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Irma Loredana Galgano

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Anche i disabili fanno sesso. Intervista a Marina Cuollo per “A Disabilandia si tromba” (Sperling&Kupfer, 2017)

14 venerdì Lug 2017

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Anche i disabili fanno sesso. Intervista a Marina Cuollo

La paura verso ciò che non conosciamo condiziona le scelte e le azioni di ognuno al punto che si tende sempre a catalogare, ovvero “etichettare”, tutto e tutti ciò che ci circondano. Ma come si fa a sconfiggere la paura e il pregiudizio? Marina Cuollo lo ha fatto scrivendo un libro, A Disabilandia si tromba, edito quest’anno da Sperling&Kupfer. Un testo divertente che proprio grazie alla tagliente arma dell’ironia aiuta ad abbattere qualche pregiudizio e a conoscere, per non averne più timore, molti tabù.

Tabù, pregiudizi, preconcetti, ipocrisie e paure possono diventare molto “appiccicosi” ma la Cuollo sembra aver trovato la ricetta per “scollare il collante”. Ne abbiamo parlato nell’intervista che gentilmente ci ha concesso.

Poche cose sono così dure da scalfire quanto tabù e pregiudizi. Lei ha deciso di scrivere un libro proprio per abbatterne qualcuno. Perché lo ha fatto?

Posso girare la sua domanda senza nemmeno passare dal Via (quello del Monopoli. Ha presente?): perché non l’ho fatto prima, visto che ci pensavo da tutta la vita? Eh. Perché? Perché l’idea c’è sempre stata, o quasi, ma mancava il momento, il tempo e magari pure il metodo. Disabilandia è nato da un barattolo, uno di quelli da cucina, per intenderci, cioè da un pensiero facile-facile: quando non conosciamo il contenuto di un “boccaccio” (termine partenopeo che sta per contenitore di vetro con tappo) ci mettiamo un’etichetta. Su questo ci scrivo “sale”, su quest’altro “zucchero”. Et voilà.

Ho iniziato a scrivere a settembre. Sei mesi più tardi ho consegnato l’ultimo capitolo. Altri due e avevo il contratto di Sperling. Dall’idea del “boccaccio” alla firma con la casa editrice è passato relativamente poco ma mi sono serviti tre decenni per metterla a fuoco. L’ho scritto adesso (cioè l’anno scorso a dire il vero), perché non potevo non farlo. Avevo non solo voglia, ma bisogno di scriverlo.

Per raggiungere i suoi lettori ha scelto una delle lame più taglienti: l’ironia. Ridendo e sorridendo i suoi pensieri, affidati alle parole del libro, lambiscono e feriscono più di una spada. Viene da chiedersi come è possibile che nel Terzo Millennio siamo ancora così “diversamente civilizzati”. Le giro la domanda.

Se capita è possibile, direbbe il generale La Palice. L’uomo mica cambia: da duecentomila anni a oggi, sono diversi gli strumenti, le cosiddette facilities, ma le paure no. Quando vediamo qualcosa a noi sconosciuto, che non ci assomiglia, che non è come noi, per la paura che possa essere un T-rex ce la battiamo di corsa.

Per citare Disabilandia: «È la paura che ci muove. La paura di non sapere cosa ci sia dentro, o dietro, o vicino a quello che non conosciamo.»

Anche i disabili fanno sesso. Intervista a Marina Cuollo

Paura e pregiudizio vanno spesso a braccetto. A Disabilandia si tromba lo ha scritto per abbattere qualche pregiudizio, ma come ha sconfitto le sue paure?

E chi ha mai detto di averle sconfitte? Diciamo che ci sto lavorando. Il fatto è che le paure sono parte di noi, un meccanismo naturale che ci serve per sopravvivere. Funziona per associazione di idee: ancora una volta, ci fa stare lontani da quello che non conosciamo/riconosciamo e con questo sistema il nostro cervello separa. Bene, male; buono, cattivo; erbivoro o Tyrannosaurus rex; conosciuto quindi sicuro, ignoto dunque potenzialmente rischioso; pizza (uau!) e broccoli (via di corsa!).

Distinguere serve al nostro istinto per riconoscere i pericoli. Il meccanismo mentale è lo stesso per tutti gli esseri viventi.

Il coraggio invece si acquisisce dopo, con l’esperienza. Ecco a cosa serve davvero Disabilandia: a fare esperienza.

I luoghi comuni sono come delle etichette che si mettono per riuscire a catalogare tutto ciò che ci circonda per meglio controllarlo. Lei scrive di essere stata letteralmente sommersa dalle etichette. Come è riuscita a scrollarsele di dosso?

Vedi risposta precedente: non ho scrollato le etichette, o almeno non tutte. Ho solo smesso di dare loro importanza. Come? Iniziando a riderne.

Per usare una metafora, la risata funge da solvente per la colla delle etichette. Se la colla perde aderenza, l’etichetta scivola giù.

Anche i disabili fanno sesso. Intervista a Marina Cuollo

Dalla sua in realtà non molto elevata “altezza” ha osservato il mondo e i suoi abitanti suddividendoli in varie categorie. Quale la migliore e quale la peggiore?

Nessuna. La mia categorizzazione è un paradosso, un’iperbole, una scelta stilistica. Quello che ho fatto con Disabilandia è stato marcare così tanto le etichette in modo che si rendessero più ridicole di quanto già non siano. Ridicole, sì, ma ripeto: istintive, così come è istintiva la paura verso l’ignoto alla base del bisogno di etichettare/distinguere.

Le mie “sotto-categorie” sono poi un modo per esorcizzare i luoghi comuni, mostrandoli ai lettori: un po’ come se avessi la pretesa di far vivere a chi mi legge esperienze diverse che di suo difficilmente vivrebbe.

La conoscenza è il rimedio segreto verso ogni paura insensata: quando capisci che è un broccolo e non un Tyrannosaurus rex, puoi smettere di tremare.

Mi permetta questa curiosità. Nonostante l’ironia e la simpatia che traspare dalle sue parole il pensiero che quanto da lei affrontato abbia lasciato profondi segni non si riesce proprio a domarlo e viene fuori lo stesso. Il libro è valso anche da valvola di sfogo?

Più che altro come uno show di quelli comici: scriverlo mi ha ammazzato dal ridere.

A tal proposito, proprio qualche settimana fa mi è capitata una di quelle situazioni a cui ho ripensato durante la stesura del libro. Una di quelle da far impallidire una statua di marmo.

La mia reazione istintiva è stata quella di ridere ripensando alle parole di Disabilandia.


Per la prima foto, copyright: Shinsuke Inque.

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© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Gli uomini muoiono ma gli ideali sopravvivono. Intervista a Leonardo Patrignani

08 sabato Lug 2017

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DeA, DeAgostini, distopico, fantascientifico, fantasy, intervista, LeonardoPatrignani, romanzo, TimeDeal

Gli uomini muoiono ma gli ideali sopravvivono. Intervista a Leonardo Patrignani

Un racconto “futuristico possibile” che porta il lettore su una città-isola governata dalla tecnologia estrema e dalle sperimentazioni “selvagge” volte a rincorrere il desiderio degli uomini dalla notte dei tempi: l’eterna giovinezza. Ma a quale scopo e a quale prezzo tutto ciò? Interrogativi che si è posto lo stesso autore prima dei suoi lettori e che accompagnano la lettura di Time Deal, il nuovo distopico di Leonardo Patrignani edito da De Agostini.

Curiosità inerenti la storia raccontata e riflessioni sull’attualità scientifica hanno fatto da filo conduttore dell’intervista con l’autore.

Il protagonista di Time Deal fa un patto con se stesso e contro il tempo e giura che sarà per sempre. Nella città di Aurora come nel mondo reale però il tempo è sempre tiranno. Si intravedono delle sfumature particolari che ha voluto dare al concetto di eternità. Esattamente cosa voleva trasmettere ai suoi lettori?

Uno dei miei intenti era quello di rappresentare l’estrema fragilità del concetto di “tempo”. La sua mutevolezza, il suo dipendere costantemente dall’interpretazione soggettiva, emozionale, di ciascuno di noi. Posso promettere ai miei figli di amarli per sempre, ma è un arco di tempo quantificabile? Il mio “sempre” è limitato dalle circostanze materiali legate al corpo, alla sua salute, al suo perdurare nel tempo fino all’inevitabile declino. Tutto questo in Aurora viene messo in discussione, ribaltato, e ci permette dunque di confrontarci con dilemmi di natura etica. Di riflettere sulle scelte che compiamo ogni giorno.

Tecnologia e sperimentazione a ogni costo oppure agire secondo coscienza e morale. Un dualismo che caratterizza i tempi moderni e che sembra il nocciolo della vicenda narrata in Time Deal. Chi paga le conseguenze delle scelte sbagliate nel libro e nella vita reale?

