Giulio Sapelli, Verso la fine del mondo

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Proprio ora che ci sarebbe bisogno di un protagonismo dei valori migliori che il mondo occidentale ha saputo produrre, l’Occidente si sente perduto e sotto attacco. Perché? 

All’inizio del XXI secolo la Storia ha svoltato, ma l’Occidente ancora si rifiuta di ammetterlo e di adattarsi a questa nuova epoca storica. La quota occidentale dell’economia globale si riduce e continuerà a farlo. Il processo è ormai inarrestabile, perché sempre più nuove società imparano ed emulano le best practices dell’Occidente. 

Nella fine della Guerra Fredda l’Occidente ha voluto vedere il trionfo indiscusso della sua supremazia. Sbagliando. Innanzitutto perché la vittoria non è imputabile a una supremazia reale dell’Occidente ma al collasso dell’economia sovietica, ovvero di uno stato che, mentre il suo nemico gongolava, si è pian piano ripreso fino a ritornare a occupare il posto che aveva come potenza mondiale. La fine della Guerra Fredda non è stato altro che la svolta verso una nuova fase storica. Un altro evento assolutamente sottovalutato dall’Occidente è stato l’entrata, nel 2001, della Cina nel WTO – World Trade Organization. L’ingresso di quasi un miliardo di lavoratori nel sistema mondiale di scambi avrebbe per forza di cose avuto come risultato una massiccia distruzione creativa e la perdita di molti posti di lavoro in Occidente.1

I valori dell’Occidente di democrazia, libertà, diritti alla persona devono essere ridiscussi, ripensati e non certo rinunciati o dimenticati se davvero si vuole mantenere viva la speranza di un ritorno alla politica “buona” ma anche a una economia regolata e a una finanza che guardi alle comunità e non al profitto del singolo individuo. Molti gli interrogativi che il mondo occidentale e, in particolare, la “vecchia” Europa si pongono. Primo fra tutti: verso quali drammatici scenari stiamo andando?

Il mondo dei nostri giorni non può essere letto come un ritorno agli anni Venti e Trenta, con annesse argomentazioni su fascismi e deriva burocratica dell’Unione Sovietica. La fase storica che stiamo vivendo è, di fatto, analoga a quella di fine Ottocento – inizi Novecento. Circa centoventi anni fa la globalizzazione negli scambi commerciali raggiunse livelli analoghi agli attuali. In quel periodo la crisi dell’Impero ottomano preparò la crisi dell’Impero asburgico e di quello russo. A caratterizzare quella fase storica fu l’esaurirsi dei compromessi diplomatici, politicamente regolatori delle potenze europee. Alla guerra si arrivò da sonnanbuli, considerandola al massimo un piccolo incidente, che re e imperatori, tutti cugini tra loro, avrebbero sbrigato rapidamente, magari disciplinando anche un po’ i ceti popolari che avanzano troppe pretese. 

Il periodo che va dalla fine della Guerra Fredda fino ai nostri giorni è un percorso caratterizzato, nella sua fase iniziale, da Stati Uniti che considerano superato ogni problema di leadership globale grazie alla finanza, a un ruolo non più militare ma da polizia planetaria, a istituzioni sovranazionali che sostituiscono la politica e a una Mosca che vede accompagnare la liquidazione del suo impero non da uno sforzo politico per integrare la società russa in quella europea, ma da una spoliazione, dal taglio sostanzialmente colonialistico, delle sue risorse. Pesa l’entrata della Cina nella storia del mondo ma il principale fattore di destabilizzazione della leadership unilaterale degli Stati Uniti è stato dopo il 1989 – 1991 (caduta del Muro di Berlino, scioglimento dell’Urss) ancora quello provocato dai movimenti interni al mondo islamico, che pesano sia direttamente in Europa (Bosnia, Cecenia, Turchia) sia grazie alla questione dello strategico approvvigionamento di risorse energetiche. A questa crisi statunitense va aggiunta poi quella europea.2

Sapelli sottolinea quanto gli Usa non sanno più a che santo votarsi ora che l’acume e il buon senso e la capacità diplomatica li hanno completamente abbandonati. E come noi, cittadini di uno dei tanti e diversi stati del continente europeo che li abbiamo seguito con disciplina, subiamo la stessa sorte. 

Tre diverse tipologie di rivoluzioni silenziose hanno determinato e al contempo spiegano lo straordinario successo di molte società non occidentali. 

La prima rivoluzione è politica. Per millenni, le società asiatiche sono state profondamente feudali. La ribellione contro ogni genere di mentalità feudale che ha preso impulso a partire dalla seconda metà del XX secolo è stata enormemente liberatoria per tutte le società asiatiche. Milioni di persone hanno smesso di sentirsi spettatori passivi e si sono trasformati in agenti attivi del cambiamento, evidente nelle società che hanno accettato forme democratiche di governo (India, Giappone, Corea del Sud, Sri Lanka), ma anche in società non democratiche (Cina, Birmania, Bangladesh, Pakistan, Filippine), che lentamente e costantemente stanno progredendo. E diversi paesi africani e latino-americani guardano ai successi asiatici. La seconda rivoluzione è psicologica. Gli abitanti del resto del mondo si stanno liberando dall’idea di essere passeggeri impotenti di una vita governata dal “fato”, per giungere alla convinzione di poter assumere il controllo delle proprie esistenze e produrre razionalmente risultati migliori. La terza rivoluzione è avvenuta nel campo delle capacità di governo. Cinquanta anni fa, pochi governi asiatici credevano che una buona governance razionale potesse trasformare le loro società. Oggi questa è la convinzione prevalente. Gli asiatici hanno appreso dall’Occidente le virtù della governance razionale, eppure mentre i livelli di fiducia asiatici stanno risalendo molti occidentali stanno invece perdendo la fiducia nei loro governi.3

L’America ha costruito il più grande ceto medio che il mondo abbia mai conosciuto e lo hanno fatto gli stessi americani, con il duro lavoro e il supporto di politiche governative volte a creare maggiori opportunità per milioni di persone. Ma ora tutta questa gente è, giustamente, preoccupata. Preoccupata e arrabbiata. Lo è perché, nonostante si ammazzi di lavoro, non vede praticamente crescere il proprio reddito. L’attuale situazione sta impoverendo sempre più il ceto medio e distruggendo la democrazia.4 Una condizione che risulta essere molto simile a quanto sta accadendo in altri paesi occidentali, Italia compresa. Per Mahbubani queste sono tra le principali cause per cui si è arrivati all’elezione di Trump a Presidente degli Stati Uniti d’America (primo mandato) e alla Brexit. Le classi lavoratrici hanno percepito e subito direttamente ciò che le classi dirigenti e politiche non sono riuscite o non hanno voluto captare per tempo. 

Il Nord globale sta assumendo alcuni dei tratti un tempo caratteristici del “Terzo Mondo”, come la crescente diversità interna, la conflittualità su base etnica e razziale, l’aumento di povertà e disuguaglianza, la crescita degli insediamenti informali e di una gioventù sotto-proletarizzata. Molte caratteristiche della modernità africana sembrano investire progressivamente il resto il mondo: crescita di un’economia neoliberista accompagnata da un forte aumento della disuguaglianza, insorgenza di pandemie e catastrofi naturali che talvolta stimolano il sorgere di movimenti di resistenza popolare, concezioni innovative della democrazia che si ispirano a strutture di politica partecipativa del passato. Come hanno ben compreso molti investitori internazionali, non da ultimi i cinesi, l’Africa è entrata in una fase totalmente nuova in cui lo sviluppo dei suoi mercati sta aprendo enormi possibilità economiche. Ma questa trasformazione continua a essere percepita da molti come una mera imitazione di sviluppo occidentale. Liberandosi di questa prospettiva ottocentesca, si scopre invece che i fenomeni osservabili in Africa sembrerebbero addirittura anticipare e non seguire taluni processi che stanno investendo l’Europa e il Nordamerica.5

Può un sistema istituzionale come quello europeo, fondato sull’euro e sullo stop al debito, sopravvivere alla guerra che lo ha investito in pieno? No, non può. La vicenda energetica, la quale altro non è che una destrutturazione delle relazioni di potenza, dimostra, per Sapelli, che l’Europa è destinata a soccombere. A Washington lo hanno capito benissimo, e infatti con la guerra in Ucraina ottengono ora due obiettivi: la distruzione del capitalismo tedesco e la rottura tra economia tedesca e imperialismo cinese. Ovviamente la distruzione di potenza trascinerà con sé l’economia italiana del Nord, da La Spezia a Rimini, che è legata a doppio filo a quella tedesca, così da destrutturare l’Europa, oggi che la sfida si gioca altrove, nell’Indo-Pacifico contro la Cina, e là vanno investite le risorse di potenza.

La guerra di aggressione imperialistica e imperiale della Russia all’Ucraina è giunta rapidamente al suo esito che già si manifestava sin dall’inizio, dopo le guerre siriane e mesopotamiche. La Turchia, nell’agosto 2022, ha riconosciuto la Crimea come entità storica costitutiva della nazione ucraina, scardinando tutta la costruzione neo-imperiale russa che aveva posto le basi ideologiche della guerra di aggressione. Fallito il tentativo di rivitalizzare l’ala anti-islamista dell’armata turca e della sua intelligentsija, fallito Gülen e il colpo di stato, non rimaneva agli Usa che ricercare l’alleanza con la Turchia, accarezzandone i disegni neoimperiali. Le guerre libiche e siriane erano fatte apposta per consentire la realizzazione di un nuovo genocidio turco, ora nei confronti dei curdi, dando a esso addirittura una rilevanza internazionale con l’annessione della Svezia e della Finlandia alla Nato, del resto preparata da anni e anni. Fermare il rischio di escalation sarebbe possibile solo con un sussulto di realismo, con Kiev che rinuncia alla Crimea e al Donbass, ma non se ne vedono i presupposti. Si è davanti a due ideologie “risorgimentali” contrapposte: gli ucraini si considerano giustamente ucraini; i russi, invece, li considerano russi. Mosca non accetta che l’Ucraina sia separata dal nouyi mir, dal mondo russo. L’errore di Kiev è sempre stato quello di escludere l’ipotesi di un’Ucraina neutrale tra Occidente e Russia. 

Tuttavia, la situazione si complicò perché non solo gli Usa intendevano mortificare la Russia, ma anche la Cina, unico possibile soggetto di mediazione, mentre gli Stati Uniti non hanno mai voluto che la guerra finisse. Ne avevano e ne hanno bisogno per continuare ad avere un’influenza forte in Europa e mettere in crisi la Germania. 

Una delle possibili vie d’uscita dal conflitto è trasformare la competizione militare in competizione economica grazie all’azione diplomatica congiunta dei “Paesi latini” europei: Spagna, Portogallo che, insieme alla Germania, trovino un accordo per controbilanciare gli Usa, che vogliono la guerra intermittente, per destabilizzare i Balcani e la Russia. L’Italia resterebbe fuori da questo gruppo di lavoro perché condizionata da esponenti politici locali troppo subalterni agli americani.

Guardare il mondo dal Giappone e dall’Indo-Pacifico consente di comprendere profondamente la nuova era che si apre dinanzi a noi. Il contesto delle relazioni internazionali sta mutando profondamente. Come la trasformazione della stessa Nato e delle sue direttive strategiche, con la penetrazione internazionale sia nell’arco baltico sia in quello Indo-Pacifico che attribuisce una nuova importanza strategica all’Australia la quale, unitamente a Nuova Zelanda e isole Tonga, è il cuore della nuova “anglosfera”, che vede affiancate agli Usa e al Regno Unito le due medie potenze antipodali: la Nuova Zelanda che costituisce una base di profondità verso il Polo Sud, mentre l’Australia è l’antimurale contro la Cina. Un’area geopolitica su cui influisce anche il riarmo atomico del Giappone che va così verso la rinuncia alla totale supplenza nordamericana e si propone di fiancheggiare gli Usa e l’Australia con forze militari proprie.

La “Nuova Via del Cotone”, un progetto di corridoio economico tra India, Medio oriente ed Europa, annunciato a New Delhi nel corso dei lavori del G20, veniva presentato come l’alternativa alla Via della Seta cinese. Il memorandum d’intesa fu firmato tra Stati Uniti, India, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Germania, Francia, Italia e Unione Europea. Un disegno per il cui sviluppo la non conflittualità cooperativa tra Israele e i Paesi arabi era essenziale. Un disegno che vedeva nella cooperazione tra gli Usa e l’Unione Europea la possibilità di competere con la Cina e così di contrastare l’enorme sfera di influenza raggiunta da Pechino nei paesi in via di sviluppo con il suo progetto infrastrutturale della Nuova Via della Seta. 

Dopo aver creato il forum I2U2 nell’ottobre 2021, Israele India Usa Emirati Arabi Uniti hanno intrapreso importanti percorsi di cooperazione sui temi delle risorse idriche, energia e trasporti, spazio, salute e sicurezza alimentare. Viene così a comporsi un quadro più ampio in cui collocare il progetto di Washington di potenziare il prolungamento di potenza del Quad, accordo che unisce Australia India Giappone e Stati Uniti, sempre diretto a contenere in forma competitiva la crescente influenza cinese nel Pacifico. Prolungamento che si sostanziava, nel settembre 2023, dell’acquisizione del porto di Haifa con un partner israeliano locale, così da rafforzare le rotte commerciali con i porti indiani e incrementare i rapporti tra Europa e Grande Medio Oriente. Ma questo prolungamento di potenza inusitato non poteva non provocare una risposta delle potenze ostili a questo disegno: Cina Turchia Russia Iran. 

Si mette così in moto un processo già visto nel tempo che precedette la Prima guerra mondiale, quando lo zarismo utlizzò i nazionalismi balcanici per contrastare sia l’influenza ottomana nei Balcani, sia quella austriaca e franco-tedesca. Ancora una volta il rapporto tra grandi potenze e nazionalismi in armi: i nazionalismi aggressivi armati e terroristici di massa divengono lo strumento idoneo per condizionare – con l’emergere delle piccole e medie potenze – il più grande gioco delle relazioni internazionali. Oggi un meccanismo simile si ripropone nel Medio Oriente, dove i nazionalismi palestinesi sono sempre crescenti e sempre più influenzati dal terrorismo islamico fondamentalista. 

Lo Stato ebraico avrebbe dovuto divenire il centro di una Nuova Via del Cotone in funzione anti-cinese. Per distruggere questa nuova articolazione del plesso del potere mondiale del Grande medio Oriente si è sviluppato l’attacco iraniano-saudita-terroristico di Hamas a Israele

Gli occidentali sembrano essere diventati dipendenti dalle news, prestando attenzione solamente agli eventi e non ai trend. La Malaysia, per esempio, è un paese raccontato dai media occidentali soprattutto o prevalentemente attraverso “news” tragiche (faide e scandali politici, attentati e disastri aerei, scandali finanziari, assassini e via discorrendo). Il risultato è che poche persone si rendono conto che, in termini di sviluppo umano, la Malaysia è uno dei paesi di maggior successo nel mondo in via di sviluppo. Il suo tasso di povertà è sceso dal 51.2% del 1958 all’1.7% del 2012.6 La tante volte ideologicamente negata competizione tra nazioni passa anche e soprattutto attraverso la comunicazione, l’informazione, l’immagine che viene data del paese opposto o concorrente. Una comunicazione distorta che non si ferma neanche davanti a difficoltà e malattie.

«Rileggete le gazzette moderne e postmoderne e scoprirete che pare sia la Germania la fonte di un focolaio da coronavirus ben più potente di quanto si pensasse. Eppure nulla si disse per giorni. L’Italia, invece, si configura nel landscape simbolico mondiale come l’untore del mondo terracqueo.»7

E che dire allora della Cina? Cosa sappiamo di ciò che veramente accade ed è accaduto nell’Impero di Mezzo?

La Cina appare a molti osservatori nazionali e internazionali come una nazione che esce vittoriosa dalla crisi pandemica. I dati che furono diffusi sul prodotto interno lordo mondiale sembravano nel 2020 confermare questa convinzione. Molti osservatori internazionali gioivano leggendo che il Pil cinese aumentava dell’1%, non leggendo nulla di ciò che di interessante si può e si poteva leggere nel mondo su questo tema. 

Dopo la svolta teorizzata da una moltitudine di studiosi sia civili sia militari, si assiste oggi a una sorda battaglia scatenata dall’esercito. Esso ha presidiato la nazione durante la pandemia. E forte di questo torna a levarsi contro il predominio economico e burocratico della marina e dell’aviazione, per così ritornare al potere che deteneva quando la politica estera era difensiva e anti-russa e anti-indiana e comportava quindi guerre di terra a differenza della Via della Seta tutta fondata sul dominio dei mari, come documentano le violazioni del diritto marittimo nei Mari della Cina del Sud e nell’Oceano Indiano. Quell’1% di Pil era di “trascinamento” in una nazione che prima saliva del 6%. 

