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Irma Loredana Galgano

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La memoria troppo condivisa dei social network: i like diventano surrogato della realtà. Quando la filter bubble la creiamo noi, a quale prezzo e a beneficio di chi?

20 sabato Gen 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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articolo, Italia, italiani, NWO, ordinemondiale, paura

Mark Zuckerberg, ideatore e ceo del social network Facebook, il 12 gennaio 2018 scrive, sulla sua pagina social, un post che ha scatenato una grande eco mediatica. Il succo del suo comunicato riguarda l’imminente e progressivo cambiamento dell’algoritmo che gestisce la condivisione dei post e dei video perché, a suo dire, Facebook sta deragliando da quello che era lo scopo originario per cui lui stesso l’ha inventato.

Facebook sarebbe quindi stato ‘costruito’ per aiutare le persone a rimanere in contatto e avvicinarsi a quelle ritenute importanti, affettivamente parlando. Per questo motivo famigliari e amici devono restare il fulcro del mondo social racchiuso nell’universo del libro delle facce. La esplosione di contenuti pubblici starebbe quindi rompendo l’asse dell’equilibrio, allontanandosi dallo scopo principale del social, ovvero «help us connect with each other» (“aiutarci a connettersi tra noi”).
Zuckerberg si augura che il tempo passivo trascorso sui social, in particolare il suo, diminuisca e che gli utenti siano sempre più stimolati a interagire. Adottando queste misure lui dichiara di aspettarsi una diminuzione del tempo trascorso sul social ma, al contempo, si augura che sia tempo prezioso, di qualità.


«I expect the time people spend on Facebook and some measures of engagement will go down. But I also expect the time you do spend on Facebook will be more valuable.»


Il social network Facebook quindi, per mano dei suoi organizzatori, vuole spronare i suoi utenti a essere più attivi, cliccando like e commentando post personali, famigliari, di amici e conoscenti, foto e riflessioni… saranno quindi scoraggiate le condivisioni di post da pagine pubbliche, da link esterni, notizie, informazione e quant’altro possa distogliere l’attenzione e l’interesse degli utenti dallo scopo principale del social: “aiutarci a connettersi tra noi”.
Ora, a meno che una persona non abbia tutti i suoi affetti lontano e viva isolato su un eremo, davvero si fatica a comprendere fino in fondo la necessità della condivisione social e non di quella reale di immagini, foto, ricordi, impressioni, pensieri, riflessioni, considerazioni… che invece potrebbero e possono benissimo essere condivise de visu, via mail, in chat, su skype, al telefono… Ma l’aspetto più interessante e a tratti inquietante è il tentare di capire se davvero Zuckerberg sia così filantropo da boicottare volutamente il suo social network a beneficio dell’affettività dei suoi iscritti.

Due giorni dopo l’annuncio di Marc Zuckerberg già è virale la notizia, basata su dati della rivista Forbes, di una perdita di 3,3miliardi di dollari a causa del calo nella quotazione in borsa del titolo Facebook. Zuckerberg possedendo il 17% delle azioni ne avrebbe quindi subito un danno personale. Ora, considerando che sempre secondo la rivista Forbes, il patrimonio complessivo dell’ideatore di Facebook ammonterebbe a 72,4miliardi di dollari, quella subita è una perdita che, pur ammettendo non fosse stata calcolata, sarebbe per certo facilmente recuperabile.
La scelta di modificare l’algoritmo di condivisione non sarebbe piaciuta a investitori e sponsor e il titolo societario scende del 4,4%.
Lo stesso Zuckerberg ha dichiarato di prevedere un leggero calo nella quantità del tempo che gli utenti trascorreranno sul social a seguito dei cambiamenti dell’algoritmo. È lecito supporre avesse anche preventivato un iniziale calo di fiducia da parte di investitori e sponsor?

Dopo un 2017 trascorso a tentare in vari modi di bloccare segnalare contrastare confutare le fake news Facebook sembra compiere una decisa virata che prevede, in buona sostanza, una riduzione delle notizie, presumibilmente quindi anche delle cosiddette bufale, e l’ammissione neanche troppo implicita che il social non è un organo idoneo alla diffusione dell’informazione. Non è per questo scopo che è stato creato.
La ricerca condotta dal team di Facebook in sinergia con esperti accademici avrebbe messo in luce che l’utilizzo dei social per connettersi con persone a cui teniamo sarebbe un toccasana per il nostro benessere.

Quindi creare un ambiente social con parenti, famigliari e amici, connettersi virtualmente con loro, condividere sul social momenti di vita, di affetto, di amore, di delusione, di tristezza, di passione… gioverebbe alla di ognuno “felicità e salute”. Essere sempre più il fulcro della propria filter bubble. Questo lo scopo reale di Facebook. Questo il ‘benessere’ di cui sembra parlare il suo fondatore, il quale anni fa ha dichiarato, parafrasando forse inconsapevolmente le parole del patron di Le Figaro, Hippolyte de Villemessant (“Per i miei lettori è più importante l’incendio di in solaio nel Quartiere Latino che una rivoluzione a Madrid”), ha detto: “La morte di uno scoiattolo davanti casa può essere più pertinente per i tuoi interessi di quella di una persona in Africa”. Naturale a questo punto chiedersi cosa esattamente “è più pertinente” per “gli interessi” immediati e futuri del ceo di Facebook.

Il primo data center di Facebook fuori dagli Stati Uniti è stato impiantato a Luleå, in Svezia. Un anonimo enorme capannone grigio che racchiude in sé un’immensa memoria connessa. È prevista l’apertura prossima di strutture simili a Clonee in Irlanda e a Odense in Danimarca. I responsabili della struttura svedese più volte hanno ribadito al giornalista Diego Barbera, giunto in loco per un servizio, che «i dispositivi vengono trasportati in modo riservato e sicuro» affinché «sia impossibile accedere a qualsivoglia dato». Tutte «le informazioni sono conservate, e i vecchi supporti sono completamente distrutti». Massima protezione e cautela quindi nella raccolta dei dati che assolutamente non devono lasciare la struttura, né essere trafugati. Ma allora a cosa serve questo immenso archivio di dati e informazioni condivise dagli utenti del social network Facebook?

In un servizio di Stefania Rimini per la trasmissione Report, girato nell’ormai lontano 2011, illuminante già nel titolo (“Il prodotto sei tu”) ci si chiedeva come mai una società fondata dall’allora poco più che ventenne Marc Zuckerberg che, in apparenza, non comprava e non vendeva nulla, assolutamente gratuita, facesse tanto gola a investitori internazionali quali «la banca Goldman Sachs ma anche la Microsoft, il miliardario russo Yuri Milner e il magnate di Hong Kong Li Ka Shing». Una società all’epoca non ancora quotata in borsa che ha subito una crescita vorticosa ed esponenziale, nel numero degli iscritti come nel valore di mercato nella quale sembra «tutto bello tutto gratis ma se ti va di leggere i termini contrattuali che quasi nessuno legge, scopri che sì, non stai pagando per il prodotto… perché il prodotto sei tu».

Profili che ogni utente compila volontariamente al momento dell’iscrizione, con dati personali anche sensibili, consegnati autonomamente ma con quanta reale coscienza dell’uso che ne verrà fatto? Schede zeppe di informazioni personali, di gusti e preferenze, livello culturale e titoli di studio, professione, stato civile, sesso e orientamento sessuale, orientamento politico e religioso… che rischiano però di diventare dati troppo statici e obsoleti se non li si rinvigorisce con aggiornamenti continui. Nuovi like, nuove foto, nuovi commenti… espressioni a loro volta delle singole personalità che navigano in questo mare che il suo proprietario dichiara di voler far diventare sempre più un porto sicuro. Stare bene quando si accede al social, sentirsi in famiglia, condividere con gli affetti, con gli amici, con i conoscenti… tutto per far sentire al meglio l’utente, libero di manifestare e condividere il suo essere. A pieno beneficio di chi?

Non è naturalmente un problema precipuo di Facebook ma generale della Rete e dei social. Semplicemente è la costante premura del suo fondatore a creare e fortificare questa sorta di filter bubble a destare qualche sospetto di troppo.

Sempre nel 2011 esce per Il Saggiatore il libro di Eli Pariser Il filtro. Quello che internet ci nasconde (“The Filter Bubble. What The Internet Is Hiding From You”). Nel libro Pariser sottolinea l’impiego dei filtri per creare la bolla nella quale ognuno poi naviga in base alla “rilevanza” che è in pratica l’unico vero criterio seguito. Una bolla creata in base alle pagine che visitiamo, ai link che cerchiamo, agli interessi e via discorrendo. Quello verso cui non mostriamo interesse semplicemente scompare… dalla nostra filter bubble. Se due persone compiono la medesima indagine su un motore di ricerca, per esempio Google, i risultati saranno molto dissimili tra loro. Ciò è conseguenza della «personalizzazione del web», creata dagli indicatori impiegati per stabilire chi siamo e cosa potrebbe piacerci in base proprio agli interessi che abbiamo mostrato e che sono costantemente monitorati.

I nostri interessi devono essere mostrati e costantemente aggiornati a beneficio di chi li cataloga, li archivia, li studia e poi, magari, li utilizza come merce di scambio con chi questi dati li usa per creare prodotti ad hoc, studiati e realizzati sulle esigenze e sugli interessi dichiarati, proposti poi direttamente a chi ha manifestato il desiderio di possederli tramite pubblicità, newsletter, spot, link… Il tutto, naturalmente, in forma anonima e sicura per l’utente. Certo.

Il mondo cambia, il commercio anche, la globalizzazione avanza, la Rete è fondamentale e anche utile. Nessuna obiezione. Rimane però la curiosità di sapere con quanta coscienza l’utente compie le sue scelte, definisce i suoi interessi, manifesta e soddisfa i propri bisogni.

Per Pariser «la democrazia dipende dalla capacità dei cittadini di confrontarsi con punti di vista diversi. Quando internet ci offre solo informazioni che riflettono le nostre opinioni limita questo confronto».

A questo punto viene naturale chiedersi quanto potere abbiano effettivamente Google e Facebook, per citarne alcuni, nella creazione della di ognuno filter bubble e quanto invece sia dovuto alla incoscienza o proprio alla volontà dell’utente di dedicare il suo tempo e le sue energie solo per ciò che gli interessa e gli piace e annullare i problemi, le opinioni dissimili, gli argomenti per lui ostici. In base a queste considerazioni viene da affermare che la vera filter bubble la creiamo noi stessi, dentro e fuori la Rete e i social.

Sul portale di wearesocial.com si può leggere una dettagliata descrizione di cosa sia in realtà il social thinking, ovvero l’approccio alla «creatività per risolvere problemi di business e brand». La base di partenza sono i social insight – «comprensione del comportamento sociale delle persone e, di conseguenza prendere in considerazione i canali e le piattaforme per loro rilevanti» – permettendo così lo sviluppo di «idee creative che costruiscano valore per i brand e per le persone». Mentre gli insight tradizionali permettono di comprendere i comportamenti delle persone concentrandosi solo su motivazioni individuali, gli insight social «mettono questa comprensione nel contesto delle nostre relazioni interpersonali, delle community e della società fornendo evidenze spesso nascoste, inaspettate o inespresse».