Le paghiamo tutti. Del resto siamo esseri umani, assetati di potere e controllo, incapaci di fare buon uso dei miracoli che la nostra stessa mente compie. Sappiamo giocare a favore e contro di noi, salvarci e condannarci. Credo che sia la nostra natura, la nostra predisposizione. Anche il peggiore degli antagonisti agisce secondo coscienza. La sua coscienza. Tanti anni fa mi colpì molto il personaggio interpretato da Gene Hackman in Extreme Measures, soprattutto per la caratterizzazione psicologica: un perfetto “villain” con le sue salde convinzioni, certo di fare in realtà del bene con la sua pratica medica, anche se questo significa andare oltre ogni confine etico e umano. Lo sguardo dell’attore nel confronto finale con l’eroe della situazione (Hugh Grant) era quello di chi è sicuro di agire secondo una morale inoppugnabile. Credo che la mia dinastia Werner, a capo del colosso TD Pharma, sia molto vicina a questo modello.

Gli uomini muoiono ma gli ideali sopravvivono. Intervista a Leonardo Patrignani

Il personaggio “ombra” che incombe sui protagonisti del libro è una casa farmaceutica che con le sue sperimentazioni condiziona le scelte e la stessa vita degli abitanti di Aurora. È ancora aperta l’ennesima discussione pubblica sulla necessità o meno dei vaccini e relative sperimentazioni. Perché la scienza fa così paura secondo lei?

Perché tutto ciò che non conosciamo e su cui non abbiamo controllo, semplicemente, spaventa. E ci spinge quindi a dare retta a qualsiasi vento contrario, specialmente se espresso in toni enfatici. La rete è diventata il terreno perfetto per il germogliare di teorie del tutto impresentabili in un consesso scientifico composto da professionisti, perché in rete il pubblico è l’uomo della strada, e l’uomo della strada non è in possesso delle conoscenze e competenze specifiche. Ma ha paura. Lo si spaventa con poco. Io stesso, da genitore, ho dovuto studiare come un dannato per arrivare a prendere una posizione in merito a certe questioni. Ma l’ho fatto con lo stesso approccio con cui mi documento prima della stesura di un romanzo. E dunque leggendo saggi, intervistando professionisti del settore (medico, in questo caso), passando al setaccio statistiche… solo così posso essere certo di aver preso una decisione secondo coscienza, e non perché ho dato credito a una notizia presa da una fonte discutibile. Cosa che però, mi rendo conto, è molto più facile, immediata, e dunque perfetta per arrivare alle masse.

Julian, protagonista del libro, dimostra coraggio e determinazione e a suo modo riesce a compiere la propria missione. Per salvare il mondo, o quantomeno per evitare di distruggerlo, bisogna attendere il coraggio di pochi o tanti cavalieri-Julian oppure è necessario un risveglio generale delle masse dal torpore e dall’apatia?

A volte basta un uomo, e la storia cambia. E per “uomo” intendo un essere umano, naturalmente, a prescindere dal sesso. Basta, quindi, una persona capace di innescare un meccanismo. Chiaro che poi, come in ogni rivoluzione delle menti, questo debba per forza comportare l’adesione di dieci, cento, mille persone convinte allo stesso modo. Il loro sacrificio donerà al genere umano un domani migliore. Ed è per tale motivo che una delle mie citazioni tematiche preferite di questo romanzo è: “gli uomini muoiono, gli ideali sopravvivono”.

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Gli uomini muoiono ma gli ideali sopravvivono. Intervista a Leonardo Patrignani

Lo scorso febbraio i ricercatori dell’Ifom (Fondazione Istituto FIRC di Oncologia Molecolare) di Milano pubblicano su «Nature Communications» i risultati della loro ricerca sulle molecole che bloccano l’invecchiamento cellulare. Il farmaco, time deal, utilizzato nel suo libro aveva lo stesso scopo. Ricerca e fantasia sembrano rincorrersi lungo un’autostrada che porterà il mondo verso…?

… verso l’estinzione! Scherzi a parte, tengo sotto controllo tutte queste nuove scoperte e pubblicazioni, e per quanto riguarda il tema della senescenza ho incrociato anche gli studi in questione. Dal mio punto di vista ho preferito “creare” un farmaco non biologico, ma ingegnerizzato. Per questo ho approfondito su alcuni saggi gli studi sulle nanotecnologie, che oltretutto in Aurora sono importanti anche in altri tipi di applicazioni, e sono un po’ il “marchio tecnologico” dell’isola. Tant’è vero che si riveleranno utilissime nel terzo atto del romanzo, andando “contro” alle stesse persone che se n’erano servite per i loro scopi. Ad ogni modo, forse è stato Verne a insegnarmi che una buona storia, anche fantastica, può avere un’attinenza estrema alla realtà. E anticipare il futuro. Per lo stesso motivo io rifuggo dalle etichette, e non riesco a parlare di “fantascienza” vera e propria per il Time Deal, ma di “futuristico possibile”, di “realismo distopico”, e allo stesso tempo mi rendo conto che – nel farlo – mi sto ingarbugliando in un’ennesima targhetta.

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La città-isola Aurora lentamente sembra risorgere illuminata e riscaldata da timidi raggi di sole… i suoi fan possono aspettarsi una seconda puntata di Time Deal?

Il mondo che ho raccontato è un territorio con diversi punti inesplorati, una mitologia in evoluzione, una situazione socio-politica il cui domani è ignoto. E poi abbiamo i nostri ragazzi, le storie, le relazioni e il futuro a cui vanno incontro. So che ai lettori piacerebbe saperne di più, me ne sto rendendo conto grazie alla valanga di opinioni sotto le quali mi trovo ancora sommerso, visto che siamo nel periodo di lancio. Sarà il mercato a decidere se torneremo ad Aurora, prima o poi. La mia penna, nel caso, è pronta.

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Il “lungo travaglio” dell’adozione nel racconto di un padre. Intervista a Arnaldo Funaro per “Un bimbo mi aspetta” (LOG Edizioni, 2017)

09 venerdì Giu 2017

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adozione, ArnaldoFunaro, intervista, LOGedizioni, romanzo, Unbimbomiaspetta

Il “lungo travaglio” dell'adozione nel racconto di un padre. Intervista ad Arnaldo Funaro

Arnaldo Funaro e sua moglie Tiziana decidono, senza mai pentirsene, di salire «sull’ottovolante degli ospedali, dei tribunali, degli assistenti sociali» per lasciarsi alle spalle lo status di coppia e abbracciare quello di famiglia.

Un percorso lungo e difficile che paragonano a un parto, solo che a soffrire fisicamente, oltre che emotivamente, sono entrambi i genitori. E scelgono poi di raccontare ogni passo del cammino intrapreso in un diario pubblicato online sui social network. Da questo racconto nasce in seguito il libro pubblicato da LOG edizioni.

Perché scrivere e rendere pubblico ogni passaggio della vicenda? Perché trasformare il diario social in libro? Tanti gli interrogativi inerenti la vicenda. Alcuni abbiamo cercato di farli sciogliere proprio ad Arnaldo Funaro ponendoglieli direttamente nell’intervista centrata sul libro, Un bimbo mi aspetta, ma anche su vari aspetti dell’adozione nazionale e internazionale di minori.

La perdita di un figlio naturale e l’attesa per l’arrivo di un figlio adottivo. Perché ha scelto di mettere nero su bianco tutte le emozioni e le riflessioni che ruotano intorno a questi importanti accadimenti e perché ha poi deciso di renderli social pubblicandoli online?

Ci sono varie ragioni. La prima, senza dubbio, è la mia passione per la scrittura, che è anche il mio lavoro in comunicazione. Questa passione/lavoro mi ha sempre dimostrato come mettere nero su bianco i propri pensieri serva a rielaborarli, rivelandone così aspetti diversi, che altrimenti resterebbero nascosti.

La seconda ragione, la volontà di creare per mia figlia un diario capace di farle comprendere con forza e dolcezza come siamo diventati una famiglia.

La terza: ogni volta che ho incontrato altre coppie, lungo il nostro percorso, mi sono reso conto di come fossimo tutti prigionieri degli aspetti burocratici, delle lungaggini, della nostra condizione di persone poco comprese (i miei genitori, per esempio, hanno capito cosa abbiamo affrontato solo dopo aver letto il libro) e ho creduto, a ragione finora, che fosse importante avere uno strumento per liberare i nostri sentimenti, ma con un fine positivo. Così è iniziata la pubblicazione sui social, lo strumento più giusto, in quel momento, per arrivare a tutti e permettere la condivisione di queste tappe.

Il libro Un bimbo mi aspetta è una rielaborazione del suo diario pubblicato sui social network ma cosa ha rappresentato, per lei, riordinare il testo e soprattutto quale scopo si è prefisso di raggiungere nel vederlo pubblicato?

I social sono un enorme tritacarne senza memoria. La pagina Un bimbo mi aspetta, per esempio, sta andando avanti, ma ogni volta che aggiungo un post, allontano nel tempo i capitoli della nostra esperienza. Rimettere tutto su carta, invece, permette di fissare in un contenitore unico, materico, l’esperienza vissuta e renderla fruibile in modo diverso, più personale se vogliamo. Trasformare una pagina in un libro mi ha permesso, con LOG, di creare uno strumento anche per chi non sa come star vicino a persone che si amano e che cercano di avere figli. Amici, genitori e parenti potranno leggere con semplicità quanti sentimenti si mettano in moto nel percorso adottivo, e avranno un oggetto col quale comunicare la propria vicinanza a chi ne sta compiendo uno, regalando questo libro.

