“Armilla Meccanica” di Fabio Carta

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Per raccontare lo scontro generazionale tra i queer, idealisti e romantici, e i loro precursori, pionieri e truci operai spaziali, Fabio Carta fa attraversare al lettore l’intera Via Lattea. In una narrazione tanto futuristica quanto attuale. Ne nasce un romanzo di fantascienza quasi paradossalmente ancorato alla realtà in maniera incredibile, che racconta e analizza tematiche di stretta attualità con una visione d’insieme certamente originale.

Su una remota miniera extrasolare denominata Geuse, un vecchio mek-operaio, giorno dopo giorno, vede i frutti del suo duro lavoro sfumare a causa di una crisi economica senza precedenti, che coinvolge tutte le colonie della Via Lattea. Come molti altri medita di prendere ciò che gli spetta e cambiare vita. Ma non è così facile.

Ad anni luce da lì la Metrobubble, la capitale finanziaria della galassia, è stravolta dallo slittamento temporale tra sistemi planetari, dai disordini e dalle rivoluzioni. Ora a regnare è un feroce dittatore che si fa chiamare Meklord. I nativi del pianeta, i queer, gli fanno guerra per quanto possono, mentre attendono l’aiuto della Terra o di chiunque avrà il coraggio di sfidare per loro le maree del tempo e le armate meccaniche del tiranno. 

Armilla Meccanica è una space opera senza alieni, ma con molte società, culture e sub-culture umane “alienate” o conformi al grande consesso cosmico informatico a governo della Via Lattea, l’Armilla appunto. 

Una space opera dove forte è la presenza di veri e propri mecha japan-style, ovvero meka, delle macchine industriali bipedi pilotate come mezzi corazzati. 

Grazie allo slittamento temporale tra vari sistemi planetari, Carta propone al lettore una lotta generazionale che vede scontrarsi due opposti schieramenti dotati del vigore, dell’incoscienza e della tenacia della gioventù. Singolare la scelta dell’autore di far emergere da questo blocco di giovani il “vecchio eroe” come figura che riuscirà a dare la svolta decisiva all’intera vicenda. 

Il libro di Carta si apre al lettore con una citazione di Dostoevskij:

«Nell’Apocalisse l’angelo giura che il tempo non esisterà più. Quando tutto l’uomo raggiungerà la felicità, il tempo non vi sarà più, perché non occorrerà. È una idea molto giusta. Dunque dove lo nasconderanno? In nessun posto lo nasconderanno. Il tempo non è un oggetto, è un’idea. Si spegnerà nella mente.»

L’idea del tempo che si trova in Armilla Meccanica rimanda alla visione religiosa di esso ma anche a quella esistenziale analizzata da tanti studiosi e pensatori.

Il tempo è la limitazione stessa dell’essere finito o è la relazione dell’essere finito con Dio?

Relazione che non assicurerebbe tuttavia all’essere un’infinità opposta alla finitezza, né una autosufficienza opposta al bisogno, ma che, al di là della soddisfazione e dell’insoddisfazione, significherebbe il sovrappiù della socialità. 

Il tempo non sarebbe quindi l’orizzonte ontologico dell’essere dell’essente, ma modo dell’al di là dell’essere, una relazione del pensiero con l’Altro e – attraverso diverse figure della socialità posta di fronte al volto dell’altro uomo: erotismo, paternità, responsabilità per il prossimo – come relazione con il tutt’Altro, con il Trascendente, con l’Infinito. Il tempo non è una degradazione dell’eternità ma una relazione con ciò che, di per sé inassimilabile, assolutamente altro, non si lascerebbe assimilare dall’esperienza, o con ciò che, di per sé infinito, non si lascerebbe comprendere. 

Il tempo non fa parte del modo d’essere di un soggetto isolato e solo, ma è la relazione stessa del soggetto con altri, non si tratta quindi dell’idea del tempo ma del tempo in se stesso.1

Gli argomenti trattati da Carta nel libro sono molteplici e spaziano dall’ambientalismo ai danni prodotti dal capitalismo sfrenato, dalla guerra agli scontri per il potere. Ma l’altro argomento si cui si vuole focalizzare ha anch’esso, in qualche modo, a che fare con il tempo, questa volta “rubato” alle persone e in particolare agli operai, costretti a un lavoro durissimo, vittime di allucinazioni metacroniche. 

«Si diceva che alcuni operai fossero impazziti a causa di queste continue cronovisioni, incapaci di distinguere il presente degli eventi, anche quelli fisicamente più prossimi e semplici, ma anche impossibilitati a elaborare la realtà in termini di passato e futuro, secondo il legame eziologico tra causa ed effetto.»

Come si può recuperare il tempo perduto nel vortice turbolento di un’esistenza che costringe le persone a impegnare gran parte della loro vita in attività svolte per il guadagno soprattutto altrui? Come possono gli esseri umani ritrovare se stessi e il loro equilibrio?

Carta identifica nel testo la meditazione degli yogi quale ottimo compromesso tra un pacifico credo religioso e tollerante e una pratica via di fuga mentale dalle nevrosi, dalla solitudine e dalla claustrofobia riscontrata nei primi e sovraffollati habitat artificiali.

La solitudine è un’assenza di tempo. Gli esseri possono scambiarsi tutto reciprocamente, fuorché l’esistere. In questo senso, essere significa isolarsi per il fatto di esistere. 

L’esistere allora rifiuta ogni sorta di rapporto, ogni sorta di molteplicità. Non riguarda nessun altro all’infuori dell’esistente. La solitudine sta proprio nel fatto che ci sono esistenti. 

Concepire una situazione in cui la solitudine è superata significa sondare il principio del legame che unisce l’esistente al suo esistere. Il soggetto è solo perché è uno. È necessario che ci sia una solitudine perché si dia la libertà del cambiamento, il dominio dell’esistente sull’esistere, cioè, in definitiva, perché ci sia l’esistente.

La solitudine non è dunque soltanto disperazione e abbandono, ma anche virilità e fierezza e sovranità. Caratteri questi che l’analisi esistenzialistica della solitudine, condotta esclusivamente in termini di disperazione, è riuscita a cancellare, facendo cadere nella dimenticanza tutti i motivi della letteratura e della psicologia romantica e byroniana che esaltano la solitudine fiera, aristocratica, geniale.2

Diverse culture predispongono “vie di fuga” come soluzioni indispensabili e salutari all’effetto “gabbia” che ognuna di esse tende a produrre. La megacultura occidentale, identificabile come dell’Antropocene, non solo non ha previsto vie di fuga o alternative a se stessa, ma continua ad avere una visione distorta del mondo. 

L’Ekyusi dei BaNande del Nord Kivu – Congo e lo Shabbath degli ebrei sono dei “traumi” che una cultura impone a se stessa, auto-sospensioni mediante le quali una cultura si costringe a “mettere tra parentesi” se stessa e le proprie pretese di dominio. Ciò che manca alla nostra società occidentale è esattamente l’idea del limite, del proprio limite. La nostra cultura, così piena di lumi forniti dalla scienza, è priva dell’illuminazione che proviene dalla pratica dell’auto-sospensione, dalla pratica del suo arresto. Questa brama, anche definita il male dell’Infinito, è la fonte dei problemi che affliggono la società moderna: sregolata, anomica, patogena. Le auto-sospensioni traumatiche introducono, nelle culture che le praticano, un forte senso del limite. Le obbligano a ritornare alla natura, fanno vedere loro la fine, fanno accettare l’arresto, fanno incorporare la morte. Ma non è una morte di desolazione, una desertificazione: la morte delle imprese culturali coincide con il riconoscimento dei diritti della natura.3

Nell’analisi della megacultura occidentale si nota il suo distaccamento dalla natura e la paura del suo arresto. Le chiusure o sospensioni ad essa ascrivibili sono periodi di riposo, ferie, vacanze, svago, divertimento… legate comunque all’aspetto economico della cultura occidentale. Invece ciò che viene auspicato è la ricerca di sospensioni o auto-sospensioni che non siano mere pause dalla routine, piuttosto ricerca e cura di se stessi e della natura.