Le social idea sono idee «powered by people». Sono idee con un altissimo potenziale e di grande valore, in altre parole sono preziose, esattamente come il tempo passato sui social a raccontarle, perché «sono in grado di creare o rafforzare relazioni e community, unire le persone, attivare conversazioni e stimolare all’azione». Addirittura possono o potrebbero «influenzare il comportamento delle persone e avere un impatto culturale». Molto più spesso però sono studiate per capire come «creino valore di business».

Il numero delle persone in Italia Europa e nel mondo connesse a internet è in costante aumento, lo stesso per il tempo trascorso sui vari social. In crescita anche la connessione tramite smartphone, in calo quella da pc. Social e video sono le ‘mete’ preferite dalla gran parte degli utenti connessi in Italia. Oltre la metà della popolazione online utilizza applicazioni di messaging e chat dai dispositivi mobile. Perché?

I motivi addotti per spiegare il fenomeno ormai di massa dell’adesione a social e chat sono numerosi e spaziano dalla paura della solitudine che attanaglierebbe tutti fuori dal web alla possibilità di trovare lì campo libero allo sfogo delle proprie frustrazioni, dell’aggressività altrimenti repressa e via dicendo. Ma la verità è che online, sui social, nelle chat, nei gruppi… non troviamo altro, troviamo esattamente ciò che incontriamo per strada, al bar, allo stadio, nei parchi e lungo le vie. La differenza forse è che nella auto-celebrazione di se stessi che spesso si fa sui social ci si illude di trovare un pubblico copioso interessato alle foto, ai pensieri, ai commenti, alle riflessioni, alle offese, agli sfoghi, ai like… il pubblico in effetti c’è ed è anche molto attento a ogni interazione, ma non è quello che si pensa.

Albine ha reso pubblico il Val-You Calculator, un ‘divertente’ test che consente a ognuno di calcolare quanto vale il suo profilo social per Facebook. Farlo equivale a ritrovarsi dinanzi a un risultato che dà una cifra irrisoria, soprattutto se non si è molto attivi sui social. Ma, a ben pensarci, stando alla stima di giugno 2017, Facebook ha raggiunto i 2miliardi di utenti. Ed ecco che una cifra irrisoria moltiplicata per 2miliardi diventa un colosso quotato in borsa, finanziato da investitori globali e con un potere sociale, culturale e commerciale enorme. Enorme.


Articolo originale qui


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Neuromarketing e potere subipnotico dell’era digitale. “Il cervello aumentato l’uomo diminuito” di Miguel Benasayag (Erickson, 2016)

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Quanto ha inciso l’essere ‘imbecille’ nell’evoluzione umana? “L’imbecillità è una cosa seria” di Maurizio Ferraris (Il Mulino, 2016)


 

© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

G8, scuola Diaz e Bolzaneto: Il tempo trasforma la colpa in merito?

13 sabato Gen 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Bolzaneto, Diaz, G8, Genova, Italia, italiani, paura, violenza

Nel novembre del 2015 nuove condanne furono inflitte agli agenti di polizia e funzionari che non impedirono le violenze alla scuola Diaz nel luglio 2001, allorquando si svolse il G8 a Genova. Il risarcimento richiesto ammontava a 350mila euro ma il giudice della Corte dei Conti lo ha ridimensionato accogliendo la tesi secondo cui non essendo stati identificati tutti i responsabili del pestaggio non si poteva accollare l’intero importo esclusivamente agli indagati. Il Tribunale di Genova ha così condannato i responsabili al pagamento di 110mila euro, a titolo di risarcimento morale e materiale per le violenze subite dal giornalista Mark William Covell.

«Arrivato al primo piano dell’istituto, ho trovato in atto delle colluttazioni. Quattro poliziotti, due con cintura bianca e gli altri in borghese, stavano infierendo su manifestanti inermi a terra. Sembrava una macelleria messicana. Sono rimasto terrorizzato e basito quando ho visto a terra una ragazza con la testa rotta in una pozza di sangue. Pensavo addirittura che stesse morendo. Fu a quel punto che gridai: “basta basta” e cacciai via i poliziotti che picchiavano.»

A raccontarlo ai pubblici ministeri Enrico Zucca e Francesco Albini Cardona è il vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma Michelangelo Fournier, uno dei 28 poliziotti imputati per la vicenda, nella nuova versione illustrata agli inquirenti nel 2007, molto diversa da quella fornita inizialmente.

«Durante le indagini non ebbi il coraggio di rivelare un comportamento così grave da parte dei poliziotti per spirito di appartenenza»

Uno spirito di appartenenza che in altri contesti non si fatica a indicare come omertà. Non si può a questo punto non porsi la domanda che in tanti urlano da quasi venti anni: cosa è successo veramente alla scuola Diaz, alla caserma di Bolzaneto e durante i giorni del G8 di Genova?

“Sembrava una macelleria messicana”, dice Fournier. Macelleria messicana è una situazione in cui si verificano atti di estrema violenza e crudeltà. Perché a Genova si sono verificati?

Il G8 è un annuale incontro tra i capi di stato e di governo delle maggiori democrazie mondiali. Il summit del 2001 si è tenuto nella città di Genova tra il 20 e il 22 luglio. I punti discussi all’ordine del giorno sono molteplici e spaziano dal commercio internazionale alla fame nel mondo, dai problemi legati all’ambiente alle innovazioni tecnologiche, dai cambiamenti climatici alle malattie, dalla finanza alla pace nel mondo. Gli incontri tra i grandi della Terra sono blindati, come i luoghi in cui si svolgono e ciò che viene fatto trapelare sono le dichiarazioni ufficiali dei diretti interessati, o chi per essi, in conferenza stampa e l’idea che il tutto possa quasi essere una costosissima reunion di pranzi ed eventi che forse potrebbe anche essere evitata visto che se i partecipanti sono concordi sul da farsi potrebbero comunicarselo in mille altri modi e se non lo sono non è detto che lo diventino proprio in quei giorni.

Le iniziative contro il G8 sembrano essere tutte motivate dalla convinzione che un altro mondo è possibile. Un mondo votato verso il commercio equo e solidale, la finanza etica, l’annullamento del debito dei paesi poveri, le produzioni biologiche, pregno di azioni concrete contro le guerre. Con limiti e restrizioni al commercio delle armi. Un mondo con uno sviluppato senso critico, sociale e solidale. Un mondo pulito. Le numerose sigle e associazioni che protestavano contro il G8 a Genova si erano riunite in un comitato chiamato Genova Social Forum, il cui portavoce fu nominato Vittorio Agnoletto, medico milanese fondatore della Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids (LILA).

In un’intervista rilasciata a oltremedianews, Agnoletto ha dichiarato che, a parer suo, l’aspetto più scioccante sul piano politico è stato l’assalto alla scuola Diaz perché «quell’evento ha reso evidente che, da parte delle istituzioni dello Stato e dei suoi rappresentanti, non c’era assolutamente più nessun rispetto della legge, delle regole e della legalità e che i rappresentanti dello Stato stavano agendo unicamente in base alla logica del più forte e stavano manipolando completamente la realtà, costruendo, come si è potuto vedere successivamente, una versione del tutto falsa di quello che stava accadendo».

Ma perché la polizia irrompe nella scuola Diaz? Ufficialmente è alla ricerca dei black bloc, i manifestanti del blocco nero indicati come i responsabili dei disordini durante le manifestazioni e degli atti di vandalismo alla città. Ma questi black bloc alla Diaz non c’erano.

Agnoletto, nel corso dell’intervista, ci tiene a precisare però che il fatto più grave accaduto a Genova durante il G8 è stato l’uccisione di Carlo Giuliani: «Una vita umana che non potrà mai essere restituita è un valore incomparabile rispetto a qualunque altro evento».

Carlo Giuliani, giovane manifestante no-global muore in piazza Alimonda per il proiettile sparato dall’arma di ordinanza del carabiniere Mario Placanica, indagato per omicidio e prosciolto per legittima difesa e uso legittimo delle armi. Giuliani minacciava di colpire l’auto dentro cui stazionavano Placanica e colleghi con un estintore. Placanica gli ha sparato in testa. In tanti si saranno chiesti in tutti questi anni quale effetto avrebbe sortito un colpo sparato in aria contro un gruppo di manifestanti che, nella concitazione del momento, provavano ad assalire e assaltare i nemici di quel momento con armi di fortuna. Ma c’è anche un’altra domanda da porsi: perché la polizia, il cui compito sarebbe quello di proteggere i cittadini, aveva incarnato fin da subito le sembianze del ‘nemico‘, ovvero lo Stato e i suoi rappresentanti che se ne stavano blindati nella zona rossa? La domanda è ovviamente retorica e la risposta è già in essa contenuta.

Agli occhi dei manifestanti, come per i membri del blocco nero e degli ultras, i celerini, ovvero i poliziotti della squadra mobile, la cosiddetta celere, sono l’incarnazione dello Stato e dei suoi rappresentanti, o meglio ne sono i servi, diventando di fatto il nemico da ‘combattere’. Quello vero, diciamo così, è inarrivabile, barricato, e così l’interesse si concentra sul suo surrogato oppure, come nel caso degli ultras, sui ‘nemici’ della tifoseria avversaria. Ma questi poliziotti, i celerini, come vedono i loro ‘nemici’ sul campo e come i rappresentanti dello Stato?

I poliziotti del reparto mobile sono addestrati per garantire l’ordine e devono restare impassibili agli sputi, agli insulti, alle minacce, al lancio di oggetti… almeno fino a quando il loro comandante non dà il via alla carica, ovvero alla “occupazione del territorio” e allora partono i lacrimogeni e, quando non bastano, vengono sfoderati gli sfollagente, usati fino a quando il funzionario non dice “basta!”. Vengono offensivamente indicati come servi. Sono in realtà servitori dello Stato, il medesimo che, attraverso altri funzionari e altri servitori, manda, per fare un esempio, indirizzate direttamente a loro le lettere di sfratto, coatta esecuzione della volontà statale che tante volte hanno avuto il compito di supportare e coordinare. Sono servitori addestrati a mostrare il muso duro verso protestanti, manifestanti, sfrattati e tifosi ma che devono remissivamente sottostare agli ordini dei diretti superiori, chiunque essi siano e qualsiasi decisione prendano. Costretti a difendersi in aula quando perdono le staffe e a vedere, inermi, i funzionari giudiziariamente illesi per decisioni sbagliate che hanno portato, magari, conseguenze disastrose. La domanda da porsi non è relativa alla presenza o meno di rabbia e frustrazione, ma semplicemente quando e verso chi verrà incanalata.

L‘Italia, per i fatti accaduti alla scuola Diaz di Genova e alla caserma di Bolzaneto è stata condannata prima perché si trattava di tortura e poi perché ritardava l’adeguamento delle leggi. E ciò è di una tale gravità da far rabbrividire. Non si sta parlando di raptus, di errore strategico, di impulsività… no, si parla di tortura. Qualsiasi forma di coercizione fisica o mentale non inferta allo scopo di ottenere una confessione o informazioni va intesa come violenza, sevizia, crudeltà fine a se stessa dettata solo dalla brutalità. Azioni che, per essere poste in essere, necessitano di un addestramento, di sangue freddo e anche di un certo macabro auto-controllo derivante da una formazione militare o paramilitare oppure da devianze psichiatriche.

Vincenzo Canterini, all’epoca dei fatti comandante del Primo reparto mobile romano, nel quale era inquadrato il VII Nucleo Sperimentale antisommossa guidato da Michelangelo Fournier che irruppe nella scuola Diaz, nel libro Diaz, scritto con Simone Di Meo e Marco Chiocci (Imprimatur, 2012), racconta la sua verità sulla sanguinosa notte di Genova.