Nel testo traspaiono le emozioni del relazionarsi con gli altri, soprattutto con coloro che si ritrovano a vivere esperienze simili o comuni e specularmente con chi invece ha vissuto esperienze differenti. Il libro vuol essere un aiuto per coloro che si trovano o si possono trovare nella sua situazione oppure un oblò per chi non avendo fatto certe esperienze si attarda nel comprenderle?

Hai colto perfettamente il punto, ossia la doppia natura di questo volume. Il libro parla a tutti e con obiettivi diversi. Le coppie che stanno cercando la propria strada verso la creazione di una famiglia (non importa se adottando o attraverso la medicina), e le persone che spesso, involontariamente, sottovalutano la sofferenza e la frustrazione di chi vorrebbe avere figli e non riesce. Forse più che un oblò, una porta da socchiudere e poi attraversare.

Il “lungo travaglio” dell'adozione nel racconto di un padre. Intervista ad Arnaldo Funaro

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Perché in Italia è difficile adottare un bambino? E perché vengono tanto caldeggiate le cosiddette “adozioni a distanza”?

Il percorso adottivo è complesso. In Italia diventa anche complicato. Complesso, perché al centro del processo adottivo c’è il minore, non l’aspirante genitore. E questo è corretto, perché si deve essere il più possibile sicuri di non portare il piccolo a soffrire una seconda volta, suo malgrado. Complicato, perché il nostro Paese, come in tanti altri campi, è lento, non informatizzato (immagina cosa significhi trovare le schede giuste in tribunale, anche se negli ultimi anni si sta facendo uno sforzo non indifferente in questo senso), sotto staffato (a Roma l’unificazione di alcuni Municipi ha significato la metà del personale per il doppio delle pratiche): in una parola, addormentato. Ne viene fuori un quadro disarmante dove gli aspiranti genitori spesso preferiscono rivolgersi alla medicina pagando migliaia di euro per un percorso nella fecondazione assistita che spinge all’estero sia per una normativa italiana troppo restrittiva, sia per tanta opacità nella normativa stessa.

L’adozione a distanza è un processo che nasce più da una volontà filantropica che genitoriale. Personalmente, per quasi dieci anni ho sostenuto una bambina in Mozambico per strapparla a un destino di povertà e prostituzione, ma non ha niente a che vedere con la possibilità o la sensazione di essere genitori.

Il “lungo travaglio” dell'adozione nel racconto di un padre. Intervista ad Arnaldo Funaro

Stando ai dati diffusi dal Dipartimento di Giustizia Minorile, nel 2015 sono pervenute poco oltre 9 mila domande di adozione delle quali solo 3668 per minori stranieri. Perché, a parer suo, esiste questa discrasia?

Partiamo dal presupposto che un’adozione nazionale non significa arrivare ad avere un bimbo o una bimba italiani, ma semplicemente entrati nella condizione di adottabilità nel nostro territorio. L’adozione nazionale, oltre quelli emotivi, non ha costi. Quella internazionale, invece, associa a una quasi certezza di arrivare fino in fondo costi molto elevati, dai soldi destinati all’ente che si occupa di fare l’abbinamento, tradurre i documenti, seguire le relazioni con il governo straniero, a quelli che vanno invece al Paese scelto per adottare. Mettici i voli, gli alberghi e via dicendo, non si sta mai sotto i ventimila euro. Non tutti sono in grado di mettere insieme cifre di questo genere. Quella economica è una discriminante enorme. Quando mia moglie ed io abbiamo deciso di adottare in Cina, ho lavorato come freelance tutti i weekend per mettere insieme la somma necessaria. Soldi benedetti, ma sudati aspramente.

Lei ha definito l’adozione «un parto, solo con un travaglio più lungo». E allora io le chiedo: cosa ha imparato ad amare e a odiare di questo “lungo travaglio”?

L’adozione è un parto dal travaglio più lungo e, aggiungo, che devi fare in due. Un figlio adottivo lo partorisce anche il papà. Ecco, l’adozione ha il potere di rendere una coppia più forte e consapevole del proprio rapporto. Allo stesso modo, può distruggere un matrimonio, perché serve un’unione di intenti che va oltre la normalità.

Di questo percorso ho odiato l’attesa, la frustrazione di ogni prova superata. Ho capito l’importanza di fare le cose secondo le regole, per evitare di finire in percorsi oscuri, dove non sai se tuo figlio è stato strappato a qualcuno o prodotto per te.

E ho anche amato, certo: ho amato ogni giorno di più mia moglie Tiziana, la vera artefice di questo incredibile viaggio nel tempo e nello spazio che ci ha fatti salire sull’ottovolante degli ospedali, dei tribunali, degli assistenti sociali, e ci ha fatto scendere a Pechino, dove siamo arrivati come una coppia per tornare a casa come una famiglia.

Aggiungo se posso una cosa per concludere.

L’adozione non esiste perché qualcuno non è capace di fare un figlio, ma perché qualcuno non è capace di fare il genitore. Al mondo ci sono milioni di bambini che aspettano solo di conoscere le persone che li ameranno in modo esclusivo; che aspettano la propria mamma.

Perché di mamma ce n’è una sola, ma non sempre la conosci il giorno in cui nasci.

Disclosure: Per la prima foto, copyright Danielle MacInnes

Articolo originale qui:

http://www.sulromanzo.it/blog/il-lungo-travaglio-dell-adozione-nel-racconto-di-un-padre-intervista-ad-arnaldo-funaro

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Rolandina, la transgender condannata al rogo. Intervista a Marco Salvador

24 mercoledì Mag 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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Fernandel, intervista, MarcoSalvador, Medioevo, omosessualità, ProcessoaRolandina, prostituzione, RolandinaRoncaglia, romanzo, saggio, transgender, Venezia

Rolandina, la transgender condannata al rogo. Intervista a Marco Salvador

Può una vicenda realmente accaduta nella Venezia del 1300 aiutarci a capire e superare alcuni preconcetti e pregiudizi riguardo omosessualità ed evoluzioni transgender? La storia di Rolandina Roncaglia, raccontata nel libro Processo a Rolandina. La storia vera di una transgender condannata al rogo nella Venezia del XIV secolo (edito da Fernandel), ha aiutato l’autore Marco Salvador a liberarsi di vecchie “incrostrazioni” perché conoscere le storie equivale a meglio comprendere le persone, qualunque sia il loro orientamento sessuale, e imparare a rispettarle come tali, per quello che semplicemente sono. Esseri umani.

Omosessualità, transgender, intersessualità sono termini che ancora oggi mettono paura, spaventano perché costantemente sovraccaricati di valenze negative che alla fine non hanno, al punto che quando vengono usati spesso sembra si stia parlando di “fenomeni” negativi e degenerativi e non semplicemente di persone, di sentimenti, di scelte d’amore e preferenze sessuali.

Ne abbiamo parlato con Marco Salvador nell’intervista che gentilmente ci ha concesso.

La vicenda narrata nel libro si basa su un fatto realmente accaduto nella Venezia del secolo decimo quarto. Quanto è stato difficile reperire tutto il materiale necessario? E quanto invece è stato interessante spulciare tra i documenti di un’epoca passata da tempo?

I documenti riguardanti Rolandina Roncaglia sono riemersi casualmente mentre cercavo informazioni per un romanzo che sto scrivendo. Della vicenda di Rolandina mi sono innamorato subito, era una storia che bisognava raccontare a tutti i costi.

Reperire i documenti, soprattutto per il Medioevo e il primo Rinascimento, è comunque una faccenda sempre complicata, che necessita di esperienza e anche di un po’ di fortuna. Inoltre bisogna avere un’ottima conoscenza di un latino che non è quello classico, e della brachigrafia, cioè della scrittura abbreviata. Comunque la ricerca d’archivio è sempre una splendida avventura, nella quale si scopre che il passato, anche lontanissimo, non è altro che il presente in abiti e ambienti diversi. I sentimenti, le angosce, le ambizioni e i sogni sono sempre gli stessi.

Il tema principale di Processo a Rolandina comprende l’amore omosessuale, la prostituzione e l’evoluzione transgender di un giovane. Una vicenda che all’epoca venne affrontata con il carico di pregiudizi e ipocrisie tipiche di una società chiusa e bigotta. Stupisce ritrovare tutto ciò anche nella società odierna e assistere alle vere e proprie “inquisizioni” anche mediatiche cui vengono sottoposte queste persone. Perché secondo lei ci siamo trascinati per secoli tali zavorre fatte di pregiudizi e ipocrisie?

La particolarità del caso di Rolandina Roncaglia, lo si vede bene dal testo della sentenza pubblicato in appendice al libro, mette in crisi dei giudici pur usi alla durezza in ogni senso. In copertina si usa il termine “transgender” per favorire una maggior comprensione da parte del lettore medio, ma in realtà sarebbe più esatto definire Rolandina con il termine “intersessuale”. Gli stessi giudici sono costretti ad ammettere che, non fosse per gli organi genitali maschili, Rolandina sarebbe una donna a tutti gli effetti. Tutto ciò per dire che anche allora, come del resto oggi, la diversità, l’esistente non inquadrabile in uno schema fisso e semplificato, metteva paura.