«Il coronavirus, se guardiamo a questo pericolo terribile per la salute umana in questo inusitato contesto, può contenere in sé una virtù e questa virtù è quella dell’umiltà: l’umiltà di riconoscere che la crescita inarrestabile della globalizzazione finanziaria e della Cina – che è a essa intimamente legata – possono entrambe subite una battuta d’arresto.»8

Sottolinea Sapelli quanto il crollo dell’economia mondiale si stia rapidamente avvicinando, conseguenza di ben tre crisi exogene, una all’altra susseguente: pandemia, aggressione imperialistica della Russia all’Ucraina, ferita genocidiaria nazionalistica palestino-islamico-fondamentalista inflitta a Israele. 

L’evento pandemico e l’evento genocidiario richiamano entrambi alla consapevolezza della caducità – insieme alla vita mortale – di una ragione illuministica che voglia non solo curare sanitariamente il male, ma rispondere all’interrogativo tragico che da esso promana.9


Il libro

Giulio Sapelli, Verso la fine del mondo. Lo sgretolarsi delle relazioni internazionali, Guerini e Associati, Milano, 2024. Prefazione di Lodovico Festa.


1K. Mahbubani, Occidente e Oriente. Chi perde e chi vince, Bocconi Editore, Milano, 2019.

2L. Festa, introduzione a Verso la fine del mondo.

3K. Mahbubani, op.cit.

4E. Warren, Questa lotta è la nostra lotta, Garzanti, Milano, 2020.

5J. e J. L. Comaroff,  Teoria dal Sud del mondo. Ovvero, come l’Euro-America sta evolvendo verso l’Africa, Rosenberg&Sellier, Torino, 2019.

6K. Mahbubani, op.cit.

7G. Sapelli, Verso la fine del mondo.

8G. Sapelli, op.cit.

9M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 1996.



Articolo pubblicato su LuciaLibri


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Guerini e Associati per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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© 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Nobili, Grimaldi, Coppola, Abitare città sicure. Politiche strumenti metodi

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Lo spazio pubblico ben progettato corrisponde ai bisogni dei cittadini, degli abitanti e degli utilizzatori. La sua sicurezza è affidata a molteplici figure professionali e a mestieri che contribuiscono a definirne la pianificazione, il funzionamento o l’animazione. Certi spazi pubblici, a causa di una pianificazione inadeguata o di un’occupazione non condivisa, sono esposti a severi problemi di sicurezza, inciviltà e criminalità, oppure generano una sensazione di insicurezza e sono fonti di conflitto tra i loro utilizzatori. La domanda di protezione avanzata dai cittadini richiede dunque di prendere in seria considerazione le sfide in materia di sicurezza fin dal momento della progettazione dello spazio pubblico, studiare la prevenzione in termini di pianificazione e prevedere a tal fine un dialogo tra il progettatore e l’utilizzatore/gestore dello spazio, fondandolo sull’idea della condivisione e dell’appropriazione dei luoghi.

La presenza di fenomeni di criminalità e, ancor di più, di inciviltà negli spazi pubblici determina un impatto molto forte sul senso di insicurezza dei cittadini. Per le città del XXI secolo, la gestione di tali spazi nell’obiettivo di diminuire l’allarme e la paura rimane una sfida prioritaria. La risposta più utilizzata per ridurre la criminalità, la violenza e l’insicurezza, è stata troppo spesso limitata all’azione dei servizi di polizia, alla giustizia penale e al carcere. 

La società è convinta che la gente che entra in carcere ne esca migliore. Spesso però è l’esatto opposto. Cosa significa riabilitare una persona facendola tornare quella di prima, se essere quella persona vuol dire vivere in uno stato di povertà (educativa oltre che economica), razzismo, disoccupazione, precarietà di alloggio e/o violenza? Può davvero una persona essere riabilitata se non è mai stata “abilitata” o resa adatta o in grado di vivere in società? Numerosi studi dimostrano che la migliore forma di riabilitazione in carcere è l’istruzione.1

L’istruzione dovrebbe rappresentare un’opportunità formativa capace di offrire al detenuto gli strumenti per ripensare la propria realtà e la “speranza” che potrà o saprà riprogettarsi in modo nuovo e rendere significativa la propria presenza al mondo.2 Il diritto all’istruzione assume rilievo in ambito penitenziario sotto un duplice profilo: da un lato, quale diritto costituzionalmente riconosciuto alla generalità dei consociati; dall’altro quale elemento del trattamento penitenziario finalizzato al reinserimento sociale della persona in vinculis.3 Le persone detenute che accedono ai corsi, e gli stessi corsi, sono nel tempo in costante aumento. 

Il bisogno di scuola è innegabile, basta analizzare i dati sulla scolarizzazione per rilevare quanto influisca lo studio sul percorso deviante; troviamo analfabeti, analfabeti di ritorno e sempre più stranieri, quindi, la popolazione carceraria di età adulta è in maggioranza connotata dal basso grado culturale e di scolarizzazione, spesso appartenente a insiemi subculturali specifici rappresentati dalle organizzazioni criminali, e non solo. Nel carcere dove entra la “Scuola”, la logica dell’istituzione totale cede il passo a quella educativa-formativa, per dare vita a una partecipazione corale dentro e fuori dalle mura, rendendo credibile il trattamento ri-educativo.4

Gli amministratori locali sono chiamati dai cittadini a proporre credibili strategie preventive, che devono necessariamente basarsi su un lavoro congiunto di équipe pluridisciplinari, sulla collaborazione tra chi progetta e chi gestisce i diversi luoghi di una città, e sul coinvolgimento degli attori delle politiche di sicurezza e di residenti e utilizzatori. L’urbanistica e l’architettura hanno del resto un impatto riconosciuto sulla sicurezza: possono essere strumenti per risolvere conflitti esistenti, evitare l’insorgere di problemi futuri, ricucire le fratture presenti e creare una relazione di reciprocità tra i diversi spazi della città. 

Rischio e fiducia si compenetrano e assumono significati particolari alla luce della riflessività della vita sociale moderna perché, come osserva Giddens, in condizioni di modernità la fiducia esiste nel contesto della generale consapevolezza che l’attività umana è socialmente creata piuttosto che essere data dalla natura delle cose o determinata dall’influenza divina.5

Per Platone l’uomo non può ricorrere, per garantirsi la sopravvivenza, a un elaborato sistema di istinti innati, ma deve far conto solo sulla sua azione intelligente, sulla sua “sapienza tecnica”. E anche Kant riconosce all’essere umano da un lato la carenza istintuale e dall’altro l’autonomia della ragione nel ricavare tutto da se stessa. L’essere umano risulta, quindi, biologicamente inadatto all’ambiente, in quanto la sua dotazione organico-istintuale è “primitiva”, “incompiuta”, “non specializzata”. Inoltre, poiché non dispone di meccanismi selettivi che entrano automaticamente in funzione secondo le circostanze, è esposto a una “profusione di stimoli” da cui sono esonerati gli animali, sensibili soltanto a quegli stimoli che corrispondono ai loro istinti specializzati. Ma a questa concezione dell’uomo come essere carente, che ce lo presenta in maniera negativa come “un errore della natura” o come “la negazione della finalità naturale”, segue il riconoscimento positivo che, nonostante tutte le sue carenze, primitivismi e inadeguatezze, l’uomo è riuscito a sopravvivere, adattandosi all’ambiente: privo di un suo habitat specifico, ha fatto di qualsiasi ambiente il suo ambiente.6

L’Alto Medioevo coincide con il periodo di massima decadenza economica e sociale. Alla società profondamente urbanizzata dell’Impero se ne sostituisce un’altra in cui la città perde il suo ruolo dominante. Il centro della vita economica è la curtis, la più grande unità produttiva autosufficiente, capace di svolgere quasi in completa autonomia le funzioni di produzione e consumo necessarie alla sussistenza. Dopo l’anno Mille, durante il Basso Medioevo, si registra una rapida ripresa economica che avrà come conseguenza un più diffuso benessere e notevoli trasformazioni sociali e culturali. Le città cominciano a ripopolarsi, si ampliano e diventano i nuovi centri della vita economica, sociale e politica.7

In un contesto altamente globalizzato e interdipendente, la nostra consapevolezza del rischio che determina le nostre percezioni di insicurezza, è influenzata da macro-eventi, come la presenza di guerre sia vicine sia lontane, e da ricorrenti crisi, siano esse di natura sanitaria, climatica, economica o politica. L’insicurezza, però, è anche frutto di micro-eventi, e quindi anche del nostro quotidiano abitare urbano. Negli ultimi decenni, la domanda di maggiore sicurezza (di sentirsi più sicuri) negli spazi urbani è entrata con forza nel dibattito pubblico e negli ambiti di policy. Questa domanda si è spesso intersecata con l’esigenza di migliorare la qualità della vita. 

Contrariamente alla narrazione diffusa fatta di case a un euro e lavori agili in contesti tra l’idilliaco e l’agreste, la reale vita nei borghi rurali italiani, per esempio, è diversa, fatta di rinunce e compromessi.8

Molte amministrazioni hanno promosso un’idea unitaria e monolitica di spazio urbano, in cui solo le aspettative comportamentali ed estetiche dei più fortunati hanno trovato giusto riconoscimento. Ma le città trascendono l’idea di “ordine” imposta dall’alto e coniugano diverse esperienze, modi di vivere e di interagire con l’urbano, e anche modi di comprendere l’urbanità.

Viviamo oggi in una delle società più sicure della storia dell’uomo ma, nonostante questo, il senso di insicurezza che avvolge le nostre vite pare essere progressivamente crescente. Le nuove ansie collettive sono collegate alla crisi moderna e configurano una incertezza esistenziale tipica dell’uomo moderno occidentale. La risposta locale ai problemi della sicurezza può essere letta come conseguenza della condizione sociale contemporanea: l’incertezza nei confronti del futuro (insecurity), l’incertezza sulle scelte da compiersi (uncertainty) che hanno origine in luoghi remoti, fuori dalle possibilità del controllo individuale e della stessa governance locale e nazionale. Da qui la tendenza a concentrarsi verso obiettivi più vicini, verso i timori nei confronti della incolumità fisica (unsafety), quel genere di timori, che a sua volta si condensa in spinte segregazioniste/esclusiviste, portando inesorabilmente a guerre per gli spazi urbani. 

La letteratura sociologica relativa alla paura della criminalità ha evidenziato come il senso di insicurezza urbana sia relativamente indipendente dal rischio di esposizione a eventi criminali, ma sia spesso legato a percezioni di disordine, caos e degrado. La maggiore diffusione dell’informazione e le caratteristiche stesse della comunicazione contemporanea (insistenza sull’immagine, stili semplificatori e spesso sensazionalistici, tendenza alla spettacolarizzazione) creano una relazione del tutto particolare tra cittadini e spazi pubblici, in cui nella formazione del giudizio conta sempre meno il peso dell’esperienza diretta. 

Il nuovo trend planetario che si è affermato dai primi anni Novanta è la crescita inarrestabile di quartieri esclusivi, in particolare alle periferie delle città. Il mondo va verso comunità “blindate” e la conseguente segmentazione e militarizzazione delle città per far fronte a una criminalità predatoria e violenta. Si moltiplicano i metal detector agli ingressi di edifici sensibili o le telecamere a circuito chiuso, che ormai costituiscono l’arredo urbano della contemporaneità. Si tratta di una forma di autodisgregazione urbana che non crea una divisione tra i buoni e i cattivi, ma tra chi possiede e chi non possiede determinate opportunità economiche e di status.

Nel mondo occidentale, gli anni Settanta e Ottanta del Novecento furono caratterizzati da concomitanti fenomeni di deindustrializzazione, aumento della criminalità, moltiplicazione delle dismissioni immobiliari nelle grandi città, dispersione della forza-lavoro, nonché dalla crescita del settore dei servizi alle persone e dalla informatizzazione della produzione capitalistica. Per rendere le città più accoglienti e liberarle delle ingombranti eredità della fase di deindustrializzazione, furono messi in campo progetti di rigenerazione urbana volti, da un lato, a rimuovere la minaccia del crimine, dall’altro, a mettere a frutto il potenziale di consumo e intrattenimento offerto dalle città in una varietà di spazi urbani come lungomari, centri storici, aree ex-industriali e quartieri bohemien, con la mobilitazione di strategie discorsive sulle virtù della creatività, della convivialità, dell’ospitalità allo scopo di attrarre investimenti e consumatori. L’idea di città creativa prende forma quindi nell’ambito di esperimenti di rigenerazione fisica degli ambienti urbani messi in campo in situazioni di deindustrializzazione manifatturiera e vera e propria “crisi urbana”. Nei primi anni Duemila, il patto sociale fondato sulla creatività sembra candidarsi a diventare il principio organizzatore delle società capitalistiche contemporanee. Lungi dal costituire un repertorio stabile di istituzioni, organizzazioni e relazioni contrattuali, la governance urbana è utilizzata quale base operativa, duttile e flessibile, volta a trasformare i residenti urbani in “cittadini” in grado si provvedere da sé al proprio benessere e di agire responsabilmente e creativamente nella sfera pubblica. A partire dalla crisi del 2008 il modello di città socializzata incarnato dalla città creativa inizia a mostrare segni di esautoramento.9

Negli anni scorsi, le città si sono trovate al centro della dialettica tra politiche della crescita e politica dell’austerità che ha caratterizzato le economie dei paesi occidentali a partire dalla crisi del 2008. La proliferazione di un numero crescente in grandi centri urbani e metropolitani di imprese start-up tecnologiche è particolarmente esemplificativo del “ritorno alla vita” delle città contemporanee e con esse del capitalismo globale, considerata la diffusione del fenomeno in diverse aree del mondo. Le economie urbane start-up sono dunque rivelatrici del movimento di rembeddedness, ossia di nuovo radicamento, del capitalismo globale negli ambienti urbani. I sentimenti di euforia e comunanza che contraddistinguono le modalità di rappresentazione delle comunità di imprenditori tecnologici sono rivelatori del più ampio sforzo di rianimazione del capitalismo come “industria della felicità” in atto nelle società occidentali. Per le imprese start-up tecnologiche così come per le grandi imprese del “capitalismo delle piattaforme” i centri urbani e metropolitani non offrono soltanto ambienti istituzionali e socio-culturali dinamici dove potersi affermare, ma funzionano anche da veri e propri “laboratori viventi” dai quali estrarre un’ingente massa di dati relativi ai comportamenti, alle abitudini, alle preferenze di consumo e ai movimenti delle persone che vi abitano o vi transitano. Per cui si può affermare che il capitalismo utilizza le “crisi organiche” come occasioni per ricercare un nuovo radicamento nelle relazioni sociali, reinventando la propria promessa di felicità e le relative forme di vita. Le città hanno acquistato o riacquistato centralità in questo quadro perché offrono il capitale cognitivo, comunicativo e relazionale necessario a realizzare un siffatto modello sociale. Allo stesso tempo, le città sono spazi persistentemente caratterizzati da diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza e processi di esclusione sempre meno alleviati dall’intervento dello Stato e delle altre istituzioni pubbliche o semipubbliche preposte alla fornitura dei servizi di protezione sociale. In tale contesto, ancora resta da comprendere il reale effetto che ha avuto l’avvento delle nuove economie urbane a base tecnologica sulla vita delle persone.10

Negli ultimi dieci anni si è passati, in molti paesi occidentali, dal paradigma della prevenzione del crimine a quello della sicurezza collettiva. Il primo vedeva innanzitutto lo Stato quale ente monopolizzatore della questione di ordine pubblico. Il paradigma della sicurezza diviene modello locale, vicino alle aspettative dei cittadini, e non astrattamente vincolato a politiche generali di cambiamento dell’uomo e delle istituzioni sociali. La teoria del modello criminale (crime pattern theory) spiega il coinvolgimento nell’attività criminale attraverso lo studio della conformazione geografica dell’ambiente, e quindi attraverso lo studio della distribuzione spaziale delle attività criminali. Questa teoria fa da sfondo a molti studi riguardanti l’impatto di un determinato design urbanistico a politiche di prevenzione della criminalità. Questa prospettiva che fa da sfondo alla cosiddetta prevenzione ambientale prende in esame i “nodi” (stazioni, fermati degli autobus, dislocamento delle abitazioni pubbliche, scuole, luoghi di svago) e i “percorsi” urbani che portano gli individui a spostarsi ai margini delle aree, di lavoro scolastiche ricreative, frequentate da soggetti che spesso non si conoscono. La teoria del modello criminale risente delle elaborazioni evidence-based di due ricercatori, Paul e Patricia Brantingham i quali sostengono in via molto generale come i luogo possano generare e attrarre criminalità. 