«La Diaz fu una rappresaglia scientifica alla figuraccia mondiale per le prese in giro dei black bloc. Un tentativo, maldestro, di rifarsi un’immagine e una verginità giocando sporco, picchiando a freddo, sbattendo a Bolzaneto ospiti indesiderati assolutamente innocenti.»

In un’intervista rilasciata per altraeconomia.it, Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano nazionale e cofondatore del Comitato Verità e Giustizia per Genova, testimone e vittima dei fatti della Diaz, ribatte, punto per punto, le dichiarazioni di Franco Gabrielli, oggi capo della Polizia, all’epoca dirigente della Digos di Roma. Partendo proprio dalle scuse che non sono mai arrivate… «come le ragioni chiare per le quali si vorrebbe chiedere scusa: Per i pestaggi alla Diaz? Per i falsi realizzati dopo l’irruzione? Per la violazione di numerosi articoli del codice penale e della Costituzione? Per averne impunemente ostacolato i processi, come riconosciuto anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo? Per le mancate rimozioni e sanzioni disciplinari dei responsabili delle violenze?»

Nel luglio del 2015 sono diventate definitive le condanne ai 25 poliziotti per l’irruzione nella scuola Diaz al termine del G8 di Genova del luglio 2001. Tutti condannati in Cassazione per falso aggravato in relazione ai verbali di perquisizione e arresto a carico dei manifestanti. L’unica imputazione sopravvissuta alla prescrizione dopo i trascorsi 11 anni. Pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni anche per alcuni degli alti gradi inflitta nel 2012:

  • Giovanni Luperi (capo del Dipartimento analisi dell’Aisi).

  • Franco Gratteri (capo della Direzione centrale anticrimine).

  • Gilberto Caldarozzi (capo del Servizio centrale operativo).

Tutti condannati a risarcire le parti civili ma nessuno che abbia mai veramente rischiato di finire in carcere, complice anche lo sconto di tre anni all’indulto approvato nel 2006. Diverse le prescrizioni che sono cosa ben diversa da un’assoluzione.

A luglio 2017 per chi non era potuto andare in pensione si prospettava la concreta possibilità di rientrare in servizio.

L’11 settembre 2017 il ministro dell’Interno, Marco Minniti, nomina vice direttore tecnico operativo della Direzione investigativa antimafia Gilberto Caldarozzi. Pietro Troiani, il poliziotto accusato di aver introdotto nella scuola Diaz due bottiglie incendiarie tipo Molotov, già vicequestore avrebbe ricevuto anche l’incarico di dirigente del Centro operativo autostradale di Roma con competenza su tutto il Lazio.

Michelangelo Fournier prontamente ha tenuto a replicare alle affermazioni di Marco Travaglio allorquando il direttore de Il Fatto quotidiano avrebbe affermato che Fournier «dopo la prima condanna a 4 anni e 2 mesi ascese al vertice della Direzione Centrale Antidroga». La condanna di Fournier era solo di 2 anni e non di 4 ma, per il resto, Travaglio resta sulle sue posizioni specificando che «fare carriera non significa necessariamente ottenere promozioni e premi: per chi partecipò all’assalto alla Diaz, anche se alla fine sembrò pentirsene, già il fatto di seguitare a ricoprire ruoli di responsabilità nella Polizia di Stato dopo quello che era accaduto, e addirittura dopo essere stato condannato per lesioni personali continuate, mi pare sufficiente per dire che ha fatto carriera».

Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, sempre in merito alle promozioni, in particolare quella di Caldarozzi, ipotizza uno sviluppo differente se in Italia ci fosse stata per tempo e da tempo un’adeguata legge sulla tortura. Mentre Enrica Bartesaghi, già presidente del Comitato Verità e Giustizia per Genova istituito a sostegno «delle vittime della repressione delle forze dell’ordine nell’esercizio della manifestazione del pensiero», ormai sciolto e madre di Sara, tra le vittime della Diaz, scrive parole che rappresentano invece esattamente lo scenario che è stato.

«In questi lunghissimi anni ho assistito a numerose promozioni indecenti di buona parte dei condannati per le violenze e le torture alla Diaz e a Bolzaneto, da parte di tutti i governi che si sono succeduti. Non c’è mai stata alcuna sospensione, nessun allontanamento dei colpevoli, nessuna legge o riforma volta a prevenire e condannare quello che è successo a Genova»

I manifestanti avevano il diritto di protestare? Di sfilare in corteo per dimostrare la loro opinione, contraria, alle decisioni dei grandi della Terra? Avevano il diritto di alloggiare in quella scuola trasformata per l’occasione in dormitorio? I celerini avevano il diritto di manganellare a destra e a manca fino all’alt del funzionario incaricato di dare il comando? I poliziotti hanno il diritto di fabbricare prove mancanti? Di dichiarare il falso? Di trascriverlo nei verbali? I funzionari hanno il diritto di impartire determinati ordini incuranti delle conseguenze? Se viene dimostrato l’errore nella catena di comando quanto è importante che corrisponda un’adeguata punizione in un paese che si dichiara democratico? Se il vertice non viene punito perché dovrebbe esserlo chi ha solamente eseguito degli ordini? Se il vertice non era a conoscenza perché questi ‘picchiatori’ selvaggi e ‘torturatori’ non sono stati fermati?

Al G8 i manifestanti riunitisi come Genova Social Forum volevano partecipare a cortei e manifestazioni lungo le strade della città che ospitava i grandi della Terra proprio in quei giorni, presumibilmente, perché volevano approfittare dell’interesse mediatico elevato per l’occasione. La Costituzione italiana è a favore della libera manifestazione delle proprie idee. Se i Capi di Stato e di Governo devono riunirsi in sontuose location per prendere decisioni che poi, inevitabilmente, ricadranno sui popoli, i cittadini che vanno a comporre quelle popolazioni hanno e devono avere a loro volta il diritto di di riunirsi e manifestare le proprie personali opinioni. Il dispiegamento di forze dell’ordine impiegato per proteggere le celebrities dovrebbe essere dispiegato anche per proteggere la popolazione, i cittadini, siano essi manifestanti oppure no.

I poliziotti vengono chiamati in causa per motivi diversi. Viene detto loro di entrare in azione per arginare la violenza. Devono essere pronti anche con il minimo preavviso e, quasi sempre, non hanno idea di cosa li aspetta davvero. Tra gli interventi più frequenti richiesti agli agenti della mobile è il servizio d’ordine allo stadio. Le violenze dentro e appena fuori gli stadi sono innumerevoli, spesso gravissime e si riallacciano a dinamiche psicologiche e sociali che poco o nulla hanno a che fare con lo sport e la sportività. Piuttosto legate alla rabbia repressa, alla frustrazione, all’appartenenza a un gruppo e la sottomissione alle sue regole. Violenza estremista e provocazione, come quella dei black bloc, che inevitabilmente finisce con il coinvolgere persone che nulla hanno a che fare con tutto ciò. Momenti in cui il tutto appare ancora più surreale, paradossale, incredibile al punto da lasciare increduli, basiti, scioccati tutti… in un primo momento, poi l’indifferenza ritorna a farla da padrona. Ma non per le vittime, non per i carnefici, non per coloro che nuovamente in quel delirio vengono chiamati a ‘combattere’.

«Tutti a dire della rabbia del fiume in piena e nessuno della violenza degli argini che lo costringono». (Bertolt Brecht)

Articolo originale qui

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Italia: Tortura, G8, Diaz, Bolzaneto. La condanna della Corte europea e l’iter infinito di una legge che tarda ad arrivare

“Sbirritudine” di Giorgio Glaviano (Rizzoli, 2015)

Disclosure: Copyright prima immagine galleria per La storia della tortura www.focus.it

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In Terra Santa regnerà per sempre la guerra?

27 mercoledì Dic 2017

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monocolooccidentale, Occidente

Il giorno 6 dicembre 2017 tutti i media internazionali rilanciano la notizia bomba della decisione del presidente americano Donald Trump: l’ambasciata verrà spostata da Tel Aviv a Gerusalemme perché, a suo dire, «non si può continuare con formule fallimentari. La scelta di oggi su Gerusalemme è necessaria per la pace».

Per la pace? Di chi?

Il segretario generale della Lega araba, Ahmed Aboul Gheit, ha definito il gesto «una provocazione ingiustificata», aggiungendo che «la posizione religiosa nel cuore di tutti gli arabi, musulmani e cristiani, rende assurda qualsiasi manipolazione del suo status».

Alla decisione di Trump di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e il presidente Reuven Rivlin rispondono invocando «il cammino di pace». Per l’Olp – Organizzazione per la liberazione della Palestina invece agendo in questo modo il presidente americano «ha distrutto ogni speranza di soluzione di pace sulla base del principio dei due Stati». Il presidente palestinese Abu Mazen teme che il gesto «aiuterà le organizzazioni estremistiche a intraprendere una guerra di religione che danneggerà l’intera regione che attraversa momenti critici, e ci trascinerà dentro guerre senza fine».

Durante la 200esima sessione della Commissione esecutiva Unesco, tenutasi a Parigi il 13 ottobre 2016, fu approvata una risoluzione che in buona sostanza cercava di limitare gli interventi israeliani sulla spianata delle Moschee adducendo come motivazione il fatto che tale luogo riveste notevole importanza per le tre grandi religioni monoteiste, non solo per gli ebrei. Israele intanto aveva già inserito i due siti palestinesi (Al-Haram Al-Ibrāhīmī/Tomb of the Patriarchs a Al-Khalil/Hebron e il Bilāl ibn Rabāh Mosque/Rachel’s tomb a Betlemme) nell’elenco del proprio Patrimonio Nazionale e risposto alla richiesta di cancellarli invocando l’antisemitismo dilagante.

Nella risoluzione Unesco viene chiesto a Israele di:

  • Ripristinare lo status quo valso fino al settembre 2000, allorquando la gestione del sito di Al-Aqşa Mosque/Al-Haram Al-Sharif era di competenza della Fondazione religiosa Jordanian Awqaf Department. 

  • Fermare l’escalation di aggressioni e misure illegali poste in essere contro il personale della Jordanian Awqaf.

  • Fermare la continua occupazione del sito di Al-Aqşa Mosque/Al-Haram Al-Sharif da parte degli estremisti di destra e delle forze militari.

  • Fermare le continue aggressioni ai danni di civili, comprese figure religiose musulmane e preti.

  • Porre fine alle violazioni e alle restrizioni all’accesso al sito di Al-Aqşa Mosque/Al-Haram Al-Sharif, evitando in questo modo le conseguenti violenze e quanto accaduto nel 2015.

  • Rispettare l’integrità, l’autenticità e l’aspetto culturale del sito di Al-Aqşa Mosque/Al-Haram Al-Sharif e si afferma di essere rammaricati per i danni causati dalla polizia israeliana alle porte e alle finestre della Moschea di al-Qibli essendo il luogo di culto musulmano parte integrante del sito Patrimonio dell’umanità.

  • Rinunciare a tutti i progetti di costruzione relativi all’area del sito Patrimonio dell’umanità.

Il 23 dicembre 2017 Israele annuncia di voler lasciare l’Unesco entro la fine del 2018 «per i sistematici attacchi da parte dell’organizzazione delle Nazioni Unite contro lo Stato ebraico». Il portavoce del ministero degli Esteri, Emmanuel Nashon, avrebbe precisato che la decisione «è stata presa per i tentativi dell’Unesco di disconnettere la storia ebraica dalla terra di Israele».