Rolandina, la transgender condannata al rogo. Intervista a Marco Salvador

La storia di Rolandina ci mostra come l’odio e il rancore vengano dirottati verso i deboli e gli indifesi, mentre si cerca con ogni mezzo di difendere e preservare i potenti anche se principali rei della situazione. Spiace dover constatare che purtroppo anche questo principio oggi è ancora valido. Studiando il passato ha avuto modo di formulare qualche ipotesi sui comportamenti umani dell’epoca e di confrontarli con quelli di oggi?

Una delle principali pulsioni di ogni essere vivente è la riproduzione. In senso biologico, di conservazione della specie. Nell’essere umano a questa pulsione si sono associate infrastrutture culturali, religiose, sociali ed economiche che a seconda delle epoche l’hanno incrudelita o mitigata. Restando pur sempre, oggi come ieri, una pulsione che prevede la possibilità di una lotta per trasmettere il proprio DNA. Ovviamente le prime vittime di questa lotta per la supremazia sono i più deboli.

Restando ancora sull’attualità, con le linee ancora fresche e da rifinire della legge sui diritti delle coppie di fatto è ritornata in auge l’accusa di omofobia della politica con il lancio, poi subito revocato, del Fertility Day. Campagna che l’associazione LGBT Italia ha definito «leggerezza affatto trascurabile perché promuove e veicola l’omofobia». Perché secondo lei da un lato si accusano società, come quella musulmana, di applicare pene ingiuste verso gli omosessuali e dall’altro si pongono in essere certe politiche?

Gran bella domanda. Complicata e profonda, al punto che non so se riuscirò a dare una risposta abbastanza articolata. Semplifichiamo, e diciamo che un certo mondo musulmano è rimasto al tempo di Rolandina e, cosa peggiore, giustificandosi e nascondendosi dietro un libro sacro. Con poca disponibilità a un’analisi critica dello stesso. Ciò vale anche per alcuni ebrei fondamentalisti o cristiani, che fanno riferimento più all’antico testamento che ai Vangeli. Inevitabilmente si ritorna all’istinto di riproduzione a ogni costo, usando la religione come arma.

Per quanto riguarda la politica italiana con i suoi interminabili dibattiti sulle coppie gay e i family day, stenderei un velo pietoso che mi evita l’insulto. Le coppie di fatto, non importa di che sesso, devono avere tutte gli stessi diritti e doveri; è persino banale asserirlo. Per l’omofobia temo che il problema sia un po’ più complicato, perché il suo superamento sottintende il superamento di un’ignoranza che si nutre di incrostazioni culturali-religiose molto stratificate e resistenti.

Rolandina, la transgender condannata al rogo. Intervista a Marco Salvador

Ritornando invece al romanzo, colpisce e coinvolge molto la storia di Rolandina, ma anche il contesto in cui si svolge. Da un lato una Venezia provata dalla peste, con i suoi abitanti particolarmente incattiviti dalle avversità affrontate, e dall’altra i capricci e lo sfarzo. Che impressioni le ha lasciato lo studio della trecentesca Serenissima?

Per lungo tempo Venezia era stata tollerante con l’omosessualità. O quanto meno aveva girato lo sguardo da un’altra parte. Era lo Stato più laico d’Europa, non per nulla era sempre in conflitto con il papato.  Ma aveva pur sempre al comando un’aristocrazia chiusa e di tipo ereditario. Così torniamo al tema della riproduzione. La peste del 1348, così come quelle successive e ricorrenti, mette in pericolo l’ordine politico, la conservazione di privilegi e poteri nell’ambito delle famiglie che sedevano in Maggior Consiglio. Da qui la reazione violenta contro lo “spreco di sperma”. Che non colpisce la prostituzione femminile solo perché giustificata dalla convinzione che distogliesse i malintenzionati dalle femmine delle stesse famiglie.

Comunque Venezia non era una realtà peggiore di altre, perché il comportamento diviene regola comune. Firenze, per esempio, pur non bruciando gli omosessuali, li priva comunque dei beni e li rinchiude nel carcere dei pazzi.

Cosa l’ha più colpita del Processo a Rolandina e cosa vorrebbe impressionasse maggiormente i suoi lettori?

Anch’io, ahimè, avevo e ho qualche “incrostazione”. Il processo a Rolandina una l’ha sciolta. Rolandina, con il suo comportamento processuale, non si può che amare e ammirare. E come si ama Rolandina inevitabilmente si ama qualsiasi essere abiti un corpo sbagliato, e lo si rispetta e supporta nella sua ricerca di equilibrio. Spero che Rolandina aiuti molti lettori a liberarsi al pari di me almeno di un pregiudizio.

http://www.sulromanzo.it/blog/rolandina-la-transgender-condannata-al-rogo-intervista-a-marco-salvador

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La Filosofia può aiutare ad affrontare il terrorismo? Intervista a Ermanno Bencivenga

15 lunedì Mag 2017

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La filosofia può aiutare ad affrontare il terrorismo? Intervista a Ermanno Bencivenga

Un approccio filosofico può aiutare ciascuno di noi a capire quale sia l’atteggiamento giusto da tenere riguardo il fenomeno terroristico. Questa la base di partenza e il motivo ispiratore di Prendiamola con filosofia di Ermanno Bencivenga (edito da Giunti), un libro che tenta di dare risposta a tutte le domande che è necessario porsi per guadagnare una posizione responsabile in proposito a eventi di oggi o di ieri, questo poco importa, purché si comprenda quanto abbiano da insegnarci.

Paura, terrorismo e cambiamenti epocali inevitabili esaminati con la lente del ragionamento filosofico in un libro che è un’indagine su quanto le parole mettono in gioco nel tempo del terrore.

Ne abbiamo parlato con Ermanno Bencivenga nell’intervista che gentilmente ci ha concesso.

Che cosa può dire un approccio filosofico sul terrorismo rispetto agli altri approcci? In che cosa consiste l’originalità del discorso della filosofia e perché è utile affidarsi a quest’ultimo?

Un approccio storico può informarci sulle origini del fenomeno. Un approccio politico o economico può chiarire quali siano i fattori in gioco, in termini di potere o di finanza. Un approccio legale può illustrare i diritti e doveri che le leggi nazionali e internazionali riconoscono alle varie parti. Un approccio filosofico può aiutare ciascuno di noi a capire quale sia, per lui o per lei, l’atteggiamento giusto nei confronti del fenomeno, mostrandone tutti gli aspetti e tutte le domande cui bisogna dare risposta per raggiungere una posizione responsabile in proposito.

La filosofia può aiutare ad affrontare il terrorismo? Intervista a Ermanno Bencivenga

Libertà di espressione e rispetto per le fedi religiose. Mai come in questi anni tali principi, o meglio diritti, sono spesso al centro di dibattici pubblici e politici. Si sta veramente conducendo una “guerra” planetaria per tutelarli o rischiano di essere o diventare solo una copertura per interessi di altra natura?

Gli interessi di altra natura ci sono, naturalmente. Ma bisogna evitare ogni forma di riduzionismo, economicista per esempio. Ricordiamo il fallimento, intellettuale prima ancora che politico, del riduzionismo di stampo marxiano. Gli esseri umani sono animali razionali, quindi, oltre che da emozioni e interessi, sono mossi dalla ragione. E capire chi abbia ragione, in questi casi, è molto difficile. La difficoltà va affrontata, non evitata con il ricorso a facili slogan che mortificano e avviliscono la nostra natura di esseri pensanti. Una mortificazione che finiremo per pagare: con la frustrazione, con la depressione, con la rabbia.

Nel testo si legge: «che un evento si sia verificato ieri o duemila anni fa non conta», importa solo «quanto abbia da insegnarci». Che cosa abbiamo imparato o che cosa avremmo potuto e dovuto imparare dagli eventi storici passati?

Nel mio libro faccio riferimento, per esempio, al comportamento di Socrate durante il suo processo e la sua esecuzione, nel 399 a. C. Sono eventi sui quali continuiamo a interrogarci e dai quali continuiamo a imparare. È giusto scendere a compromessi per salvarsi la vita? È giusto fare un’eccezione per sé stessi quando si pensa che ci sia stato fatto un torto? È giusto rispondere al male con il male? Socrate ci fornisce le sue risposte e il suo esempio; sta a noi prenderli in esame e decidere da che parte stiamo.

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Tornando ai fatti recenti invece, quanto incidono le emozioni “a pelle” provate per gli attentati alle Torri Gemelle e a «Charlie Hebdo», per citare qualche esempio, su quelle che dovrebbero essere analisi più ragionate e obiettive della situazione contemporanea globale?

Le emozioni sono parte integrante della nostra umanità e bisogna accettarle ed esprimerle. Indipendentemente da tutte le analisi che ne ho fatto, io il giorno dell’attentato alle Torri Gemelle ho pianto in pubblico, e credo fosse una reazione perfettamente umana a quel che era successo. Poi, però, è anche giusto porsi delle domande e cercare delle risposte, anche per evitare che tragedie del genere si ripetano.