Un’altra serie di contributi interessanti riguardanti il rapporto tra urbanistica e architettura viene dagli studi di Psicologia Ambientale. In particolare, per quanto attiene al senso d’insicurezza si fa riferimento a due modelli teorici mutuati da questa specifica branca della psicologia: la territorialità e il setting comportamentale. La prima è definita come un’area geografica che è in qualche modo personalizzata o contrassegnata e difesa dall’invadenza altrui attraverso segni di demarcazione sia fisici che sociali. Il secondo concetto definisce invece uno specifico luogo-situazione le cui caratteristiche fisiche o sociali stimolano particolari schemi di comportamento. Studiare questi luoghi e le loro caratteristiche può rivelarsi più utile per predire i comportamenti delle persone che lo studio delle loro caratteristiche personali, in quanto le strade e gli isolati costituiscono spazi definiti che possono essere visti come luoghi che sviluppano comportamenti e programmi di relazioni stabili.11

Le città proibite si moltiplicano come esito dei processi di individualizzazione e di dissolvimento dei legami sociali. Si tratta di comunità fluide, flessibili, basate su impegni contingenti e non su relazioni a lungo termine. La vita in questi contesti non sembra accompagnarsi a un miglioramento per la comunità dei residenti stessi: non ci sono evidenze di un aumento del capitale sociale interno e della costituzione di comunità più unite o sicure. Per molti studiosi, l’effetto di queste soluzioni urbanistiche potrebbe essere, paradossalmente, proprio la paura. Questo perché la diffusione di zone protette determina una frammentazione del tessuto urbano che si traduce in una riduzione degli spazi pubblici di fruizione e d’interazione. L’idea più suggestiva di vicinato è quella in cui la costante interazione tra numerosi abitanti diviene fonte di rassicurazione. 

L’ossessione per la sicurezza tradisce un rifiuto della vita, mentre dichiara di proteggerla pretendendo di azzerare il rischio. Esprime una diffidenza e un rifiuto totale per tutto ciò che sfugge al controllo. Poiché, come insegna la psicoanalisi, per il nevrotico vale solo la ripetizione e ciò che è conosciuto: l’inedito, tutto ciò che può interferire con le abitudini, diventa intollerabile.12

Sono diversi gli studiosi che legano il futuro delle città alla necessità di un rovesciamento della spinta regressiva verso la sicurezza. 

L’universo relazionale che caratterizza il rapporto con gli altri alimenta un sentimento di sicurezza ontologico.13 Giddens enfatizza il rapporto tra sicurezza ontologica e il valore della tradizione, un processo di ritrovamento di sé stessi che vive nella tensione tra pulsione all’autenticità e apertura al mondo determinata dai sistemi astratti che ci circondano e definiscono. 

L’alterità è esperita sempre in un contesto sociale e culturale, che influenza il rapporto interpersonale introducendo elementi di regolazione e, in molti casi, di ineguaglianza. In sostanza, l’incontro con l’Altro è una relazione nella quale i soggetti entrano avendo già, in modo reciproco, una rappresentazione dell’Altro che deriva dalla propria formazione culturale e da esperienze pregresse. In essa influiscono – in modo consapevole e anche inconsapevole – immagini, attese, preoccupazioni e talora anche pregiudizi. Tutti questi aspetti interagiscono con le dinamiche endogene e propriamente psicologiche della relazione, facendo sì che ciascuna di esse sia dotata di grande complessità e, spesso, di un qualche grado di ambiguità. Il richiamo all’identità ha un effetto negativo non solo nei confronti dell’Altro esterno, ma anche nei confronti delle differenze interne a quella che viene presentata coma una “nostra” identità. L’identità ci impone un certo modo di essere e di pensare. La rappresentazione dell’Alterità come espressione di una supposta partizione dell’umanità in comparti omogenei è, prima di tutto, espressione di rapporti di potere, di processi di dominazione e subordinazione, che portano a una vera e propria costruzione sociale dell’Altro, ovvero a una sua manipolazione in ambito socio-politico come pure in quello culturale, psichico e persino corporeo, tendenti a far corrispondere l’Altro alla rappresentazione che ne ha il detentore del potere.14

Rischio e sicurezza non sono dati oggettivi in sé, ma percezioni culturalmente connotate, potenziali contenitori di significati diversi quando non contrapposti, valori al centro di processi di negoziazione quando non di scontro. Il fatto che il tema della sicurezza sia ab origine un tema urbano, chiama direttamente in causa l’interesse dell’antropologia urbana: è lecito chiedersi quale idea di città vi sia al fondo di questa questione, quali le ragioni, storiche e ideologiche, che giustificano il binomio città/insicurezza, tale da averlo reso ormai autoevidente, quali le ragioni che di conseguenza hanno reso il tema della sicurezza centrale nell’agenda amministrativa di molte città. Circa l’associazione tra città e insicurezza, l’immagine della città come contesto problematico, minaccioso, potenziale coacervo di pericoli, può in qualche modo essere considerata un filo rosso della letteratura “classica”.15 Va sottolineato come al fondo vi sia un processo di selezione operato dalla sociologia della devianza, che si ferma ai sentimenti di insicurezza e tralascia invece, nel più ampio quadro della sociologia classica, le problematiche del conflitto sociale e del cambiamento e il loro legame con la devianza, finendo col generare una vera e propria sociologia della paura.16

Il paradosso attuale è che le nuove élite globali hanno operato un crescente distacco dalla località in senso stretto: esse si muovono in uno spazio globale che sposta anche l’origine o la controllabilità degli eventi su un piano “globale”. Al contempo le città divengono sempre più le “discariche” della globalizzazione, i terreni su cui cortocircuitano i problemi della globalizzazione, mentre l’origine di questi esula in maniera crescente dai confini urbani: i cittadini, con i loro rappresentanti, si trovano quindi davanti al difficile compito di trovare soluzioni locali a contraddizioni globali. Come conseguenza della costante crescita dei rischi su scala globale, si accresce la tendenza a convogliare i problemi esistenziali dell’endemica insicurezza tipica dell’età tardo-moderna nella sola preoccupazione per le garanzie della sicurezza personale.17 Per cui, la questione della sicurezza urbana, soprattutto nei termini che assume oggi di difesa da rischi sociali, sembra potersi leggere proprio come una specifica intersezione tra globale e locale: cioè la sicurezza diviene una risposta locale all’incremento della società del rischio, sempre più globale e diffuso, a fronte del quale un ampliamento delle politiche di sicurezza agisce su ciò che emerge nell’immediato. 

Molti degli interventi urbanistici finalizzati alla sicurezza non fanno altro che riprodurre i fossati e le torri difensive medievali, e mirano a dividere gli abitanti per rispondere a quella mixofobia che costituisce la reazione oggi più diffusa alla varietà di tipi umani che affolla le città.18

Le città del passato, con le loro mura e la loro vita sociale, rappresentavano un luogo di maggiore tranquillità e sicurezza rispetto all’incertezza e i pericoli delle campagne. Negli ultimi decenni si è assistito a un ribaltamento: la sensazione di pericolo è stata identificata con la città, mentre le zone rurali sono state investite di un immaginario di pace e tranquillità. 


Il libro

Gian Guido Nobili, Michele Grimaldi, Francesca Coppola (a cura di), Abitare città sicure. Politiche, Strumenti, Metodi, Franco Angeli, Milano, 2024.


1V. Law, Le prigioni rendono la società più sicura. E altri venti miti da sfatare sull’incarcerazione di massa, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2023.

2R. Caldin, Università e carcere: una sfida pedagogica, in V. Friso, L. Decembrotto (a cura di), Università e carcere. Il diritto allo studio tra vincoli e progettualità, Edizioni Guerini, Milano, 2018.

3A. Maratea, Il diritto all’istruzione in carcere tra (in)effettività e prassi problematiche: uno sguardo all’istruzione universitaria nelle carceri per adulti e secondaria negli istituti penali per minorenni, in Osservatorio Costituzionale – AIC Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Fasc. 3/2023.

4C. Cardinali, R. Craia, Istruzione e ri-educazione: quale ruolo per la scuola in carcere?, in Formazione & Insegnamento XIV – 2 – 2016.

5S. Gherardi, D. Nicolini, F. Odella, Dal rischio alla sicurezza: il contributo sociologico alla costruzione di organizzazioni affidabili, in Quaderni di Sociologia, 13 – 1997.

6M.T. Pansera, Natura e Cultura in Arnold Gehlen, in Il tema di B@bel, RomaTre Press, 2020.

7R. Zordan, Lettura Oltre. Letteratura. Teatro, Fabbri Editori, Milano, 2022.

8A. Rizzo, I paesi invisibili. Manifesto sentimentale e politico per salvare i borghi d’Italia, Il Saggiatore, Milano, 2022.

9U. Rossi, Biopolitica della condizione urbana: Forme di vita e governo sociale nel tardo neoliberalismo, in Rivista Geografica Italiana, 126 (2017).

10U. Rossi, op.cit.

11V. Mastronardi, S. Ciappi, Urbanistica e Criminalità (Parte Prima). Alle origini di un rapporto, in Urbe et Ius – Rivista de Estudios de Criminología y Ciencias Penales,  2020.

12M. Magatti, Sicurezza/Insicurezza: come si resiste alla città, in P. Piscitelli (a cura di), Atlante delle città. Nove (ri)tratti urbani per un viaggio planetario, Feltrinelli, Milano, 2020.

13A. Giddens, The consequences of modernity, Oxford Polity Press, Oxford, 1990.

14A. Mela, Alterità e transculturalità, 2023.

15F. D’Aloisio, Sentirsi insicuri in città. Etnografia e approccio antropologico al problema della sicurezza urbana, in M. Callari Galli (a cura di), Mappe urbane. Per un’etnografia della città, Guaraldi Universitaria, Rimini, 2007.

16V. Ruggiero, I vuoti delle politiche di sicurezza, in R. Selmini, La sicurezza urbana, Il Mulino, Bologna, 2004.

17Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Bari, 2001.

18F. D’Aloisio, op.cit.



Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Franco Angeli Editore per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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© 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Il tempo tra vita e letteratura

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Il tempo è una categoria fondamentale in letteratura. Gli scrittori riflettono sullo scorrere della vita e raccontano le emozioni del tempo. Non dovrebbero anche gli altri umani riflettere sulla reale importanza del tempo?

Il tempo interviene in letteratura in modi diversi. Ci sono autori che trattano il tempo come un problema. Un esempio è il racconto di Borges Il giardino dei sentieri che si biforcano in cui, sotto l’insolita veste del thriller, l’autore presenta una suggestiva teoria del tempo secondo la quale questo è plurimo e a ogni istante della vita si aprono tracce temporali diverse, che si biforcano. C’è poi chi rappresenta il tempo nel suo fluire, confuso, immenso. È il caso della Recherche di Proust. Il tempo è un ente sempre più complesso, proprio come conferma l’intuizione. Ne sono esempi: La macchina del tempo di Wells, I fiori blu di Queneau, in cui la storia è vista come un sogno, deposito tangibile del nostro inconscio, e «il mio racconto Ti con zero» (intervista a Italo Calvino, 1985, in L. Baranelli, Sono nato in America, Mondadori, 2022). 

Il tempo è una categoria fondamentale della narrativa, poiché non può esserci narrazione senza l’azione dei personaggi nel corso del tempo. Nella poesia, invece, la funzione strutturante del tempo è meno importante: impressioni emotive o visive possono essere elencate come se avvenissero in un unico istante, senza un primo e un dopo. Tuttavia, il tempo è comunque un tema fra i più frequenti e importanti. L’io lirico, infatti, nel momento in cui rileva la propria interiorità, tende a confrontare momenti diversi della propria vita, come ricordarsi di quand’era bambino, rievocare un amore finito o una felicità perduta, oppure immaginare la propria vecchiaia (Il tempo e la memoria, Edizioni Atlas).

«Ci sono giorni in cui il tempo sembra non scorrere mai e giorni in cui, invece, la lancetta dell’orologio gira così velocemente da non riuscire a seguirla», affermava Joyce nell’Ulisse. Al tempo cronologico e lineare del romanzo ottocentesco, egli contrappone il tempo della coscienza, La tecnica dello stream of consciousness che permette di raccontare i pensieri e il loro fluire anche senza una logica apparente. Il tempo della coscienza è fatto di momenti indistinguibili che trapassano l’uno nell’altro e formano un flusso che continuamente si arricchisce. Se nei poemi omerici venivano esaltate le qualità positive di questo eroe, con il romanzo di Joyce Ulisse diventa l’archetipo delle peregrinazioni e delle angosce quotidiane dell’uomo contemporaneo, il simbolo di una nuova e rivoluzionaria percezione del tempo (S. Galeone, L’Ulisse di Joyce e la rivoluzione nel modo di concepire il tempo, in Libreriamo is Culthic, 2023). 

«Esiste un grande eppur quotidiano mistero. Questo mistero è il tempo. Esistono calendari e orologi per misurarlo, misure di ben poco significato, perché tutti sappiamo che, talvolta, un’unica ora ci può sembrare un’eternità e un’altra invece passa in un attimo. Dipende da quel che viviamo in questa ora. Perché il tempo è vita. E la vita dimora nel cuore» (M. Ende, Momo, 1973). 

Nel libro di Ende i Signori Grigi hanno lo scopo di procacciarsi ciò che è necessario alla loro stessa sopravvivenza: il tempo degli esseri umani. Negli ultimi due decenni Internet ha rivoluzionato il modo in cui si acquista, si comunica e si consumano i media. Per molti aspetti ha reso la vita più facile e veloce, ma ha anche portato sfide ed effetti collaterali, La tecnologia può aver semplificato molti compiti, na ha anche aumentato le distrazioni. Non è che i Signori Grigii mmaginati da Ende si siano nascosti dentro i dispositivi digitali di uomini ignari che stanno sprecando il loro prezioso tempo?


Articolo pubblicato sul numero di novembre 2024 della rivista cartacea Leggere:Tutti


Disclosure: Per le immagini, credits www.pixabay.com


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Paolo Jedlowski, Romano Màdera, Racconti di racconti. Una conversazione

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Con il termine metadimensione si intende che alcuni testi letterari problematizzano la relazione tra il processo narrativo e la sua autoriflessione interna o la sua interpretazione dialogica esterna. Attraverso l’esame di queste relazioni, si coglie l’ampiezza delle loro modificazioni delle modalità formali, dell’enfasi discorsiva, delle finalità semantiche e dei giochi intertestuali. L’uso del prefisso meta davanti a narrazione dipende dal presupposto che, in alcuni dei suoi discorsi, la letteratura ha sviluppato dei modi operativi per interrogare se stessa e di trattare la propria infinita semiosi, vale a dire il procedimento di costruzione del significato.1

Attraverso una serie di riflessioni e di esempi pratici, Jedlowski e Màdera esplorano le molteplici funzioni e implicazioni della metanarrazione nel tessuto stesso dell’esistenza umana. 

Se una meta-teoria è una teoria di teorie, i meta-racconti sono racconti di racconti. Se si accetta l’idea che un racconto sia un tipo di testo in cui qualcuno dice che è successo qualcosa, la metanarrativa è un insieme di testi in cui si dice che quello che è successo è un racconto.2 La forma base della metanarrativa è rappresentata dai casi in cui un racconto ne include un altro, incastonandolo. Le incastonature rendono il racconto incorniciante una sorta di contesto dell’altro. Il che riqualifica il senso che questo avrebbe senza l’incastonatura. A volte lo modifica proprio. Ma l’incastonatura da sola non basta a dire il significato della metanarrativa che è una narrativa che riflette su sé stessa, espone cioè la natura stessa del narrare e porta alla presa d’atto della natura situata, artificiale, di ogni racconto.3

Un esempio esplicito è la scrittura di Italo Svevo, nella fattispecie la pagina firmata dall’analista di Zeno che incastona il racconto di quest’ultimo in La coscienza di Zeno: invece che una neutra esposizione dei fatti, questo diventa la ricostruzione che il soggetto stesso ne fa. La coscienza di Zeno include due racconti: quello dell’analista e quello di Zeno. Ma il primo, incastonando il secondo, dà all’insieme un senso particolare: il libro dice questa è la storia che Zeno si racconta e non questa è la storia di Zeno.

È lo stesso effetto prodotto dal quadro Questa non è una pipa di Magritte, dove al disegno di una pipa è affiancato il disegno di una scritta che dice questa non è una pipa: infatti è un disegno. 