Nella cultura dei nativi americani tutto è sacro, dal ramo dell’albero al sasso, all’acqua, alla Terra e ciò che in essa vive, ovvero tutto. Il rispetto verso se stessi, verso gli antenati, verso la vita passa inesorabilmente attraverso il rispetto per la Terra, per la Grande Madre, la Natura.

Lo scopo della meditazione zen è molto introspettivo: conoscersi di nuovo, riscoprire se stessi al netto degli schemi e delle convenzioni sociali.

L’azione della pratica della meditazione è riscontrabile su più piani:

  • Fisico
  • Emozionale
  • Psicologico

Studi e ricerche scientifiche hanno evidenziato effetti benefici oggettivi quali la diminuzione della frequenza del respiro e della pressione sanguigna, un aumento della funzionalità e flessibilità cognitiva, della stabilità emotiva, e un diffuso senso di benessere.4

Come si fa a sconfiggere la malinconia? Essere malinconici equivale a essere folli? Bisogna guarire il corpo o la mente? O entrambi?

Sono queste, o similari, le domande che deve essersi posto Robert Burton quattrocento anni or sono, allorquando iniziò la stesura del suo trattato sulla malinconia. Un’opera che è anche un mondo, che racchiude in sé cielo terra e inferi: dall’armonia delle sfere celesti sino agli abissi dell’inferno, il lettore viene indotto a osservare il caos che domina il mondo terreno. Ed è in questo caos che si insinua e s’impone la malinconia. La malinconia assume mille forme diverse, tante quante sono le persone. 

La cura per la malinconia è raggiungere il summum bonum che, secondo Epicuro e Seneca, è la tranquillità della mente e dell’animo. Per sconfiggere questo male, o malessere che sia, la disperazione deve essere volta in speranza di rigenerazione.5

Armilla Meccanica di Fabio Carta è un libro che racconta una storia di fantascienza ma offre innumerevoli spunti di riflessioni sulla realtà, sull’umanità, sul tempo e l’interiorità. Una space opera davvero interessante.

Il libro

Fabio Carta, Armilla Meccanica. Nel Cielo, vol. 1, Inspired Digital Publishing, 2021.

L’autore

Fabio Carta: laureato in Scienze Politiche con indirizzo storico, appassionato di fantascienza e letteratura classica. Autore di diversi romanzi e racconti.


1Emmanuel Levinas, Il tempo e l’Altro, Mimesis Edizioni (Milano-Udine), 2021.

2Emmanuel Levinas, op.cit.

3M. Aime, A. Favole, F. Remotti, Il mondo che avrete. Virus, antropocene, rivoluzione, Utet, Milano, 2020.

4A. Sardi, Cervello e Meditazione. Gli Effetti Psicofisici delle Tecniche di Meditazione, Neuroscienze, 27 agosto 2020, https://www.neuroscienze.net/cervello-e-meditazione/

5R. Burton, L’anatomia della malinconia, Giunti Editore S.p.A./Bompiani, Firenze/Milano, prima edizione settembre 2020.


Source: Si ringrazia l’autore per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


Articolo pubblicato sul numero 64 della Rivista cartacea e digitale WritersMagazine Italia


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© 2023, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Un singolare esempio di politica dell’oblio: “Gli spettri del Congo” di Adam Hochschild

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Nel momento esatto in cui Adam Hochschild scopre l’esistenza del movimento mondiale contro la schiavitù in Congo – di cui ha fatto parte, tra gli altri, lo scrittore Mark Twain – si chiede come sia stato possibile che ne fosse rimasto tanto a lungo all’oscuro. Una pratica che aveva mietuto da cinque a otto milioni di vittime. Le statistiche sugli stermini sono spesso difficili da confermare. Se la cifra esatta fosse anche solo la metà il Congo sarebbe comunque stato il teatro di una delle maggiori stragi dell’epoca moderna. Eppure non ha mai fatto “tanta notizia”. 

Gli spettri del Congo di Adam Hochschild è la storia di quel movimento, del selvaggio crimine che ne rappresenta il bersaglio, del lungo periodo di esplorazioni e conquiste che lo precedette e del modo in cui il mondo ha dimenticato, o ignorato, una delle grandi stragi del recente passato. 

Dietro l’entusiasmo europeo si celava non di rado la speranza che l’Africa diventasse una fonte di materie prime per la Rivoluzione industriale. Ma agli europei piaceva pensare di avere motivazioni più nobili. In particolare, i britannici credevano fermamente di dover portare la “civiltà” e il cristianesimo agli indigeni. 

L’autore sottolinea come una delle esperienze più inquietanti per chi si recava nell’allora Unione Sovietica era passeggiare lungo le ampie gallerie del Museo della rivoluzione in via Gorky, a Mosca. Vi erano esposte centinaia di fotografie e dipinti di rivoluzionari con il colbacco che facevano capolino da dietro barricate coperte di neve, innumerevoli fucili, mitragliatrici, bandiere e vessilli e una vasta collezione di altre reliquie e documenti, senza che vi fosse alcuna traccia dei venti milioni di cittadini sovietici morti nei sotterranei delle esecuzioni, durante carestie provocate dall’uomo e nei gulag.

Oggi quel museo moscovita ha subito cambiamenti che i suoi creatori non avrebbero mai immaginato. All’altro capo dell’Europa, invece, ce n’è uno che non è cambiato affatto: il Museo reale dell’Africa centrale e Bruxelles. In nessuna delle venti ampie gallerie del museo ci è traccia dei milioni di congolesi rimasti vittime di una morte crudele. E Bruxelles non è la sola. 

A Berlino non vi sono musei o monumenti in ricordo degli herero massacrati, mentre a Parigi e Lisbona nulla rievoca il terrore della gomma che decimò metà delle popolazioni di alcune zone dell’Africa francese e portoghese. 

Il Congo diventa nel libro di Hochschild un esempio di politica dell’oblio. Un simbolo, un faro che va a illuminare anche le altre innumerevoli “dimenticanze”. 

Dopo aver letto Gli spettri del Congo viene naturale chiedersi quanto siamo diversi noi occidentali oggi, rispetto agli inglesi convinti di dover civilizzare il mondo. 

Quella compiuta da Adam Hochschild è un’approfondita e dettagliata analisi di un sostanzioso periodo storico, che inizia sul finire del 1800, e riguarda molteplici popoli dislocati in varie parti del mondo, uniti da una linea rossa che li lega insieme e, al contempo, li divide. Un libro che racconta la Storia che molti non hanno mai voluto vedere e altri hanno preferito dimenticare. Un libro tanto cruento e brutale quanto veritiero e necessario.

Il libro

Adam Hochschild, Gli spettri del Congo. La storia di un genocidio dimenticato, Garzanti, Milano, 2022.

Titolo originale dell’opera: King Leopold’s Ghost.

Traduzione dall’inglese di Roberta Zuppet.