La filosofia può aiutare ad affrontare il terrorismo? Intervista a Ermanno Bencivenga

La sensazione è di assistere a un cambiamento epocale che coinvolge e coinvolgerà gli abitanti dell’intero pianeta e che originerà un “mondo diverso”. I paletti che vari stati tentano di mettere per arginare detto cambiamento basteranno a tenerli separati dal resto del mondo oppure, dopo inutili quanto sanguinosi conflitti, cadranno inesorabilmente?

Non c’è alternativa a un mondo planetario. Rinchiudersi in un proprio spazio protetto è una scelta infantile e perdente. Bisogna accettare la sfida, che è culturale prima che politica o economica: inventare insieme una nuova forma di convivenza, trasformare l’attuale situazione di crisi in un’opportunità di crescita comune.

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In questo tempo del terrore, qual è la vera posta in gioco?

Di poste in gioco ce ne sono tante. Come sarà chiaro da tutto quel che ho detto finora, per me la più importante è riuscire a mantenere la nostra umanità e il nostro senso di giustizia sociale, che in questo momento stanno correndo un gravissimo rischio di essere annientati dalla paura, dall’ansia e dall’odio.

http://www.sulromanzo.it/blog/la-filosofia-puo-aiutare-ad-affrontare-il-terrorismo-intervista-a-ermanno-bencivenga

© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Muoversi tra gli specchi per indagare il mondo e se stessi. “Il logista” di Federica Fantozzi

21 martedì Mar 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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Muoversi tra gli specchi per indagare il mondo e se stessi. “Il logista” di Federica Fantozzi

Da poco pubblicato da Marsilio, Il logista di Federica Fantozzi è un romanzo dal ritmo incalzante, dalla narrazione forte che alterna suspence e descrizione, azioni statiche e scene di immediato impatto emotivo e sensoriale… elementi tutti che concorrono a definire l’ottima struttura di un libro che può servire al lettore a dare grandi input di riflessione sulla società, sulla malvagità, sulla criminalità e il terrorismo, sulle relazioni con il mondo esterno e con se stessi.

Ne abbiamo parlato con l’autrice nell’intervista che gentilmente ci ha consesso.

Il logista sembra contrapporre due mondi, quello arabo e quello occidentale, e due realtà, quella del benessere e quella della disperazione. Perché ha deciso di scrivere questo libro?

In realtà la disperazione è ovunque, tra i ricchi come tra i poveri. Il benessere può mascherarla ma non eliminarla. A me non interessava contrapporre il mondo arabo a quello occidentale bensì indagare i motivi che attirano sempre più persone giovani nella rete del terrorismo. E non sono convinta che la ragione principale sia la povertà: è il vuoto dentro. La solitudine, l’assenza di prospettive, lo sfilacciarsi dei legami familiari e sociali. Un cocktail micidiale che rende la vita priva di significato e, dunque, inutile. Infatti il jihadismo, come il terrorismo degli anni ’70, comincia a fare presa anche sui ceti sociali più elevati.

Agli occhi degli Occidentali, dai tempi delle Crociate contro gli infedeli, il mondo arabo e l’Islam vengono caricati continuamente di simboli misteriosi e negativi. Nel testo lei riprende l’immagine dello scorpione e il lettore viaggia attraverso il tempo e i continenti dalla Gran Bretagna all’antico Egitto, passando per l’Italia e il Medio Oriente. Il suo scopo è rimarcare il filo conduttore che lega insieme popoli e culture oppure quello di delineare le peculiarità che hanno contraddistinto i vari popoli e che ancora lo fanno?

Lo spunto è stato quello a cui lei fa riferimento: l’Islam è stato associato allo scorpione, a sua volta simbolo del maligno e dell’oscurità, all’epoca delle Crociate. Quando i cristiani, immersi nella sfolgorante luce di Dio, combattevano gli infedeli musulmani. Come fa notare Adam a un certo punto del romanzo, nella storia le prospettive cambiano e adesso è la Jihad a dare la caccia a chi non conosce né pratica il Corano. Credo che ogni lettore debba trarre le proprie conclusioni, io ho solo voluto raccontare una storia. Ma certo, nel nome delle diverse religioni attraverso i secoli sono state perpetrate molte nefandezze.

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Ne Il logista lei racconta, attraverso gli occhi della protagonista, una Roma decadente. Quali ragioni l’hanno spinta a rappresentare in questo modo la Capitale d’Italia?

La cosa divertente è che non avevo intenzione di rappresentare Roma in quel modo: sporca, insicura, decadente. È semplicemente uscita così, pagina dopo pagina. Me l’ha fatto notare per prima una persona a cui avevo fatto leggere le bozze e ho deciso di renderlo un elemento forte della narrazione. Il punto è che, da romana, evidentemente percepisco così la mia città. È un dato apolitico, non attribuisco la colpa esclusivamente a questo sindaco piuttosto che al precedente, ma resta la spiacevole sensazione che tale degrado si trascinerà a lungo.

Muoversi tra gli specchi per indagare il mondo e se stessi. “Il logista” di Federica Fantozzi

Il Male nascosto dietro lo scorpione è l’estremismo islamico di matrice jihadista. Ma l’Isis è il Male assoluto oppure viene considerato tale perché irrompe con la forza nel mondo occidentale?

È vero, e profondamente ingiusto, che noi tendiamo a considerare l’Isis come il Male assoluto solo quando tocca le nostre società. Mentre le stragi di donne e bambini in Iraq, Afghanistan, Sri Lanka o Somalia passano spesso inosservate. È altrettanto vero che il dolore, le emozioni potenti, la solidarietà, difficilmente attraversano il video del piccolo schermo. Personalmente, ho deciso di scrivere il romanzo dopo essere stata inviata dal mio giornale, «l’Unità», a Parigi nei giorni successivi al massacro del Bataclan. Una settimana durissima e commovente. Senza quell’esperienza vissuta dal vivo forse non avrei avuto la spinta necessaria per raccontare Il logista.

C’è stato un tempo e neanche troppo lontano in cui gli jihadisti erano considerati, da americani e occidentali, “i nostri eroi” perché combattevano per sconfiggere “l’Impero del Male” rappresentato dai sovietici che avevano invaso l’Afghanistan. Poi sono diventati i “barbari” che hanno portato il terrorismo nel cuore dell’Occidente. Quanta responsabilità occidentale c’è, secondo lei, nell’esplosione dello “scorpione jihadista”?

L’Occidente ha responsabilità fortissime, basti pensare anche a Bin Laden e Saddam Hussein. Non c’è dubbio che l’espansionismo politico, lo sfruttamento da parte di pochi delle risorse globali, le crescenti diseguaglianze che la Rete rende immediatamente percepibili siano alla base di moltissimi conflitti del nostro tempo. Si tratta però di temi che servirebbe un’enciclopedia e non un romanzo per sviscerare. E io, invece, ho voluto creare alcuni personaggi lasciando al lettore il compito – e, spero, il piacere – di indagare se hanno o meno un cuore di tenebra.

Muoversi tra gli specchi per indagare il mondo e se stessi. “Il logista” di Federica Fantozzi

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Ne Il logista la protagonista Amalia Pinter da cacciatrice si scopre preda in un vorticoso andirivieni di azioni e suspense che caratterizzano e definiscono il ritmo incalzante del libro. La sua idea sembra essere stata quella di creare un gioco degli specchi. Si può ipotizzare una situazione simile anche per l’attuale scenario geopolitico euro-occidentale e medio-orientale?

Ma certo. Siamo tutti cacciatori e prede allo stesso tempo. Ci illudiamo di controllare il gioco, ma il rischio di venire usati, incastrati o manipolati è dietro l’angolo. Questo vale in ambito geopolitico (pensiamo ai sospetti che la Russia abbia condizionato le elezioni americane o al potere dell’Fbi rispetto alla Casa bianca), economico (lo scandalo Dieselgate o i Panama Papers) e personale. Quest’ultimo è l’aspetto che mi fa più paura: i falsi profili che creano identità parallele, le foto rubate e divulgate in oscuri gruppi Facebook, l’esistenza stessa di Darknet.


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Le storie, il tempo e la propria terra nell’intervista a Emilia Bersabea Cirillo per “Non smetto di aver freddo” (L’Iguana Editrice, 2016)

24 venerdì Feb 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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Emilia Bersabea Cirillo ritorna in libreria con un nuovo avvincente romanzo edito da L’Iguana Editrice. Protagoniste di Non smetto di aver freddo sono due donne, la loro vita, i loro trascorsi e tormenti.

Una storia intensa quella narrata dalla Cirillo, ispirata da un vecchio fatto di cronaca e dalle personali esperienze dell’autrice. Una vicenda che corre lungo i binari del tempo trascorso, che ha segnato le vite di Dorina e Angela al pari degli accadimenti che le hanno viste e volute, in vario modo, vittime e carnefici. A fare da sfondo e da base, come sempre nei racconti della Cirillo, la sua terra, l’Irpinia. Un ripetuto omaggio che vuol rappresentare ogni volta una conferma, d’amore e passione.

Ne abbiamo parlato nell’intervista che gentilmente ha concesso.

La sua carriera di scrittrice sembra scorrere su un doppio binario: da un lato i racconti brevi, dall’altro i romanzi. In entrambi i casi lei utilizza una prosa asciutta che sembra limitarsi all’essenziale, eppure nei suoi scritti traspare sempre un grande trasporto emotivo. Come nasce il suo stile di scrittura?