Il 12 ottobre 2017 anche gli Stati Uniti d’America avevano annunciato di voler lasciare la «agenzia delle Nazioni Unite dopo mesi di tensioni sul nodo del Medio Oriente». Un annuncio prontamente avvalorato dal premier Netanyhau: «La decisione di Trump è coraggiosa e morale, perché l’Unesco è diventato un teatro dell’assurdo e perché piuttosto che preservare la storia la distorce». L’Unesco sarebbe così diventata «la sede di risoluzioni bizzarre, anti israeliane e in pratica antisemite».

Il Dipartimento di Stato Americano ha reso noto che, con la decisione di ritirarsi dall’Unesco, «gli Usa intendono diventare poi un osservatore permanente della missione per contribuire alle visioni, prospettive e competenze americane su alcune delle importanti questioni affrontate dall’organizzazione inclusa la tutela del patrimonio dell’umanità». Gli Stati Uniti intendono quindi diventare un ‘osservatore’ esterno rispetto all’organizzazione delle Nazioni Unite che conta quasi 200 stati membri ed è preposta a promuovere pace e sicurezza attraverso la collaborazione scientifica, culturale e nell’educazione.

Quando la Corte Penale Internazionale de L’Aia ha avviato un’indagine preliminare per verificare se in Palestina siano stati commessi dei crimini di guerra, il ministro degli esteri israeliano, Avigdor Lieberman, ha bollato la decisione come «scandalosa» in quanto avrebbe come unico scopo quello di «arrecare danno al diritto di Israele di difendersi contro il terrore». Già al momento dell’adesione al Trattato di Roma il Presidente palestinese Abu Mazen aveva fatto pervenire alla Corte un documento con il quale autorizzava l’apertura di procedimenti di inchiesta per presunti crimini di guerra commessi nei territori palestinesi occupati a partire dal 13 giugno 2014.

Avigdor Lieberman ha definito ‘scandalosa’ la decisione della Corte Penale Internazionale de L’Aia di condurre un esame preliminare sull’operato bellico del suo Paese nei ‘territori occupati’:

 

«Decisione scandalosa il cui unico scopo è giudicare e arrecare danno al diritto di Israele di difendersi contro il terrore. […] La stessa Corte che non ha trovato motivo di intervenire in Siria dove ci sono stati più di 200 mila morti, o in Libia o in altri posti, trova appropriato ‘esaminare’ il più morale esercito del mondo in una decisione basata interamente su considerazioni anti israeliane. […] Israele agirà nella sfera internazionale per ottenere lo smantellamento della Corte Penale Internazionale, che rappresenta l’ipocrisia e mette le ali al terrore».

 

Per Lieberman la decisione presa da Abu Mazen «sancisce la fine degli accordi di Oslo», siglati tra Israele e Olp nel 1993, che posero le basi degli obiettivi a lunga scadenza da raggiungere, compreso il ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia di Gaza e dalla Cisgiordania e il riconoscimento del diritto dei palestinesi all’autogoverno in quei territori.

Viene naturale chiedersi se quello israeliano sia davvero “il più morale esercito del mondo” o no.

Usa, Israele e Sudan sono tra i paesi firmatari il trattato istitutivo della Corte Penale Internazionale dell’Aja (Cpi), lo Statuto di Roma, anche se poi hanno dichiarato di non avere intenzione di ratificare.

Breaking the silence. Israeli soldiers talk about the occupied territories è un’associazione di ex militari israeliani di stanza a Hebron, fondata nel 2004 che raccoglie testimonianze di veterani e arruolati. Le documentazioni riportate sono molto cruente e spesso il sito, l’associazione e i suoi membri sono stati accusati di diserzione o spionaggio da parte del governo israeliano.

C’è una testimonianza video caricata da Breaking the silence sul canale Youtube nella quale un soldato, di cui è oscurato il volto, racconta dell’operazione Margine protettivo del 2014: «per l’esercito israeliano, se una persona si trova entro 200 metri da un carro armato, non è innocente. Non ha motivo di essere lì. Quindi anche se avessimo trovato una persona a due chilometri di distanza avremmo comunque aperto il fuoco, perché non era previsto ci fossero civili nella zona. Se avessimo trovato qualcuno, non sarebbe stato un civile. Per noi non esistevano civili. Se vedevamo qualcuno, gli sparavamo».

“Per noi non esistevano civili”.

145 testimonianze raccolte da Breaking the silence sono diventate La nostra cruda logica, pubblicato in Italia da Donzelli Editore con prefazione di Alessandro Portelli nel 2016. Si legge nella prefazione: «Nessuno di questi soldati ha neanche l’ombra di un’incertezza sul diritto di Israele a esistere, a difendersi, a vivere con sicurezza. Ma cominciano a domandarsi se questo sia il modo migliore, più morale e a lungo termine più realistico di perseguire questi fini, se questo corrisponda ai principi che hanno fondato il paese al quale appartengono e che amano e servono». I soldati «hanno paura, si sentono soli, sono confusi, non capiscono; sanno di essere circondati da ostilità; usano in senso anche molto estensivo il termine terrorista». Sembrano ritenere che «nei Territori, ogni palestinese è un potenziale terrorista».

«Ci sono un sacco di episodi. Le stronzate di ogni tipo che facevamo. Picchiavamo di continuo gli arabi, niente di speciale. Giusto per passare il tempo.»

«Avevi detto che pensavate di continuo a come surriscaldare l’atmosfera. Cosa significa? Beh, volevamo tenerci svegli, quindi cercavamo un modo per innervosire un po’ gli arabi, così gli sparavamo un sacco di pallottole di gomma, per tenerci impegnati, così il tempo a Hebron sarebbe passato un po’ più in fretta.»

«Uscivamo di pattuglia, ecco un esempio, qualche ragazzino magari ci guardava in questo modo, e non ci piaceva il suo sguardo – e allora veniva immediatamente colpito.»

Unità: Brigata Kfir; Località: Hebron; Anni: 2006-2007

I soldati affermano anche che episodi tipo quelli riportati nel libro o sul sito di Breaking the silence erano prassi, avvalorata e spesso concordata con gli stessi ufficiali al comando delle truppe. Mentono? Lo fanno anche i palestinesi che da anni denunciano questo genere di violenze?

Il 7 dicembre 2017 il leader di Hamas annuncia: «venerdì 8 dicembre sarà l’inizio di una nuova Intifada chiamata la liberazione di Gerusalemme». E già si registrano numerosi scontri e feriti a Gaza e Cisgiordania dove i palestinesi copiosi partecipano a manifestazioni di protesta contro la decisione del presidente Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele e trasferirvi l’ambasciata americana.

I palestinesi rivendicano da tempo immemore ormai Gerusalemme Est come capitale di quel tanto atteso e sperato Stato palestinese il cui riconoscimento sarebbe pietra miliare nel processo di pace. Nelle dichiarazioni del presidente americano non ci sono riferimenti a quale parte della città o della sua totalità come capitale dello Stato di Israele ma in ogni caso parliamo di una decisione che avrà «ripercussioni pericolose sulla stabilità e sulla sicurezza del Medio Oriente», come ha sottolineato il re di Giordania Abdullah II commentando la decisione di Trump. Ancora più categorico il presidente turco Erdogan il quale considera l’eventuale riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele «una linea rossa per i musulmani».

Trump ha tenuto a sottolineare che l’annuncio risponde al «migliore interesse degli Stati Uniti, di Israele e dei palestinesi». E allora ci si chiede come una decisione unilaterale che fa nettamente pendere l’ago della bilancia verso una sola delle parti possa agevolare anche le altre.

Il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha dichiarato che «sta al popolo palestinese guidare la terza Intifada contro questa decisione, e sta alla Resistenza, palestinese e libanese, assumersi le proprie responsabilità per favorire l’unione di tutte le fazioni e i partiti palestinesi e sostenere la causa di Gerusalemme contro il complotto americano». Sottolineando anch’egli che gli Usa ormai non potranno più porsi come mediatori tra palestinesi e israeliani.

Quello che è riuscito a ottenere finora il presidente Trump non sembra essere un avanzamento nel processo di pace a beneficio di tutte le parti quanto, piuttosto, un inasprimento del muro contro muro che da sempre caratterizza la strenua lotta tra i governi e relativi popoli.

Abdel Bari Atwan dalle colonne del quotidiano online Rai Al Youm ipotizza l’ennesimo errore di valutazione di americani, sauditi e israeliani, dopo quanto già accaduto in Siria: «Washington e Riyadh stimavano una reazione apatica della popolazione araba mentre, al contrario, i palestinesi oggi lottano insieme al rinnovato sostegno dei loro fratelli arabi e musulmani per ottenere la vittoria». Si tratta davvero dell’ennesimo errore di valutazione oppure Tel Aviv è pronta alla repressione contro le proteste palestinesi forte anche del rinvigorito appoggio americano?

Donald Trump e Benjamin Netanyahu si sono mostrati decisi e soddisfatti per il prossimo trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme che verrà a quel punto indicata come legittima capitale dello Stato ebraico affermando che questo sarà un passo avanti nel cammino di pace.

Giovedì 21 dicembre 2017 è stata votata in sessione straordinaria all’Assemblea generale dell’Onu la decisione di Trump di spostare l’ambasciata americana e riconoscere Gerusalemme capitale dello Stato d’Israele. 128 nazioni hanno votato a favore della condanna, 9 contrarie, 35 astenute e 21 assenti. I nove contrari, oltre Stati Uniti e Israele sono: Guatemala, Honduras, Togo, Micronesia, Narau, Palau, Isole Marshall. Il 24 dicembre 2017 gli Stati Uniti hanno iniziato a negoziare un taglio di 285 milioni di dollari di fondi destinati all’Onu per il 2018 motivando il gesto a causa della “inefficienza e le spese facili dell’Onu”.

A partire dalle ore immediatamente successive a queste dichiarazioni scontri e sommosse si sono verificati in Terra Santa e manifestazioni di protesta hanno avuto luogo in varie parti del pianeta. Sono state convocate diverse riunioni ufficiali in regime di urgenza per valutare la situazione e i risvolti. Sono stati sparati tre razzi da Gaza a cui Israele ha risposto sparando colpi di cannone e lanciando un’offensiva con raid aerei. Morti, feriti, violenza, attacchi e contro-attacchi, provocazioni e offensive… un cammino, o meglio un percorso che di pacifico non sembra avere proprio nulla, purtroppo.

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Guerra alle fake news o retorica e propaganda?

29 mercoledì Nov 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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istruzione, RinnovamentoCulturaleItaliano

Con la pubblicazione dell’articolo sul New York Times si ravviva il dibattito sulle fake news e sul loro possibile condizionamento della campagna elettorale e dell’opinione pubblica. A essere nuovamente chiamati in causa sono i social network, più volte indicati come facile veicolo di diffusione dei fake.

Nell’articolo a firma di Sheera Frenkel viene citato anche il segretario dem Matteo Renzi e il suo accorato appello ai social appunto, in particolare Facebook, affinché si possa avere una campagna elettorale pulita.

«We ask the social networks, and especially Facebook, to help us have a clean electoral campaign. The quality of the democracy in Italy today depends on a response to these issues».