L’autore

Adam Hochschild: è uno scrittore, giornalista e storico statunitense. Con Gli spettri del Congo ha vinto il Duff Cooper Prize.


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Garzanti Editore per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


Articolo pubblicato su Articolo21.org


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La mancanza dell’aborto legale uccide: “Aborto senza frontiere” di Alessandro Ajres

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Nonostante la Polonia sia stata tra i primissimi paesi al mondo a regolamentare l’aborto per legge, ancora oggi continuano le proteste. Conseguenze delle continue limitazioni nonché delle richieste di divieto assoluto di aborto.

La legge attuale, intorno alla quale si discute e si combatte quotidianamente, rappresenta un’ulteriore limitazione a quella approvata nel 1993, frutto di un compromesso tra Stato e Chiesa intervenuto dopo la caduta del Muro, che però finì per scontentare entrambe le parti. 

Lo #StrajkKobiet e tutta la gestione del movimento fa parte di una rinascita globale del movimento per i diritti, ispirandosi alle sue pratiche, forme organizzative e comunicative, ai suoi simboli e immaginari e, al tempo stesso, arricchendoli di nuovi elementi. 

Le proteste contro il divieto d’aborto in Polonia non sono una vicenda principalmente polacca. C’è un legame forte con le proteste dei paesi vicini, la Bielorussia e l’Ucraina – il movimento contro Lukasenko e l’Euromaidan – , ma le donne polacche e i moltissimi uomini, soprattutto giovani, che le hanno affiancate nelle piazze, grandi e piccole, di tutto il paese, hanno attinto anche alle esperienze di altri movimenti: Primavere arabe, caceroladas argentine, proteste degli ombrelli a Hong Kong, #OccupyGeziPark, #OccupyWallStreet, proteste degli Indignados spagnoli, contestazioni greche di piazza Syntagma. 

Le statistiche ufficiali relative agli aborti legalmente avvenuti in Polonia nel 2020 indicavano, su 1074 casi complessivi, 1053 interventi in seguito a indagine prenatale, che indicava un’alta probabilità di compromissione fetale grave e irreversibile, o una malattia incurabile pericolosa ai fini della stessa sopravvivenza; in 21 casi la gravidanza è stata interrotta in quanto rappresentava una minaccia per la vita della madre. 

Rendere l’aborto completamente illegale, ucciderebbe più essere umani. Oltre al fatto che veicolerebbe sempre più donne verso interventi illegali o da effettuarsi in paesi stranieri. Come già accade. Stando ai dati forniti da Aborga bez granic – Aborto senza confini, le donne polacche, malgrado le dure restrizioni imposte dalla nuova legge, continuano a esercitare una scelta grazie alle associazioni che le seguono e alla mobilità europea. 

Frida Kahlo, Ospedale Henry Ford – Il letto volante, 38×30.5 cm, olio su metallo, 1932, Collezione di Dolores Olmedo, Città del Messico.

La Polonia contemporanea è un paese in cui la lotta per la modernità si svolge a spese delle donne. Per la prima volta, in seguito alla battaglia scatenatasi intorno alla legge sull’aborto, queste hanno l’opportunità di fermare e ribaltare il meccanismo arrugginito dall’usura del patriarcato. 

Leggendo della capillarità della protesta, dell’inventiva delle organizzatrici e dei suoi sviluppi, si palesa tutta la sua innata forza, generata dalla “paura” di non essere ascoltate, di essere calpestate come i diritti conquistati, di essere zittite, di essere dimenticate. È la forza che può generare solo la disperazione, o la speranza. 

L’analisi condotta da Alessandro Ajres riguarda principalmente il linguaggio e la comunicazione della protesta, che passa attraverso suoni, parole, immagini, e riguarda gli slogan, i comunicati, i post sui social, i cartelli e i simboli utilizzati. Un linguaggio e una comunicazione che hanno indagato a fondo anche musica, letteratura e arte, focalizzando su alcuni aspetti stereotipati che lanciano messaggi obsoleti o deleteri. Oppure obsoleti e deleteri. Immagini inadeguate e lontane dalla vita reale che attraversano trasversalmente tutti i campi della cultura. Basti pensare ai leitmotiv di molta comunicazione, letteratura, cinema, pubblicità, musica e arte. 

L’autore, attraverso l’indagine sulle proteste, svolge un approfondito lavoro di studio al riguardo, mostrando al lettore aspetti poco noti dell’interpretazione artistico-letteraria di simboli e motivi. 

Frida Kahlo, L’amoroso abbraccio dell’universo, la terra (Messico), io, Diego e il signor Xolotl, 70×60.5 cm, olio su tela, 1949, Collezione Jacques&Natasha Gelman, Città del Messico.

Il libro

Alessandro Ajres, Aborto senza frontiere. Il movimento polacco e i suoi modelli, Rosenberg&Sellier, Lexis Compagnia Editoriale, Torino, 2022.

L’autore

Alessandro Ajres: professore a contratto di Lingua polacca alle Università di Torino e Bari. Si occupa principalmente di letteratura polacca moderna e contemporanea.


Articolo pubblicato su Articolo21.org


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Rosenberg&Sellier per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Immagine in evidenza: Caravaggio, Giuditta e Oloferne (particolare), 145×195 cm, olio su tela, 1599, Palazzo Barberini, Roma.


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“Madri” di Marisa Fasanella


Frida Kahlo, Radici, 30.5×49.9 cm, olio su tela, 1943, Collezione privata.

© 2023, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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“Tre monologhi. Penna, Morante, Wilcock” di Elio Pecora (Irelfe, 2021)

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Il monologo è un racconto da parte di una voce sola. Ma non è un racconto univoco. Racchiude in sé la vastità e l’immensità di una scrittura che esce dal silenzio e anima la pagina scritta che sembra diventare parlata. Pecora riunisce in un solo libro tre monologhi, che raccontano tre persone differenti, le indagano, rivelandone forze e fragilità, verità e contraddizioni. 

La scrittura di Elio Pecora è precisa, lenta, ritmata e scandita dai bisogni delle emozioni, quelle narrate e quelle provate. Una scrittura senza tempo, che narra del tempo trascorso e di quello futuro. Sandro Penna, J. Rodolfo Wilcock ed Elsa Morante sono i tre personaggi di cui Pecora narra, con lo scopo precipuo di scioglierli dalle nebbie della propria memoria e di chiamarli a sé vivi e pressanti. 

Penna interroga la propria fanciullezza mai domata dal tempo e ancora si chiede un’impossibile felicità. Wilcock intesse le sue strabilianti mostruosità vagando fra stanze ombrose e paesaggi pencolanti negli abissi. Morante cammina per le strade di Roma recando nei gesti e nelle parole i fantasmi cari e dolorosi delle sue narrazioni. Tre vite segnate da un destino d’arte e da una indomabile passione espressiva, tre vite diverse e uguali nelle giornate di tutti.

Differenze e similitudini nella vita e nella personalità di tre artisti che emergono dalla scrittura di Pecora e quasi sembrano fondersi in essa, rievocando nel lettore le peculiarità proprie dell’artista che scrive, le quali emergono dal racconto delle vite altrui, in un narrare che è anche una fusione: di stile, di emozioni, di vita. 

L’autore deve conoscere a fondo la vita e l’arte dei tre personaggi narrati, ma non si dilunga in inutili spiegazioni. Riesce a far trasparire tutta la sua conoscenza senza doverla raccontare, mantenendo per tutto il libro uno stile narrativo accattivante, pulito, chiaro, profondo

I monologhi di Elio Pecora sono molto introspettivi, dei personaggi da lui scelti certo, ma anche dello stesso autore e del lettore il quale, indirettamente, si sente invitato e invogliato verso una personale ricerca interiore, del proprio io e del proprio estro. 

