitarie». Gli effetti sull’apparato gastrointestinale «sono prevalentemente riconducibili all’insorgenza di tumore dello stomaco». Per quanto riguarda l’apparato riproduttivo, «una possibile correlazione è stata documentata con il tumore ovarico». La IARC (International Agency for Research on Cancer) definisce come «sufficiente l’evidenza di insorgenza di cancro alla laringe e dell’ovaio in seguito a esposizione ad asbesto e limitata quella per tumore della faringe, stomaco, colon-retto».

Negli Stati Uniti e in Svezia, dove i consumi di amianto sono diminuiti più precocemente, «si assiste già a una diminuzione dei tassi di mortalità e di incidenza». Laddove i consumi sono cresciuti, come nei Paesi in via di sviluppo, «le limitate statistiche disponibili suggeriscono che l’epidemia sia attualmente al suo esordio». Il declino del consumo di amianto in Italia è avvenuto «in ritardo rispetto ad altri Paesi occidentali». La bonifica e lo smaltimento dell’amianto messo al bando orami dal lontano 1992 sono ancora procedure in fase di rodaggio. Per il nostro Paese si prevede una diminuzione dei picchi di mortalità e incidenza a partire dal 2015-2020. Si prevede. O meglio si suppone. Si potrebbe anche immaginare che la gran parte dell’amianto prodotto e importato tra il 1945 e il 1992 fosse stato tempestivamente censito, smaltito e i siti, pubblici e privati, bonificati… già si potrebbe ma quello che proprio non si può fare è cambiare la realtà, lo stato delle cose. E quello è disastroso.

Tre verbi che devono diventare azioni concrete e diffuse: censire, bonificare, smaltire. Tutto e ovunque. E farlo in tempi brevi. Tutto il resto sono parole, o meglio chiacchiere inutili.


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© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Terza: I colossi dell’Editoria

09 mercoledì Mag 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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I grandi colossi dell’editoria e il mercato editoriale globale. I maggiori gruppi editoriali italiani e gli editori indipendenti. Editori autori e lettori alle prese con la digitalizzazione, la discultura e l’oscurantismo.

A ottobre 2015 il gruppo Mondadori – che già includeva Einaudi, Piemme, Sperling&Kupfer, Frassinelli, Electa – acquisisce per 127milioni e mezzo Rizzoli, Rizzoli International, Bompiani, Marsilio, Fabbri, Bur, Sonzogno, Etas e la divisione education di Rcs e viene stimato che la nuova formazione conquisterà il 35% del mercato dei libri comprati in libreria e sul web e poco meno del 25% del settore scolastico.
L’acquisizione ha scatenato parecchi rumors tra gli editori, tra gli scrittori e anche tra i lettori. Ripetutamente è stato invocato l’Antitrust e rappresentato in maniera negativa lo scenario successivo per il libero mercato editoriale italiano.
Al momento dell’acquisizione Rcs aveva un debito di 526milioni. Il presidente della Mondadori, Marina Berlusconi, ha commentato l’operazione di acquisto indicandola come un «investimento sul futuro del nostro Paese e sulla qualità di questo futuro».

Guardata dal punto di vista culturale ed editoriale l’acquisizione conclusasi con la formazione del gruppo indicato come Mondazzoli preoccupava in quanto antitetica al pluralismo inteso come sinonimo di indipendenza, differenza e diversificazione. Aspetti editoriali che da anni comunque vengono rivendicati dall’editoria indipendente. Secondo le stime il nuovo gruppo editoriale avrebbe un fatturato oltre 500milioni in un mercato, quello editoriale italiano del 2014, di 1,2miliardi. Ma le critiche non sono mancate anche da parte degli stessi autori ai quali ha risposto Paolo Mieli, presidente di Rcs Libri: «La competizione europea e mondiale si gioca tra colossi dell’editoria, cui si affiancano magari case editrici più piccole».

Viene a questo punto naturale chiedersi se gli autori che hanno manifestato pubblicamente il loro dissenso all’accorpamento dei due grandi gruppi editoriali siano i medesimi che auspicano un numero sempre crescente di copie vendute e libri pubblicati. Perché il nocciolo della questione forse è proprio questo. Se si vuol conquistare un mercato sempre più ampio, globale, non si riuscirà di certo a farlo con una piccola o media casa editrice che potrà magari vantare la bibliodiversità ma di sicuro non la diffusione planetaria, la traduzione in molteplici lingue e la relativa promozione. Insomma non potrà mai ambire e far ambire ai propri autori le tanto agognate milioni di copie vendute. Se poi, invece, si abbandona o accantona l’aspetto economico e monetario e si rivolge la propria attenzione al problema della diversità culturale applicata ai libri allora il discorso cambia, ma la responsabilità non potrà comunque essere imputata totalmente ai colossi che in quel caso andrebbero a pescare in un mercato differente.

Ai cultori liberi e sopraffini non interessa la pubblicità, non interessano le classifiche settimanali mensili o annuali di vendita, le sponsorizzazioni e quant’altro… i titoli che interessano loro se li vanno a cercare, in librerie e biblioteche fisiche o store online.