Beh, se la qualità della democrazia in Italia dipende da questo allora sono molti gli interrogativi che dovremmo porci. Perché l’ex capo del governo, che è stato fra i più assidui politici a utilizzare i social network per comunicare con i cittadini, improvvisamente vi si scaglia contro? Cosa va considerato fake news e soprattutto a chi spetta il compito di deciderlo?

Renzi e il suo partito dal palco della Leopolda hanno lanciato accuse molto pesanti contro l’opposizione. Accuse che non sembrano trovare grande riscontro nei dati, neanche in quelli di Adsense Google. E se così fosse, non sarebbe anche questa una fake news?

È chiaro quindi che il problema non sono “i social network, soprattutto Facebook”, non sono soltanto i social il problema. Le fake news possono diffondersi attraverso qualsiasi mezzo di informazione e anche nelle piazze, ai comizi, agli incontri, per le strade… La soluzione va cercata in tutt’altro modo rispetto a quello proposto da Matteo Renzi, dal Partito democratico e anche dal governo.

Assegnato alle commissioni riunite 1° Affari Costituzionali e 2° Giustizia il 28 febbraio 2017, il disegno di legge Disposizioni per prevenire la manipolazione dell’informazione online, garantire la trasparenza sul web e incentivare l’alfabetizzazione mediatica parte da un presupposto ingannevole e a tratti offensivo: siccome le persone non sono e non possono essere in grado di comprendere e di distinguere una notizia vera da un fake allora bisogna intervenire preventivamente per evitare “la manipolazione dell’informazione online” e “garantire la trasparenza sul web”.

Lecito a questo punto chiedersi a chi spetta il compito di selezionare “preventivamente” le notizie che possono poi trovare diffusione online e su quali principi e in base a quali competenze specifiche lo debba fare.

Nel testo si legge che, avendo il web mostrato i suoi ‘pericoli’, si rende necessaria «una netiquette per il rispetto degli utenti». Poco oltre però si legge: «le notizie false, o fake news o bufale, ci sono sempre state, ma non sono mai circolate alla velocità di oggi. Per questo non è più rinviabile un dibattito serio in questo senso». Il pericolo quindi sarebbe insito nella velocità di circolazione delle bufale e non solo o non tanto nella loro esistenza, che è più antica del web.

Le notizie false, le opinioni che rischiano di essere scambiate per fatti e non per pareri ci sono sempre stati ma internet ne ha velocizzato la diffusione e quindi questo è il momento di agire. Bene. Ma come si intende procedere?

«Usare gli strumenti già a disposizione nel nostro ordinamento giuridico spostando l’attenzione dal reale al virtuale perché gli attori sono sempre gli stessi». Esistono quindi già gli strumenti nel nostro ordinamento giuridico atti a evitare il diffondersi di notizie false, fuorvianti, di campagne a favore dell’odio e via discorrendo. Se esistono già vuol dire che sono già testati. Hanno funzionato nel reale? Sono risultati efficaci? E se non hanno funzionato nel reale perché si pensa funzioneranno nel virtuale?

Stando a quanto scritto nel testo del disegno di legge all’incremento dei consensi di movimenti populisti nei Paesi occidentali ha fatto seguito la «accresciuta» preoccupazione che le fake news possano essere diffuse a poi «cavalcate» a fini politici.

Si guarda alle azioni poste in essere da Francia e Germania, ai loro programmi volti a verificare l’attendibilità delle notizie che circolano sul web e alla celere rimozione di quelle ritenute false. Viene da chiedersi a questo punto: e tutte le altre? Come vengono verificate le notizie che passano attraverso tutti gli altri canali di informazione e istruzione? Anche per quelle c’è un monitoraggio costante che prevede la loro rimozione qualora fossero poi indicate come fake? Ovviamente non è possibile. Al massimo ci sono le smentite. E quelle ci sarebbero anche per il web ma evidentemente per i legislatori non bastano.

Si propone ai «colossi della rete» l’uso di selettori software per rimuovere «i contenuti falsi, pedo-pornografici o violenti» e si ritiene necessario ridiscutere «i tabù dell’anonimato, della trasparenza e della proprietà dei media online, del diritto di replica, di rettifica, del diritto all’oblio, della protezione della privacy e della rimozione dal web dei contenuti lesivi».

C’è però un qualcosa di profondamente sbagliato nell’azione del legislatore che dice di agire per proteggere gli interessi dei cittadini ma forse lo fa per proteggere i propri. Ed è la considerazione, scarsa, che si dimostra avere di questi. Il ritenere che non possono né potranno mai essere in grado di discernere da soli il giusto dallo sbagliato, il vero dal falso. Se così è bisognerebbe allora agire su questo. Formare i cittadini affinché siano indipendenti.

Il concetto di notizia «è sicuramente mutato nel passaggio dai media tradizionali ai social media e alle piattaforme online», colme di contenuti generati dagli utenti, dove «si è imposto l’infotaintment», ovvero la mescolanza tra informazione e intrattenimento, «tipicamente sfruttabile ai fini commerciali». Siamo certi che ciò sia avvenuto solo nel mondo virtuale?

«Chiunque, infatti, può dire quello che vuole, per la più che legittima libertà di espressione, ma se il pubblico di internet prende per buono e fondato qualsiasi cosa circoli online, senza più distinguere tra vero e falso, il pericolo è enorme». Il pericolo è enorme, è vero, ma permane anche se gli poni dei filtri artificiali perché in questo modo si potranno, forse, bloccare le notizie ritenute false o dannose ma non si farà nulla per creare dei cittadini più responsabili, più critici e più scaltri. Inoltre continuando ad additare i social e la Rete come principali veicoli di diffusione delle fake news, a volte citando solo questi, si rischia di ingenerare l’illusione che tutte le altre notizie che circolano al di fuori di essi siano automaticamente vere e fondate. Cosa che palesemente non è così.

Per aumentare il senso di panico nel testo viene anche ricordato che il pericolo si fa ancor più particolare quando si va a guardare come vengono trattati «aspetti sensibili della società», e viene citato a titolo esemplificativo la sanità. Sarebbe opportuno precisare e ricordare, come bene hanno fatto Beatrice Mautino e Dario Bressasini nel saggio Contro natura. Falsi allarmismi e verità nascoste del cibo che portiamo in tavola (Rizzoli, 2015), che quasi tutta l’informazione scientifica viene fatta da esperti e professionisti del settore solo nelle pubblicazioni scientifiche mentre nei mezzi di informazione che siano radio, tv, giornali e quant’altro sono dei generalisti a occuparsene. Che poi si vuole ritenere i generalisti sempre più affidabili delle persone comuni è un altro discorso.

Va da sé che i fomentatori di odio, i pedo-pornografi, i faker devono essere perseguiti legalmente, che deve essere impedito loro di truffare gli altri ma il punto è che i loro sostenitori o seguaci, come dir si voglia non li educhi certo al cambiamento bloccando o rimuovendo qualche notizia o video su internet. Chiuso un canale di sfogo ne cercheranno un altro. Se non tenti almeno di capire perché cadono facilmente in queste trappole, se non formi, in buona sostanza, dei cittadini con un elevato spirito critico, una vasta cultura e un notevole senso civico, dentro ma soprattutto fuori la Rete, chiuderai una porta ma loro cercheranno e troveranno un altro portone per dare libero sfogo alla propria rabbia.

Il giornalista del Guardian Joris Luyendijk nel saggio Nuotare con gli squali. Il mio viaggio nel mondo dei banchieri (Einaudi, 2016) parla della disinformazione e del disinteresse del pubblico da un’altra angolazione, e si chiede perché «tanta gente mostra così scarso interesse a proposito di tematiche direttamente connesse ai loro interessi». Passa a descrivere poi i punti salienti del metodo da lui stesso inventato e definito della «curva di apprendimento». Luyendijk sostiene che spiegando con meticolosità, serietà e correttezza i dati e i fatti, nella maniera più chiara e continuativa possibile, il pubblico apprezzerà leggere anche di notizie e materie un tempo per lui ostiche. Forse seguendo il metodo di Luyendijk ci si lascerebbe meno facilmente abbindolare da bufale, fake o propaganda che, se letta con spirito critico e attenzione, appare chiaramente per quello che è: una surreale menzogna.

Modificando la legge 13 luglio 2015, n° 107, cosiddetta Buona Scuola, si stabilisce nel nuovo disegno di legge che le istituzioni scolastiche, «nei limiti delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili», individuino tra gli obiettivi formativi quello riguardante «l’alfabetizzazione mediatica» e sostengano «programmi di formazione volti a promuovere l’uso critico dei media online». E gli altri media? A chi spetta il compito di portare avanti questi progetti? Agli stessi insegnanti? Sulla base di quali competenze e conoscenze? Parlando di social e di odio forse andrebbe ricordato che proprio su Facebook esistono innumerevoli gruppi formati da docenti e leggendo i loro post e commenti si comprende la scarsa stima che hanno del sistema scolastico in generale, l’apatia verso gli studenti, la frustrazione per i compensi da fame… Nessuno nega che in Italia come nel resto del mondo ci siano o ci possano essere i migliori insegnanti ma ci sono anche coloro che scrivono e partecipano a questi gruppi di sfogo collettivo e tra essi ci sono anche gli educatori che verrebbero selezionati per stimolare «l’uso critico dei media online» negli studenti.

I legislatori italiani per arginare il problema dei fake online guardano alle misure repressive poste in essere, per esempio in Germania. Un Paese che stenta a introdurre nel proprio sistema legislativo norme contro la criminalità organizzata adducendo come motivazione il fatto che in Germania questa semplicemente non ci sia ma che ritiene doveroso, necessario e urgente muoversi per punire un faker, online.

Se anche dovessero riuscire a bloccare le fake news online resterebbero le altre, quelle che ci sono sempre state, come ammettono anche i legislatori italiani, che però viaggiavano a velocità meno sostenuta. Oppure, per dirla con altre parole, arrivavano in ritardo. Ma c’erano e non erano un problema urgente. Come c’erano i pedo-pornografi, i fomentatori di odio e tutto il resto. Internet è solo un nuovo canale utilizzato. Chiuso questo è molto probabile ne troveranno un altro. Per evitare che ciò accada è necessario fornire i cittadini di tutti gli strumenti utili alla formazione di un concreto e profondo senso critico e ciò non potrà mai avvenire attraverso una selezione preventiva o una rimozione tempestiva di contenuti ritenuti scomodi o falsi. E non si riuscirà a farlo neanche gravando una categoria di lavoratori già molto frustrata, come quella dei docenti e degli insegnanti, di ulteriori compiti per cui molto probabilmente non sono adeguatamente preparati.

La democrazia italiana non è certo in pericolo per un tot di bufale che girano in internet. Lo è magari per la corruzione dilagante, per il voto di scambio, per i ricatti elettorali delle mafie, per l’evasione fiscale che ruba fondi destinati all’istruzione e alla sanità pubbliche, lo è perché abbiamo insegnati sottopagati, malpreparati a svolgere il proprio lavoro, frustrati e amareggiati perché non vengono riconosciuti loro i propri diritti, perché abbiamo dei ragazzi e delle ragazze costretti a recarsi in aule bislacche di istituti fatiscenti, perché vengono negati loro i mezzi necessari per una preparazione adeguata ai tempi, per essere competitivi in ambito internazionale. La democrazia in Italia è a rischio perché abbiamo un elevato numero di politici corrotti, perché c’è una cospicua infiltrazione mafiosa nelle amministrazioni comunali, perché spesso si legifera tutelando interessi che non sono quelli dei cittadini.