Raccontando i suoi amici, Pecora racconta se stesso e ciò che traspare al lettore è una grande forma di tenerezza, quella che alberga nella parte più intima e personale dell’essere umano e che rivive attraverso i ricordi e, a volte, i rimpianti. 

Leggere Tre monologhi di Elio Pecora è, anche, un viaggio nella Letteratura italiana, conoscere i suoi protagonisti come persone e non mere creature artistiche. Un viaggio attraverso un mondo che non è mai a sufficienza indagato e raccontato. 

tre monologhi raccontano di tre personalità diverse tra loro, eppure tutte accomunate dalla grande passione con cui hanno vissuto la propria vita e creato le loro opere. Vita e opere che sembrano quasi indissolubili, quasi fuse in un percorso di vita e arte che caratterizza, da sempre, i veri artisti. 

Tre monologhi è un’opera ben studiata e scritta e una lettura davvero interessante

Il libro

Elio Pecora, Tre monologhi. Penna, Morante, Wilcock, Irelfe – Il Ramo e la Foglia Edizioni, Roma, 2021. Prefazione di Marco Lucchesi.

L’autore

Elio Pecora: campano di nascita, romano di adozione. Autore di raccolte di poesie, racconti, romanzi, saggi critici, testi per il teatro, poesie per bambini. Dirige la rivista internazionale Poeti e Poesia. Ha collaborato per la critica letteraria a quotidiani, settimanali, riviste e programmi Rai. 


Articolo pubblicato su OublietteMagazine


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa IRELFE – Il Ramo e La Foglie Edizioni per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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© 2023, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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La corruzione è un fenomeno culturale: “Giustizia. Ultimo atto” di Carlo Nordio

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A trent’anni da Tangentopoli siamo ben lontani dal progetto di ripristinare, ove ci sia mai veramente stata, la legalità nelle istituzioni. La corruzione non è diminuita. Ma per Nordio l’effetto più pernicioso è stato portare la magistratura al controllo dei partiti e alla tutela del Paese, fino al punto di sovvertire il responso delle urne e modificare gli equilibri parlamentari. 

In Italia, il rapporto tra magistratura e politica è stato, negli ultimi venticinque anni, del tutto anomalo. In uno Stato democratico che, come tutti gli ordinamenti moderni, si fondi sul principio della divisione dei poteri, questa conflittualità dovrebbe essere esclusa in radice. 

Occorre quindi, per l’autore, una rivoluzione copernicana del sistema giudiziario, perché il tempo sta per scadere. Siamo all’ultimo atto.

Tangentopoli è stata la malattia e Mani Pulite la cura. Eppure, per Nordio, quest’ultima si è rivelata essere più dannosa della prima, sul lungo termine. 

Da un lato la corruzione è continuata e continua, sia pure sotto forme assai diverse. Dall’altro l’accumulo di prestigio e quindi di potere da parte della magistratura ha determinato sia la subordinazione della politica, sia la degenerazione della stessa corporazione giudiziaria.

Il primo fallimento della cosiddetta rivoluzione del 1992-1994 è stato il ripetersi di crimini che alcuni speravano tramontati, o comunque diminuiti. I processi e le sentenze sui vari episodi hanno dolorosamente dimostrato l’estensione e l’intensità di questo fenomeno pernicioso, che offende la legalità, umilia la concorrenza, aumenta i costi e gli sprechi, e si insinua in modo tentacolare persino tra gli organi di controllo che dovrebbero impedirlo e combatterlo. 

Il secondo fallimento riguarda i rimedi impiegati: inutili. Rimedi che Nordio sintetizza in una dissennata proliferazione normativa, un’enfatizzazione burocratica, un’innocua severità. Dal 2012 in poi, soprattutto, i provvedimenti anticorruzione si sono succeduti con «periodica e minuziosa bigotteria ammonitoria», nel senso che a ogni legge si attribuiva un intento insieme etico e risolutivo. 

L’autore sottolinea come spesso si tende a dimenticare che, quando la corruzione assume proporzioni estese e infiltrazioni capillari, contagiando allora come oggi tutti i settori della vita civile e germinando dai settori più modesti dell’impiegato comunale a quelli più elevati dell’alta amministrazione, subisce una trasformazione genetica. Non perde il suo connotato criminoso, ma lo altera e lo decompone. Diventa, in definitiva, un fenomeno culturale

Più uno Stato è corrotto, più le leggi sono numerose, e più le leggi sono numerose, più alimentano la corruzione. Per cambiare questo sistema corroso e obsoleto occorre modificare la Costituzione, ormai «vecchia culturalmente» secondo Nordio, perché basata sul compromesso di due ideologie – la comunista e la cattolica – che hanno subito, negli ultimi decenni, profonde trasformazioni. Bisogna inoltre ridurre e semplificare le leggi esistenti, perché il corrotto, prima ancora di essere punito o intimidito, va disarmato. È questo il succo fondamentale della rivoluzione copernicana invocata dall’autore. 

Carlo Nordio analizza a fondo il problema della corruzione nelle istituzioni e il modo in cui è stato affrontato dalla politica e dalla magistratura negli ultimi quarant’anni. Anche riguardo la magistratura, come per la politica, consiglia di non generalizzare mai troppo né, per contro, tentare di ridurlo a eventi legati solo a singoli individui, magari in vista, i quali finirebbero per diventare inutili capri espiatori di un fenomeno che non sarebbe comunque risolto, anche in seguito a una eventuale condanna. 

L’autore è un liberale, e non tenta certo di nasconderlo. Si può concordare o meno con le sue posizioni e anche con alcune delle sue vedute, ma non si può certo obiettare quando egli compie una dettagliata ricognizione dello stato dell’arte. Un’analisi attenta, lucida e, tutto sommato, obiettiva. Sicuramente competente in materia. 


Il libro

Carlo Nordio, Giustizia. Ultimo atto. Da Tangentopoli al crollo della magistratura, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2022.

L’autore

Carlo Nordio: editorialista ed ex magistrato. Ha condotto le indagini sulle Brigate rosse venete e quelle sui reati di Tangentopoli, ha poi coordinato l’inchiesta sul Mose. È stato consulente della Commissione parlamentare per il territorio e presidente della Commissione ministeriale per la riforma del codice penale. Dal 2018 fa parte del Cda della Fondazione Luigi Einaudi. Collabora con numerose testate nazionali ed è autore di diversi volumi sul tema della giustizia. Attuale ministro della giustizia nel governo Meloni.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Guerini e Associati per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com



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La bellezza non basta. L’amore del Rinascimento che ha cambiato il mondo. 

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“Amarsi” di Giulio Busi e Silvana Greco

Se bastasse la bellezza, il Rinascimento non sarebbe mai nato. 

La bellezza non basta. È questa, nell’analisi di Busi e Greco, la grande scoperta del Rinascimento. 

Gli artisti e gli scrittori rinascimentali scavano il marmo, stendono la pittura, infilano collane di parole. Ma il loro segreto non è fatto di pietra, di colori, d’inchiostro. Assieme alla bellezze, impastano emozioni. E le mettono per iscritto. Le dipingono. Le disegnano. Le modellano.  E l’enorme quantità di scritti, schizzi, dipinti, affreschi, statue rendono omaggio al loro amore, vissuto, immaginato, sognato, desiderato, subito. 