Per Nicola Lagioia, vincitore dello Strega 2015, la Fondazione Bellonci dovrà «aguzzare l’ingegno e inventarsi delle contromosse per arginare il monopolio». È quantomeno singolare che si sia espresso in questo modo. Scorrendo la lista dei vincitori di quello che viene indicato come uno dei più prestigiosi premi letterari italiani salta all’occhio il fatto che le case editrici siano più meno sempre le medesime. Negli ultimi venti anni la Mondadori appare 7 volte, Einaudi 5, Rizzoli 4, Bompiani 2, Feltrinelli 2. Se si va ancora indietro di 10 anni l’unico editore che salta all’occhio è Leonardo altrimenti gli altri sono sempre gli stessi. E anche andando oltre a ritroso non è che la situazione cambi così radicalmente. Viene da chiedersi quali nefaste conseguenze teme Lagioia per l’ipotetico monopolio indotto dalla presenza della Mondazzoli. In fondo, a pensarci bene, una sorta di monopolio o quantomeno oligopolio esiste già e da decenni ormai.

Le case editrici i cui titoli arrivano finalisti e diventano vincitori dello Strega sono sempre le stesse perché sono le uniche a pubblicare libri meritevoli o c’è dell’altro? Eventualmente è su questo che andrebbe aguzzato l’ingegno.
L’obiettivo concorrenziale di un colosso editoriale come la Mondazzoli è, presumibilmente, un gruppo editoriale di pari o superiori dimensioni perché gli editori a esso afferenti avevano comunque già vinto in rapporto alla piccola e media editoria.

Lo scorso dicembre, in una lunga intervista a La Stampa Marina Berlusconi, parlando di concorrenza commerciale, rivolgeva il suo interesse e manifestava le proprie perplessità verso i 5 grandi colossi del web (Apple, Microsoft, Google, Amazon, Facebook) che hanno potuto agire, a suo dire, «in un contesto del tutto privo di regole». Un universo sregolato per tassazione ma anche per l’utilizzo di contenuti e copyright. Un universo che deve di certo essere regolamentato, per la trasparenza e la concorrenza ma, soprattutto, per la tutela degli utenti. Come deve essere tutelata da bibliodiversità da parte di coloro che operano, a vario titolo, nel settore della cultura, anche a livello di giuria e organizzazioni di eventi, fiere, saloni e premi letterari. Poi, naturalmente, c’è il pubblico che dovrebbe imparare a compiere ogni volta scelte indipendenti e libere.

Una cinquantina tra intellettuali e scrittori italiani manifestano pubblicamente le loro perplessità circa l’acquisizione e sottoscrivono un accorato appello volto a far desistere le parti in virtù del fatto che questa operazione genererebbe un colosso che avrebbe «enorme potere contrattuale nei confronti degli autori, dominerebbe le librerie, ucciderebbe a poco a poco le piccole case editrici e renderebbe ridicolmente prevedibili quelle competizioni che si chiamano premi letterari». Doveroso a questo punto andare a spulciare ancora tra i dati di quelle “competizioni che si chiamano premi letterari”.

Negli ultimi 20 anni gli editori i cui titoli sono arrivati tra i 5 finalisti di un altro tra i più quotati premi letterari italiani, il Campiello, sono nella misura di: Einaudi 18 volte, Mondadori 17, Bompiani 11, Rizzoli 9, Feltrinelli 8, Guanda 7, Sellerio 5, Baldini Castoldi 3, Giunti Piemme Aragno Nottetempo Marsilio 2, Il Saggiatore Neri Pozza E/O Adelphi Bollati Boringheri Garzanti Cairo Nutrimenti Ponte alle Grazie La nave di Teseo 1. Ancora più interessante è osservare tra i vincitori 4 volte Einaudi e Mondadori, 3 volte Sellerio, 2 Feltrinelli Bompiani e Guanda, 1 Adelphi Piemme Rizzoli.

Annualmente l’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) effettua una rilevazione, indicata come Indagine sulla produzione libraria, presso tutte le case editrici e gli altri enti che svolgono attività editoriale con l’obiettivo di «descrivere le principali caratteristiche della produzione di libri nel nostro Paese». L’indagine si rivolge a circa 2000 unità, registrate in un archivio informatizzato degli editori che viene aggiornato annualmente dall’Istat. Stando ai dati forniti dall’Aie – Associazione Italiana Editori – tra il 2016 e il primo semestre del 2017 le case editrici attive, ovvero quelle che hanno pubblicato almeno un nuovo titolo, sono 4.877. Numeri imponenti che evidentemente attraversano poi grate e imbuti che sembrano farli quasi del tutto scomparire. Da tempo, non dall’acquisizione di Rcs da parte di Mondadori.

Forse ha ragione Antonio Giangrande quando parla di Discultura e oscurantismo. Se in Italia i libri vendono poco non è colpa del digitale, dell’industrializzazione e neanche delle grandi concentrazioni editoriali, «c’entrano invece, e molto, gli usi consolidati della filiera tradizionale del libro, che gli operatori dominanti (grandi editori e distributori, che in Italia poi sono la stessa cosa) non solo faticano a superare, ma tentano disperatamente (e dissennatamente) di difendere, con una distribuzione fatta di una miriade di librerie sparse ovunque, e ora in crisi profonda, abituate come sono a un mercato drogato dal “tanto se non lo vendo lo rendo”. Ecco come funziona». E descrive nel dettaglio tutto l’iter seguito da un piccolo-medio editore serio che va dalla pubblicazione in tipografia di un libro scelto alla riconsegna dell’invenduto (che in Italia ha una percentuale media del 60%) alla pubblicazione di un nuovo libro i cui introiti fittizi serviranno a tappare i buchi lasciati dagli introiti mancati del precedente, e così via…

Se a un accorpamento delle case editrici corrisponde anche un ulteriore accentramento della distribuzione ecco allora che l’imbuto e le maglie della griglia si fanno ancora più stretti per la bibliodiversità. Ma è necessario comunque sempre tenere bene in mente il fatto che l’unico canale di distribuzione e vendita che ha registrato negli ultimi anni un trend positivo è quello digitale. Il medesimo dove i grandi colossi, inclusa la Mondazzoli, vanno a scontrarsi con giganti ben più imponenti di loro.