Ne La coscienza di Zeno la psicoanalisi diventa materiale per una finzione e ogni lettura freudiana non potrà che inserirsi nell’organismo, nelle fibre stesse di quella finzione. A Svevo la psicoanalisi è servita come implicita motivazione realistica, come alibi realistico o salvacondotto per manipolare la tecnica narrativa e per infrangere liberamente le “tradizioni”: a volte semplice spunto o pretesto, a volte diretta ispiratrice. Quanto della teoria Svevo conoscesse di prima mano perde importanza di fronte alla sua capacità di sceneggiatore, all’astuzia con cui riesce a ignorare o a dimenticare la psicoanalisi per rifonderla nel suo romanzo.4

La schisi tra eroe e narratore che abita l’io enunciante, contribuisce alla sfasatura tra l’ordine degli avvenimenti nella storia e quello del discorso narrativo, così come all’alternarsi delle variazioni di velocità, alla moltiplicazione dei punti di narrazione e all’instabilità dei riferimenti cronologici enunciati nello svolgimento del dettato. A loro volta, questi attentati alla salute del tempo partecipano alla costruzione del personaggio attraverso le formazioni dell’inconscio praticabili dal critico (sogni, somatizzazioni, lapsus) che confermano l’immagine di uno Svevo al lavoro con i mezzi che il suo progetto e la sua cultura gli mettevano fra le mani. Ne risulta, costante, un’impossibilità per l’io di domare i suoi enunciati, di farli coincidere con la sua volontà. A livello dell’enunciazione, essi si smarriscono in un’indecidibilità che mescola i colori della verità e della menzogna.5 Il fondo del romanzo è bucato e il vuoto si riproduce continuamente. Appena cerchiamo di inchiodare la confessione di Zeno a una verità ci accorgiamo dei sacrifici e delle riduzioni che sono stati necessari per ottenerla e che la mandano in frantumi. La trappola è tesa al lettore ma anche alla psicoanalisi, se appena tenta di costruirsi un mezzo per selezionare le menzogne e metterle in disparte: o per riprenderle, rielaborarle, piegarle a un canone di verità che può essere fissato solo fuori dal testo.6

La metanarrativa produce una sorta di moltiplicazione del piacere del racconto. I racconti, di norma, sono discorsi che ci avvincono e la  metanarrativa ci fa, per così dire, assistere a questo «avvincimento», ci fa separare dal testo e insieme ci fa restare nei suoi pressi, ci fa restare presso il piacere che proviamo. Questo godimento implica infatti la presa d’atto che un racconto è artificio. Rispetto alla realtà a cui dice di rifarsi è un’approssimazione. Vi è inoltre una tensione necessaria fra racconto e mondo extra-testuale. Si potrebbe dire che la vita trascende il testo (è più grande di lui e lo comprende), e contemporaneamente il testo trascende la vita (perché la inserisce in un mondo di segni che permettono di andare oltre alla vita che si dà, la portano a coscienza).7

Il mondo narrato è una realtà finzionale. Anche quando raccontiamo di qualcosa che è avvenuto a noi stessi è comunque nell’immaginazione che ci collochiamo. Ciò che abbiamo fatto non è presente ora, mentre stiamo narrando. I mondi narrati – tutti, non solo quelli fantastici – sono sempre eterocosmi, cioè cosmi che non coincidono con quello attuale. Questi mondi sono il risultato di operazioni di “mimesi”. Ogni narratore ha qualcosa di un mimo: evoca o mette in scena, grazie ai segni che ha a disposizione, azioni luoghi persone. Si trasforma, o trasforma le cose: mima una realtà che altrimenti non c’è. E il destinatario risponde con almeno l’accenno di una mimica analoga. Nessun racconto, neanche il più realistico cui possiamo pensare, è esattamente una copia: come una statua, un quadro o qualunque altro tipo di rappresentazione, è un oggetto a sé stante, differente da ciò a cui rimanda. Emerge dalla vita e la arricchisce di qualcosa che prima non c’era. I racconti costituiscono un di più della vita. Sono dispositivi transizionali: ci permettono di transitare fra il mondo empirico nel quale stiamo attualmente e uno o più altri mondi possibili.8

Arrivare alla consapevolezza metanarrativa è il movimento di trascendimento interno dello stesso materiale autobiografico e analitico. Liberarsi del primo livello dell’autobiografia ingenua significa tentare-riuscire a diventare oggetto (trasformabile) di sé stessi e quindi il potersi guardare con sguardo più complesso e consapevole. Insomma fuori dall’autoreferenzialità. 

La metanarrazione esiste da quando esiste il racconto, ma ultimamente è particolarmente in voga, sembra simbiotica con il pensiero o quanto meno con l’estetica del postmoderno. Per il postmodernismo la realtà si scompone in prospettive plurali e incomponibili. A svanire sembra non soltanto l’ordine della realtà, ma la realtà in sé stessa: ai postmodernisti pare che sia ormai impossibile distinguere fra realtà e simulazione. Quanto meno, pare di vivere in un mondo in cui la realtà è costantemente oggetto di processi comunicativi così pervasivi che diventa evidente che nulla può essere identificato in sé ma solo attraverso i modi e le forme in cui è comunicato. Per il pensiero postmoderno il mondo è oggetto di infinite interpretazioni tutte ugualmente plausibili. Qui si nasconde l’equivoco più grosso in cui a volte incorre il postmodernismo: le storie e le interpretazioni non hanno infatti tutte lo stesso valore.9

Ogni testo pone certi limiti alle interpretazioni possibili, nella misura in cui contiene certi elementi e non altri.10 Lo stesso vale per il mondo sociale e materiale: si può interpretarlo e raccontarlo in molti modi, e questi modi corrisponderanno a diversi punti di vista, ma non si può reinventarlo a piacimento. Pensiero questo che lascia intravedere un’idea di realtà piuttosto angusta, o comunque tarata su culture che poggiavano su un senso comune molto forte e ritenuto superiore alle altre culture. Atteggiamento culturale necessario come collante del gruppo in epoche nelle quali lo stare insieme condividendo una cultura che detta i comportamenti era indispensabile perché le tecniche disponibili poggiavano sulla loro incorporazione in soggetti umani (memoria, abilità, iniziazione).11 La storia della modernità ha travolto questi mondi, la coscienza antropologia e in specie l’antropologia del rimorso hanno reso inaccettabile questo modo di sentire, pensare, essere. La realtà è già sempre, per noi moderni, molto più che per le epoche precedenti, interpretata o possibile di diverse interpretazioni interne ed esterne alla cultura di appartenenza. 

A partire dall’XVIII secolo si affermano nel pensiero occidentale quelle che nel corso del Novecento saranno definite “grandi narrazioni”. Illuminismo, idealismo, marxismo, positivismo sono cornici teoriche che, pur nella loro diversità, condividono alcuni tratti peculiari: l’ottimismo verso il futuro, la convinzione che la storia proceda in modo lineare e per progressivi miglioramenti in ambito culturale sociale scientifico, l’idea che esista per la società uno scopo a cui tendere. Un colpo netto e generalizzato alle narrazioni e auto-rappresentazioni che il pensiero occidentale ha elaborato nel corso dei secolo viene inferto da Nietzsche. Suo scopo è scardinare l’interpretazione razionalista attraverso cui l’uomo europeo ha rappresentato sé stesso.12 I sistemi filosofici della modernità, così come le ideologie novecentesche, hanno avuto sia l’obiettivo di spiegare il mondo sia di legittimare un certo modo di interpretare la realtà. Di fronte alla sempre maggiore complessità sociale, allo sgretolamento dei legami comunitari, i grandi sistemi e le grandi narrazioni non funzionano più, si sono dimostrati incapaci di dare un senso alla realtà. La modernità, ossessionata dall’unità, ha lasciato il posto al pluralismo radicale della postmodernità.13

Comprendere la trasformazione della letteratura verificatisi specialmente negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, richiede che si tenga conto della metadimensionalità dei testi letterari. La metanarrazione è una problematizzazione polivalente della prospettiva critica riflessiva analitica e ludica di ciò che viene narrato, riflesso su sé stesso.14 In Mercier e Camier l’autore gioca con il narrativo inserendo dei riassunti che seguono ciascun capitolo, riaffermandone la narrazione. Problematizzando la relazione riflessiva tra il discorso affermativo della narrazione di ogni capitolo e la sua parafrasi quasi tautologica condotta nei riassunti, l’autore crea una distanza ironica. Così, Beckett sembra porre il problema di come scrivere sulla scrittura allo scopo di comprendere che cosa significhi il procedimento narrativo.15 Il gioco beckettiano del riassunto tautologico dell’identico concentra l’attenzione del lettore sulla possibilità di sostituire la narrazione con il sommario oppure impone alla narrazione stessa una trasformazione deliberatamente riduttiva. Il commento indirizzato in senso tautologico è la dimostrazione beckettiana dello stallo del discorso letterario. La metanarrazione rappresenta in tal caso uno strumento di autosvelamento della finzione.16

La metanarrativa, come la meta-interpretazione, può apparire a volte l’invito a qualcosa di infinito. Si può raccontare il racconto del racconto, poi interpretare l’interpretazione precedente. Il problema, con il meta, è quando smettere. Quando arrestare cioè la successione di interpretazioni, quando arrestarsi e dire: questo è il racconto.17

Il libro

Paolo Jedlowski, Romano Màdera, Racconti di racconti. Una conversazione, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2024.


1W. Krysinski, Borges, Calvino, Eco: filosofie della Metanarrazione, in Signótica, vol. 17, n°1, 2005.

2P. Jedlowski, Storie comuni, Mesogea, Messina, 2022.

3P. Jedlowski, Meta-narrare, in Racconti di racconti.

4M. Lavagetto, L’impiegato Schmitz e altri saggi su Svevo, Einaudi, Torino, 1975.

5A. Russo, Il fondo bucato. Le ambiguità del paratesto ne «La coscienza di Zeno», in I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo, Atti del Congresso dell’Adi – Associazione degli Italianisti , Adi Editore, Roma, 2014.

6M. Lavagetto, op.cit.

7P. Jedlowski, Meta-narrare, in Racconti di racconti.

8P. Jedlowski, Il piacere del racconto, in Imparare dalla lettura, S. Giusti e F. Batini (a cura di), Loescher Editore, Torino, 2013.

9P. Jedlowski, Intorno alla realtà (senza strafare), in Racconti di racconti.

10U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano, 1990.

11R. Màdera, Intorno alla realtà (senza strafare), in Racconti di racconti.

12F. Nietzsche, La nascita della tragedia, 1872.

13B. Collina, La crisi della filosofia come narrazione e autorappresentazione, Zanichelli, 2020.

14W. Krysinski, op.cit.

15S. Beckett, Mercier e Camier, 1970.

16W. Krysinski, op.cit.

17P. Jedlowski, Dentro e fuori dal testo, in Racconti di racconti.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Mimesis Edizioni per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Norman Finkelstein, L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei

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L’industria dell’Olocausto di Finkelstein si incentra sull’analisi di due tesi fondamentali: i tedeschi e soltanto loro devono assumersi la responsabilità di fare i conti con il proprio passato, le élite ebraiche americane sfruttano l’Olocausto nazista per ottenere vantaggi politici e finanziari. 

La pretesa che l’Olocausto faccia parte della memoria americana è un alibi morale. Fa sì che si eviti di assumersi quelle responsabilità che davvero spettano agli americani nel momento in cui affrontano il proprio passato, il proprio presente e il proprio futuro.1 Nell’analisi di Finkelstein l’industria dell’Olocausto è una rappresentazione ideologica dell’Olocausto nazista. Un’arma ideologica indispensabile, grazie alla quale una delle più formidabili potenze militari del mondo, con una fedina terrificante quanto a rispetto dei diritti umani, ha acquisito lo status di vittima, e lo stesso ha fatto il gruppo etnico di maggior successo negli Stati Uniti.

Dal punto di vista storico, la Shoah è considerata il più grande spartiacque dell’età contemporanea: una tragedia che ha rimesso in discussione le logiche e il pensiero occidentale, modificando l’approccio sociale, culturale, economico e politico dell’individuo in ogni campo d’indagine della realtà storica. Secondo una prospettiva strettamente narratologica, invece, la somma degli eventi che indichiamo con il termine Shoah presenta una forte potenzialità romanzesca, specialmente grazie alla presenza di un pattern di dinamiche e circostanze che sono state spesso etichettate come eroiche, in relazione ai sopravvissuti.2

Subito dopo la Seconda guerra mondiale, l’Olocausto nazista non era considerato un evento unicamente ebraico, tanto meno un evento storico unico. L’ebraismo americano, in particolare, si diede cura di inserirlo in un contesto di tipo universale. Ma dopo la guerra dei Sei Giorni la Soluzione Finale fu radicalmente ridisegnata. Tutti coloro che hanno scritto e scrivono dell’Olocausto concordano sul fatto che sia unico, ma ben pochi concordano sul perché. Anche se lo fosse, che differenza farebbe? Come potrebbe cambiare la nostra comprensione se non fosse il primo ma il quarto o il quinto di una serie di catastrofi comparabili? 

Il male unico dell’Olocausto non soltanto pone gli ebrei su un piano diverso rispetto agli altri, ma concede loro anche una “rivendicazione nei confronti degli altri”.3

L’Olocausto ha messo in evidenza il tratto distintivo peculiare degli ebrei, ha dato loro il diritto di considerarsi particolarmente minacciati e particolarmente meritevoli di ogni sforzo possibile per la loro salvezza.4

Fino a tempi abbastanza recenti, l’Olocausto nazista era quasi assente dalla vita americana. Con la guerra arabo-israeliana del 1967 tutto cambiò. La spiegazione più diffusa di questa svolta, ricorda Finkelstein nel libro, fu che il totale isolamento e la vulnerabilità di Israele nel corso della guerra dei Sei Giorni fecero rivivere la memoria dello sterminio nazista. Questa interpretazione, però, distorce tanto la realtà del rapporto di forza nel Medio oriente a quell’epoca quanto l’evoluzione delle relazioni tra le élite ebraiche americane e Israele. Colpiti dall’impressionante spiegamento di forze israeliane, gli Stati uniti si mossero per farne una loro risorsa strategica. Israele si trasformò in un procuratore del potere americano in Medio Oriente. 

Per le élite ebraiche americane la subordinazione israeliana al potere statunitense fu una fortuna inaspettata. Il sionismo era nato dal presupposto che l’assimilazione fosse una chimera e che gli ebrei sarebbero stati percepiti come un corpo estraneo potenzialmente pronto a tradire. Paradossalmente, dopo il giugno 1967, Israele facilitò l’assimilazione negli Stati Uniti: gli ebrei ora erano in prima linea a difendere l’America – o meglio l’Occidente civilizzato – contro la barbarie degli arabi. 

Se prima del 1967 Israele incarnava lo spauracchio della doppia fedeltà, ora era il simbolo della superfedeltà.5

Per proteggere la loro posizione strategica, le élite ebraiche americane ricordarono l’Olocausto.6 L’industria dell’Olocausto fece la propria apparizione solamente dopo la dimostrazione schiacciante del predominio militare e fiorì in mezzo al più totale trionfalismo israeliano.7 In fin dei conti, l’Olocausto divenne l’arma perfetta per deviare le critiche nei confronti d’Israele

Tra i gruppi che protestano la loro vittimizzazione, ivi compresi neri, latini, nativi americani, donne, gay e lesbiche, solamente gli ebrei, nella società americana, non sono svantaggiati. Il reddito pro-capite degli ebrei è circa il doppio di quello dei non ebrei, sedici dei quaranta americani più ricchi sono ebrei, il quaranta per cento dei vincitori americani del premio Nobel in ambito scientifico ed economico è ebreo, così come il venti per cento dei professori nelle università più importanti e il quaranta per cento dei soci dei maggiori studi legali di New York e Washington.8 L’Olocausto costituì l’immagine ribaltata del tanto decantato successo degli ebrei nel mondo: servì a ratificare la loro identità di popolo eletto. 