Il Rinascimento esplora il desiderio, lo trasforma in forme che si librano nello spazio, si torcono, si congiungono, si amano. Si amano di un amore diverso, sperimentale, egregiamente indagato dagli autori il cui scopo è portare alla luce proprio il nuovo modo di dire, vedere e fare l’amore. E la ragione principale per la quale lo hanno fatto è che i modelli amorosi del Rinascimento, i percorsi di seduzione, l’affinamento psicologico dei sentimenti messi a fuoco in Italia in quest’epoca inimitabile sono ancora dominanti oggi. 

Incisioni e libri a stampa divulgano posizioni erotiche, liberano la sessualità, la portano dal chiuso delle alcove sotto gli occhi di molti, se non di tutti. Questa libertà, contro cui si schierano ben presto le autorità ecclesiastiche, ha naturalmente anche i suoi lati oscuri. Il Rinascimento escogita nuove forme di mercificazione del desiderio. 

È in quest’epoca che si afferma il fenomeno delle «cortigiane oneste». Eredi delle etère dell’antichità classica, le cortigiane rinascimentali uniscono l’avvenenza a una conversazione brillante, uno stile di vita sofisticato e a talenti artistici. Hanno spesso un’ottima educazione, superiore alla media, e la loro compagnia, unità a disponibilità sessuale, è ambita dagli esponenti dell’élite. Chiamarle prostitute d’alto bordo, sottolineano gli autori, non rende ragione del loro ruolo, che ha profonda influenza culturale. 

Se il modo di concepire l’amore cambia, è anche grazie alle donne che entrano, in maniera prima impensabile, nel discorso pubblico e che sanno colloquiare alla pari con gli esponenti del mondo umanistico. Non soltanto cortigiane, di solito impegnate in un’ascesa sociale che, da condizioni relativamente modeste, le porta a contatto con il potere economico e politico. Parecchie scrittrici e qualche artista visiva, spesso di estrazione alto borghese o nobiliare, interpretano seduzione e desiderio con accenti nuovi, ed evocano un altro eros, più ricco di sfumature, di quello che viene dall’universo maschile. 

Correggio, Giove e Io, 1532-1533, olio su tela, 163,5x72cm, Vienna, Kunsthistorisches Museum.

Il femminile acquista, nel Rinascimento, maggiore profondità, una più nitida consapevolezza psicologica. Non è ancora la piena autonomia a cui punterà l’età moderna, ma il passaggio è comunque fondamentale. L’amore, il desiderio, la passione che sembrano esplodere oppure implodere allorquando si scontrano con le recrudescenze del passato, del maschilismo, dei dogmi della religione. Allora come ora. 

Pietro Bembo è stato uno dei paladini più determinati dell’amore platonico, della dicotomia: amore infelice-amore fisico vs amore felice-amore ideale. E lo è stato nei suoi scritti, nei suoi libri. Nei salotti, in camera, in tante lettere eleganti e in spiegazzati, frettolosi bigliettini, fu invece amatore seriale di donne in carne, ossa, occhi, volti e corpi. Con alterne fortune, naturalmente, ma con una melodica arte di seduzione, che non gli impedì di giungere fino al cardinalato. 

Vicende che riportano alla mente le tante analogie tra il periodo rinascimentale e quello attuale. Ai tanti “scandali” che riempiono le cronache con la stessa facilità e velocità con la quale finiscono nel dimenticatoio generale. 

Il grande Michelangelo Buonarroti sempre schivo nel raccontarsi ha lasciato uno dei più suggestivi esempi di pathos amoroso rinascimentale. Un messaggio composto per «Tomao», ovvero Tommaso Cavalieri, il giovane che Michelangelo incontra a Roma, nell’autunno-inverno 1532-33 e per il quale prova ammirazione, attrazione, imbarazzata affinità. Più che parlar d’amore, quello michelangiolesco è amore in parole, e in immagini. 

Caravaggio, Amor Vincit Omnia, 1602-1603, olio su tela, 156x113cm, Berlino, Staatliche Museen.

Accanto al bello, il Rinascimento scopre l’emozione, la vicinanza dei corpi, persino le loro imperfezioni. Nelle relazioni fra donne e uomini, in quelle omoerotiche, tra ceti diversi, la rivoluzione amorosa del Rinascimento cambia per sempre la società. Per certi versi la sconvolge, di turbamenti i cui strascichi sono, in parte, ancora irrisolti. 

Anziché un Rinascimento dell’individuo, che vuole affermarsi contro tutti, Busi e Greco immaginano una trasformazione guidata dai sensi, un modo nuovo di orizzontarsi nel reale. Gli uomini e le donne del Rinascimento sono, come vuole Burckhardt, più individualisti dei loro predecessori, ma sono anche immersi in una sensorialità diversa. Si mostrano in maniera più tangibile, si muovono nello spazio con migliore consapevolezza dei loro corpi, affinano con maggiore cura il loro sentire. 

Analizzano a fondo scritti e dipinti gli autori, guidando il lettore attraverso letteratura e arte rinascimentale. Un’immersione in un mondo dall’oggi non così distante così si può ipotizzare o sperare. Un percorso che elude critiche e pregiudizi, abbracciando invece la sete di conoscenza e comprensione del lettore e degli stessi autori. Comprendere come le persone si rapportano con le proprie pulsioni intime per certo aiuta a capire il loro modo di comportarsi in pubblico. Esiste una stretta interrelazione tra il modo in cui una persona ama se stessa, ama un altra persona e la maniera in cui poi esse si ameranno tra loro. Ed è su questo punto affatto scontato che il libro di Busi e Greco svela tutta la sua grandiosità. 


Il libro

Giulio Busi, Silvana Greco, Amarsi. Seduzione e desiderio nel Rinascimento, ilMulino, Bologna, 2022.

Gli autori

Giulio Busi: esperto di mistica ebraica e di storia rinascimentale, professore alla Freie Universität di Berlino. Collabora alle pagine culturali de «Il Sole 24 Ore».

Silvana Greco: studiosa di sociologia della cultura e dell’arte, professoressa alla Technische Universität di Dresda.


Articolo disponibile anche qui


Sandro Botticelli, Venere e Marte, 1482-1483 circa, tecnica mista su tavola, 69,2×173,4cm, Londra, National Gallery.

Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa de ilMulino per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: immagine di copertina: Tiziano Vecellio, Amor Sacro e Amor Profano, 1515, olio su tela, 118x279cm, Roma, Galleria Borghese.


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“L’appartamento del silenzio” di Gianni Verdoliva

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«Il silenzio è una fonte di grande forza»

È con questa citazione di Lao Tzu che si apre al lettore il libro di Verdoliva. Il silenzio è per certo fonte di forza, una forza che si ritrova nelle parole del libro, nella storia che l’autore racconta, nelle immagini descritte come anche in quelle evocate. 

Il protagonista del libro abita nella sua nuova-antica dimora ma, soprattutto, abita il suo silenzio. Un silenzio fatto di respiri e di sospiri, di anime perse e di anime inquiete, di luoghi solitari e antichi segreti.

La storia raccontata è anche un percorso emotivo o meglio, una serie di percorsi emotivi, relativi ad altrettanti personaggi. Un cammino volto a scoprire le loro anime, non sempre limpide e trasparenti. Un andare sempre più in profondità che non può non condurre i protagonisti alla scoperta o alla riscoperta del dolore. 