A tenere alto il livello di concorrenza del mercato librario italiano ci sarebbero il Gruppo Mauri Spagnol, il Gruppo De Agostini, la Feltrinelli, Giunti e anche altri che, volendo, potrebbero simbolicamente dare del filo da torcere al nuovo Gruppo Mondadori-Rcs. Ma tutti parlano di testa calata per gli autori e per gli altri editori, quelli che restano fuori dal nuovo colosso. Eppure influenzare un autore che desidera scrivere il suo libro è di sicuro meno diretto e immediato di quanto potrebbe accadere o accade nella stessa editoria ma parlando di informazione giornaliera, ovvero di quotidiani. Spulciando tra i membri dei Consigli di amministrazione e gli editori i nomi dei principali, intesi come i più grandi per numero di copie, diffusione e sponsorizzazione, vengono fuori dal cilindro sempre gli stessi conigli ma nessuno o quasi di coloro che si mostrano tanto preoccupati per la libertà culturale in Italia sembra volerne parlare.

Viene da sé che la cultura deve essere uno spazio di libertà, che mai deve venir meno la libera circolazione delle idee e la diversificazione culturale ma ciò è importante non solo per i libri, lo è anche per l’informazione, per l’educazione, per le istituzioni, per il sociale e per il territorio… e, soprattutto, va sottolineato che tutto ciò non potrà mai avvenire per la mera presenza di un regime di concorrenza perfetta, ovvero un mercato dualista dove si contrappongono le due grandi visioni del mondo. Il pluralismo e la diversificazione culturale deve essere intrinseca innanzitutto in chi la cultura la vuole creare, sotto forma di libri racconti articoli di giornale o fumetti che siano, e poi in chi la diffonde.

Nella classifica mondiale 2017 di Publishers Weekly e Livres Hebdo il primo grande gruppo editoriale italiano è Mondadori che passa dalla 39° posizione del 2015 alla 28° grazie anche all’acquisizione di Rizzoli Libri (un fatturato di 501milioni di dollari contro i 350milioni del 2015). Seguito a ruota alla 29° posizione da De Agostini Editore (469milioni di dollari nel 2016) e dal Gruppo Editoriale Mauri Spagnol stabile in 33° posizione (431milioni comprensivi anche del fatturato di Messaggerie Italiane).
Altro dato interessante della classifica è la conferma che anche nel 2016 il fatturato globale è ancora in gran parte realizzato da case editrici europee (59,80%). In aumento anche la quota del Nord America (31.12%). Tenendo comunque in considerazione l’esclusione dalla classifica dei gruppi editoriali cinesi non si può non chiedersi come è possibile che una industria, quella editoriale europea, che produce quasi il 60% del fatturato globale del settore sia continuamente denigrata, attaccata, svilita, incompresa, sottovalutata, boicottata da utenti e consumatori, operatori e investitori, governi e istituzioni.

Il Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia 2017 dell’Aie parla di ripresa dopo gli anni della crisi con una crescita del fatturato complessivo del 2016 di un +1,2%. L’editoria libraria italiana diventa sicuramente più internazionale, «con una maggiore capacità di proporre e vendere diritti degli autori italiani sui mercati stranieri (non solo per bambini e ragazzi, ma anche titoli di narrativa) e di realizzare coedizioni internazionali». Dal periodo pre-crisi (2010) i canali di vendita «sono profondamente cambiati: cresce l’online, cala la grande distribuzione, tiene la libreria». Resta e «si aggrava» quello che è «il vero problema strutturale della nostra editoria: il calo progressivo dei lettori di libri».

L’Italia registra la più bassa percentuale di lettori in confronto con le altre editorie:
Italia 40,5%
Spagna 62,2%
Germania 68,7%
Stati Uniti 73%
Canada 83%
Francia 84%
Norvegia 90%

Con questa percentuale media di lettori in Italia e il mercato dirottato verso il digitale e il globale ecco che trovano conferme le strategie poste in essere dai grandi colossi dell’editoria, come Mondadori-Rizzoli Libri. Un fiume di marketing che spaventa gli editori alternativi e indipendenti ma la cui sopravvivenza non dipende tanto da esse quanto proprio dai lettori, troppo scarsi e fors’anche troppo distratti da pubblicità e prodotti di tendenza.

 


Articolo pubblicato sul numero 51 della Rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte


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Scuola dell’Infanzia violata da maltrattamenti e abusi. Come fermare tanta rabbia?

22 giovedì Mar 2018

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articolo, paura, RinnovamentoCulturaleItaliano, violenza

Dalla onlus La via dei colori, fondata e presieduta da Ilaria Maggi, avvertono di usare con cautela termini come maltrattamenti e abusi, almeno fin quando non si hanno prove certe di quanto può rivelarsi solo un’apprensione esagerata o un fraintendimento. Esistono dei campanelli d’allarme, sintomi specifici che connotano in maniera pressoché inequivocabile una situazione d’abuso. Questi campanelli però sembra che li ascoltino troppi genitori.