Combattiamole queste fake news ma combattiamo anche tutto il resto.

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“Contro natura” di Bressanini e Mautino (Rizzoli, 2015)

“È solo denaro altrui”. L’incredibile viaggio nel mondo dei banchieri di Joris Luyendijk raccontato in “Nuotare con gli squali” (Einaudi, 2016)

La preparazione degli studenti italiani rispetto ai coetanei stranieri

La preparazione degli insegnanti italiani. La verità

Neuroschiavi, la Manipolazione del Pensiero attraverso la Ripetizione

“Gli impostori. Inchiesta sul potere” di Emiliano Fittipaldi (Feltrinelli, 2017)

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#25novembre: Il ‘ponte’ contro la violenza, attivismo no stop per tutte le donne

25 sabato Nov 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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femminismo, violenza

Insieme a tutte le altre iniziative previste, partirà nella giornata odierna dedicata alla violenza di genere, la campagna dell’ONU UNiTE centrata sul tema “Nessuno deve essere lasciato indietro: poniamo fine alla violenza contro le donne e le ragazze”. Un no stop di attivismo che durerà 16 giorni, ovvero fino al 10 dicembre, giornata dedicata ai diritti umani. Un ‘ponte’ voluto proprio perché aggredire, maltrattare, stuprare, uccidere un altro essere umano equivale a violare la sua persona e i suoi diritti.

Un ‘ponte’ che per il movimento One Billion Rising dell’attivista americana Eve Ensler arriverà fino al 14 febbraio 2018 con la campagna Solidarietà, voluta per fermare qualsiasi forma di abuso o violenza ai danni di donne e bambine. Mentre rappresenta un lungo cammino per le organizzatrici della manifestazione nazionale a Roma Non Una di Meno intenzionate ad andare avanti fino a quando non ci saremo davvero affrancati dalla violenza di genere in tutte le sue forme. Un percorso di libertà e liberazione che coinvolge migliaia di donne, trans e queer.

Il quarto rapporto di Eures sul femminicidio in Italia rivela che sono 114 le vittime nei primi dieci mesi del 2017. 114 donne che hanno perso la vita per morte violenta. E se l’omicidio non può mai avere una motivazione valida a giustificarlo, in questi casi davvero bisogna ammettere che la ricerca arcaica e superata di virile possesso e dominio sulla ‘propria’ donna è davvero una stupida rivendicazione che va estirpata alla radice con un accurato programma culturale che include anche trasmissioni e programmi televisivi, produzioni cinematografiche, pubblicazioni di libri e qualsiasi altro frutto della modernità che continui a inculcare, in maniera diretta o subliminale, il concetto e la divisione dei ruoli tra maschi e femmine.

È necessario agire d’impatto sulla violenza diretta, sulle aggressioni fisiche e verbali, sullo stalking, e su tutte le varie forme di violenza, a ogni livello, ma bisogna anche lavorare sulla violenza strutturale insita nella cultura dominante e trasmessa anche ai giovanissimi, spesso in maniera inconscia. Come ricorda Flavia Piccinni in Bellissime (Fandango, 2017), viviamo in una società che molto precocemente è in grado di inquadrare nei ruoli di genere l’essere umano. Ruoli che vengono inculcati e che spesso diventano una prigione, che non considera i nostri desideri e le nostre ambizioni, le nostre passioni e i nostri sogni, ma che ci proietta nel futuro esclusivamente attraverso le pressioni sociali e le aspettative degli altri.

Molto si è parlato nei giorni scorsi delle molestie poste in essere da noti esponenti dello show business e della politica e tante, purtroppo, sono state le critiche rivolte alle vittime invece che ai carnefici. Anche questo fa parte di un retaggio culturale frutto della violenza strutturale cui veniamo inconsciamente sottoposti, tutti. Una società che precocemente ipersessualizza giovani vite lasciando sottintendere che con la provocazione e la bellezza si possono raggiungere risultati altrimenti insperati è una società deviata che produce e produrrà sempre vittime e carnefici.

Basta fare un giro negli store di giocattoli per realizzare quanto, la cultura della parità di genere, sia ancora molto lontana da raggiungere. Prodotti per la pulizia della casa che riproducono fedelmente quelli da grandi, tutto il necessario per fare il bucato, la spesa e accudire bambolotti che sembrano dei bambini veri, bambole e fatine con corpi mozzafiato e accessioni glam da urlo… sono lo specchio incondizionato dei ruoli che si vorrebbe rivestissero le donne nel mondo reale: angelo del focolare o bomba sexi. Ce n’è di strada da percorrere per cambiare e sconfiggere questi stereotipi radicati da secoli di cultura sessista e maschilista.

Il corpo delle donne non è un oggetto votato alla riproduzione o al soddisfacimento dei piaceri sessuali di uomini che ne hanno il pieno controllo e per abbattere queste “certezze” radicate non basta mostrare il volto tumefatto delle donne vittime di violenza, non basta fare la conta dei morti e dei feriti, bisogna reagire e per farlo è necessario mostrare a tutti la forza della conoscenza. Portare avanti campagne di informazione, istruzione e cultura che formino le menti dei giovani, maschi o donne che siano, e mostrino loro un differente modo di emergere nella società e nel lavoro. Un metodo che non preveda provocazione o abuso ma basato sulle doti, le qualità, la conoscenza e la preparazione che ognuno deve avere e sul rispetto verso se stessi e verso gli altri.

Uno stupratore o un omicida non avrà mai paura di agire guardando l’immagine di una vittima di abusi, potrebbe addirittura essere invogliato all’emulazione. Ma avrà di certo paura di pene severe, di una società che non starà ferma ad aspettare che sia troppo tardi ma risponderà repentinamente a ogni violazione dei diritti dei suoi membri, compreso quello di non diventare vittima di un’assurda violenza motivata dalla frustrazione, dall’incapacità, dall’ignoranza che, come si è visto, coinvolge tutti i livelli economici e sociali.

Ammonta a 10 milioni di euro il finanziamento stanziato per i progetti per la prevenzione e il contrasto della violenza di genere, il cui bando è consultabile sul sito governativo del Dipartimento per le pari opportunità. Supportare attività di sensibilizzazione rispetto a sei aree d’intervento, questo lo scopo dichiarato dell’iniziativa: donne migranti e rifugiate, inserimento lavorativo delle vittime di violenza, supporto alle donne detenute che hanno subito violenza, programmi di trattamento di uomini maltrattati, supporto e protezione delle donne sottoposte anche a violenza “economica” e progetti di sensibilizzazione, prevenzione ed educazione. Vengono elencati per ultimi ma in realtà i progetti di sensibilizzazione, prevenzione ed educazione devono precedere e magari prevenire la violenze e quindi i progetti conseguenti.

Il Dipartimento governativo per le pari opportunità afferma di avere una attenzione particolare verso quei progetti volti a sostenere campagne di comunicazione culturale contro la violenza di genere che include, si immagina, anche la violenza domestica. Dovrebbe includere anche la violenza strutturale. Doveroso a questo punto ricordare che è sempre frutto di un’attività governativa la scandalosa campagna di comunicazione pro fertilità, prontamente ritirata, che ha giustamente scatenato le ire di molti cittadini e cittadine, associazioni, movimenti e attivisti e che rientra a pieno titolo nell’imprigionamento in ruoli che certo non aiuta nel progresso culturale per cui si sta lottando. Errori che sarebbe preferibile non ripetere più, soprattutto nelle istituzioni pubbliche.

Enti pubblici e governativi, istituti scolastici e accademici, organizzazioni e movimenti, associazioni e attivisti anche quando agiscono privatamente hanno il dovere morale di mostrare e dimostrare la parità e l’uguaglianza tra le persone, di evitare ogni forma di violenza, anche come forma di reazione e monitorare il progresso culturale della società.

Personalmente sono stata accusata di lasciarmi fuorviare da idiosincrasie relativamente al giudizio negativo espresso in una recensione, o meglio una stroncatura. Un testo di narrativa, un romanzo indicato come adatto a tutti, venduto in tutte le librerie fisiche e digitali, pubblicato con un grande editore italiano e proposto per un concorso letterario la cui giuria popolare si compone di studenti delle superiori è stato da me additato come misogino per tanti passaggi ed espressioni presenti nel testo, ma soprattutto perché in esso l’apparato genitale maschile veniva indicato come “arma”. Quindi dovremmo tacere dinanzi al fatto che l’organo riproduttivo maschile venga indicato come arma e così proposto agli adolescenti italiani o di qualsiasi altro paese? In virtù del numero di aggressioni e violenze a scopo sessuale che ogni giorno martorizzano il nostro paese e non solo lo trovo assurdo, inutile e pericoloso. Non è la sottoscritta a peccare di idiosincrasia bensì chi ritiene gli organi riproduttivi maschili più “potenti” di quelli delle donne, di chi ritiene il corpo femminile utile solo a divenire vittima della “arma” in possesso dei maschi, di coloro che, in buone sostanza, restano ancorati a un retaggio culturale obsoleto che non può e non deve più essere trasmesso alle nuove generazioni.

È necessario e doveroso affrancare soprattutto i giovani dalla prigionia della divisione rigida dei ruoli, dai pregiudizi e dai retaggi culturali obsoleti e deleteri, e far comprendere loro la reale portata della parità e del rispetto che non si misura nella libertà di denudarsi, di essere provocanti o opportunisti, di usare la violenza o la forza… no, si tratta di avere piena coscienza dei propri diritti e fare di tutto per vederli riconosciuti.


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Centro Italia, ferma ricostruzione e consegna moduli abitativi: il report di OsservatorioSisma denuncia i gravissimi ritardi

12 domenica Nov 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Legambiente

Alla vigilia del secondo inverno dopo il sisma che ha colpito, lo scorso anno, una vasta area del Centro Italia che abbraccia ben quattro regioni (Abruzzo, Marche, Umbria e Lazio), Legambiente e Fillea-Cgil presentano i dati dell’Osservatorio per la ricostruzione di qualità. Solo una scuola è stata realizzata sulle 108 da ricostruire previste da due piani straordinari approvati dal Commissario straordinario per la ricostruzione. Un’altra è in costruzione. Su 3570 casette richieste complessivamente nelle quattro regioni interessate, 995 risultano quelle consegnate.

Il report dell’Osservatorio per la ricostruzione di qualità, promosso da Fillea-Cgil e Legambiente per monitorare la ricostruzione delle aree del Centro Italia, individua «responsabilità lungo tutta la complessa catena di comando, non sempre chiara». Sottolinea, inoltre, che l’esigenza del “fare presto” non deve inficiare la qualità del costruito, e manifesta «forte preoccupazione all’idea che per la riapertura di alcune scuole ci si possa accontentare del miglioramento sismico e non dell’adeguamento nonostante gli ingenti investimenti».

La priorità, in casi come questo, è giusto che sia la volontà di velocizzare l’uscita dallo stato di emergenza, ma ciò non deve in alcun modo precludere il rispetto della legalità. Viene a tal proposito ricordata l’inchiesta della Procura di Napoli sulle aziende impegnate nella sistemazione delle casette.

La normativa stabilisce che sia Invitalia a svolgere le gare di affidamento dei lavori e le ordinanze commissariali hanno deciso che sono 105 le scuole da ripristinare: 18 in base al primo programma straordinario (gennaio 2017) e 87 in base al secondo (luglio 2017). Tre invece sono finanziate dai donatori. Del primo gruppo, è in costruzione solo la scuola primaria Romolo Capranica di Amatrice. Del secondo, è stata realizzata la scuola dell’infanzia Benedetto Costa di Sarnano, grazie ai finanziamenti della Regione Friuli Venezia Giulia.