Ho impiegato molti anni a trovare una mia voce, cioè una modalità e un ritmo per raccontare le storie che mi vengono in mente. Devo certamente questo alle letture che ho fatto, ma anche al lungo lavoro di scrittura, che mi vede intervenire sul testo, una volta finito, ripetutamente. Cerco di togliere, anziché aggiungere, di trovare o inventare parole appropriate, che siano efficaci, di scrivere frasi brevi. Sono queste che danno il respiro alla scrittura. Anche se la ricerca di uno stile di scrittura non si conclude mai del tutto.

Questa volta ritorna in libreria con un romanzo. Una storia intensa che vede due donne protagoniste, o meglio il legame tra le loro vite. Come nascono i personaggi di Dorina e Angela?

Da una lettura di un fatto di cronaca, occorso anni fa a Firenze. Una donna aveva ucciso a coltellate la moglie di un uomo a cui lei credeva di appartenere. Una storia di stalking che mi colpì moltissimo. Leggevo dentro dolore e solitudine. E per altre vicende personali, che hanno a che fare con il mio lavoro di architetto. Per un periodo, ho diretto i lavori del carcere di Sant’Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino. Dorina, l’altra protagonista, voleva essere una donna semplice, che vive e lotta per il suo quotidiano, una donna che alle spalle non ha altro che se stessa. E che vuole vivere la sua piccola, difficile vita. Con ostinazione, con speranza.

Ancora una volta la storia da lei narrata ruota intorno al concetto di tempo, in questo caso quello trascorso e che contrappone infanzia e maturità. Cosa vuole trasmettere ai suoi lettori indagando così a fondo il tempo che passa?

Penso che scrivere significhi narrare il tempo. La vita dei protagonisti è tempo trascorso, tempo vissuto, tempo che si attende. Sul tempo Proust ha scritto la sua monumentale Recherche.

Non c’è storia senza tempo.

Leggi anche – Recensione a “Gli incendi del tempo” di Emilia Bersabea Cirillo (et al./Edizioni, 2013)

Un ulteriore tema nel quale la sua penna affonda senza remore è l’indagine dell’animo umano, femminile, mettendone a nudo gli aspetti più bui e ‘pericolosi’. In Non smetto di aver freddo sono gli accadimenti che determinano lo stato d’animo di Angela e Dorina oppure è la loro mente che in un certo qual modo condiziona gli eventi?

È il caso che ci fa nascere in un modo anziché in un altro, in un luogo o in un altro. Sono le circostanze intorno a noi che condizionano la nostra educazione, la nostra visione del mondo. Senz’altro sono gli accadimenti che determinano gli stati d’animo. Certo l’indole è qualcosa di imponderabile, che ha la sua importanza nella costruzione della individualità, sia di una persona che di un personaggio. E questo in una narrazione è da tenere sempre presente.

In più punti del suo romanzo il lettore ha l’impressione che questa profonda ricerca dentro di sé sia l’unica strada percorribile dalle protagoniste per riuscire a capire e affrontare ciò che sta fuori, il mondo e la vita. È questa la via da seguire secondo lei?

Penso che senza conoscere a fondo se stessi, non si riesca a rispondere alla domanda fondamentale della nostra esistenza: Che voglio fare nella vita? Noi lo sappiamo, in fondo in fondo, cosa vogliamo diventare, e dobbiamo deciderlo e imparare a percorrere la strada, per lo più in salita, che ci porta al nostro obiettivo. Strada che spesso è piena di conflitti, difficoltà, aporie. Solo conoscendo bene se stessi, ci si può non scoraggiare e adeguare alle contraddizioni dell’esistenza, in fine scegliere, una strada o un’altra. Che poi, nei libri, è quello che accade ai personaggi, che devono affrontare i loro conflitti. Il come, il modo con cui i personaggi li affrontano che è importante nella dinamica narrativa. E contribuisce a rendere un protagonista indimenticabile.

Leggi anche – La scrittura come autoanalisi e auto-rivelazione. Intervista a Fioly Bocca per “L’emozione in ogni passo” (Giunti, 2016)

Le storie sono diverse, gli sviluppi delle vicende anche ma c’è una cosa che sembra non voler mai abbandonare. Permane nei suoi libri la volontà di raccontare, accanto alle storie dei protagonisti, la sua terra. Cosa rappresenta per lei e cosa invece vorrebbe fosse percepito dai lettori?

Non credo che si possa raccontare una storia senza raccontare un luogo. Io vivo qui, in Irpinia, ed è questo il posto che conosco meglio di altri e che mi piace descrivere. Dove potrei ambientare le mie storie se non tra queste montagne, questi paesi, questi panorami? Credo che nominare un luogo, farlo diventare protagonista delle mie storie sia assolutamente automatico. Come un binomio. Non c’è terra migliore di quella che si abita, per scriverne. Il lettore attento lo sa.

Source: Si ringrazia Emilia Bersabea Cirillo per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte della trama e della biografia dell’autrice www.liguana.it

© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Qual è la strada per sconfiggere il terrorismo? Intervista a Benedetta Berti

10 venerdì Feb 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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Qual è la strada per sconfiggere il terrorismo? Intervista a Benedetta Berti

Il 31 gennaio 2017 esce con Mondadori La fine del terrorismo di Benedetta Berti, nella versione tradotta da Teresa Albanese. TED Senior Fellow e ricercatrice al Foreign Policy Research Institute e al Modern War Institute a West Point, Benedetta Berti ha trascorso gli ultimi dieci anni “sul campo”, in luoghi impervi e pericolosi a studiare la nascita e l’evoluzione dei gruppi armati ribelli, politici e/o terroristici allo scopo di capirne l’essenza. Questa la via da lei stessa indicata nel libro per riuscire a “superarli”. Una sconfitta che passa attraverso la conoscenza e l’analisi di fatti e dati, non mediante il caos ingenerato dalla paura.

Nell’era della digitalizzazione e della globalizzazione infinite sono le “informazioni” che circolano su terrorismo e anti-terrorismo, notizie spesso falsate faziose o imprecise. Per questo e anche per altre motivazioni la Berti sostiene che sia necessario riportare tutto alla linearità di una conoscenza basata su dati certi, informazioni sicure e analisi che siano fedeli alla realtà dei fatti. Solo in questo modo si riuscirà a comprendere il fenomeno terroristico e forse anche a superarlo.

Ne abbiamo parlato nell’intervista che gentilmente ci ha concesso.

L’introduzione a La fine del terrorismo si apre al lettore con una citazione di Diego Gambetta. Parole forti, immagini tanto chiare quanto cruenti di ciò che mafia e Isis rappresentano o intendono rappresentare.  A cosa “servono” o “possono servire” mafia e Isis per l’Italia e l’Occidente?

Più che a “servire” all’Italia o all’Occidente, credo che il punto fondamentale sia che, oggi come in passato, gruppi armati violenti di matrice religiosa, politica o criminale sfruttano e traggono vantaggio dalla loro reputazione violenta. Più questi gruppi vengono analizzati e descritti come brutali, irrazionali e misteriosi, più ci sembrano minacciosi. Quello che non possiamo capire o spiegare ci fa inevitabilmente paura, questo però è un circolo vizioso: la paura non ci aiuta a capire, né tantomeno a fare le scelte più giuste ed efficaci per la nostra società e sicurezza. Allora, credo che sia importante andare oltre. Oggi come ieri, per capire ISIS così come le organizzazioni criminali nostrane, dobbiamo andare oltre la reputazione e il velo di mistero e analizzare le logiche interne, organizzative, politiche ed economiche di questi gruppi.

Qual è la strada per sconfiggere il terrorismo? Intervista a Benedetta Berti

La chiave di lettura da lei indicata per una maggiore comprensione delle «attuali tendenze nella violenza politica e nel terrorismo internazionale» è la comprensione in «termini semplici e razionali». Perché ritiene necessario seguire questa strada?

Perché, oggi più che mai, ci troviamo di fronte a un mondo caotico dove, tra sensazionalismo, informazioni disorientanti e decine di versioni contrastanti, diventa quasi impossibile capire che cosa stia davvero succedendo quando si parla di terrorismo e violenza politica. In questo contesto, credo sia importante cercare di spiegare le dinamiche globali legate alla violenza politica: dall’ascesa al declino dell’ISIS, alle nuove forme di terrorismo “autoctono” partendo da dati solidi e da un’accurata analisi del contesto storico, politico e geo-politico. Nel libro cerco di descrivere le complesse ragioni che hanno portato a una crescita del terrorismo a livello mondiale e anche di capire come i gruppi armati – come ISIS ma non solo – sono in grado di sfidare stati con maggiori risorse finanziarie e militari. Nel fare questo, mi propongo di spiegare la logica militare, politica ed economica di questi gruppi. Non per volerne giustificare le azioni, ma semplicemente perché capire la logica e la strategia della violenza politica odierna in modo semplice e razionale ci aiuta ad avere un dibattito pubblico basato sui fatti e non sulla paura; ci aiuta a trovare politiche più efficaci e a non essere manipolati.