Nonostante in più punti del libro Verdoliva sfiori argomenti particolarmente sensibili all’animo umano, riesce a non renderli troppo pesanti o aggressivi per il lettore. Il male presentato dall’autore non è totale, si intravede la speranza di sconfiggerlo e questo lancia un grande messaggio positivo che alleggerisce non poco la lettura. 

La scrittura sembra modellarsi armoniosamente con la storia che vuole narrare. Ritmata secondo le evoluzioni della vicenda stessa, che sembra rispettare finanche le pause dettate dal silenzio. 

L’autore deve coltivare diverse passioni, che vanno dall’esoterismo all’alchimia, ed è riuscito a inserire molte delle sue conoscenze all’interno del testo, utilizzando un linguaggio veramente poco “tecnico”, in modo che anche il lettore più distante da queste discipline riesce comunque a seguire il filo della narrazione. 

I continui salti temporali, soprattutto nei primi capitoli del libro, potrebbero disorientare un po’ il lettore ma, seguendo con attenzione le diverse vicende della narrazione, se ne comprende appieno la necessità. Lo stesso può dirsi dei tanti “protagonisti”, ovvero dei numerosi personaggi cui l’autore dedica la medesima attenzione, raccontando nel dettaglio la vita di ognuno di essi. Alla fine si realizza che la scelta di Verdoliva non è né dispersiva né confusionaria, bensì funzionale al messaggio che intende trasmettere. Un messaggio positivo, di speranza. Nonostante tutto. Dolore, paura, timori possono essere superati, vinti, e ognuno avrà diritto alla sua rinascita

I continui salti temporali utilizzati per raccontare le diverse vite dei personaggi a tratti sembrano anche un continuo alternarsi tra giovinezza e vecchiaia, in un altalenante gioco che altro non è che la stessa vita. Questa vita che può essere indicata come protagonista accanto all’appartamento e al suo silenzio. Un silenzio fatto di respiri, di sospiri, di vuoti e di suoni. Sì, di suoni, perché un altro nodo focale del libro è proprio la stanza della musica. Una stanza che trasuda mistero, le cui mura sembrano trattenere a stento il vorticoso turbinio di segreti in essa rinchiusi. 

Un libro, L’appartamento del silenzio di Gianni Verdoliva, che può appassionare o sconvolgere, ma che stupirà, in ogni caso, per la delicatezza con la quale l’autore affronta e racconta storie e tematiche anche molto sensibili. 


Il libro

Gianni Verdoliva, L’appartamento del silenzio, Fides Edizioni, Gruppo Editoriale Les Flâneurs, Bari, 2022.

L’autore

Gianni Verdoliva: giornalista pubblicista e scrittore.


Source: Si ringrazia l’addetta stampa che ha curato la promozione del libro per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


Articolo pubblicato su OublietteMagazine


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È la decolonizzazione mentale l’arma vincente contro il razzismo. “Insegnare comunità” di Bell Hooks

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Insegnare, per Bell Hooks, è condividere la crescita intellettuale e spirituale degli studenti. Impegnarsi per porre fine al razzismo nell’istruzione è l’unico cambiamento realizzabile a beneficio degli studenti neri e, in generale, di tutti gli studenti.

Se i neri americani hanno dovuto, e devono ancora, lottare contro la discriminazione e la segregazione, di fatto i neri d’Italia, pur trovandosi in scuole libere, pubbliche e aperte a tutti, spesso sono stigmatizzati come stranieri, anche se nati e cresciuti qui. Altre volte sono etichettati come alunni con «bisogni educativi speciali» solo perché non parlano ancora la lingua italiana o sono traumatizzati per i trascorsi, per la fuga da paesi in guerra o povertà estrema.

A differenza della generazione di Bell Hooks, che ha comunque avuto nelle scuole segregate insegnanti-modello a cui ispirarsi e che spronavano a impegnarsi e a eccellere, nelle scuole italiane non ci sono ancora insegnanti con lo stesso retroterra degli alunni. Ovviamente ciò non vuol dire che si auspica la realizzazione di scuole segregate, tutt’altro. La creazione di una scuola multietnica e multiculturale a ogni livello.

L’educazione funziona e favorisce l’autostima degli studenti bianchi, neri e di colore (intesi come “non bianchi”) solo se chi educa è antirazzista nelle parole e nei fatti.

Una delle situazioni più ricorrenti, sottolineata da Hooks nel testo, riguarda proprio il fatto che la gran parte di coloro che si dichiarano antirazzisti, nel loro quotidiano, non frequentano persone nere o di colore. Non hanno grandi rapporti con loro. La loro cerchia si compone, alla fin fine, di persone bianche. 

L’insegnamento può essere un’attività gioiosa e inclusiva, ma deve essere assolutamente ripensato per affrontare in maniera risolutiva le discussioni su razza, genere, classe e nazionalità. Hooks sostiene che l’insegnamento può avere luogo in diverse e molteplici situazioni quotidiane di apprendimento: nelle case, nelle librerie, negli spazi pubblici e ovunque le persone si riuniscano per condividere idee capaci di influenzare la loro vita.

Per Bell Hooks, gli insegnanti imparano mentre insegnano e gli studenti imparano e condividono la conoscenza e, in tale conoscenza, tutti si riconoscono come membri di una comunità. 

Nella prefazione, Rahma Nur condivide con Hooks la presa di coscienza dell’assenza di altre donne nere negli ambienti di lavoro frequentati e ricorda che, se negli ambienti accademici vissuti dall’autrice si era arrivati a sdoganare i discorsi su razza e razzismo, in Italia si è ancora ben lontani da ciò. Nel senso che sono discorsi ripresi e sviluppati dagli stessi neri, in svariati luoghi, ma l’opinione pubblica e i mezzi di comunicazione fanno ancora molta fatica ad accettare certi argomenti.

Invece bisogna far capire che il «modello suprematista bianco plasma le nostre percezioni quotidiane» in ogni momento, e questo succede negli Stati Uniti come in Italia. Necessita un lavoro di decolonizzazione e auto-decolinazzione mentale

L’Italia è stato un paese colonizzatore e certi pensieri e atteggiamenti suprematisti fanno parte di questo retaggio. Se le persone bianche non possono liberarsi dal pensiero e dall’azione suprematista bianca, le persone nere e di colore non saranno mai veramente libere: questo vale anche per noi e per chi ha dimenticato o non conosce le violenze impartite ai popoli del Corno d’Africa (Eritrea, Etiopia, Somalia) che l’Italia ha colonizzato. 

La cultura dominante ha paura ad approcciarsi a nuove idee e nuovi modi di vedere il mondo. Eppure è importante sostenere la giustizia sociale trasformando il sistema scolastico ed educativo in modo che la scuola non sia il luogo in cui chi studia subisce un vero e proprio indottrinamento volto a sostenere il patriarcato capitalista imperialista e suprematista bianco o qualsiasi altra ideologia, ma piuttosto dove impara ad aprire la mente, a impegnarsi nello studio rigoroso e a pensare in modo critico. Generando in tal modo una vera e propria «pedagogia della speranza». 

Mentre il mondo accademico diventa sempre più un luogo in cui le aspirazioni umanitarie possono realizzarsi attraverso l’educazione come pratica della libertà e la pedagogia della speranza, il mondo esterno insegna ancora, purtroppo, la necessità di mantenere l’ingiustizia, la paura e la violenza. La critica al concetto di alterità, capeggiata dall’educazione progressista, non è potente quanto l’insistenza dei mass media conservatori sul fatto che tale alterità debba essere riconosciuta, braccata e distrutta. 