La netta contrapposizione fra personaggi positivi e negativi, che sta alla base di ogni narrazione mitologica, biblica o favolosa nella tradizione occidentale, si ripresenta con insistenza e chiarezza espressiva nella dicotomica rivalità fra i personaggi protagonisti del filone narrativo dell’Olocausto: i prigionieri dei Lager opposti alle SS naziste, per esempio. In questo senso, molti dei riferimenti alla Shoah nella realtà contemporanea si manifestano per descrivere e rendere esplicite situazioni soprattutto caratterizzate da ingiustizie sociali, repressioni violente da parte di un governo estremista, massacri di popolazioni e mancanza di libertà di espressione.9

Di fatto, Hitler modellò la sua conquista dell’Oriente sulla conquista americana del West.10 Quando promulgarono le leggi sulla sterilizzazione, i nazisti fecero esplicitamente riferimento al precedente americano.11 Più è cresciuto il loro successo sociale, più gli ebrei americani si sono spostati politicamente a destra. Benché sono rimasti progressisti su questioni culturali quali la moralità sessuale e l’aborto, sono diventati sempre più conservatori in materia di politica e di economia.12Attivatesi con piglio aggressivo per difendere i loro interessi di corporazione e di classe, le élite ebraiche tacciarono di antisemitismo tutti coloro che si opposero al loro nuovo corso conservatore. In questa offensiva ideologica, l’Olocausto ebbe un ruolo cruciale. Molto semplicemente, come risulta dall’analisi di Finkelstein, rievocare le persecuzioni del passato serviva a respingere le critiche sul presente. 

È dalla fine degli anni Ottanta che, dopo un lungo silenzio, il ricordo del genocidio ebraico ha incominciato a emergere nel dibattito politico e culturale dell’Europa occidentale. L’Italia è passata nello spazio di qualche decennio da una fase di indifferenza per la memoria della Shoah a una frenesia commemorativa che trova la sua massima espressione ogni anno in coincidenza del Giorno della Memoria. Parallelamente sono stati incentivati viaggi della memoria ad Auschwitz e sono stati inaugurati memoriali e musei importanti. Eppure, a ben guardare, qualcosa non torna nel panorama generale. Forse perché siamo in presenza di una contraddizione sempre più evidente tra l’ossessione commemorativa per ricordare l’orrore del passato e una tenace, quanto mai diffusa, ignoranza di fondo sull’argomento che accomuna giovani e adulti e che non fa dell’Italia un caso isolato.13

Si parla della Shoah quasi senza porre l’accento sul fatto che furono gli ebrei a essere condannati a morte per la colpa di essere ebrei e senza spiegare sufficientemente come fu pensato e perpetrato il genocidio. L’intento è ricordare tutte le vittime dei crimini nazisti oppure alludere a un’umanità sofferente ma indistinta e generica? Parlando di tutti, si riesce a non parlare specificatamente di nessuno, né degli ebrei, né delle altre vittime. La Shoah non è la storia di tutti i crimini nazisti, ma è la storia del genocidio degli ebrei. Una storia che coincide solo in parte con quella, per esempio, dei campi di concentramento e del fenomeno del lavoro forzato.14

In origine, con il termine “sopravvissuto all’Olocausto” si indicava chi aveva patito il terribile trauma dei ghetti ebraici, dei campi di concentramento e dei campi di lavoro schiavistico. I sopravvissuti alla fine della guerra sono generalmente stimati nell’ordine delle centomila persone.15 Di queste, oggi saranno in vita non più del venticinque per cento. In tempi recenti, l’espressione “sopravvissuto all’Olocausto” ha assunto un nuovo, più ampio significato: designa non soltanto chi ha sofferto nei campi ma anche chi è riuscito a sfuggire ai nazisti. Così, nella categoria rientrano, per esempio, gli oltre centomila ebrei polacchi che dopo l’invasione tedesca della Polonia trovarono rifugio in Unione Sovietica. 

Eppure quelli che si erano sistemati in Unione Sovietica non vennero trattati in modo diverso dai cittadini russi, mentre i sopravvissuti ai campi di concentramento sembravano dei morti viventi.16

L’ufficio dell’ex Primo ministro israeliano Netanyahu ha recentemente calcolato il numero di sopravvissuti all’Olocausto tuttora in vita in circa un milione. 

Il governo della Germania postbellica pagava un risarcimento agli ebrei che erano stati nei ghetti o nei campi e molti ebrei si costruirono un passato in grado di soddisfare tali requisiti.17 La Germania ha pagato finora qualcosa come sessanta miliardi di dollari. Finkelstein sottolinea che, quando l’industria dell’Olocausto gioca con i numeri per aumentare le richieste di risarcimento, gli antisemiti sfottono allegramente gli “ebrei bugiardi” che mercanteggiano perfino sulla propria morte. 

Il termine Shoah è presente in ebraico nel libro di Isaia 47,11: Ti verrà addosso una sciagura che non saprai scongiurare; ti cadrà sopra una calamità che non potrai evitare. Su di te piomberà improvvisa una catastrofe che non prevederai.18Con l’esperienza europea impressa in modo indelebile nella loro psiche, i coloni ebrei del dopoguerra, in Palestina, erano determinati a non essere mai più una minoranza, né lì né altrove. Per diventare una maggioranza, hanno condotto una campagna di pulizia etnica. Conosciuta in arabo come la Naqha (catastrofe), essa consisté nell’esilio di circa la metà della popolazione araba del territorio che sarebbe poi diventato Israele nel 1948. I palestinesi rimasti, o tornati dall’esilio, avrebbero formato una minoranza permanente in Israele.19

Uno dei problemi più complessi con cui sia la storiografia sia la riflessione filosofica sulla Shoah o Olocausto devono continuamente confrontarsi è quello della unicità per un verso, della distruzione degli ebrei d’Europa da parte del nazifascismo nel corso della Seconda guerra mondiale, e della sua collocazione, per altro verso, in un quadro storico più ampio. In quello, ad esempio, della industrializzazione dei massacri e della estetica della morte generate dalla Grande guerra, la cui ombra si è estesa per tutto il Novecento.20 Una prospettiva ancora più ampia, e in un certo senso più fosca, mette in discussione la stessa qualificazione del XX secolo come secolo dei genocidi. Da questa prospettiva, la Shoah ha rappresentato uno shock ermeneutico. La stessa attribuzione di unicità all’Olocausto ha, per molti versi, permesso di scoprire che i genocidi sono onnipresenti nella storia, appartenendo tanto alle pratiche violente delle società barbare quanto al culmine del processo di civilizzazione e ai vertici della modernità.21

Riportare l’oggettività del dato storico e affermare la santità del martirio di un popolo, ebraico nel caso dell’Olocausto. Questi i punti centrali cui tende l’analisi di Finkelstein. Al contempo, però, deplorare la mistificazione storica e della memoria operata dall’industria dell’Olocausto al servizio di un vero e proprio racket estorsivo.


Il libro

Norman G. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, Meltemi Editore, Milano, 2024.

Traduzione di Daria Restani.

Titolo originale: The Holocaust Industry: Reflections on the Exploitations of Jewish Suffering.

Traduzione degli apparati di: Roberta Zuppet, Caterina Balducci, Daria Restani.


1P. Novick, The Holocaust in American Life, Houghton Mifflin Harcout, Boston, 1999.

2A. Cinquegrani, F. Pangallo, F. Rigamonti, Romance e Shoah. Pratiche di narrazione sulla tragedia indicibile, Ca’ Foscari – Digital Publishing, Università Ca’ Foscari, Venezia, 2021.

3J. Neusmer, A “Holocaust” Primer, in Id. (a cura di), In the Aftermath of the Holocaust, Garland, New York, 1993.

4N. Glazer, American Judaism, University of Chicago Press, Chicago, 1957.

5H. Arendt, The Jew as Pariah, Grove Press, New York, 1978.

6E. Wiesel, And the Sea Is Never Full, Knopf, New York, 1999.

7A. Kapeliouk, Israël: la fin des mythes, A. Michel, Parigi, 1975. 

8S.M. Lipset, E. Raab, Jews and the New American Scene, Harvard University Press, Cambridge, 1995. 

9A. Cinquegrani, F. Pangallo, F. Rigamonti, op.cit.

10J. Toland, Adolf Hitler, Garden City, New York, 1976 / N.G. Finkelstein, Image and Reality of the Israel-Palestine Conflict, Verso, Londra – New York, 1995.

11S. Kühl, The Nazi Connection, Oxford University Press, Oxford, 1994.

12M. Friedman, Are American Jews Moving to the Right?, in Commentary, aprile 2000.

13L. Fontana, L’insegnamento della Shoah: le trappole delle buone intenzioni, in La Ricerca, Loescher Editore, Torino, 2019.

14L. Fontana, op.cit.

15H. Friedlander, Darkness and Dawn in 1945: The Nazie, the Allies, and the Survivors, in 1945 – the Year of Liberation, US Holocaust Memorial Museum, Washington, 1995.

16L. Dinnerstein, America and the Survivors of the Holocaust, Columbia University Press, New York, 1982.

17T. Segeu, The Seventh Million, Hill and Wang, New York, 1993.

18Shoah – Approfondimento in Gariwo la foresta dei giusti, it.gariwo.net 

19M. Mamdani, Né coloni né nativi. Lo Stato-nazione e le sue minoranze permanenti, Meltemi, Milano, 2023.

20G. Borgognone, Unicità della Shoah? Oltre il “secolo del genocidio”, in Pearson, it.pearson.com 

21P.P. Portinaro, L’imperativo di uccidere, Laterza, Bari, 2017.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Meltemi Editore per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Maria Elisa Aloisi, Sto mentendo.Un caso per Ilia Moncada

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In epoca di fake news, di post-verità e di nuovo realismo, il tema della verità, e per contro della menzogna, è diventato talmente centrale da essersi imposto negli ultimi anni come oggetto di riflessione e indagine. Bugie, inganni e menzogne in letteratura abbondano in tutte le forme e sfumature. La lista di bugiardi e mentitori sembra davvero infinita: l’Odisseo omerico, il Miles Gloriosus latino, i bugiardi di Dante del canto XXX dell’Inferno, quelli di Boccaccio e di Chaucer, i mentitori di Corneille e di Goldoni. Per citarne alcuni. Menzogne, inganni, bugie e bugiardi, solitamente condannati tanto dalla morale filosofica quanto da quella comune, sono in letteratura così onnipresenti non solo o non soltanto perché la menzogna è un fenomeno umano rivolto agli umani, come è pure la letteratura, bensì perché strutturalmente, e da un punto di vista squisitamente narrativo, essi sono indispensabili e irrinunciabili affinché la storia stessa, il plot dell’opera, si avvii o si complichi, proceda o si risolva, o comunque si concluda; affinché, insomma, l’opera stessa diventi in qualche modo, e nel suo specifico modo, possibile.1

Maria Elisa Aloisi sembra aver costruito l’intera struttura portante del suo legal-thriller intorno al bisogno o necessità o volontà di mentire di ognuno dei protagonisti che, a vario titolo, entrano nella scena principale dell’opera, ovvero il tribunale dove si svolge il processo per omicidio, vero palcoscenico di tutta la narrazione. Ognuno di loro sembra avere un buon motivo per mentire. Per certo, Ilia Moncada ha la determinazione per costringere tutti e ognuno di loro a dire la verità. 

Sovente l’opera stessa può esistere solo grazie alle bugie che essa contiene e su cui si basa, e questo vale addirittura per il genere letterario di appartenenza e le convenzioni che lo regolano, se solo si pensa al thriller, al detective story. Anche da una prospettiva ermeneutica, inoltre, credere o non credere a bugie e bugiardi da parte degli altri personaggi in senso intradiegetico e da parte dei lettori in senso extradiegetico, oppure essere in grado di smascherare o meno menzogne e mentitori, implica importanti e talvolta decisive conseguenze sia a livello di storie e narrazioni, sia – in maniera molto più complessa – a livello di interpretazione del testo.2

«Però quando credi che il tuo cliente sia innocente, anche senza volerlo ti impegni di più. O no? – È vero – Fui costretta ad ammettere mio malgrado». Sono Ilia Moncada e sua zia Ofelia a raccontarsi gli sviluppi sul caso di omicidio che la ragazza sta seguendo come legale dell’imputato. Al quale non crede. Il quale non le piace. Eppure svolge lo stesso il suo lavoro. Non con lo stesso impegno di quando segue un cliente che ritiene innocente ma lo fa, ponendo in essere, in un certo qual modo, un grande inganno basato sulla menzogna

Ogni avvocato, nell’esercizio della sua professione, mente. Ciò accade tutte le volte che sostiene le ragioni del proprio assistito che sa essere dalla parte del torto. 

«Cicerone dopo dato un consiglio al senato o al popolo, da mettersi in opera anche il medesimo, dopo perorata e conchiusa una causa, ancor di una piccola eredità, si poneva a tavolino, e dagl’informi commentari che gli avevano servito a recitare, cavava, componeva, limava, perfezionava un’orazione formata sulle regole e i modelli eterni dell’arte più squisita, e come tale, consegnavala all’eternità. Così gli oratori attici, così Demostene di cui s’ha e si legge dopo 2000 anni un’orazione per una causa di 3 pecore: mentre le orazioni fatte oggi a’ parlamenti o da niuno si leggono, o si dimenticano di là a due dì, e ne son degne, né chi le disse, pretese né bramò ne curò ch’elle avessero maggior durata.»3

È una lamentela comune in epoca di classicismo, resa icasticamente dal giovane Leopardi: il sostanziale silenzio dei moderni retori è contrapposto agli artifici, destinati all’eterno, cesellati dagli antichi, fosse pur col pretesto di una causa intorno a poche pecore. Sempre in Italia, a Novecento inoltrato, la fortuna dell’oratoria avvocatesca si assestò al livello della cultura popolare, soprattutto al Sud.4

«Il diritto, gli avvocati, le cause in tribunale lo colmavano di estasi e delizia. Sapeva a memoria i nomi di tutti gli avvocati della provincia, e i brani delle loro cause più celeri; e in questo non era il solo, perché l’amore per l’oratoria forense è quaggiù abbastanza generale.»5

L’avvocato è in tutto e per tutto un uomo di teatro, di volta in volta istrione, guitto, fine dicitore.6 Il causidico fu spesso, lungo i secoli, assimilato all’attore: un modo forse per nobilitare il secondo e mettere in dubbio la lucidità argomentativa del primo.7

Quasi ovunque nei testi letterari ci imbattiamo in private o pubbliche arringhe che sanno d’aula di tribunale e molto familiare in Italia è la satira di avvocati e notai avidi ma, nel libro di Aloisi, è intorno alle parole di rei e correi che si potrebbe lungamente argomentare. Egualmente adirandosi. 

Sto mentendo è un legal-thriller ambientato tra luoghi che devono essere molto cari all’autrice. Traspare una Sicilia ricca di tradizioni, cultura, folklore, umanità. Anche nell’opera di Aloisi si ritrova la singolarità presente in molti scrittori siciliani che hanno saputo coniugare l’esterofilia e l’apertura al mondo con la tensione, all’inverso, centripeta che domina le loro opere, ossessivamente legate al tema dell’isola, e le loro vite, crocefisse a quella terra amata e odiata, o quanto meno condannate a concludervisi, in sconsolati ritorni che hanno talvolta lo stesso senso, di bruciante sconfitta e di astiosa diffidenza, dell’attaccamento delle “ostriche” verghiane allo “scoglio”.8

Nel testo sono presenti numerosi dialoghi, le descrizioni sono poche e brevi, seppur esaustive. Sembra quasi volontà dell’autrice lasciare siano gli stessi protagonisti a raccontare la storia, attraverso il resoconto della loro vita, delle esperienze, le emozioni, i sentimenti, gli accadimenti. Che siano sempre loro a trascinare il lettore nelle anse di una storia che si snoda tra le vie e le mura di una città che trasuda la sua sicilianità cosmopolita da ogni angolo, da ogni poro. Esattamente come accade per i suoi personaggi, protagonisti del romanzo. 


Il libro

Maria Elisa Aloisi, Sto mentendo. Un caso per Ilia Moncada, Mondadori, Milano, 2024.


1L. Pelaschiar, Quella bugiarda della letteratura! Il caso William Shakespeare, in Nuova Informazione Bibliografica, arTs – Università degli Studi di Trieste, Trieste, 2019.

2L. Pelaschiar, op.cit.

3G. Leopardi, Zibaldone, 1823.

4F. Arato, Parola di avvocato: L’eloquenza forense in Italia tra Cinque e Ottocento, Giappichelli Editore, Torino, 2015.

5C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Torino, Einaudi, 1945.

6G. Marotta, San Gennaro non dice mai no, Longanesi, Milano, 1948. F. Arato, op. cit.

7C. Vicentini, La teoria della recitazione. Dall’antichità al Settecento, Marsilio, Venezia, 2012.

8A. Di Grado, Memoria e utopia: la vocazione europea della letteratura siciliana, in Fragmentos, numero 36, 2009.


Articolo pubblicato su LuciaLibri.it


Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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© 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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La scienza come narrativa e la letteratura scientifica: incontro, scontro o necessità?

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I temi e i problemi trattati da scienza e letteratura a ben guardare non sono così dissimili, eppure la vicinanza tra le due è sempre stato motivo di accese discussioni, sia in ambito scientifico che letterario. I campi del sapere devono restare separati oppure dalla loro unione possono nascere nuove forme del sapere?