Il resto delle gare non viene assegnato, nonostante l’ordinanza 35 del 31 luglio abbia modificato le prime due con «l’obiettivo di facilitare la messa a gara». Ci si chiede, a questo punto, se sia «lecito domandarsi per quale motivo, a fronte di quasi 900 aziende che inizialmente (l’elenco è aggiornato al 31 maggio) hanno espresso interesse alla realizzazione dei 18 edifici scolastici, soltanto la realizzazione di uno sia stata aggiudicata». Il 4 agosto 2017 Invitalia pubblica un secondo “avviso esplorativo” per la costruzione delle 18 scuole. L’elenco di esecutori interessati alla ricostruzione degli edifici scolastici «giunge così a 1119 aziende». Ma, a quasi tre mesi «da questo secondo avviso ancora nessuna gara è stata aggiudicata».

L‘ordinanza 33 dell’11 luglio 2017 approva invece il secondo programma straordinario per la riapertura delle scuole nei territori delle regioni Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria, e prevede la costruzione di 87 scuole, con uno stanziamento complessivo di 231.038.692. In questo caso, i committenti sono i Comuni e le Province. Incaricata a svolgere le gare d’appalto «su indicazione degli Enti preposti» è sempre Invitalia. «Ad oggi, su tali opere Invitalia non ha pubblicato alcun bando». Il report dell’Osservatorio per una ricostruzione di qualità è datato ottobre 2017.

La richiesta complessiva delle Soluzioni Abitative di Emergenza (SAE) è di 3570 (205 in Abruzzo, 775 nel Lazio, 1824 nelle Marche e 766 in Umbria), da 43 su 140 comuni danneggiati dal sisma. «Al 17 ottobre 2017 ne sono state consegnate 995, pari al 27.87% del totale richiesto».

Spettano alla Protezione Civile l’acquisto, le opere di urbanizzazione, l’installazione e la consegna delle casette richieste, sotto il cui coordinamento i Comuni «sono stati delegati a quantificare il fabbisogno delle casette, individuare le aree per la loro installazione e quelle per la sistemazione delle strutture pubbliche». La Protezione Civile ha «inoltre assegnato alle quattro Regioni coinvolte il compito di provvedere all’urbanizzazione delle aree preposte a ospitare le casette».

Va detto, a onor del vero, e i promotori del report lo fanno, che vi sono anche cause oggettive che giustificano «in parte i ritardi e le differenze». Il susseguirsi degli eventi sismici (24 agosto, 26 e 30 ottobre, 18 gennaio) che a più riprese ha allargato l’area del cratere, allungato i tempi per la verifica dei danni sugli immobili, ha fatto aumentare progressivamente le persone rimaste senza casa. Va aggiunta poi la difficoltà a individuare aree idonee a causa «della presenza di vincoli, a partire da quello idrogeologico, nel territorio dell’Appennino». Ecco allora che «una pianificazione preventiva che individui nelle aree a rischio le aree preposte a ospitare gli sfollati in casi di emergenza avrebbe potuto accelerare di molto i tempi» e avrebbe anche prodotto «un minore impatto paesaggistico e ambientale».

Un altro aspetto su cui il report si sofferma a lungo è la prevenzione dello sfruttamento del lavoro e il mantenimento della legalità. Come dimostra, ad esempio, l’inchiesta giudiziaria della Procura di Napoli di inizio ottobre «sulle varie aziende totalmente fittizie che occupavano lavoratori in nero in Umbria, tra l’altro privi delle più elementari dotazioni antinfortunistiche» adibiti sia all’allestimento delle aree per le SAE sia al montaggio delle stesse. Le verifiche effettuate sul campo dagli operatori del Sindacato «hanno registrato, in tutte e quattro le Regioni interessate, la presenza di lavoratori completamente sconosciuti alle Casse edili» o denunciati «con un monte ore di lavoro di molto inferiore a quello effettivamente svolto».

La normativa prevista per la fase della Ricostruzione è molto vincolante dal punto di vista del controllo della trasparenza e della legalità. Prevede infatti un’anagrafe delle aziende tenuta dalla Struttura di Missione antimafia creata apposta per gestire la fase successiva agli eventi sismici del 2017. Ma così non è per la fase di emergenza, come per la costruzione delle SAE, fasi «in cui non vengono messi in atto alcuni procedimenti preventivi essenziali». Viene consigliato a tutti i soggetti attuatori, quelli che affidano i lavori, l’adozione del DURC (Documento Unico di Regolarità Contributiva per congruità). Illusorio pensare di fare presto saltando alcuni passaggi, «utilizzando l’alibi dell’emergenza». In virtù della «esperienza italiana sulla realizzazione delle opere pubbliche», il vero rischio è che, così facendo, si assista al «blocco dei cantieri a seguito dell’intervento della magistratura».

La filosofia seguita e suggerita nel report di Osservatorio Sisma è “si può fare presto e bene”. Affinché il vedere «i tetti delle casette di Accumoli divelti dalle raffiche di vento» non diventi una consuetudine.

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Prostituzione minorile: vuoto educativo e sesso a pagamento. Un’emergenza trasversale

04 sabato Nov 2017

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immigrazione, ProfessioneLolita, prostituzione

Ultimo, in ordine di tempo, lo scandalo scoppiato pochi giorni fa nella cittadina campana di Avellino. Tre arresti per l’ordinanza di misura cautelare del Gip presso il Tribunale di Napoli, dietro richiesta della Procura Distrettuale di Napoli, con l’accusa di induzione e sfruttamento della prostituzione minorile, atti sessuali a pagamento e violazione della legge Merlin sulla prostituzione. Giovani ragazze, molte delle quali minorenni, dopo aver marinato la scuola si intrattenevano nel noto circolo ricreativo privato e sarebbero state indotte a consumare rapporti sessuali in cambio di denaro o altri benefit.

Vicenda che richiama alla mente le altre, innumerevoli purtroppo, scoperte in varie città italiane. Tra le più clamorose quella nota come “dei Parioli” a Roma che ha coinvolti nomi molto noti.

Don Aniello Manganiello, il prete anti-camorra fondatore dell’associazione Ultimi, durante un incontro sulla legalità tenutosi in una cittadina alle porte del capoluogo ha parlato di una vera e propria «emergenza educativa». Del vuoto rimasto dopo il crollo dell’alleanza che legava «le varie agenzie educative: la famiglia, la scuola, la parrocchia con l’oratorio».

Ora lasciando pure da parte la religione, rimangono le perplessità sulle famiglie: «non è immaginabile che un genitore non si preoccupi di quello che fa il figlio fuori dagli orari di scuola. O se a scuola ci va o meno».

Ma hanno veramente bisogno di quei soldi, guadagnati in quel modo? E per cosa? Sono vittime inconsapevoli di adescamento oppure razionalmente credono di portare avanti dei futuri progetti di facile guadagno? Cosa pensano davvero accettando di prostituirsi nell’illusione magari di intraprendere così la giusta strada per il loro riscatto sociale?

Per la ricarica del telefonino, per poche decine di euro o per molto di più, per emulazione… Le motivazioni che spaventano maggiormente sono quelle che tirano direttamente in ballo le famiglie, come reali mandanti delle “scelte” di questi giovani o perché pur di riuscire ad allontanarsene si mostrano disposti a tutto. Viene da chiedersi quanto in realtà sia profondo questo degrado morale e sociale prima che economico.

Secondo i dati forniti da Gruppo Abele, l’associazione fondata a Torino da don Luigi Ciotti, delle 120mila prostitute censite in Italia, 20mila non hanno compiuto diciotto anni, le più piccole hanno «l’età da terza media». 20mila “baby squillo” cercate da uomini adulti, presumibilmente in numero molto maggiore. Single forse ma anche mariti, padri, nonni…

A Ventimiglia sembra risultassero oltre 2mila contatti di clienti nei telefonini di due studentesse al primo anno delle superiori. A Cuneo una ragazza ha dichiarato agli inquirenti che fingeva di «avere 20 anni e mi hanno creduta. Meglio loro del coetaneo che poi mette le tue foto su internet» perché, a suo dire, loro, ovvero i clienti, sono «tutte bravissime persone che mi hanno sempre rispettata» e dato la possibilità di comprare «cose che altrimenti mi sarei sognata».

Stando a quanto dichiarato da Federico Bianchi di Castelbianco, psicoterapeuta dell’età evolutiva, all’agenzia di stampa nazionale Dire, «la prostituzione minorile è aumentata più del 500% negli ultimi 3 anni e coinvolge in egual misura maschi e femmine». Ragazzi che credono di compiere scelte con consapevolezza, determinate «dalla scissione che i giovani hanno impostato tra l’affettività e la sessualità», si sentono adulti e «scientemente, rispetto alla loro età, considerano l’atto sessuale come passeggero e poco significativo». E proprio mentre cercano di urlare al mondo intero il loro essere “adulti” dimostrano «l’incapacità di difendere il proprio corpo» e si mostrano «completamente inconsapevoli delle conseguenze psicologiche di ciò che fanno».

Scelte estreme cui potrebbero seguire ulteriori trasgressioni per «cercare nella trasgressione seguente un modo per superare quella precedente» che in tanti dichiarano essere decisioni personali. Di sicuro tutte «un po’ larvate, perché dietro c’è sempre un adulto che con i suoi soldi foraggia suddetti comportamenti devianti».

Il problema dello sfruttamento della prostituzione minorile in Italia, purtroppo, è di dimensioni molto più ampie. Vanno considerati non solo i minori che affermano di essere consenzienti ma anche tutti coloro che non lo sono. Il Rapporto CRC 2015-2016 riportato sul sito del Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, coordinato da Save The Children Italia, riporta i dati dell’indagine Eurostat 2015 secondo cui nell’Unione Europea il 14% del totale delle vittime di tratta per sfruttamento sessuale sono di minore età. Solo nell’anno 2015 si sarebbero perse le tracce di almeno 10mila minori, 5mila minori sarebbero scomparsi in Italia e molti di loro sarebbero coinvolti nello sfruttamento sessuale.

Nel rapporto si sottolinea inoltre «l’assenza di campagne sistematiche di prevenzione, sensibilizzazione e informazione, di programmi formativi e campagne destinate agli adolescenti volte a promuovere una sessualità libera e autodeterminata» mentre, per contro, rimane «ancora diffusa l’erotizzazione precoce del corpo delle bambine nella comunicazione pubblicitaria». E così accade che la prostituzione dei minori italiani e stranieri si inserisce nel medesimo processo sociale di «normalizzazione della mercificazione dei corpi e della sessualità» che ha «radicalizzato stereotipi e pregiudizi discriminatori ai danni dei minori». Se da un lato «le bambine e le adolescenti italiane sono rappresentate come adolescenti avide, spregiudicate, senza valori, disposte a tutto per consumare di più», d’altro canto «rimangono occultate le dinamiche di potere e sopraffazione che sottendono al reclutamento delle minori, all’organizzazione dello sfruttamento sessuale e alla fruizione a pagamento del corpo delle stesse».

Disclosure: Copyright per la prima immagine ©ComboniFemMagazine / per la seconda immagine ©SalvatoreBarbagallo (dipinto a tema “La prostituzione minorile”).