Dal dicembre 2010 al marzo 2017, La via dei colori ha preso in carico circa 95 processi per reati di maltrattamento (572 cp), abuso dei mezzi di correzione (571), abuso sessuale e pedofilia. 95 processi, non segnalazioni o denunce. Sul sito ministeriale si legge che, per quanto riguarda la scuola dell’infanzia, è previsto un numero minimo di 18 e uno massimo di 26 bambini per classe. Considerando una semplice media ponderale di 22 bambini se ne deduce che nei 95 processi seguiti dalla onlus sono coinvolti, a vario titolo, almeno 2090 alunni. La via dei colori non è l’unica associazione che si occupa di questo e i tribunali in Italia sono tantissimi… Si arriva così a cifre spaventosamente alte da indurre immediatamente a chiedersi cosa in concreto è stato fatto per prevenire ulteriori aggressioni e maltrattamenti, denunce e processi.

Sembra impossibile reperire, forse perché non esiste, un dossier, un report ufficiale, un’indagine conoscitiva istituzionale sulla situazione scolastica italiana, o meglio sulle qualifiche degli insegnanti, sulle procedure di valutazione, se ce ne sono, e sui dati relativi ai maltrattamenti e agli abusi ma soprattutto sulle conseguenze a lungo termine. Sulle innocenti vittime certo ma anche su chi le ha generate. Che fine fanno questi insegnanti?

I casi balzati alla cronaca che hanno destato maggiore clamore sono stati sovente accompagnati da spezzoni di video delle riprese effettuate dalle telecamere nascoste posizionate dalle forze dell’ordine. Immagini che colpiscono soprattutto per le urla, tante urla da parte delle o degli insegnanti. I locali di quelle scuole hanno l’isolamento acustico? Difficile a credersi. Come arduo è pensare che nessuno sentisse. Non si denuncia per omertà o perché lo si considera un atteggiamento educativo normale? In entrambi i casi si parla di situazione terrificante inammissibile e inaccettabile.

In un’intervista rilasciata per ilfattoquotidiano.it, la Maggi parla di circa 13 segnalazioni al giorno ricevute al numero verde dell’associazione. Non sempre si tratta di reati già commessi certo ma nel corso della loro attività hanno scoperto di «insegnanti che li tengono legati, che fanno mangiare loro il cibo vomitato e che usano percosse non solo con le mani. Le vessazioni sono all’ordine del giorno».

Più di una volta è capitato che i dirigenti dell’istituto coinvolto hanno provato a giustificarsi adducendo di non sapere, di non essere a conoscenza e di non essersi mai resi conto… scusanti che, in ogni caso, non li esimono dalla responsabilità legale e, soprattutto, morale di quanto accaduto. La legge italiana non ammette ignoranza, neanche noncuranza e mai come in questi casi così deve essere.

Violenze non solo fisiche ma anche psicologiche sono state documentate in diversi asili nido, con «urla sistematiche e cibo spesso raccolto da terra e imboccato a forza erano purtroppo la norma per una ventina di spaventatissimi bambini, troppo piccoli per reagire o solo per parlare con i genitori». Agghiacciante il resoconto che rovigooggi.it fa di quanto accaduto nell’asilo dove l’intero corpo docente, composto da tre maestre, è risultato coinvolto. Violenze fisiche e psicologiche protratte su bambini di età compresa tra uno e tre anni.

Sembra che oltre al danno ci si diverta quasi ad aggiungere anche la beffa allorquando si tenta di giustificare i comportamenti ritenuti “meno gravi” come reminiscenza di una formazione e, conseguentemente, di un’educazione all’antica. Il fatto è che non conta se e quando era in vigore o di uso comune una simile tipologia di educazione, in famiglia o a scuola, il punto è che nel Terzo Millennio è assolutamente inaccettabile anche solo credere di poter giustificare una tal simile mancanza di correttezza e professionalità in educatori ed educatrici che sono, in un certo senso, figure istituzionali perché si occupano, o dovrebbero farlo, dell’educazione di coloro che saranno i cittadini futuro dello Stato, che direttamente o indirettamente, tra l’altro, garantisce loro il posto di lavoro e il salario.

Lavorare a stretto contatto con i minori di anni sei richiede una preparazione e delle conoscenze che non riguardano solo la sfera della didattica, abbracciando invece campi che vanno dalla psicologia alla medicina in senso stretto. Gli operatori de La via dei colori sottolineano l’importanza di conoscere aspetti e caratteristiche del funzionamento del corpo umano anche per evitare di causare danni involontari ma che potrebbero egualmente essere gravi e irreversibili per i piccoli alunni.

Shaken Baby Syndrome, ovvero la ‘sindrome da bambino scosso‘ può essere una terribile conseguenza di un gesto che in pochi sanno o ritengono essere potenzialmente molto pericoloso. Il cervello dei neonati e dei bambini molto piccoli è ancora immaturo e lo scuotimento con brusche accelerazioni e decelerazioni del capo causa o può causare lesioni di tipo meccanico all’encefalo.

Il 21 novembre 2013 La via dei colori ha lanciato, a tal proposito, l’iniziativa #iostoconMattia per sensibilizzare genitori e insegnanti «sulla Shaken Baby Syndrome che ha ucciso il piccolo Mattia» e anche per fare in modo che la triste vicenda di Mattia Pierinelli, per troppo tempo passata in sordina, continui a essere raccontata sia come riscatto che come monito a non sbagliare più.