«La scienza si trova di fronte a problemi non dissimili da quelli della letteratura: costruisce modelli del mondo continuamente messi in crisi, alterna metodo induttivo e deduttivo, e deve sempre stare attenta a non scambiare per leggi obiettive le proprie convinzioni linguistiche» (I. Calvino, Filosofia e Letteratura, 1967). In realtà, nell’ambito della cultura ufficiale, il rapporto tra ricerca scientifica e letteraria è stato quasi sempre marginalizzato, non solo per la tendenza accademica a distinguere i campi del sapere ma anche per la diffidenza antitecnologica palesata dagli intellettuali più influenti. In Italia questa diffidenza si è concretizzata dapprima nel crocianesimo e nella riforma scolastica gentiliana e, successivamente, in un diffuso idealismo e in un’inclinazione estetizzante che hanno osteggiato la visione materialistica della realtà (C. D’Amicis, Scienza e Letteratura, Treccani, 2007). 

L’ipotesi della contrapposizione tra scienza e letteratura spesso è basata su una presunta dicotomia di strutture linguistiche: il linguaggio scientifico sarebbe meno ridondante e ambiguo e, contemporaneamente, più strutturato e rigido. Il linguaggio letterario sarebbe invece più teso alla comunicazione di emozioni, retorico, libero e basato più su analogie e giustapposizioni che su deduzioni. La lingua italiana però è nata anche come strumento di comunicazione scientifica. Il Convivio di Dante Alighieri è un manifesto di diffusione e democratizzazione della cultura, un trattato di scienza laica del mondo moderno definito un “banchetto di scienza e sapienza”. In esso Dante spiega che l’uso della lingua volgare era funzionale soprattutto alla diffusione del sapere, ribaltando l’allora comune paradigma dell’uso del latino e della divulgazione delle idee solo per pochi studiosi (L. Ristori, Scienza e Letteratura, discipline in equilibrio dinamico, MaCSIS, 2012).

L’atto del “fare” letteratura presuppone che chi scrive sia al contempo artigiano e scienziato; che l’artificio letterario venga realizzato con un progetto: con elementi ponderati e misurati, tratti dal serbatoio di combinazioni evolutive della natura, concetto che in senso esteso viene a coincidere con tutta la realtà, sia vera che immaginata. Si delinea così un profilo “fabbrile” dello scrittore, alla maniera di Ezra Pound, che opera in un laboratorio con strumenti pratici per realizzare l’artefatto letterario in modo non dissimile dallo scienziato. La scrittura non incontra la scienza, perché la scrittura, se ben fatta, è già scienza – e viceversa – con norme, regole, architetture, un’estetica elaborata nei millenni mimando proprio forme e proporzioni naturali. Così come la scienza è a sua volta una narrazione umana, scritta con una sintassi e con caratteri più complicati di quelli alfabetici, pur sempre ideati dalla nostra specie. La migliore letteratura sembra così essere quella scientifica. La letteratura incontra la scienza nell’analisi, nello stupore per l’osservazione dei dettagli, delle regole e delle eccezioni che strutturano le forme sensibili della natura (T. Lisa, Fare letteratura con la natura. Quando la scrittura incontra la scienza, L’Indiscreto, 2024).

La nostra è un’epoca scientifica, se con questa denominazione intendiamo riferirci ai periodi in cui la scienza ha avuto il suo massimo sviluppo. Ma se intendiamo che oggigiorno la scienza svolge un ruolo nella visione del mondo della gente, ebbene, in tal caso, quest’epoca ha ben poco di scientifico. Esiste un palese e diffuso analfabetismo scientifico. Si potrebbe combatterlo con la narrativa: partire da un brano di narrativa, dai versi di una poesia, da una citazione tratta da un film o da un fumetto per affrontare singoli e importanti problemi legati all’immagine, spesso distorta, che la scienza ha nell’opinione pubblica (M. Salucci, Dalla mela di Newton all’Arancia di Kubrick. La scienza spiegata con la letteratura, thedotcompany edizioni, 2022). 

«I mass media confondono l’immagine della scienza con quella della tecnologia e questa confusione trasmettono ai loro utenti che ritengono scientifico tutto ciò che è tecnologico, in effetti ignorando quale sia la dimensione propria della scienza, di quella – dico – di cui la tecnologia è certo un’applicazione e una conseguenza ma non certo la sostanza primaria. La tecnologia è quella che ti dà tutto e subito, mentre la scienza procede adagio. Questa abitudine alla tecnologia non ha nulla a che fare con l’abitudine alla scienza. Ha piuttosto a che fare con l’eterno ricorso alla magia» (U. Eco, Il mago e lo scienziato, La Repubblica, 2002). 

Letteratura e scienza sono discipline ben distinte, ma non isolate. Invece di essere trattate come isole, le varie culture andrebbero viste come spazi approssimativamente definiti, ma con confini porosi. Non ci sono muri tra le culture, ma frontiere e spazi di transizione. Dall’incontro tra scienza e letteratura, tra l’altro, è nato il genere della fantascienza. Molti autori di tale genere sono stati scienziati: Fred Hoyle, Carl Sagan, Isaac Asimov, Michael Crichton. Edgar Allan Poe invece può essere citato come esempio di letterato che muove passi in ambiente scientifico. Egli ha proposto un nuovo modo di deduzione come modello scientifico, mentre ha sostenuto la necessità dell’intuizione e dell’immaginazione nel suo modus operandi. Il premio Nobel per la poesia 1979, Odysseas Elytis, ha scritto opere intrise di concetti matematici e geometrici, ai quali ha saputo attribuire un grande effetto emotivo e simbolico (D.G. Berta, Distanti, ma unite: la simbiosi tra scienza e letteratura, Trust in Science, 2020). 

Nelle opere di Primo Levi il lettore non può non cogliere l’impressione che attraverso la letteratura il chimico abbia tentato di scavarsi un varco nell’impenetrabile oscurità della materia vivente e pulsante, dell’universo misterioso o dell’uomo. Uno spiraglio per comprendere il meccanismo con cui si incatenano le molecole, una chiave per capire le regole del Lager, regno della distorsione di ogni logica umana. Scrivere per capire, è questa la funzione dell’esperimento letterario di Se questo è un uomo, scritto non per formulare nuovi capi d’accusa, bensì per fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano. La salvezza delle parole garantisce ordine e sistema, dona uno spessore da frapporre tra due regni, il notturno e il diurno, le stelle e gli abissi. Tale è la funzione della letteratura in Levi, un argine all’insania generata dal grembo stesso della ragione umana e per questo ripetibile. Il laboratorio scientifico offre a quello creativo specifici strumenti da impiegare nell’esperimento della scrittura, impiegata come setaccio per distillare l’essenziale dal superfluo, per sciogliere il groviglio confuso dell’essere umano e della sua esperienza nella storia, un coacervo in cui convivono forze e tensioni opposte. Allo stesso modo, lo scrittore passa al vaglio della lente del chimico l’esperimento più atroce del XX secolo. Scienza e letteratura, dunque, sono due strumenti diversi nelle mani di un centauro che ha sperimentato la gioia del volo creativo e il rigore del chimico e di entrambi si serve per non scivolare nel fondo, nell’abisso assordante e babelico dove l’uomo è nemico all’uomo e domina la legge impietosa della lotta per la sopravvivenza (A. Carta, Parole come molecole: scienza e letteratura in Primo Levi, ADI, 2015). 


Articolo pubblicato sul numero di ottobre 2024 della Rivista cartacea Leggere:Tutti


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Erica Mou, Una cosa per la quale mi odierai

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Una cosa per la quale mi odierai è un romanzo che racconta la vita attraverso la narrazione della malattia e della morte. La protagonista trova il coraggio di leggere il diario scritto da sua madre, un resoconto degli ultimi nove mesi di vita. E lo fa proprio quando sta vivendo l’esperienza della gravidanza. Nove mesi che la renderanno madre. Orfana e madre. Sua madre Lucia ha preferito affidare al diario le parole per i suoi cari e, attraverso di esse, Erica riscoprirà il suo rapporto con lei. Le sembrerà quasi di conoscerla di nuovo, quantomeno in una maniera differente. 

Una cosa per la quale mi odierai

Erica sta per compiere un grande passo, a breve andrà a convivere con l’uomo che ama e, quando sua madre le chiede di parlare, è convinta voglia tentare di dissuaderla. Invece Lucia vuole raccontarle “una cosa per la quale mi odierai”. Vuole parlarle della malattia. 

Il senso di colpa è una delle più comuni reazioni alla diagnosi di cancro. C’è chi si sente in colpa perché pensa di aver fatto qualcosa che ha favorito l’insorgenza della malattia. Chi pensa avrebbe potuto riconoscere prima i sintomi. Chi perché non può più svolgere il suo ruolo nella famiglia o sul lavoro. Chi perché si sente un peso per i suoi cari.1

È spaventata Lucia ma, nel raccontare la situazione a Erica, minimizza. Ha paura. Ma teme anche la sofferenza della figlia. 

Il paziente oncologico ha necessità di elaborare il trauma psicologico dovuto alla diagnosi di tumore e di acquisire elementi che gli consentano di rompere l’equazione cognitiva cancro=morte.2 Lucia sembra aver trovato aiuto e sfogo scrivendo il suo diario. 

Le parole possono contribuire all’efficacia delle cure. Presumibilmente hanno aiutato Lucia ad affrontare la malattia e il distacco dagli affetti. Di sicuro hanno aiutato Erica ad affrontare il lutto, la perdita. 

Le pagine del libro di Erica Mou sono articolate secondo uno schema che vede alternarsi parti del diario di Lucia a riflessioni proprie della figlia. Riflette Erica. Legge. Rilegge e riflette. La sua mente ritorna a quei momenti. Poi sovviene al presente. Sono emozioni forti quelle che la assalgono. Pensieri e parole avvolti da un dolore sordo, lancinante, crudele, che sembra non avere mai fine. Ripensare ai momenti della malattia di sua madre le dà il tormento ma ritornare al presente non sembra donarle alcun sollievo perché quello che è stato è ancora lì, nelle crepe del suo cuore, tra le pagine di quel diario, nel profondo della sua mente, nel suo stesso corpo che soffrendo per la perdita, per la morte di sua madre è riuscito comunque a trasformarsi in grembo materno, ha accolto la nuova vita e con essa la speranza. Nel futuro certo. Ma anche nella stessa vita. Con le sue gioie e i suoi dolori. Perché la morte fa paura ma anche la vita allorquando ti costringe ad affrontare il dolore, quello vero, quello che richiede tanta forza per essere elaborato, superato. 

Il racconto di Erica Mou è un inesorabile e sincero resoconto di quanto veramente accade. Non ci sono fronzoli, non ci sono iperboli né edulcorazioni. È la malattia. È la quotidianità. È semplicemente la vita. La quotidianità di una vita completamente stravolta. La sofferenza di chi è malato e quella dei suoi cari. La rabbia. Il dolore. La paura. Il timore di soffrire e veder soffrire. La scrittura di Erica Mou è egualmente lineare, pulita, quotidiana. Una lingua parlata, o meglio “musicata” perché il suo fraseggio ha un non so che di musicale, armonioso, come se leggendo le parole se ne avvertisse quasi il suono, il rumore oppure il silenzio. 

Una cosa per la quale mi odierai non racconta solo un’esperienza o la storia di una persona, o meglio di una famiglia, ne racconta l’intera esistenza, la vita. 


Il libro

Erica Mou, Una cosa per la quale mi odierai, Fandango Libri, Roma, 2024.


1Ci si può sentire in colpa per essersi ammalate di cancro?, Fondazione Veronesi Magazine, settembre 2020.

2S. Paladini, La sindrome Psiconeoplastica, PSICOFORM – Psicologia e Formazione, gennaio 2024

Articolo pubblicato su LuciaLibri.it


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Alberto Mattiello e Paolo Taticchi, Disruption

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Ci sono momenti storici in cui i cambiamenti accelerano e convergono, portando a quello che gli autori definiscono situazioni di disruption

Sin da Joseph Schumpeter, economista austriaco eterodosso che con le sue pubblicazioni focalizzò sull’importanza della crescita e dei cicli economici, la letteratura conosceva solo due tipi di innovazioni: quella radicale e quella incrementale. Le “radicali” proponevano una nuova idea di prodotto attraverso una nuova tecnologia. Le “incrementali” invece riguardano l’innovazione in misura evolutiva, ovvero la capacità di imitare, di differenziarsi dai concorrenti, dal sapere servire meglio il mercato senza mutare il concept di prodotto e la tecnologia per ottenere successo. Ma poi, nel 1997, Christensen con il termine disruption introdusse una terza categoria di innovazione.1

Nella teorizzazione di Christensen, la disruption è un processo mediante il quale un prodotto o un servizio vengono trasformati dall’innovazione tecnologica. Le innovazioni disruptive non sono il frutto di scoperte rivoluzionarie o dell’arrivo di nuovi protagonisti che ripensano radicalmente i modelli di business. Consistono invece spesso in prodotti e servizi semplici, facilmente accessibili e a basso costo. Soluzioni che all’inizio sono di qualità modesta ma che, nel tempo, hanno la capacità di trasformare un intero settore. 

Molte grandi aziende hanno spesso in pancia le innovazioni disruptive ma, quando le brevettano, non hanno la forza di lanciarle sul mercato perché ascoltano troppo i loro clienti serviti e non hanno il coraggio di cannibalizzare la quota di mercato dei loro stessi prodotti. Ecco quindi che qualche concorrente proveniente da altri settori o in forma di start up, in assenza di queste inerzie cognitive ed economiche, le lancia e nel tempo diventano un vero e proprio disruptor, costringendo l’azienda leader improvvisamente a seguire anziché a guidare il mercato.2

Secondo i dati di una ricerca Accenture, il 63% delle aziende sono attualmente alle prese con processi di disruption, e il 44% ne sono fortemente influenzate. Gli autori si chiedono quali siano le cause che rendono ancora così vulnerabili le aziende alle minacce dei processi di disruption. Il problema è che anche i leader ben intenzionati spesso si illudono e minimizzano le reali minacce della disruption. Oppure sopravvalutano la difficoltà delle contromisure da adottare. I leader aziendali devono imparare meglio a sviluppare le capacità di un’organizzazione e degli individui che ne fanno parte a superare le resistenze che si manifestano di fronte a processi di  disruption. È facile trovarsi nel mezzo di un vorticoso processo di disruption e cercare conforto in dati che continuano a suggerire che tutto stia andando per il meglio. Ma questo accade solo perché i dati sono sempre in ritardo rispetto alla rapidità delle trasformazioni.3

L’esempio che riportano gli autori è quanto accaduto alla Nokia la quale è caduta nonostante avesse ormai una posizione di mercato dominante, oltre alle risorse e le capacità per gestire la transizione verso gli smartphone, e sebbene avesse manager che avevano compreso e condividevano la teoria di Christensen sulla disruption.

Una reazione efficace ai processi di disruption richiede che i leader aziendali siano in grado di reinventare il business di oggi avendo già in mente come costruire quello di domani. Più nello specifico, devono essere adottati sistemi per risolvere i problemi dei clienti e al contempo individuare nuove opportunità di crescita. La difficoltà della sfida non sta solo nel fatto che spesso queste due missioni sono in contrapposizione e la loro attivazione produce fasi di confusione e incertezza, ma anche nel fatto che vengono richiesti una mentalità e un tipo di approccio nuovi. Da uno studio realizzato dal docente di Harvard Robert Kegan, emerge tuttavia come alla maggior parte dei leader manchi la flessibilità intellettuale necessaria per passare da un atteggiamento di disciplinata gestione dell’ordinario a una fase di maggiore intraprendenza. 