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“Sono solo un cronista”. Solidarietà a Nello Trocchia e a tutti quelli che come lui ‘combattono’ sul campo

28 venerdì Lug 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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A Vieste, rinomata località turistica del Gargano, provincia di Foggia, «Omar Trotta, 31enne pregiudicato» viene «ucciso all’interno del suo locale» e una troupe del programma di Rai2 Nemo – Nessuno escluso viene inviata sul posto per realizzare «un reportage sulla mafia foggiana». Il film maker Riccardo Cremona e il cronista Nello Trocchia che subisce una «violenta aggressione». Trauma facciale e diffuse escoriazioni diagnosticano i medici del Pronto Soccorso.

Nello Trocchia è anche collaboratore de il Fatto Quotidiano, tra i primi a riportare la notizia e biasimare l’accaduto insieme alla Federazione Nazionale della Stampa italiana che ha espresso «solidarietà e vicinanza» tramite un comunicato a firma congiunta del segretario generale Raffaele Lorusso e del presidente Giuseppe Giulietti.

Non è la prima volta che Trocchia viene aggredito e, nonostante si speri sia sempre l’ultima, purtroppo episodi simili e parimenti gravi troppo spesso si verificano nell’assordante silenzio degli stessi media che poco risalto danno a notizie di questa gravità.

Il silenzio è mafia, l’omertà è mafia. Accettare in sordina episodi simili equivale ad armare il braccio feroce dell’intimidazione mafiosa e della altrettanto pericolosa omertà di chi mafioso non si ritiene. Si lascia vincere la mafia anche quando si afferma che la mafia non esiste.

Tante sono le parole che andrebbero urlate a squarciagola, riportate a caratteri cubitali, trasmesse in video e filmati… innumerevoli sono i pensieri che sovvengono ripensando a questi accadimenti e le autorevoli frasi scritte dallo stesso Trocchia li racchiudono tutti, egregiamente. Per questo si è scelto di riportarli per intero. Perché se non si riesce a dire e fare di meglio almeno ci si adoperi per fare da cassa di risonanza, da tamtam… per illuminare l’oscuro e rompere il silenzio.

«Vi ringrazio assai per la vicinanza e l’affetto. È passato lo spavento e sto meglio, passa tutto. Sul posto c’era una sola telecamera, la nostra, e, invece, dovremmo illuminare a giorno quello che succede nel foggiano. Un omicidio ogni dieci giorni dallo scorso aprile, è spaventoso, come la ferocia e l’aggressività di chi vive in questa quotidiana violenza. Stavo facendo il mio dovere come lo fanno decine di colleghi in terra di mafia. Io non faccio niente di speciale, io sono solo un cronista, e, credetemi, l’elenco è lungo di quelli che vengono aggrediti, intimiditi. Persone che stimo e apprezzo e, come già successo in passato, se ho un attimo per fermarmi e condividere una riflessione è giusto allargarla a loro. A chi è pagato da fame, a chi è solo quando viene intimidito, a chi racconta in questi territori. Un collega, l’altro giorno, mi disse che con 700 euro al mese e quattro querele fisse all’anno era in procinto di abbandonare la professione. Meno siamo a raccontare e più siamo soli. Un quadro desolante che fa comodo a molti. Ogni potere, da quello criminale a quello politico a quello imprenditoriale, lavora per ridurre gli spazi di libertà. Le aggressioni, le intimidazioni e le querele temerarie fanno un male diverso. Le ho conosciute tutte e hanno lo stesso scopo: spegnere il racconto.
Ieri guardavo l’immensità di questo mare, pensavo al mio sud che amo profondamente. Mi atterrisce l’idea di lasciarlo a chi spara in pieno centro alle 3 del pomeriggio, di lasciarlo ai criminali. Ed è solo per questo che ancora resta voglia di continuare a raccontare perché sono nato in un posto sventrato da politica criminale e malavita e appare ancora inaccettabile, ai miei occhi, abituarsi all’idea che alla fine vincano loro».


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Gladiatori 3.0: Tratta dei baby calciatori dall’Africa, la Procura di Prato indaga

23 domenica Lug 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Si allarga a macchia d’olio la voragine della vergogna intorno all’inchiesta portata avanti dalla Procura di Prato sulla presunta tratta dei baby calciatori provenienti dal continente africano, in particolare da paesi come la Costa d’Avorio e il Senegal. Numerose le perquisizioni effettuate che hanno interessato diverse società sportive, alcune misure restrittive e tanti punti oscuri su cui si cerca ancora di far luce nell’ambito dell’inchiesta in cui si ipotizzano reati di immigrazione clandestina, falso documentale, favoreggiamento reale e frode sportiva.

Azioni che nulla hanno a che vedere con lo sport, quello vero, e la sportività ma che lontane anni luce sono anche da concetti per niente astratti come umanità e integrazione. Molti diranno che in fondo a questi ragazzini è stata data una grande opportunità che altrimenti non avrebbero mai avuto e sarebbero rimasti legati, condannati, al triste destino di vivere nei loro martoriati paesi di origine. L’opportunità, se ve n’è, data a queste giovani vite sembra la stessa che gli antichi romani sostenevano di dare ai gladiatori i quali, combattendo, rimandavano la loro pena di morte e, in alcuni casi, avevano anche la possibilità di riscattarsi. A decidere il loro destino, in ogni caso, erano i romani.

Far leva sulla disperazione per ottenerne un tornaconto economico o d’immagine. Cosa c’è di buono in tutto ciò davvero si fa fatica a comprenderlo eppure il calvario affrontato da questi baby gladiatori del terzo millennio rappresenta il sogno di tanti giovani. Gli ingranaggi del “gioco” del calcio sono il successo, il denaro e il potere… poco importa se per oliare questi subdoli meccanismi si adoperano vite umane, si sacrificano dei ragazzini e il loro futuro, i quali magari neanche si rendono conto di quanto accade e perché. La responsabilità non è solo di chi compie illeciti ma anche di chi si dichiara tifoso o peggio “sportivo”, si indigna per i soldi spesi per l’accoglienza di migranti e profughi ma trova giusto ricoprire d’oro un giocatore, anche di colore, che riesce a tirare in porta un pallone. Se il bello del gioco del calcio è lo sport tutto questo interesse economico cosa c’entra?

Gli spettacoli al Colosseo erano allestiti per intrattenere patrizi e plebei, per “distrarli” dalle decisioni del Senato, per convincerli di essere in fondo dei privilegiati rispetto a chi, meno fortunato di loro, era costretto a combattere per tentare almeno di vedere salva la propria vita. Chi cerca di convincerci che i migranti sono un grande problema perché rubano risorse e lavoro mentre i giocatori di colore rappresentano una grande opportunità da accaparrarsi a ogni costo più o meno sembra voler fare lo stesso gioco degli antichi romani. Lo sport quando diventa business non è più un gioco ma una trappola, deviata e pericolosa.


Source: Fonte inserto notizia www.adnkronos.com

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#26giugno : Giornata internazionale contro l’abuso e il traffico di droga, fitta l’agenda delle Nazioni Unite per l’obiettivo 3

26 lunedì Giu 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Il 26 giugno è la Giornata internazionale contro l’abuso e il traffico di droga e le Nazioni Unite proseguono le campagne e le attività inserite nel programma dell’Agenda 2030, nella fattispecie l’obiettivo 3 che stabilisce, tra l’altro, il bisogno di «rafforzare la prevenzione e il trattamento di abuso di sostanze, tra cui l’abuso di stupefacenti e il consumo nocivo di alcol».

Il programma lanciato quest’anno dall’Ufficio dell’ONU contro la Droga e il Crimine (UNODC) è Listen First – ascoltare bambini e giovani è il primo passo per aiutarli a crescere sani. Un’iniziativa volta a sostenere la prevenzione dell’abuso di droghe e alcol e promuovere investimenti per il benessere dei bambini e dei ragazzi, ma anche delle loro famiglie e dell’intera comunità.

Attività che si sommano alle numerose altre organizzate lungo tutto il territorio nazionale dalla Federazione Italiana Comunità Terapeutiche (FICT).

Con la Risoluzione 42/112 del 7 dicembre 1987, l’Assemblea Generale dell’ONU scelse il 26 giugno per celebrare la Giornata internazionale contro l’abuso e il traffico di droga, affermando la sua «determinazione nel rafforzare l’azione e la cooperazione a livello nazionale e internazionale per combattere questi fenomeni». Sulla scia di questa determinazione nasce, nel 1997, l’UNODC (Ufficio dell’ONU contro la Droga e il Crimine – United Nations Office on Drugs and Crime), creato dalla fusione del Programma di Controllo sulla Droga delle Nazioni Unite e dal Centro per la Prevenzione del Crimine Internazionale.

Durante le 26esima Sessione della Commissione delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Crimine e la Giustizia Penale, tenutasi a Vienna il 23 maggio 2017, «è stato sottolineato come, nonostante gli sforzi compiuti nella lotta al traffico di droga, al crimine organizzato transnazionale e al terrorismo, questo tipo di crimini continui a espandersi a livello transnazionale». In quest’ottica va guardato il progetto di rafforzamento dei controlli, della comunicazione e della sicurezza negli aeroporti dell’Africa Occidentale e dell’America Latina (AIRCOP), un’iniziativa congiunta dell’Organizzazione Mondiale delle Dogane (OMD) e l’Organizzazione Internazionale della Polizia Criminale (INTERPOL).

Il 22 giugno scorso, durante un evento tenutosi presso il Centro internazionale di Vienna, in collaborazione col Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite e (ECOSOC) e le organizzazioni non governative, l’UNDOC ha presentato il Rapporto mondiale sulla droga 2017.

Ogni anno muoiono almeno 190.000 persone a causa della tossicodipendenza. E il danno causato da queste problematiche non si ferma alle persone e alle comunità coinvolte: «l’abuso di droghe conduce a malattie debilitanti quali l’HIV, l’epatite e la tubercolosi, mentre il traffico illecito foraggia il riciclaggio di denaro e il terrorismo», inoltre «la corruzione, principale facilitatore della criminalità organizzata, si ripercuote su tutta la catena di approvvigionamento della droga», scrive Yury Fedotov, Direttore Esecutivo dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine.

Dalla ricerca si evince che terroristi e gruppi armati traggono vantaggio dal commercio di stupefacenti, «secondo alcune stime, più dell’85% delle coltivazioni di oppio dell’Afghanistan si trovano nei territori sotto il controllo dei Talebani». Il commercio di queste droghe continua a prosperare mentre «nuove minacce emergono, quali la diffusione di metanfetamina e di nuove sostanze psicoattive». Inoltre anche il modello imprenditoriale di queste attività si sta evolvendo, «grazie al crescente ruolo della criminalità informatica e del darknet».

Fedotov sottolinea che criminalità e droghe sono sempre stati considerati soggetti marginali dello sviluppo, mentre ora vengono sempre più guardati come un vero e proprio ostacolo al raggiungimento dell’Agenda per lo sviluppo sostenibile 2030 e in particolare dell’obiettivo 3 sulla salute e dell’obiettivo 16 sulla pace e la giustizia. «La nostra risposta è di lavorare a stretto contatto con i nostri partners per prevenire il traffico e il consumo di droga, e il crimine». Tenendo sempre a mente che «essi si avvantaggiano della stessa instabilità che generano». Una instabilità volta a ostacolare «lo sviluppo, la pace e i diritti umani».

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