Negli Stati Uniti 30 bambini ogni 100mila nati l’anno subiscono gravi danni a causa della ‘sindrome da bambino scosso’. In Italia mancano dati ufficiali ma «tutte le strutture ospedaliere più avanzate per la diagnosi precoce del maltrattamento sui bambini ci confermano la necessità di avviare un’ampia azione informativa per la prevenzione». A dirlo è Federica Giannotta, responsabile Advocacy e Programmi Italia di Terre des Hommes, che ha lanciato la prima campagna di sensibilizzazione su questa sindrome, “Non scuoterlo!”, con uno spot tv e un sito informativo dedicato.

La scusante più frequente al comportamento aggressivo degli insegnati è la diseducazione o mala-educazione dei bambini che assumerebbero atteggiamenti ingestibili, emulati anche dai soggetti più remissivi, generando il caos in classe. Sottolineando che bisogna anche tenere presente le condizioni precarie e oggettivamente difficili nelle quali sono costretti a operare i docenti. E la soluzione che avrebbero trovato è aggredire i bambini? Viene da sé che questo ragionamento, portato avanti da chi vuol difendere l’indifendibile, non convince neanche un po’. Se ci sono dei bambini con deficit comportamentali non è aggredendoli che la situazione migliora. Se ci sono carenze strutturali e di organico sul posto di lavoro non è aggredendo i piccoli ospiti della struttura che si migliorano le cose.

Si dice che la violenza è lo strumento preferito di chi non ha a disposizione altri strumenti. E gli insegnanti di strumenti e metodi dovrebbero averne molti altri e differenti. Soprattutto con i bambini piccoli, piccolissimi e in età da asilo nido.

L’ordinamento giuridico italiano pone tra i diritti fondamentali e inviolabili dell’uomo il pieno sviluppo della persona umana. L’articolo 13 della Costituzione sancisce che “la libertà personale è inviolabile”. La Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nell’articolo 2 consacra espressamente “il diritto alla vita”. Quando si parla di persona o di uomo bisogna leggere ogni cittadino di qualunque sesso o età anagrafica. Maltrattare verbalmente, psicologicamente e/o fisicamente un bambino è una grave violazione della sua libertà, della sua persona e dei suoi diritti umani.

Nel pieno di un dibattito pubblico e mediatico sulla sicurezza dei bambini dietro le porte chiuse delle aule, la segreteria nazionale della Federazione Italiana Scuole Materne (FISM) diffonde una nota nella quale, pur dichiarando di comprendere le preoccupazioni dei genitori, ritiene che «la richiesta di introdurre negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia sistemi di videosorveglianza allo scopo di prevenire comportamenti di violenza e maltrattamenti sui bambini da un lato non risolverebbe la preoccupazione, dall’altro darebbe origine ad altre questioni di non poco conto». La telecamera «disincentiva, quando non sostituisce, il dialogo, l’ascolto, la relazione indispensabili tra scuola e famiglia». Non sarebbe quindi necessario l’uso di questo strumento per ‘controllare’ «come gli insegnanti impostano e realizzano il lavoro educativo». Molto meglio sarebbe, a parer loro, il confronto, il dialogo, la parola… I genitori «devono essere aiutati a imparare a partecipare alla vita della scuola», perché «devono essere aiutati a imparare a ‘vedere’, leggere, capire, direttamente nei/dai loro figli la presenza di eventuali problemi e non guardare la loro esperienza di vita scolastica attraverso una telecamera».

Il punto è che proprio attraverso la ‘lettura’ del comportamento dei propri figli i tanti genitori che hanno denunciato si sono accorti di quanto in realtà accadeva a scuola. Dopo che era accaduto. Invece di insistere tanto sul voler aiutare i genitori a ‘vedere’ i segnali di pericolo perché non si tenta di studiare un modo per prevenire i danni? Si può anche convenire che l’uso delle telecamere non sia la migliore delle soluzioni ma almeno si focalizzi sulla prevenzione, perché un bimbo maltrattato non è un danno collaterale ma il nocciolo della questione.

Una posizione che ricalca quella del garante della privacy espressosi in merito alla legge 2574 (Prevenzione abusi in asili e case di cura) ma che, forse, la minimizza troppo. Per Antonello Soro infatti non bisogna «inseguire le scorciatoie tecnologiche come esclusiva risposta ai problemi complessi» ma è importante sottolineare come «anche uno solo di questi episodi costituisce motivo di apprensione e di grave allarme sociale». Dovrebbe. Invece si rabbrividisce a leggere la voce pressoché univoca di coloro che operano a vario titolo nel comparto scolastico e che, pressoché all’unisono, definiscono il sistema scolastico nazionale un ambiente “sano” e un’istituzione che funziona “bene”, certo l’esistenza di mele marce, anche alla luce dei processi e delle sentenze giudiziarie, non può essere negata ma di casi isolati vogliono si tratti.

La realtà e l’onestà intellettuale invece vorrebbero che a fronte di maltrattamenti visti, sentiti e taciuti ognuno di questi operatori si passasse una mano sulla coscienza. Perché l’omertà difronte a un reato, anche laddove non è punibile legalmente, lo è per certo moralmente.