La leadership trasformazionale e la trasformazione digitale sono due concetti significativi che hanno acquisito importanza negli ultimi anni. La combinazione di questi due domini è diventata sempre più rilevante poiché le organizzazioni cercano di adattarsi ai rapidi progressi della tecnologia e al panorama aziendale in evoluzione. La leadership trasformazionale è particolarmente utile per migliorare le capacità intrinseche nel motivare i dipendenti e aumentare l’empowerment psicologico. Comprende quattro componenti distinte: influenza idealizzata, motivazione ispiratrice, stimolazione intellettuale, attenzione individualizzata. Nel panorama digitale in rapida evoluzione, i dipendenti devono essere motivati e coinvolti per abbracciare nuove tecnologie e processi. I leader trasformazionali eccellono nel comunicare una visione avvincente del futuro digitale dell’organizzazione, instillando un senso di scopo e direzione tra i loro team. Questa visione condivisa crea un senso di scopo unificato, che spinge i dipendenti a lavorare verso obiettivi comuni. I dipendenti diventano più ricettivi al cambiamento, si adattano volentieri al panorama digitale in evoluzione e partecipano attivamente al percorso di trasformazione. Con il panorama digitale in rapida evoluzione, la leadership trasformazionale è diventata un’idea cruciale che può avere un impatto significativo sul successo organizzativo con risultati chiave quali: motivazione e performance dei dipendenti, soddisfazione lavorativa, impegno organizzativo che promuove innovazione, adattabilità, resilienza, crescita e performance organizzativa. In virtù della sua capacità di ispirare e motivare i dipendenti, la leadership trasformazionale svolge un ruolo cruciale nel promuovere l’adozione di progressi tecnologici e metodi di lavoro innovativi. In realtà, diversi stili di leadership, come quella transazionale o di servizio, potrebbero svolgere ruoli cruciali nella promozione di iniziative di trasformazione digitale.4

L’attuale contesto mondiale è responsabile del lato oscuro dello scenario globale: crescente disuguaglianza, disoccupazione, sottoccupazione, maggiore mobilità globale dovuta alla migrazione forzata. In quest’epoca di sconvolgimenti, le strutture di potere dall’alto verso il basso e i sistemi soffocati dalle regole sono passività. Schiacciano la creatività e soffocano l’iniziativa. La creatività è un segno distintivo delle capacità relazionali. I leader dovrebbero ispirare la creatività in tutta l’organizzazione. È necessario passare dalla mente individuale all’idea più ampia di basi socioculturali distribuite dell’intelligenza che poi estendono la natura della creatività in aree funzionali alla risoluzione dei problemi. Hamel e Zanini definiscono questo processo umanocrazia. Si potrebbe esplorare la ricerca futura che potrebbe essere in grado di sviluppare una teoria e quindi identificare le competenze di leadership di un leader umanocratico. I leader del futuro devono abbracciare l’immaginazione e il pensiero innovativo come essenziali sia per l’identificazione dei problemi emergenti che per la creazione di soluzioni praticabili. Devono cogliere la realtà sapendo che c’è una rimodellazione della natura umana in una cittadinanza globale, così come la ri-genesi della società attraverso cambiamenti nella struttura sociale, nelle istituzioni e nei governi esistenti. 

La disruption presenta una serie unica di opportunità e sfide per i leader non solo per reinventarsi, ma anche per reimmaginare le proprie organizzazioni.5

La maggior parte dei manager è cresciuta professionalmente in un contesto di una gestione disciplinata oppure in uno imprenditoriale, ma raramente in entrambi e quasi mai in entrambi contemporaneamente. Per riuscire a trasformare se stessi i leader devono concentrarsi di più sulla propria mentalità, ed essere abbastanza introspettivi e riflessivi da riuscire a identificare i pregiudizi di fondo che compromettono un corretto processo decisionale. Non ci sono soluzioni immediate, ma le ricerche in questo campo suggeriscono sempre di più che il miglior punto di partenza sia quello di adottare pratiche note con il termine di mindfulness. Queste pratiche accrescono la consapevolezza e la capacità per chi le utilizza di capire e gestire meglio le proprie emozioni e i propri processi decisionali. 

La mindfulness è uno stato di coscienza in cui siamo testimoni vigili e presenti dei nostri pensieri, delle nostre emozioni e percezioni, momento per momento. È uno stato mentale. Una modalità dell’essere, non orientata a uno scopo. Focalizzata al permettere di stare nel presente così com’è, di essere semplicemente in questo presente. Ma la pienezza dell’esperienza comprende necessariamente anche un lato negativo, il risvolto del benessere, ovvero il disagio, la sofferenza e il dolore. Accettare il lato negativo viene considerato motivo di crescita e di creatività. Fare spazio al disagio paradossalmente sembra essere un ottimo modo per porsi nelle condizioni migliori per trovare, ove ci siano, soluzioni efficaci per gestire o risolvere problemi e sofferenza.6

L’impiego della mindfulness nella nostra vita quotidiana porta alla consapevolezza di non essere individui che agiscono in un sistema isolato agli altri individui ma di appartenere a un contesto sociale, in cui le nostre scelte possono avere delle ripercussioni sulle altre persone. Dalla consapevolezza del sé si passa quindi alla consapevolezza dell’Altro, ovvero alla social  mindfulness. Nello specifico, le scelte che facciamo e che tengono in considerazione la presenza delle altre persone, ossia che non limitano le loro possibilità di scelta, racchiudono in sé il concetto di consapevolezza proprio della mindfulness. Associare la mindfulness alle situazioni di interdipendenza potrebbe apparire una parziale forzatura poiché essa è solitamente considerata in relazione al benessere individuale. Tuttavia, è importante integrare l’attività individuale della mindfulness con l’esperienza della social mindfulness in quanto siamo costantemente portati a interagire in un contesto sociale popolato da altre persone.7

La mindfulness si colloca all’avanguardia della “micro” politica, o della politica “fai da te” o “del quotidiano”, poiché conferisce una dimensione politica alla presenza a sé stessi sul piano individuale: in questo senso si può forse considerare l’ultima frontiera della politica della soggettività umana. Nella fattispecie, il dilemma se leggere le pratiche individuali come parte integrante di un’azione sociale e politica trasformativa o piuttosto come modello di autogoverno neoliberista trova nella mindfulness un perfetto esempio. Alcune voci critiche indicano nella mindfulness l’esempio di una forma produttiva di potere, che costruisce e disciplina soggetti neoliberisti. Secondo la Scuola di Francoforte, il capitalismo della metà del XX secolo mirava a distrarre e pacificare i cittadini-consumatori. Secondo questa visione, ciò che oggi chiamiamo “deficit di attenzione” era in realtà una riproduzione dello status quo. Tuttavia, il deficit di attenzione contemporaneo rappresenta una minaccia strutturale per lo stesso regime neoliberista che lo produce: la saturazione dell’informazione, infatti, danneggia le nostre capacità di produttori (lavoratori) e consumatori. La mindfulness – che mira a ripristinare l’equilibrio e l’attenzione dell’individuo – agisce direttamente su questo piano. È una delle ragioni per cui Žižek ha profeticamente sostenuto che il “buddhismo occidentale” è il perfetto completamento ideologico del capitalismo contemporaneo.8

Anthony e Putz in Disruption affermano che la mindfulness è uno strumento potente e scientificamente riconosciuto per incrementare la propria consapevolezza. Un qualcosa di cruciale spesso sottovalutato per dirigenti di alto livello alle prese con le sfide della disruption. Sottolineano inoltre che trasformare solo la persona che sta al vertice di una struttura non basta. Troppo spesso si incontrano leader che si concentrano esclusivamente su questo. Ciò consente solo un’apparenza momentanea di trasformazione e, appena il leader se ne va, i cambiamenti se ne vanno con lui o lei. 

La sfida in corso è quella di riuscire a reclutare e formare una generazione di lavoratori che, nello svolgimento delle loro mansioni, dovranno utilizzare l’Intelligenza Artificiale, la Robotica, l’informatica quantistica, l’ingegneria genetica, la stampa 3D, la Realtà Virtuale e via discorrendo. L’evoluzione tecnologica ha drasticamente ridotto la longevità delle competenze come mai in passato. Le aziende devono anticipare e coltivare le competenze fondamentali di cui i loro team necessiteranno domani. 

Le aziende tendono a trascurare il fatto che la Quarta rivoluzione industriale si stia affermando proprio mentre altri due grandi cambiamenti stanno esacerbando la carenza di competenze. Innanzitutto i cambiamenti demografici. I millennial e la generazione Z sembrano avere aspirazioni professionali diverse rispetto ai padri e ai nonni. Molti di loro preferirebbero lavorare per una start up piuttosto che per un’impresa già affermata. Questi giovani lavoratori hanno aspettative molto alte nei confronti dei datori di lavoro, il che rende difficile per le aziende tradizionali attrarre i giovani talenti di cui hanno bisogno. In secondo luogo, poiché oggi la tecnologia sta trasformando il mondo in cui lavoriamo, sta generando una dinamica diversa da quella delle precedenti rivoluzioni industriali. In passato, l’innovazione ha potenziato la precisione e la produttività dei lavoratori con abilità manuali, consentendo loro di svolgere compiti precedentemente riservati ad artigiani specializzati e ben pagati. Intelligenza Artificiale e Robot avranno l’effetto opposto: aumenteranno precisione e produttività dei lavoratori altamente qualificati, ma finiranno per rimpiazzare gli addetti con basse qualifiche.9

È chiaro a tutti che le innovazioni tecnologiche abbiano assunto un ruolo centrale, che riguardano tutte le funzioni aziendali e che si susseguono sempre più velocemente. Meno evidente è come sia cambiata la loro stessa natura: le tecnologie più rilevanti per un’azienda sono sempre state quelle sviluppate internamente o sviluppate da partner industriali. Erano poche, rare, specifiche e tipicamente segrete. Questo tipo di innovazione continua a esistere e a essere importante, ma non è più l’unico. Bassi e Mattiello suggeriscono di pensare all’IA Generativa: si tratta di un’innovazione tecnologica sviluppata da altri, che arriva dall’esterno e, nonostante ciò, può trasformare tutti gli ambiti di un’organizzazione, da quelli creativi a quelli tecnici, dalla comunicazione alla logistica. Per cui è facilmente immaginabile che tutte le innovazioni tecnologiche potenzialmente più disruptive per un’azienda avranno due aspetti fondamentali in comune: si diffonderanno rapidamente e saranno facili da utilizzare, da tutti e per diverse applicazioni. 


Il libro

Alberto Mattiello e Paolo Taticchi (a cura di), DISRUPTION. Guida per navigare i cambiamenti estremi, The Future of Management – MIT Sloan Management Review, Guerini NEXT, Milano, 2023.

Traduzione di Mauro Del Corno.

I saggi presenti nel volume sono tratti da: The next age of disruption, The MIT Press, 2021. 


1G. Verona, Teoria e pratica della disruption, Bocconi, Milano, 2022, www.unibocconi.it 

2G. Verona, op.cit.

3S.D. Anthony e M. Putz, Le illusioni dei leader sulla disruption, in DISRUPTION. Guida per navigare i cambiamenti estremi.

4D.W. Mandagi, D.I. Rantung, D. Rasuh, R. Kowaas, Leading through disruption: The role of transformational leadership in the digital age, Jurnal Mantik – Published by Institute of Computer Science (IOCS), marzo 2023.

5L. Ellington, Leadership Disruption: Time to Reimagine Leadership Talent, UBMR – International Journal of Business and Management Research, Volume 9, Issue 2, april 2021. 

6E. Grechi, Mindfulness: definizione, meditazione, applicazioni, IPSICO – Istituto di Psicologia e Psicoterapia Comportamentale e Cognitiva – Psicologia Psichiatria e Psicoterapia, Firenze, 20 marzo 2021.

7M. Tumino, F. Fasoli, L. Carraro, La mangio o non la mangio l’ultima fetta? Il caso della social mindfulness come processo decisionale, IM – The Inquisitive Mind, n°17 anno 2019.

8W. Leggett, La mindfulness può davvero cambiare il mondo? La dimensione politica delle pratiche meditative, GATE – Il portale dell’Unione Buddhista Italiana, 2022.

9T.J. Marion, S.K. Fixson, G. Brown, Quattro competenze che saranno indispensabili nel lavoro del prossimo futuro, in DISRUPTION. Guida per navigare i cambiamenti estremi.



Articolo pubblicato su LuciaLibri.it


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di GueriniNext per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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© 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Cory Doctorow, Come distruggere il capitalismo della sorveglianza

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Da tempo ormai si dibatte in merito al problema del «capitalismo della sorveglianza», ovvero il business del controllo, dell’estrazione e della vendita dei dati degli utenti che è esploso con l’ascesa dei giganti tecnologici quali Google, Apple, Facebook, Amazon. Doctorow si chiede se il cosiddetto capitalismo della sorveglianza in realtà non sia una forma di capitalismo disonesto o una svolta sbagliata presa da alcune aziende deviate, ma parte di un sistema che funziona esattamente come previsto. Per cui l’unica speranza di ripristinare un web libero è quella di combattere direttamente il sistema stesso. Egli sostiene che l’unica possibilità è distruggere i monopoli che attualmente costituiscono il web commerciale per tornare a un web più aperto e libero, in cui la raccolta predatoria dei dati non sia un principio fondante. 

Ci sono tre modi evidenti nei quali il capitalismo della sorveglianza si distacca dalla storia del capitalismo di mercato: 

  • Si basa sul privilegio di una libertà e di una conoscenza illimitate.
  • Abbandona gli storici rapporti di reciprocità con le persone. 
  • Dietro allo spettro della vita nell’alveare è possibile intravedere una visione collettivista della società, sostenuta da un’indifferenza radicale espressa nel Grande Altro. 

La concorrenza tra capitalisti della sorveglianza li spinge alla ricerca della totalità. La totalità dell’informazione si avvicina alla certezza, e pertanto a esiti sicuri. Operazioni del genere implicano la possibilità di conoscere nel dettaglio domanda e offerta dei mercati dei comportamenti futuri. Il capitalismo della sorveglianza, pertanto, mette la certezza al posto del mistero, e renderizzazione, modifica del comportamento e previsione al posto del vecchio «schema insondabile». È un’inversione fondamentale dell’ideale classico secondo il quale il mercato era intrinsecamente non conoscibile. Il capitalismo della sorveglianza è definito da una convergenza inedita di libertà e conoscenza. L’intensità di tale convergenza è pari forza del potere strumentalizzante.1

«Più informazioni ci date su di voi e sui vostri amici, migliore sarà la qualità delle vostre ricerche. Non serve nemmeno che scriviate. Sappiamo dove siete. Sappiamo dove siete stati. Sappiamo più o meno anche a cosa state pensando2

Per il proprio tornaconto, il capitalismo della sorveglianza ci spinge verso l’alveare. Questo ordine sociale strumentalizzato è una nuova forma di collettivismo nel quale è il mercato, e non lo Stato, a detenere conoscenza e libertà. La convergenza di libertà e conoscenza trasforma i capitalisti della sorveglianza negli autoproclamati padroni della società. Dal loro piedistallo determinato dalla divisione dell’apprendimento, i “regolatori” appartenenti a un clero privilegiato governano l’alveare interconnesso per fargli produrre sempre più materie prime. Grazie all’indifferenza radicale, essi giudicano i contenuti in base a volume, varietà e profondità del surplus, con criteri “anonimi” quali clik like e durate, senza curarsi del fatto evidente che ogni situazione ha un significato diverso.3

«Noi mettiamo le persone in contatto. Può essere una cosa buona se fanno qualcosa di positivo. Magari qualcuno troverà l’amore o salverà la vita di un potenziale suicida. Ma può essere una cosa cattiva se fanno qualcosa di negativo. Magari qualcuno dovrà affrontare il bullismo e ci rimetterà la vita. Il lato brutto della faccenda è che per noi qualunque cosa ci consenta di connettere più persone di fatto è positiva. Non sono i prodotti migliori a vincere. Sono quelli che usano tutti4

L’indifferenza radicale ritiene equivalenti i fattori positivi e negativi, malgrado i loro diversi esiti e significati morali. Il solo obiettivo razionale non è più realizzare i prodotti “migliori”, ma quelli che intrappolano “tutti”. Una conseguenza rilevante dell’uso dell’indifferenza radicale è che il primo testo diviene corruttibile da contenuti che normalmente sarebbero ritenuti ripugnanti: bugie, disinformazione sistematica, violenza, odio. Basta che i contenuti aiutino a “crescere”. Di norma, la corruzione dell’informazione non viene ritenuta problematica finché non allontana gli utenti o attira l’attenzione della legge. Per questo, la “moderazione dei contenuti” è al massimo una tattica difensiva non una presa di responsabilità.5

L’esasperata ricerca di un remunerativo sistema finanziario mondiale ci ha immessi in sistemi sociali ed economici sempre più complessi che non tengono conto, però, di una visione comune globalizzata e di una prospettiva che vada oltre gli interessi delle singole parti. Ciò a cui ci stiamo maggiormente abituando è il fatto di vivere quasi esclusivamente in una dimensione orizzontale, sia individuale che collettiva, senza aspirazioni alte e profonde, senza aneliti lontani, senza visioni nobili e di ampio respiro. Il problema principale nasce dall’illusione, alimentata dalla postmodernità, dell’onnipotenza individuale supportata da protesi tecnologiche sempre più sofisticate ed efficienti e rafforzata dallo sganciamento dagli altri, dal rifiuto del “noi”, dal volersi pensare indipendenti da tutto e da tutti.6 La grande apertura al mondo promessa dal web ha esaltato l’io e probabilmente l’ha anche illuso, ma certamente l’ha spaesato ancor di più.7

Il capitalismo della sorveglianza sta segmentando miliardi di casi. Possono indirizzarci in base a un articolo letto o a un recente acquisto online. Possono identificarci in base al fatto che riceviamo e-mail o messaggi relativi a un determinato prodotto o argomento. Tutto questo è ovviamente inquietante ma, nell’analisi di Cory Doctorow, non si tratta di un controllo mentale. La vulnerabilità di piccoli segmenti della popolazione all’efficacia della manipolazione commerciale sistematica è una preoccupazione reale che merita attenzione ma non è una minaccia mortale per la società.