Quali sono le immagini stereotipate relative ai gruppi armati che maggiormente influenzano l’opinione pubblica e l’operato dei governi?

Ce ne sono molte; e avendo passato gli ultimi dieci anni “sul campo” studiando i gruppi armati (in Medio Oriente, America Centrale, Latina, Africa orientale e altrove) credo che uno dei problemi principali sia la tendenza a sottovalutare l’evoluzione dei gruppi armati moderni, oltre alla facilità con la quale si fa di tutta l’erba un fascio, senza soffermarsi su come diversi contesti producano distinte dinamiche di violenza politica. In particolare, sottovalutare questi gruppi non aiuta a capirli meglio, né tantomeno a contrastarli. Per esempio, tendiamo a non prestare sufficiente attenzione alle motivazioni economiche e ai modelli finanziari usati dai gruppi armati; questo però ci porta a trascurare una delle componenti fondamentali della loro strategia e, spesso, del loro successo. Nel libro, anche attraverso esempi e storie ottenute in anni di ricerca, racconto di come molte organizzazioni terroristiche abbiano sviluppato complessi modelli di business, impegnandosi in attività economiche lecite e illecite, sfruttando la globalizzazione per aumentare la loro ricchezza. Ancora più interessanti sono le dinamiche di “governance” e le “politiche sociali” di questi attori violenti; per non parlare poi delle attività di marketing e comunicazione.

Qual è la strada per sconfiggere il terrorismo? Intervista a Benedetta Berti

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Quali sono i punti in comune e quali invece le divergenze tra la violenza politica di oggi e quella del passato?

Il libro parte dal semplice ma importante fatto che l’uso delle armi, della violenza e del terrorismo non sono tattiche nuove. Ci sono però numerose differenze tra gruppi terroristici “tradizionali” – come ad esempio le Brigate Rosse – e le principali organizzazioni violente attive negli ultimi due, tre decenni. Un punto fondamentale è che il contesto è cambiato: i gruppi armati non-statali, da organizzazioni terroristiche a milizie, sono sempre più spesso i protagonisti dei conflitti armati, che oggi avvengono prevalentemente a livello di guerre civili, interne e/o irregolari. Inoltre, nel libro guardo attentamente anche a come i processi di globalizzazione e di crisi degli stati abbiano offerto l’opportunità a molti gruppi armati di aumentare il loro potere, il loro status e le loro capacità di esercitare controllo sulla popolazione civile. Si può anche aggiungere che i gruppi armati moderni – sia di stampo politico che criminale – tendano ad essere più globali, più orientati ad agire attraverso complesse reti di alleati e partner, anche grazie all’accesso alle nuove tecnologie militari e di comunicazione. Negli anni dopo l’11 settembre, anche le dinamiche e le tattiche del terrorismo globale sono cambiate, e nel libro cerco di analizzare il come e il perché questo sia avvenuto.

È vero che un’organizzazione come l’Isis è riuscita ad affermarsi e a crescere sempre più perché si è sostituita e ha in parte sopperito alle carenze di governi corrotti e inefficienti?

Sicuramente sì.  Quando guardiamo alla mappa della violenza politica a livello mondiale, troviamo senza dubbio un nesso tra stati deboli inefficienti e caratterizzati da violenza interna e l’ascesa di gruppi armati che si propongono come un’alternativa allo stato e al sistema politico. Dall’ISIS ai Talebani, un contesto di guerra insicurezza repressione corruzione ha creato terreno fertile per questi attori violenti. Inoltre, non c’è dubbio che, almeno nelle prime fasi della sua espansione, anche un gruppo repressivo e violento come ISIS ha dedicato energie nel cercare di guadagnarsi una parvenza di legittimità, utilizzando per esempio l’inefficacia dello stato e cercando di sopperire a queste carenze come ad esempio la manutenzione stradale, la distribuzione del pane, per citarne solo alcune, rafforzando così la pretesa di essere uno “stato” di nome e di fatto.

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Quale sarà il futuro della violenza politica e quale quello di chi cerca di combatterla?

Anche se è impossibile sapere che cosa ci aspetterà nel futuro, credo che un’analisi attenta della realtà ci possa aiutare a capire alcune delle sfide in materia di violenza politica in generale e terrorismo in particolare. Per esempio, tutto indica che il ginepraio che caratterizza la situazione mondiale: nsicurezza, inefficienza dello Stato, corruzione e repressione continuerà ad aiutare gruppi insurrezionali a emergere, e che la diffusione di nuove tecnologie militari e di comunicazione contribuirà alla maggiore pericolosità di molti di questi gruppi. Questa analisi sembra suggerire anche che contrastare il terrorismo dovrà essere sempre di più un’attività complessa e integrativa, a livello militare e di forza pubblica, ma anche sociale politico economico e culturale.

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© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Cosa accade quando i diversi siamo noi? Intervista a Riccardo de Torrebruna per “Mardjan” (Edizioni Ensemble, 2016)

20 martedì Dic 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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Africa, Ensemble, Europa, intervista, Mardjan, RiccardodeTorrebruna, romanzo

riccardo-de-torrebrunaCosa accade se si immagina, anche solo per un istante, di vivere in un mondo dove le parti sono invertite? Dove i diversi siamo noi occidentali che ancora ci sentiamo padroni dell’universo?
Riccardo de Torrebruna lo ha fatto in Mardjan, un libro intenso profondo che raccontando una storia ne scopre un’altra al lettore. Una “Storia” che deve essere scritta e narrata per non essere dimenticata.
Ne abbiamo parlato durante l’intervista che gentilmente ha accettato di fare.

Mardjan accompagna il lettore in un intenso viaggio alla scoperta dell’Africa vera nascosta ignorata… Perché ha scelto di portare la scena nel Continente Nero?

Credo che l’Africa sia un luogo dello spirito, oltre che un continente e m’interessava raccontare una qualità specifica di quello spirito, qualcosa che in Europa è andato perduto. Inoltre, volevo raccontare dei personaggi africani che hanno tutta l’intenzione di restare nel loro paese e magari migliorarlo.
Sembra che oggi parlare di Africa significhi necessariamente fare un riferimento al tema dell’immigrazione. Siamo sovrastati mediaticamente da questa immagine, un’Africa che vuole invaderci. Nei miei sopralluoghi a Zanzibar e in Tanzania ho incontrato molte persone e la maggior parte di loro voleva restare, malgrado le condizioni siano difficili per tante ragioni.
L’Europa ha prima colonizzato e poi sfruttato in maniera subdola le risorse minerali ed energetiche dell’Africa. Ma questi atti hanno un prezzo, determinano delle conseguenze. In Mardjan, i personaggi di una troupe cinematografica entrano in rapporto con il magma di contraddizioni che la colonizzazione (anche quella musulmana e indù, oltre a quella europea) ha lasciato. Lo fanno in maniera inconsapevole, con la rapacità tipica dei predatori. Da quel momento in poi, il film che sono venuti a girare li condanna a un cambiamento ineluttabile. Le loro vite non riusciranno più a liberarsi da questa esperienza, dalle ramificazioni del corallo (mardjan significa, appunto, “corallo” in arabo), e saranno costretti a fare i conti con l’incertezza della loro identità.
È la sensazione tipica che si prova, come bianchi, a camminare in un bazar africano, dove i diversi siamo noi. Veniamo scossi dalla relatività del colore della pelle, dall’inappropriata accuratezza di ciò che indossiamo, tutto sembra stridere con la realtà che ci troviamo di fronte. Siamo sconcertati dalla potenza della natura, degli odori, dalla vitalità e dalla pazienza degli africani che sciamano lungo le strade. Ecco, m’interessava raccontare cosa succede dopo, al rientro nella comodità e nel confortante progresso di cui ci sentiamo protagonisti. La storia tormentata di questo film, Mardjan, è un pretesto per raccontare anche questo.

Un legame sottile ma resistente e persistente unisce i fatti dell’11 settembre alle vicende del libro. Gli attacchi terroristici del nuovo millennio hanno cambiato la Storia oppure hanno contribuito a svelarne aspetti reconditi?

Mardjan è ambientato all’indomani dell’11 settembre in un’isola, Zanzibar, che ha forti radici e una maggioranza di religione musulmana. I francesi della troupe non sono ben visti in un momento del genere, non si va per il sottile, ci sono forti pulsioni antioccidentali. Questo acuisce la tensione e descrive i germi di ciò che 15 anni più tardi è diventato un repertorio di violenza inaudita.
La collisione imminente si percepisce nell’aria, anche se non è ancora strutturata nelle forme che i media ci descrivono oggi. Una cosa è certa, l’indole africana sarebbe estranea al fanatismo terrorista. Solo la deriva dei campi profughi delle guerre interne veicolate dall’Occidente per interessi economici e oggi anche dalla Cina, i giovani ridotti a larve senza futuro, hanno poi dato vita (strano parlare di vita in questo caso) al fenomeno, hanno permesso che attecchisse anche in Africa.
È un ulteriore scempio che si è prodotto. Con questo non voglio dire che l’indole africana sia immune dal seme della violenza, ci sono esempi eclatanti in proposito, ma dal terrorismo e dal fanatismo di matrice islamista, sì, lo sarebbe stata senza l’avvento di certe condizioni.