L’odio incarna un complesso insieme di paure che riguardano la differenza e l’alterità. Rivela ciò che alcune persone temono in sé stesse, le proprie differenze. Inoltre, sottolinea ancora Hooks, l’odio si forma intorno all’ignoto, alla differenza percepita come alterità. 

I cittadini di tutto il mondo sono attraversati dal cinismo mortale che normalizza la violenza, che fa la guerra e sussurra che la pace non è possibile, che non può esistere pace tra individui diversi, che non si assomigliano né parlano allo stesso modo, che non mangiano lo stesso cibo, non adorano gli stessi dei o non parlano la stessa lingua. 

Bell Hooks sottolinea come spesso chi insegna si dimostra riluttante a riconoscere fino a che punto il pensiero suprematista bianco informa ogni aspetto della nostra cultura, comprese le modalità di apprendimento, il contenuto di ciò che si apprende e il modo in cui viene insegnato. E ciò vale anche per tutti gli altri che insegnanti non sono.

Ricorda l’autrice un test che somministrava durante le sue conferenze: quale identità sceglieresti se potessi reincarnarti? Le opzioni sono: maschio bianco, femmina bianca, maschio nero, femmina nera. 

Ogni volta andava per la maggiore l’opzione “maschio bianco” e per ultima “femmina nera”.

Perché? La gran parte delle risposte dava come motivazione il privilegio basato sulla razza. E sul genere. 

Chiunque compirà questo test con sé stesso dovrà ammettere che è un dato di fatto. 

Nella nostra cultura quasi tutti, indipendentemente dal colore della pelle, associano la supremazia bianca al fanatismo conservatore ed estremo, ai naziskin che predicano tutti i vecchi stereotipi razzisti della purezza. Eppure, sottolinea Hooks, questi gruppi estremisti raramente minacciano il quotidiano. Sono le credenze e i pregiudizi suprematisti della compagine bianca “moderata”, più facili da nascondere e dissimulare, che sostengono e perpetuano il razzismo quotidiano come forma di oppressione di gruppo. 

Diventare razzisti o meno è una scelta che facciamo. Nel corso della nostra vita siamo costantemente chiamati a scegliere da che parte stare rispetto al razzismo. 

La cultura dominante ci vuole spaventati e desiderosi di scegliere la sicurezza al posto del rischio, l’identità invece della diversità. Superare la paura, scoprire cosa ci unisce e saper apprezzare le differenze è il grande messaggio che dona al lettore il libro di Hooks. Un movimento che ci avvicina e ci offre un mondo di valori condivisi, e un senso significativo di comunità.

Un messaggio intenso e potente come il libro che lo racchiude e lo diffonde. 

Il libro

Bell Hooks, Insegnare comunità. Una pedagogia della speranza, Meltemi, Milano, 2022. Prefazione di Rahma Nur. Traduzione di Feminoska. Titolo originale: Teaching community: a Pedagogy of Hope.

L’autrice

Bell Hooks: è stata una studiosa femminista afroamericana. Il suo lavoro esamina l’intersezionalità di razza, capitalismo e genere e il modo in cui questa contribuisce a perpetuare i sistemi di oppressione e il dominio di classe.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Meltemi Editore per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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© 2023, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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È il bianco l’unico colore possibile? Le giustificazioni per la schiavitù: la costruzione di un immaginario razzista

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Solo sul mercato africano esistono più di 150 marche di creme, unguenti e altri gel sbiancanti1, facilmente acquistabili, ma quasi sempre illegali, e dannosi per la salute. E allorquando un prodotto sparisce dal mercato, perché dichiarato troppo nocivo, subito viene sostituito da rimedi fatti in casa. Spesso definiti “naturali”, non per questo meno tossici.

Il problema non è solo medico e non riguarda solo il continente africano. Un’inchiesta di «Le Monde» del 2008 rivelava una tendenza sempre più diffusa: il desiderio di sbiancarsi la pelle anche da parte delle cittadine francesi di origine africana. E lo storico Pap Ndiaye – che nel 2022 ha assunto l’incarico di ministro dell’educazione nazionale in Francia – sostiene si tratti di un problema tout court, risolvibile solo attraverso una lotta più efficace contro le discriminazioni, le gerarchie sociali e quelle “mélaniques”, basate sulla melanina, ereditate dalla colonizzazione. 

Lo studio e la ricerca condotti da Faloppa ripercorrono i tratti salienti della nascita della “necessità” di «sbiancare un etiope» (un moro, un nero, …) da cui deriva direttamente la “volontà” odierna di farlo.

Dal vecchio al nuovo continente, la superiorità della razza bianca è stata sbandierata per e dalla maggior parte della popolazione, da gruppi estremisti quali i membri del Ku Klux Klan ma, paradossalmente, anche da molti afferenti la stessa NAACP (National Association for the Advancement of Coloured People), convinti che i neri non avrebbero mai ottenuto la pienezza dei diritti civili e politici senza modificare le loro abitudini e il loro modo di presentarsi, seguendo i modelli, anche estetici, dei bianchi.

La prima ambizione di un colonizzato è di diventare come il colonizzatore, il quale assurge a modello di riferimento.2 Si tratterebbe di una vera e propria sottomissione psicologica per gli ex colonizzati, che andrebbe superata con un rovesciamento totale non soltanto dei valori ma delle categorie analitiche.3

Ma quando nasce davvero la “necessità” di sbiancare i neri e perché?

«The two pioneers of civilation, Christianity and commerce, should ever be inseparable.»

La civilizzazione e i suoi messaggi sembrano essere indissolubili non soltanto dal commercio ma anche dalla cristianità e dalla missione civilizzatrice di entrambi. È questa la celebre sentenza pronunciata dall’esploratore David Livingstone.4

Il concetto di fondo della sentenza Livingstone sembra aver ispirato diverse campagne pubblicitarie, in particolare quelle di aziende che producevano saponi talmente efficaci da riuscire a sbiancare finanche la pelle di un nero. 

La pulizia non era solo un fatto fisico, ma anche e soprattutto – fin dalla prima metà dell’Ottocento – un fatto morale: un sigillo di rettitudine, una benedizione della proprietà domestica e un dovere civile.5 La pulizia era vista come un bene assoluto, usato spesso inconsciamente come una sorta di “scorciatoia simbolica” per una serie di altri “beni” immateriali e valori: dalla rispettabilità pubblica all’ordine domestico, dalla probità economica all’onestà sessuale (la monogamia, ovvero il clean sex).6

La sporcizia, per contro, era vista come un male in sé, specchio e indizio di altri mali, tanto fisici quanto morali. Andava lasciata fuori casa e fuori dalla società, allontanata, negata. 

Fin dal 1500 l’opposizione simbolica tra il bianco e il nero assunse e sviluppo concetti legati anche alla tradizione classica, soprattutto cristiana, di bianchezza e oscurità. Il bianco associato a purezza, verginità, virtù, bellezza. Il nero alla bruttezza fisica e spirituale, alla mostruosità, alla collera divina. 

Uno dei feticci nella costruzione della polarizzazione (colonizzatori-civili versus colonizzati incivili da civilizzare) fu il sapone, che negli ultimi decenni del XIX secolo diventò il “talismano della modernizzazione”,7 simbolo e strumento di una vera e propria “tecnologia di purificazione sociale”,8 il “principio della civilizzazione”, dal cui consumo si potevano misurare la ricchezza, il livello di civiltà, la salute e la purezza di un popolo.9

L’uso e il consumo del sapone come di altri prodotti detergenti è, ovviamente, legato in primis a questioni di salute, igienico sanitarie, ma non è né esente né lontano da tutti questi aspetti simbolici egregiamente indagati da Faloppa nel libro.