Il monitoraggio degli utenti è diventato molto più efficiente grazie alle major dell’IT. Nel 1989, la Stasi, la polizia segreta della Germania dell’Est, teneva sotto controllo l’intero Paese, un’impresa massiccia che ha reclutato una persona su sessanta come informatore o agente dell’intelligence. Oggi l’NSA (National Security Agency) spia una frazione significativa dell’intera popolazione mondiale e il rapporto tra agenti di sorveglianza e utenti sorvegliati è più o meno uno ogni diecimila. E ciò è stato possibile grazie all’ausilio delle aziende tecnologiche. I dispositivi e le app raccolgono la maggior parte dei dati che l’NSA estrae per il suo progetto di monitoraggio. 

Doctorow sottolinea come il controllo di massa da parte dello Stato sia possibile solo grazie al capitalismo della sorveglianza e ai suoi sistemi di targeting pubblicitario a bassissimo rendimento, che richiedono un’alimentazione costante di dati personali per dirsi sufficientemente redditizi. 

Per cui, sottolinea l’autore, il problema principale del capitalismo della sorveglianza è rappresentato dagli annunci pubblicitari fuori tema, mentre il problema principale della sorveglianza di massa è rappresentato dalle palesi violazioni dei diritti umani, che tendono al totalitarismo. La sorveglianza di Stato non è un mero parassita delle Big Tech, che succhia loro dati senza fornire nulla in cambio. In realtà, le due cose sono in simbiosi. Le grandi industrie stoccano i nostri dati per le agenzie di intelligenze, e le agenzie di intelligence si assicurano che i governi non limitino le attività dell’IT. Doctorow sostiene non vi sia una distinzione netta tra sorveglianza di Stato e capitalismo della sorveglianza; dipendono l’una dall’altro. 

Quando si è osservati, succede che qualcosa dentro di noi cambia. Per crescere, per migliorare, per evolvere, per realizzarsi, è necessario esporre il proprio sé autentico. I tessuti teneri e non protetti esposti in questi momenti sono troppo delicati per rivelarli in presenza di un’altra persona. Nell’era dell’informatica il sé autentico è inestricabilmente legato alla vita digitale. La cronologia delle ricerche è un registro delle domande su cui si è riflettuto. La cronologia degli spostamenti è un registro dei luoghi cercati o vissuti. Il grafico sociale rivela le diverse sfaccettature della propria identità e delle persone con cui si è stati in contatto. Per Doctorow, essere osservati in queste attività significa perdere il riparo del proprio sé autentico. 

La condizione dell’utente 2.0 è di doppia esistenza che oscilla di continuo tra l’essere e il poter essere, ossia tra una realtà fisica di cui l’uomo fa biologicamente parte e una realtà virtuale che, lungi dall’essere assorbente e parallela, è oggi piuttosto tangente e in continuo divenire. La maggior parte degli utenti online non si interroga su quale sia il proprio stato in rete e vive inconsapevolmente la condizione interattiva. Esattamente come il processo identitario reale, l’individuo necessita di uno spazio di riconoscimento e di rappresentazione del sé in rete. A giudicare dagli ambienti di condivisione e di discussione, l’esigenza di riconoscimento sociale in rete occupa oggi un posto preponderante nei desideri del singolo utente. In particolare nei social network avviene un continuo raffronto tra un mondo personale – quello del proprio diario – e un mondo collettivo – quello della rete sociale in cui l’utente si esprime e compie le azioni. Esattamente come nella realtà fisica, anche nella virtualità ibrida l’io proietta il proprio sé in un insieme, un “altro generalizzato”, ossia in una forma con cui la comunità esercita il suo controllo sulla condotta dei singoli membri. Perciò è in questo modo che il processo sociale o la comunità si inseriscono come fattore determinante nel modo di pensare dell’individuo. Esiste quindi una relazione dialettica tra l’individuo e il gruppo sociale di cui è parte che consente al primo di modellarsi e di modificarsi a seconda del ruolo e delle esigenze espresse dalla comunità. Il rispecchiarsi nell’atteggiamento universale dell’altro generalizzato significa fondare in qualche modo il processo identitario su una logica riflessiva, cioè basata sul rimando della propria immagine nello specchio sociale del gruppo. In pratica, l’individuo vede se stesso tramite il suo riflesso negli altri, avendo quindi la percezione e la visione di un suo doppio. L’io parla con se stesso come se si relazionasse con un altro, rispecchiandosi così nell’insieme del gruppo.8

C’è anche un altro modo in cui, nell’analisi di Doctorow, il capitalismo della sorveglianza priva gli utenti della capacità di essere autentici: rendendoli ansiosi. 

I linguaggi digitali hanno avuto la capacità di aprire spazi inediti per la nostra identità, di cui sono riusciti a illuminare e rendere operative parti d’ombra, sempre censurate dalla dimensione sociale e civile del nostro vivere quotidiano. La fase attuale si caratterizza per un nuovo modo di intendere la Rete. I primi studi sul web hanno decantato l’effervescenza ricreativa dell’ambiente digitale, sottolineando come la configurazione del medium consentisse di ospitare e favorire nuove forme dell’abitare, irregolari e alternative, vie di fuga dal grigiore delle esistenze altrimenti ingabbiate nei meccanismi sociali. Tale dimensione ludico-ricreativa è, oggi, sempre più evanescente perché oppressa da tre tendenze: la normalizzazione etica, l’istituzionalizzazione del medium, le criticità legate alla privacy.9 Nella fase iniziale, alla rete è stata riconosciuta la potenzialità di dare forma a una ricreazione digitale: quella attività creativa e dissacrante che il prosumer, ossia l’utente non più consumatore passivo ma inventore di un nuovo linguaggio, ha potuto innescare grazie al nuovo medium reticolare. Oggi, le criticità legate alla potenza invasiva raggiunta dalle tecnologia possono essere sintetizzate nell’espressione black mirror, lo schermo digitale può rappresentate metaforicamente la superficie su cui scorgere la catastrofe ossia, etimologicamente, il rovesciarsi dell’originaria percezione delle tecnologie digitali, da opportunità creativa a inquietanti e incontrollabili strumenti capaci di incidere profondamente nelle nostre scelte esistenziali.10

Un utilizzo eccessivo e disfunzionale degli strumenti tecnologici può avere un impatto negativo su atteggiamenti, pensieri, comportamenti. Sono due i principali fattori di tecnostress individuati: il primo legato alla imponente quantità di informazioni provenienti da più fonti che possono portare a una eccessiva stimolazione e a un affaticamento; il secondo è riferito alla durata della connessione che a sua volta ha ripercussione su mente e fisico.11 Oggi essere collegati è quasi la norma. Essere offline è invece diventata un’eccezione. Quando siamo connessi siamo “al sicuro” perché potenzialmente o effettivamente viviamo una condizione di collegamento con le nostre reti sociali, mentre l’assenza di questa condizione provoca un senso di mancanza. L’ansia da disconnessione, ovvero la persistente e spiacevole condizione caratterizzata da preoccupazione e disagio, causata da periodi di disconnessione tecnologica dagli altri.12

Doctorow ritiene la tecnologia essere solo un’altra industria, cresciuta in assenza di obblighi monopolitstici reali. Maconsidera gli strumenti online la chiave per superare problemi molto più urgenti della monopolizzazione: il cambiamento climatico, la disuguaglianza, la misoginia e la discriminazione sulla base della razza, dell’identità di genere e di altri fattori. Internet è il mezzo con cui recluteremo le persone per combattere queste battaglie e il come coordineremo il loro lavoro. La tecnologia non sostituisce la responsabilità democratica, lo stato di diritto, l’equità o la stabilità, ma è un mezzo per raggiungere questi obiettivi. Internet rende più facile che mai trovare persone che vogliono collaborare a un progetto e più facile che mai anche coordinare il lavoro da svolgere. Per cui, sottolinea l’autore, la migliore speranza di risolvere i grandi problemi è una tecnologia libera, equa e aperta. 

La trasformazione dello spazio nel quale i comportamenti umani possono trovare collocazione e svolgimento, rappresentata dall’avvento della Rete, è stata osservata attraverso tre possibili lenti: 

  • Ottimistica o utopica.
  • Distopica, conservativa, a tratti apocalittica.
  • Razionale, rappresentata da quei cyber-realist che si sono posti e si pongono soprattutto il problema della regolazione. 

Tutte le riflessioni sulla Rete prendono in fondo le mosse da un’esigenza di tutelare la libertà, sia in una prospettiva che legge la tecnologia come strumento per una piena realizzazione della libertà d’informazione (libertà di informare e libertà di essere informati), sia nella prospettiva che si potrebbe definire maggiormente oppositiva, o protettiva, che si concentra sul diritto di controllare il trattamento informatizzato dei propri dati personali. 

Il tema centrale, per chi intenda investigare la possibilità per le tecnologie di contribuire alla realizzazione di una società più giusta ed equa, dove sono garantiti tutti i diritti fondamentali, non è solo o tanto quello dell’algoritmo ma quello dei dati, e dunque della creazione di condizioni che consentano all’AI, per esempio, di utilizzare basi di dati costruite correttamente.

Se nell’approccio tecnologico il bias rappresenta un errore di valutazione, un concetto che rischia di minare la correttezza e l’affidabilità dei risultati di un’analisi, nella prospettiva giuridica il bias rappresenta lo stereotipo pronto a trasformarsi in scelta discriminatoria.13

Per cui la questione è quella della riflessività degli stereotipi e delle discriminazioni nel passaggio dalla generazione dei dati, spesso frutto dell’intelligenza e del comportamento umano, alla costruzione degli algoritmi. L’errore di derivare dall’essere il dover essere14 diviene particolarmente grave quando l’essere è fatto da una realtà ingiusta, che tende a perpetrare diseguaglianze, e che quindi la cristallizzazione dell’ingiustizia nelle maglie dell’algoritmo rischia di normativizzare.15

Il progetto gendershades.org16 ha mostrato come le tecniche di machine learning utilizzate per la classificazione di genere da parte di tre compagnie (IBM, Microsoft e Face++) presentano evidenti bias etnici e di genere. Se l’AI è in grado di fallire così come lo è l’intelligenza naturale, il problema è che essa è altrettanto in grado di discriminare.17 Studi dimostrano come gli algoritmi dei motori di ricerca tendano a rafforzare ideologie e sentimenti razzisti.18

Il principio di eguaglianza costituisce la pietra angolare degli ordinamenti democratici occidentali al punto che, per quanto i tempi storici stiano sottoponendo i sistemi giuridici a nuove pressioni e compressioni ideologiche, sarebbe impossibile pensare di rigettarlo. Eppure, l’unanimità normativa sopra questo consenso, per come essa sembra emergere in particolare dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 e dalla Dichiarazione di Vienna del 1993, è non solo affatto recente ma anche difficile da articolare in termini concreti. Riprendendo le tesi di Peter Sloterdijk, Silvia Vida ha recentemente sostenuto che l’humanitas dipende direttamente dallo stato della tecnica. È però interessante chiedersi se la diversità dei cosiddetti “soggetti tecnologici” sia stata davvero superata, a cominciare da quella tra uomini e donne. I dati statistici mostrano l’esistenza di un “digital gender divide” quale conseguenza di già consolidate differenze socio-economiche tra i sessi. Il gap sembra altresì supportato da “nuovi” stereotipi di genere, che influenzerebbero le attitudini personali dei “soggetti tecnologici”, indirizzando gli uni verso una maggiore propensione alla tecnologia, le altre verso una “fuga” dalla stessa.19

Se è vero che le nostre vite sono regolate da quattro forze (la legge – ciò che è legale, il codice – ciò che è tecnologicamente possibile, le norme – ciò che è socialmente accettabile, i mercati – ciò che è redditizio)20 lo è anche che per risolvere il problema delle major sarà necessario un grande lavoro di iterazione. Per aiutare le persone a riflettere sui monopoli sarebbero opportuni non solo degli interventi legislativi ma anche tecnologici che le aiutino a vedere come potrebbe essere un mondo libero dalle Big Tech. Doctorow ipotizza e sogna un mondo virtuale scevro dal ritmo ansiogeno degli algoritmi e libero dalla continua sorveglianza. Le aziende spiano perché i governi glielo permettono. Lo fanno anche perché qualsiasi vantaggio derivante dall’attività di controllo è così effimero e marginale che devono aumentare sempre di più la loro attività solo per riuscire a rimanere sul mercato. Si interroga allora l’autore su quale possa essere il motivo per cui le cose sono così incasinate. La risposta è: il capitalismo. In particolare la circolarità con cui il monopolio crea disuguaglianza e la disuguaglianza crea monopolio. È una forma di capitalismo che premia i sociopatici che distruggono l’economia reale per gonfiare i profitti, e la fanno franca per lo stesso motivo per cui le aziende sono libere di spiare. 

La sorveglianza non rende il capitalismo disonesto. Il capitalismo sregolato genera sorveglianza. La sorveglianza non è negativa perché permette di manipolare le persone, ma perché schiaccia la nostra capacità di essere autentici. 


Il libro

Cory Doctorow, Come distruggere il capitalismo della sorveglianza, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2024.

Traduzione del Gruppo Ippolita.

Titolo originale: How to destroy surveillance capitalism.


1S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019.

2Dichiarazione del 2010 di Eric Schmidt, amministratore delegato di Google dal 2001 al 2011.

3S. Zuboff, op.cit.

4R. Mac, C. Warzel, A. Kantrowitz, Growth at Any Cost: Top Facebook Executive Defended Data Collection in 2016 Memo and Warned That Facebook Could Get People Killed, Buzzfeed, 29 marzo 2018.

5S. Zuboff, op.cit.

6R.G. Romano, Tramonto del “noi”, individualismo e nuovi poteri globali, in Quaderni di Intercultura, Anno IX/2017.

7R.G. Romano, Nuove povertà globali, virtualità e manipolazioni comunicative, in Quaderni di Intercultura, Anno X/2018.

8L. Denicolai, Riflessioni del sé. Esistenza, identità e social network, in Media Education – Studi, Ricerche e Buone pratiche, Vol. 5, anno 2014, Edizioni Centro Studi Erickson, Trento, 2014.

9G.N. Bovalino, La Katastrophé del Capitalismo. Da Black Mirror a Squid Game: la religione capitalista alla “fine dei giochi”, in IM@GO – A journal of the social imaginary, n°18 – year X / December 2021.

10C. Attimonelli, V. Susca, Un oscuro riflettere. Black mirror e l’aurora digitale, Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni (Milano), 2020.

11F. Bosco, Tecnostress, gli effetti collaterali legati a una vita davanti allo schermo, in Sanità informazione, 18 gennaio 2022.

12C. Galimberti, F. Gaudioso, Tecnostress: stato dell’arte e prospettive d’intervento. Il punto di vista psicosociale, in Tutela e Sicurezza del Lavoro – Rivista di Ateneo, Università degli Studi Milano-Bicocca, numero 1 anno 2015, Milano, 2015.

13E. Stradella, Stereotipi e discriminazioni: dall’intelligenza umana all’intelligenza artificiale, in Liber Amicorum per Pasquale Costanzo, Consulta online, 30 marzo 2020.

14A. Simoncini, L’algoritmo incostituzionale: intelligenza artificiale e il futuro delle libertà, in Rivista di BioDiritto, n°1/2019.

15E. Stradella, op.cit.

16J. Buolamwini – T. Gebru, Gender Shades: Intersectional Accuracy Disparities in Commercial Gender Classfication, in Proceedings of Machine Learning Research 81/2018.

17E. Stradella, op.cit.

18S.U. Noble, Algorithms of Oppression. How Search Engines Enforce Racism, New York University Press, New York, 2018. P. Costanzo, Motori di ricerca: un altro campo di sfida tra logiche del mercato e tutela dei diritti?, in Diritto all’internet, 2006. 

19S. Vantin, L’eguaglianza di genere tra mutamenti sociali e nuove tecnologie, Pacini Giuridica, Pisa, 2018.

20L. Lessig, Code and Other Laws of Cyberspace, Basic Book, New York, 1999.


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Mimesis Edizioni per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


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