«La tecnica non potrà mai sostituire “l’uomo”, nessuna telecamera potrà mai sopperire a carenze insite nella scelta e nella formazione del personale deputato all’educazione e all’assistenza di soggetti particolarmente vulnerabili». Necessario quindi seguire le indicazioni del «disegno di legge approvato» volte a «introdurre sistemi di controlli più articolati ed efficaci che coinvolgano attivamente il personale tutto e, se del caso, le famiglie stesse».

Nel ddl 2574 infatti si parla di accurati metodi di valutazione dei requisiti all’atto dell’assunzione e di successivi e continuati processi formativi e di aggiornamento. Sostegno e ricollocamento per chi risulta non idoneo. Persiste il solito intoppo che dalle modifiche apportate «non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica» che stride notevolmente quando si parla di strutture pubbliche, statali o comunali. Nel testo ci si sofferma poi sull’utilizzo e sui modi di impiego delle telecamere di sorveglianza e sugli oneri finanziari, null’altro su requisiti, formazione e aggiornamento degli operatori.

Il quadro che emerge dall’osservazione di questo grave allarme sociale dipinge i tratti a tinte forti di una formazione (quella degli operatori) che cerca di fare il più possibile quadrato per difendere la categoria e anche il posto di lavoro, che si indispone e assume un atteggiamento ostile per ogni critica o accusa, continuando ad accumulare in questo modo rabbia e frustrazione. Per contro c’è la ressa dei genitori, intimoriti e spaventati, impossibilitati a ottenere garanzie certe e vessati dalla necessità di affidare i propri figli a queste strutture, diversamente non avrebbero a chi affidarli durante quelle ore. Anche in loro questa situazione genera rabbia e frustrazione. Quasi marginale appare la figura di questi piccoli che sembrano non avere voce e non solo perché per molti di loro è prematuro anche il solo saper parlare.

Lo Stress Lavoro Correlato è «la percezione di squilibrio avvertita dal lavoratore quando le richieste del contenuto, dell’organizzazione e dell’ambiente di lavoro, eccedono le capacità individuali per fronteggiare tali richieste», secondo la definizione datane dalla European Agency for Safety and Health at Work (EU-OSHA). Le categorie professionali più interessate dallo Stress Lavoro Correlato sono:
Medici
Infermieri
Poliziotti
Assistenti Sociali
Insegnanti
Autotrasportatori

Lasciando da parte un attimo le professioni sanitarie, immaginiamo che dei poliziotti sfoghino tutto l’eccesso di rabbia accumulata e il senso di frustrazione su vittime, a caso, inermi. Tipo quanto accaduto alla scuola Diaz dopo il G8 di Genova. Oppure che un autotrasportatore dia di matto e sfoghi tutto lo stress accumulato verso ignari automobilisti che, per caso, lo incontrano lungo le strade percorse. Anche i bambini che subiscono maltrattamenti sono vittime casuali. Visionando gli spezzoni di video delle riprese delle camere posizionate dalle forze dell’ordine si può osservare che si tratta, semplicemente, di bambini, con i loro atteggiamenti e le loro peculiarità. Niente di più e niente di meno.

Il voler cercare a tutti i costi di ridimensionare quanto sta accadendo, considerando gli eventi come esempi isolati e non come un grave allarme sociale rischia di ingigantire il problema piuttosto che arginarlo. Poi succede che i genitori, esasperati, cercano di farsi giustizia da soli, cercano la vendetta e per trovarla usano a loro volta la violenza.

Ilaria Maggi de La via dei colori, lei stessa genitore di un bambino maltrattato a scuola, lancia un accorato appello affinché episodi del genere non si verifichino più: «non solo corriamo il rischio di inficiare il processo, che è la giusta sede per punire i maltrattamenti, ma incorriamo nel grave errore di non dare il buon esempio. I nostri bambini hanno già conosciuto la violenza e meritano da noi un esempio diverso». Eguali parole sarebbe stato utile ascoltare o leggere da tutti quegli operatori che si ritengono la parte buona del ben funzionante sistema scolastico nazionale e sarebbe stata già una ottima base di partenza per contrastare il fenomeno. Il persistente tentativo diffuso di minimizzare, di negare, di distrarre oltre a confermare una carenza o una mancanza addirittura di professionalità, non fa altro che alimentare il fuoco della rabbia e della frustrazione, di entrambe le posizioni.


Articolo originale qui


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La responsabilità globale del ‘deserto esistenziale’ de “L’infanzia nelle guerre del Novecento” di Bruno Maida (Giulio Einaudi Editore, 2017) 

La preparazione degli insegnanti italiani. La verità 


 

© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Guerre dichiarate e guerre segrete. Analisi geostrategica della guerra delle informazioni combattuta nel conflitto civile siriano

17 sabato Mar 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli, Recensioni

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I governi di tutto il mondo basano le proprie decisioni sui rapporti informativi dei servizi di intelligence, strutture di sicurezza cui spetta il compito di reperire tutte le informazioni possibili necessarie alle autorità per compiere le proprie scelte e prendere le relative decisioni. Un potere enorme racchiuso nelle mani di una rete di persone pressoché invisibili, ma che esistono e agiscono, anche se all’ombra di governi e istituzioni, determinandone però la linea e le iniziative. Andrea Foffano, docente di sicurezza e intelligence presso ASCE e ANVU-ISOPOL, sottolinea come alcune notizie di carattere internazionale sono in grado di poter stabilire l’andamento politico, sociale ed economico di un’intera comunità nazionale. Anche laddove queste informazioni fossero volutamente forzate o addirittura falsate. Infatti, uno dei principi cardine dell’attività d’intelligence, svolta da tutti i servizi di informazione del mondo, non è altro che l’imperativo: usa tutto e tutti per raggiungere i tuoi scopi.
Quali sono allora gli scopi dei servizi di intelligence e quali quelli degli stati per cui lavorano?