Un simbolismo quasi escatologico che si sovraccarica di aspettative al punto da arrivare ai dati odierni relativi ai tentativi di sbiancamento della pelle. Un tema che le aziende hanno sfruttato, per fini commerciali e di immagine. 

Nel 2017 una pubblicità della Dove fu al centro di polemiche: grazie al potere del brand, una ragazza nera si trasformava in una ragazza bianca dai capelli rossi. Per l’azienda si trattava di un omaggio alla diversità, Ma l’effetto sbiancante del docciaschiuma appariva nella migliore delle ipotesi, sottolinea l’autore, un inspiegabile scivolone, nella peggiore un messaggio razzista, neanche tanto velato. 

Nel 2011 la stessa azienda aveva lanciato una pubblicità nella quale le immagini di tre ragazze – una riccia e nera, la seconda con i capelli scuri e la pelle olivastra e infine la terza con i capelli biondi e la pelle chiarissima – erano accompagnate dal claim «Prima e dopo».

La ricerca condotta da Faloppa va avanti da oltre venti anni e, naturalmente, non è conclusa. Purtroppo, verrebbe da dire. Perché episodi di discriminazione, di presunta manifesta superiorità da parte dei bianchi sono tutt’ora all’ordine del giorno. Tuttavia ciò che l’autore è riuscito a far emergere e che va a comporre il libro è davvero impressionante, notevole e illuminante.

Molto incisiva anche la parte della dedica iniziale dedicata alle generazioni di domani, alle quali l’autore augura di poter rubricare il libro non tra quelli di attualità bensì di storia, perché razzismo e discriminazione saranno ormai superati. 


Il libro

Federico Faloppa, Sbiancare un etiope. La costruzione di un immaginario razzista, Utet, De Agostini Libri, Milano, 2022.

L’autore

Federico Faloppa: professore di Linguistica e  Italian Studies presso l’Università di Reading, in Gran Bretagna. Da oltre venti anni la sua ricerca ruota intorno alla costruzione del “diverso” nelle lingue europee, alla rappresentazione mediatica delle minoranze, alla produzione e circolazione del discorso razzista e discriminante, al rapporto tra lingua e potere, ai discorsi d’odio.


1C. Simon, Un réve de blancheur, in «Le Monde», 29 agosto 2008

2A. Memmi, Portrait du colonisé, portrait du colonisateur, Ed. Buchet/Chastel, Paris, 1957.

3R. Diallo, Racisme: mode d’emploi, Larousse, Parigi, 2011.

4J. P. Nederveen Pieterse, White on Black. Images of Africa and Black in Western Popular Culture, Yale University Press, New Haven-London, 1992. La sentenza di David Livingstone è tratta dalla lecture che l’esploratore tenne a Cambridge il 5 dicembre 1858.

5G. Giuliani, C. Lombardi-Diop, Bianco e nero. Storia dell’identità razziale degli italiani, Le Monnier, Firenze, 2013.

6A. McClintock, Soft-soaping empire: Commodity racism and imperial advertising, in Aa. Vv., The Gender and Consumer Culture Reader, J.Scalon (a cura di), New York University Press, New York, 2000.

7K. van Dijk, J. G. Taylor (eds), Cleanliness and Culture: Indonesian Histories, Brill, Leiden, 2011.

8A. McClintock, Imperial Leather: Race, Gender and Sexuality in the Colonial Contest, Routledge, London, 1995.

9K. van Dijk, op.cit.

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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Utet-De Agostini Libri per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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© 2023, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Congiura e passione ne “L’eredità medicea” di Patrizia Debicke

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Un’inconsapevole vittima che perisce sotto gli sferzanti colpi inferti dalle ree mani degli assassini, convinti di essere i dominatori del gioco e ignari di essere anch’essi pedine di un gioco assai più grande e crudele.

È con questa scena che si apre il libro di Patrizia Debicke L’eredità medicea, un romanzo storico ambientato nella Firenze di inizio Cinquecento. Un periodo storico molto controverso e ricco di numerosi eventi per molti versi contraddittori, inquietanti e illuminati al contempo. Un’epoca che l’autrice ha indagato a fondo, studiandone i principali esponenti e traslandoli nel suo libro evidenziandone gli aspetti più utili per la narrazione di una vicenda intricata e intrigante, ricca di colpi scena e di colpi bassi. 

Riesce, l’autrice, a far immergere il lettore in un tempo orami lontano fin dalle prime battute, grazie all’uso di uno stile narrativo incalzante ma chiaro, e uno stile di scrittura analiticamente studiato per richiamare l’epoca storica e i suoi costumi senza appesantire o intralciare la lettura stessa, che rimane scorrevole e gradevole. 

L’eredità medicea racconta dell’assassinio di Alessandro de’ Medici, della nomina del suo successore Cosimo, delle indagini per smascherare l’esecutore del delitto e soprattutto per trovare il mandante, ma offre anche, grazie all’abilità descrittiva che è propria dell’autrice, uno sguardo d’insieme sulla vita degli uomini e delle donne di quel periodo storico, il corteggiamento e gli amori, ufficiali o clandestini, gli accordi e gli affari, le eredità da dirimere e dietro ogni cosa gli intrighi e le congiure che scorrono attraverso le stanze di palazzi e castelli, ben celati come i numerosi passaggi segreti propri di queste architetture.

Investigazioni basate sull’intuito, sul sospetto e su qualche rara testimonianza diretta o indiretta in un tempo in cui non esistevano supporti tecnici, tecnologici o scientifici e bisognava affidarsi al proprio fiuto, alle parole di qualche informatore, testimone, spia o traditore. Un mondo che appare completamente diverso da quello attuale. Altri aspetti invece sembrano proprio non essere cambiati e li ritroviamo ancor oggi. Per esempio: l’ingerenza della Chiesanegli affari dello Stato, nelle contese dinastiche, nella vita civile della popolazione e di chi la governa, negli intrighi di palazzo, ricatti e delitti. E l’atteggiamento di nobili e amministratori che hanno una considerazione del popolo che di certo non li nobilita.

L’autrice si sofferma più volte nella descrizione dettagliata e minuziosa, anche anatomica, dei protagonisti e la sottolineatura della loro prestanza fisica, la virilità, la forza di valorosi condottieri, uomini forti e determinati. Descrizioni che ne enfatizzano le caratteristiche generali e accentuano l’aspetto deciso e perentorio del loro essere e del loro volere. Uomini blasonati, avvezzi al comando, alla servitù e ai privilegi.

Il Cinquecento raccontato da Patrizia Debicke è il mondo visto dall’aristocrazia, dai principi, dai cardinali, dai pontefici. Nel quale i componenti tutti i livelli inferiori della popolazione vivono le loro esistenze, quando va bene, di riflesso, quando va male, in condizione di completa precarietà e abbandono. 

L’eredità medicea è un romanzo storico di genere giallo ma è anche un libro grazie al quale la Debicke invita il lettore a riflessioni forti, a volte amare sulla società, sulla sua stratificazione e sull’importanza o meno della spiritualità. Elementi tutti che rendono il libro una validissima lettura. 


Il libro

Patrizia Debicke van der Noot, L’eredità medicea, TEA, Milano, 2022.

Prima edizione: Parallelo45Edizioni, novembre 2015.

L’autrice

Patrizia Debicke van der Noot: autrice di romanzi storici e thriller.


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Source: Si ringrazia Patrizia Debicke van Der Noot per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com



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