Dominic e Milton, i protagonisti del libro, si sentono inversamente attratti rispettivamente dall’Africa e dalla Francia. In entrambi i casi il loro si rivelerà un viaggio di ritorno. Cosa voleva comunicare al lettore raccontando così in dettaglio gli stati emozionali dei due?

Dominic è un attore che vive nella precarietà, un idealista a cui è sempre mancata la giusta dose di cinismo per avere il successo a cui segretamente ambisce. Milton è un ispettore di polizia africano, un outsider che non ha amici tra i quadri corrotti del sistema, non è un eroe, ma non ha simpatia per gli africani che s’ingrassano con la corruzione, è uno che cerca di non sporcarsi, di mantenere una sua integrità. La lavorazione del film determina l’incontro delle loro vite. Uno è bianco, uno è nero. Dominic inizia un lavoro che solo Milton proverà a portare a termine, anche se non del tutto. Mi sono chiesto spesso: e se ognuno di noi, da qualche parte nel mondo, avesse un doppio, uno che non gli somiglia affatto, un “altro” che senza neanche saperlo è destinato a raccogliere il testimone di ciò che avremmo voluto realizzare, chi potrebbe essere?

Nella sua carriera ha avuto modo di confrontarsi con diversi mezzi comunicativi ma sembra che preferisca di gran lunga la parola scritta, perché?

Ho finanziato il privilegio di scrivere con vari mestieri. Il lavoro di attore in cinema è stato quello più redditizio; ma non sempre, anzi, quasi mai, si riesce a interpretare i ruoli che si vorrebbero. In teatro è diverso, ma si guadagna molto meno. In ogni caso, l’attore è esposto, non ha protezione, è sempre nudo in scena, se vuole fare sul serio. La scrittura è altrettanto rivelatoria, ma permette di non essere fisicamente davanti al lettore, gli si lascia il libro e ci si mimetizza. Ci si può permettere più tempo per elaborare la materia della scrittura. La vanità dell’attore si spegne appena le luci si spengono, quella dello scrittore dura finché qualcuno ha il tuo libro tra le mani e ci si può illudere che questo duri a lungo. Mettiamola così, anche se si potrebbe ribaltare l’intera faccenda.

Riccardo de Torrebruna: È nato a Roma, dove attualmente vive. Ha lavorato come attore di cinema e teatro in Italia e all’estero per poi dedicarsi alla scrittura (romanziere, drammaturgo, sceneggiatore) e alla regia.
Vincitore dei premi Enrico Maria Salerno e Oltreparola per la drammaturgia.
Esordisce come autore nel 2000 con Tocco Magico Tango (Minimum Fax). Pubblica poi Storie di Ordinario Amore (Fandango, 2003), con Luigi Turinese Hahnermann. Vita del padre dell’omeopatia (E/O, 2007), Blood&Breakfast (Ensemble, 2014), Hahnermann. Diario di un guaritore (Mincione, 2015) da poco tradotto in Messico.

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© 2016 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Andare “Controvuoto” con un pizzico di ironia. Intervista a Ruggiero Antonio

12 lunedì Dic 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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Il “ramingo” Antonio Ruggiero decide di affrontare le proprie paure, in primis quella di volare, e il viaggio nella sua mente ben presto si trasforma in un progetto che diventa un sito, un libro, dei video, delle immagini…

«Un libro tra le nuvole, che parte da una fobia, quella di volare, per parlare di molte altre cose che ci fanno paura, della violenza, del bullismo, del razzismo, ma senza proclami. Solo un pizzico di ironia.»

Abbiamo parlato del suo libro, e anche del suo progetto, in un’intervista.

Il libro Controvuoto è una parte del suo progetto che si prefigge lo scopo di «fare i conti con le emozioni». Com’è nata l’idea?

Controvuoto è un’idea che arriva alla fine di un percorso. La mia fobia di volare era diventata un problema invalidante è sono riuscito a venirne fuori proprio facendo i conti con le mie emozioni, non considerandole solo un premio da ricevere se sono positive o una punizione se sono negative. È stato un viaggio interiore che ho voluto proporre anche a chi, come me, ha qualche problema a guardarsi dentro. Volevo dare una mano ed essere utile dimostrando che non c’è nulla di male se a volte ci si sente un po’ fragili.

Lei ha affermato che man mano che il progetto andava avanti è cambiata la sua percezione delle emozioni. In che senso?

Ho capito che le emozioni non sono solo una reazione agli eventi ma anche dei messaggi su come siamo fatti, su ciò che c’è dentro di noi, su quello che ci hanno lasciato le nostre esperienze e sul modo di intendere la vita che abbiamo anche senza rendercene conto. Soprattutto ho imparato a non vergognarmi delle mie emozioni. Sembra scontato ma a pensarci bene non lo è affatto.

Perché “Controvuoto”? Cosa rappresenta il vuoto e cosa c’è al suo opposto?

Il vuoto, nel mio caso, ha rappresentato l’idea di non essere capace di affrontare le mie debolezze e i miei problemi. Al suo posto non c’è un uomo perfetto che non sbaglia mai ed è sempre sicuro di sé ma una persona disposta a mettersi in gioco e ad accettarsi.

Il progetto ha origine dalla volontà di indagare un’emozione negativa: la paura di volare. Ma poi esplora altri campi “oscuri” come il razzismo, il bullismo… utilizzando un mezzo che lei paragona a una vera e propria arma: l’ironia. Qual è la reale portata di questa “arma”?

L’ironia è la crosticina che si forma sulla pasta al forno cotta leggermente troppo. Alla fine, quando sforni la teglia, è quella che ti fa gola. Oggi in molti sfruttano quest’arma, soprattutto sui social network per le pubblicità o per le campagne a scopo sociale. La sua portata è limitata soltanto alla capacità di non essere banali e scontati, per il resto non ci sono confini.

Il progetto Controvuoto comprende anche immagini e video. Cosa devono rappresentare?

Cerco di intervistare personaggi più o meno famosi chiedendo quali siano le loro paure e come le affrontino ogni giorno. L’obiettivo è dimostrare che tutti hanno delle debolezze e non c’è nulla di sbagliato o di cui vergognarsi. Sembra poco ma se guardiamo i casi di cronaca sui giornali scopriamo che raggiungere questa consapevolezza può fare la differenza.

Lo scopo del progetto è stato raggiunto oppure la sua “indagine” continua?

Non mi sono posto una meta specifica. Spesso ricevo dei messaggi di persone che hanno letto il libro e mi dicono che gli è stato utile anche solo perché li ha fatti sorridere. Allora penso che forse è il caso di andare avanti. Il bello del mio libro e del sito controvuoto.com è che non c’è nessuna formula di “auto-aiuto”, nessuna filosofia religiosa o tentativo di scimmiottare dottrine mediche. Propongo una testimonianza fatta da una persona semplice che si è trovata ad affrontare problemi difficili. Nessuna lezione, solo condivisione, e ho scoperto che funziona.

Se dovesse tirare le somme del progetto Controvuoto e riassumerle in poche parole cosa direbbe?

Bene, bravo, bis!

Quanto coraggio ci vuole per affrontare le proprie paure?

Non poco, ma ho scoperto che il coraggio si può prendere a rate per spenderlo quando serve. Solo che ora mi fanno paura gli interessi.

Antonio Junior Ruggiero: Cameriere, giornalista e in quest’occasione scrittore. Nasce in un paese d’Irpinia che nessuno riesce a pronunciare da Roma in su, Atripalda. Era il 31 gennaio 1984, qualche anno dopo il famoso terremoto del quale sente continuamente parlare fin dall’infanzia, con una frase che si ripete in ogni racconto: “Chi c’aveva la casa è rimasto con la baracca, chi c’aveva la villa s’è fatto la reggia”. Muove i primi passi nel salotto di casa sua. Molti anni dopo, orami quattordicenne, spinto da un’irrefrenabile voglia di viaggiare, comincia a lavorare come cameriere in decine di pizzerie per mettere qualche spicciolo da parte. Riesce a girare il mondo ma per il buco nell’ozono non può farci nulla. Nel 2008 prova a entrare nella Scuola di Giornalismo di Torino ma trova chiuso. Ci riprova il giorno successivo con più fortuna e riesce a presentare la domanda di iscrizione ai test d’accesso. Inspiegabilmente li supera e viene ammesso. Sono anni meravigliosi che culminano nell’iscrizione all’albo dei professionisti e in una serie di premi giornalistici vinti grazie a una fortuna sfacciata della quale un giorno dovrà rendere conto. Intanto si specializza nel settore energia e ambiente, ma anche in questo caso per il buco nell’ozono non c’è nulla da fare. Alla soglia dei trent’anni sposa una ragazza bella e intelligente che ama moltissimo e a qual punto è evidente che questo qui qualche santo in paradiso ce l’ha. Dopo due anni nasce un figlio, Elia, e scopre che la vita può essere meravigliosa. Subito dopo cambia idea davanti a un pannolino alle 3 di notte.

Disclosure: Il libro Controvuoto disponibile in versione digitale è fruibile gratuitamente. (www.controvuoto.com)

© 2016, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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