Per esemplificare il lavoro svolto da servizi segreti e governi Foffano analizza il conflitto civile siriano partendo da quanto accaduto due anni prima l’inizio della guerra. Ovvero allorquando nel tratto di mare compreso tra l’Iran e la penisola del Qatar, fu scoperto uno dei più grandi giacimenti energetici di gas naturale, usufruibile da entrambi i Paesi. La Siria, al cui governo si trovavano gli Alauiti del Presidente Bashar al-Assad, fedeli alleati degli Sciiti iraniani, negò il consenso al transito delle strutture di trasporto sul proprio territorio nazionale per la Qatar-Turkey pipeline, che avrebbe dovuto collegare l’Europa con il Qatar. Mentre diede il proprio consenso per il passaggio dell’Islamic pipeline progettato dall’Iran. Washington decise di intervenire in difesa dei propri alleati (Qatar e Arabia Saudita) e iniziò a sostenere militarmente le fazioni ribelli che, dopo l’avvento della Primavera Araba in Siria, avevano iniziato a opporsi al regime di Assad. Parallelamente, l’Arabia Saudita iniziò a finanziare in modo massiccio molti dei gruppi terroristici e jihadisti che si opponevano allo stesso regime.

Secondo quanto riportato in un’inchiesta del NewYork Times, l’Arabia Saudita avrebbe finanziato la guerra segreta della CIA in maniera continua e massiccia, si parla di circa un miliardo di dollari da parte degli Stati Uniti e svariati miliardi di dollari provenienti da ricchi e anonimi finanziatori sauditi. Un servizio segreto estero che fornisce sistemi d’arma di ultima generazione a gruppi ribelli divenuti poi estremisti, jihadisti, terroristi è di sicuro una scomoda verità. Modi di agire che ricordano molto, forse troppo, la guerra russa in Afghanistan, con gli americani intenti a sostenere militarmente i Talebani e i Mujaheddin. Americani e sauditi, con il sostegno fondamentale del Pakistan e dei pashtun della zona tribale, avevano creato a Peshàwar il più grande centro jihadista del mondo. Come ricorda Pierre-Jean Luizard, storico e direttore del Centre national de la recherche scientifique, del tempo in cui gli jihadisti erano i nostri eroi che combattevano contro l’Impero del Male, e solo in un secondo momento si trasformarono in barbari che avevano portato il terrorismo nel cuore dell’Occidente.

Per Luizard, il regime siriano ha avuto sempre alcuni difetti agli occhi degli occidentali. In primis per il diniego a una pace con Israele che non prevedesse la restituzione del Golan, occupato dall’esercito ebraico nel 1967. Continua ad avere ottimi rapporti con Mosca, alleato della repubblica sciita dell’Iran e a sostenere militarmente gli Hezbollah, l’unica formazione araba che abbia fermato Israele nella guerra del 2006. Appartiene a quell’asse della resistenza che intende mantenere un’indipendenza dal sistema occidentale alleato con le potenze sunnite del Golfo. Insomma, il nemico perfetto che ha fatto della Siria il terreno ideale per una guerra santa.

Secondo Joshua Landis, uno dei massimi esperti mondiali della politica siriana, circa il 60-80% delle armi che gli Stati Uniti hanno introdotto nel paese sono finiti nelle mani di gruppi terroristici jihadisti riconducibili ad al-Qaeda. Ma se a qualcuno venisse in mente di trovare le prove per accusare gli Stati Uniti di fomentare la guerra in Medio Oriente, avverte Foffano, sappia che andrà incontro a un fallimento certo. Il conflitto in atto in Siria appartiene a una nuova tipologia di guerra: quella per procura, nella quale gli attori in campo mascherano il proprio intervento tramite il sostegno, più o meno indiretto, ad una delle parti in causa. Scontri nei quali il secondo livello, ovvero la guerra delle informazioni, risulta alla fin fine più potente e pericoloso del primo, gli scontri armati sul campo. Almeno per gli Stati che non risultano in apparenza coinvolti direttamente nello scontro perché per quelli direttamente chiamati in causa e soprattutto per le popolazioni ad essi afferenti la situazione naturalmente cambia e anche di molto.

Bana Alabed, la ragazzina che ha fatto conoscere il dolore dei cittadini di Aleppo a tutto il mondo attraverso i suoi tweet inviati ai presidenti di tutte le maggiori potenze mondiali, si chiede come le persone possano essere così crudeli da far diventare, per un bambino, nessun posto sicuro e dedica il libro che racchiude la sua storia a tutti i bambini che soffrono a causa di una guerra, per dire loro che non sono soli, purtroppo. In tanti, in troppi soffrono e subiscono le conseguenze di scelte non proprie, non volute e non condivise in nome di una pace che stenta ad arrivare e a causa di interessi che raramente coincidono con quelli di interi popoli e troppo spesso invece con quelli elitari di ristrette cerchie e categorie di persone.

 

Quei terroristi che in altri scenari operativi sparsi per il mondo gli Stati Uniti stavano combattendo, a prezzo di numerose vittime fra i soldati dell’esercito americano e della coalizione internazionale, anche come conseguenza dell’intervento, diretto o indiretto che sia, degli stessi nel conflitto civile rischiavano di prendere il potere in Siria e allora lo Stato Maggiore decise di servirsi dei servizi segreti di intelligence per passare informazioni militari alle forze armate delle altre nazioni impegnate nel conflitto. Con la certezza che i servizi segreti di Assad avrebbero intercettato il movimento di dati e utilizzato il tutto nella lotta contro gli jihadisti. I cablo del Dipartimento di Stato americano, resi pubblici nel corso degli anni da Wikileaks, avrebbero gettato un fascio di luce su un retroscena assai torbido e buio.

Un rischio enorme quindi quello corso dagli americani. Non si può non chiedersi il perché reale del continuo e persistente intervento degli Stati Uniti in Medio Oriente o in qualsiasi altra parte del mondo si prospetti o si profili una qualsivoglia instabilità. Al termine della cosiddetta Guerra Fredda, gli Stati Uniti sono diventati l’unico polo dominante schierato in campo geopolitico mondiale. L’America è una di quelle nazioni, insieme a tante altre del cosiddetto Occidente, ad aver improntato il proprio sistema economico sulla competitività: non riescono a trovare una sicura e certa stabilità interna, senza ricorrere a nuovi mercati e ad altrettanti investimenti. Lo slogan del ventennio era: “Chi si ferma è perduto!”. Ecco, mai parole furono più adatte a descrivere la situazione di alcune potenze mondiali a ridosso del ventunesimo secolo.

Gli attacchi dell’11 settembre 2001, da questo punto di vista, sono stati un avvenimento strategicamente molto importante. Hanno decretato l’inizio della «guerra al terrore» che ha significato l’invasione dell’Afghanistan, la guerra ai Talebani, l’invasione dell’Iraq, gli interventi in Libia e in Siria. Operazioni nelle quali ogni mossa è politica, è dettata da convenienze economiche e risponde sempre a chiare regole sociali. Giulietto Chiesa, giornalista e politico italiano, considera il terrorismo islamico un prodotto diretto dell’azione coordinata degli occidentali che usa semplicemente i terroristi, che pure esistono, come manodopera che spesso non riesce a capire neanche per chi sta lavorando. L’Occidente ha sempre avuto bisogno di un nemico. L’Unione Sovietica del ventesimo secolo era perfetta in questo senso. Ma, una volta abbattuto il Comunismo sovietico, l’Occidente si è ritrovato senza un nemico da combattere. Senza nemici e con un nuovo gigantesco alleato e vassallo non è riuscito a spiegare al mondo intero come mai l’economia mondiale andava comunque a rotoli. Il problema non sarebbe quindi esterno, bensì interno, nel modello di sviluppo scelto. Il piano messo in atto sarebbe stato quello di sostituire il terrore rosso con il terrore verde. Il terrore rosso non era un’invenzione, era un antagonista serio. Il terrore verde non è un’antagonista, è stato inventato dall’Occidente. È un’ipostasi messa davanti agli occhi della gente per terrorizzarla e costringerla a rifugiarsi sotto l’ala protettrice degli Stati Uniti d’America.

Per Foffano, prima di passare all’analisi oggettiva dei fatti, provando conseguentemente a interpretarli sino a giungere a una spiegazione logica e razionale degli avvenimenti, bisogna forzatamente sgombrare il campo da ogni sorta di pregiudizio politico-ideologico, che potrebbe in qualche modo viziare la nostra intrinseca capacità critica. Quello che Chiesa definisce con parole molto più crude Matrix, con riferimento diretto alla omonima produzione cinematografica. L’Occidente ha forgiato un apparato di comunicazione, attraverso il suo meraviglioso sistema dell’immagine gradevole e dell’immagine in movimento in generale, che è riuscito a modificare profondamente la psicologia della gente. Ha lavorato in tutti i modi possibili e immaginabili alla penetrazione cognitiva nel cervello degli uomini, delle donne e dei bambini soprattutto, modificando la loro percezione del mondo. Il mondo reale è altrove però, fatto in un altro modo, è furibondo, è feroce, è senza tregua. Siamo sistematicamente mitragliati da una sterminata quantità di messaggi gradevoli che uccidono la nostra capacità critica di sentire, di percepire e di conoscere.

Anche quanto sta accadendo o è già accaduto in Siria, per fare un esempio, viene tagliato fuori dall’immagine che del conflitto hanno milioni di occidentali indotti a credere che si stia parlando, solo, dell’ennesima lotta contro il terrorismo, di matrice islamica questa volta, necessaria e imprescindibile per la sicurezza e la stabilità del mondo, occidentale naturalmente.


Bibliografia di riferimento:

A. Foffano, “Siria. La guerra segreta dell’intelligence”, Ed. Solfanelli, 2017
P.J. Luizard, “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna”, Rosenberg&Sellier, 2016
B. Alabed, “Caro mondo”, Tre60, 2017
G. Chiesa, “Putinofobia”, Piemme, 2016


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La nascita dei “mostri” del terrorismo e il rifiuto delle responsabilità dell’Occidente in “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna” di Pierre-Jean Luizard (Rosenberg&Sellier, 2016) 

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Disclosure: Per l’immagine in evidenza, credits www.pixabay.com


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