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Irma Loredana Galgano

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Ruanda: il genocidio con tanti responsabili e pochi complici

27 domenica Giu 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Africa, articolo, genocidio, Ruanda

Il 27 maggio 2021 il presidente francese Emmanuel Macron si è recato in Ruanda e, nel corso della visita al Genocide Memorial di Kigali, ha ammesso le responsabilità del governo francese che, nel 1994, aveva inviato nel Paese africano i militari della missione Turqoise, operativa tra giugno e agosto di quell’anno. Sono oltre venticinque anni che i rapporti tra i Paesi sono tesi proprio in conseguenza agli eventi di quel periodo storico e al ruolo, mai chiarito fino in fondo, svolto dalla Francia. Primo presidente a recarsi in Ruanda dal 2010, Macron ha dichiarato che la Francia ha deluso le 800mila vittime del genocidio ma che non vi è stata alcuna complicità imputabile al suo Paese. Il presidente Paul Kagame è parso soddisfatto per le parole di Macron, mentre dissensi e malumori hanno caratterizzato la reazione del partito di opposizione Rwandese Platform for Democracy e delle associazioni a sostegno dei familiari delle vittime del genocidio.

IL QUARTO GENOCIDIO DEL XX SECOLO

Ma cosa è accaduto esattamente in Ruanda nel 1994? Il quarto genocidio del XX secolo, dopo quello degli armeni, degli ebrei e dei cambogiani. 1

All’indomani del Secondo conflitto mondiale, le idee indipendentiste iniziarono a circolare lungo tutto il continente africano. Anche in Ruanda, dove si diffusero maggiormente tra la popolazione di etnia tutsi. Gli hutu si mostrarono invece sempre più nazionalisti e restauratori. Col tempo emerse una vera e propria ideologia dell’ingiustizia sociale su base etnica: gli hutu erano la maggioranza oppressa mentre i tutsi erano i nuovi potenziali oppressori. 

Gli scontri su base etnica e politica si sono susseguiti lungo tutta la seconda metà del secolo ma il periodo cruciale della recente storia del Ruanda si snoda tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà degli anni Novanta. 

Il costante rifiuto del presidente ruandese Habyarimana di prendere in considerazione qualsiasi proposta di rientro dei profughi tutsi in Uganda aveva inasprito i toni delle rivendicazioni degli stessi, riunitisi nel Fronte Patriottico Ruandese (Front Patriotique Rwandais). Gli scontri tra l’Fpr e l’esercito regolare, sostenuto dalla guardia regolare dello Zaire e da aiuti provenienti da Belgio e Francia, divennero sempre più frequenti e sanguinosi. 

L’Fpr rappresentava, nell’immaginario del tempo, il vento nuovo della democrazia e della lotta al neocolonialismo impersonato invece da Habyarimana. Il nuovo comandante del Fronte, Paul Kagame, oggi presidente della Repubblica di Ruanda, era considerato esponente di rilievo della dottrina dell’Africa Renaissance, ostile al vecchio sistema di corruzione e favorevole a democrazia e liberismo economico. 

Nel Paese furono ripristinati vecchi metodi, già utilizzati al tempo della Prima Repubblica: ad ogni attacco del Fronte Patriottico Ruandese si rispondeva con un massacro di cittadini tutsi.

Il conflitto e il genocidio che hanno travolto il Ruanda nel 1994 rappresentano l’emblema drammatico delle guerre etniche africane. Un numero elevatissimo di vittime in poco più di due mesi, quasi tutti tutsi ma anche oppositori hutu.

È stato calcolato che circa trentadue mila responsabili amministrativi di ogni livello, coadiuvati da circa cinquanta mila miliziani interahamwe, dirigessero le operazioni di genocidio, mentre l’esercito regolare era occupato ad affrontare l’Fpr.

Il 6 aprile 1994, l’abbattimento dell’areo sul quale viaggiava il presidente Habyarimana, di ritorno dal vertice tenutosi a Dar es Salaam per favorire un accordo di pace che includesse anche l’Fpr nel nuovo governo di unità nazionale, sembrò essere il segnale atteso per dare il via al cruento genocidio consumatosi, a partire dalla città di Kigali, in tutto il Paese.

Le vittime furono centinaia di migliaia in poche settimane, ma l’emergenza internazionale scattò tardi, solo quando quasi un milione di ruandesi si spostò verso lo Zaire per cercare riparo. È a questo punto che partì l’operazione francese Turqoise, ufficialmente per evitare un ennesimo e finale bagno di sangue. In realtà si suppone che lo scopo principale di questa missione, al pari di quella posta in essere dal Belgio, sia stato mettere in salvo i propri connazionali. Anche se si è sempre vociferato un intervento militare francese al fianco delle milizie hutu in ritirata dopo l’arrivo del Fpr. I caschi blu dell’Onu presenti da tempo nell’area con l’operazione Unamir – United Nations Assistance Mission for Rwanda (Missione delle Nazioni Unite di assistenza al Ruanda), autorizzata nell’ottobre 1993 con la Risoluzione 872 e successivamente riconfermata e ampliata, non erano autorizzati a intervenire perché frenati da un mandato che impediva loro l’uso delle armi. Lo scopo principale della missione era supportare e implementare il cammino di pace sancito dagli Accordi di Arusha. Il grosso del contingente si ritirò subito dopo l’esplosione delle violenze. I militari belgi che ne facevano parte furono addirittura accusati di essere complici nell’abbattimento dell’areo del presidente e, alcuni di loro, uccisi.

IL NAZISMO TROPICALE

Il genocidio in Ruanda e il conseguente spostamento in massa di ruandesi oltre il confine, ha aperto una fase di grande instabilità in tutta l’area africana dei Grandi Laghi e, con un intervallo di pochi anni, divenne il detonatore della più grande guerra africana, consumatasi nello Zaire di Mobutu.

A partire dall’ottobre del 1994 il conflitto tra autoctoni zairesi e banyarwanda si trasformò in una guerra di tutti contro i tutsi. Tra il 1995 e il 1996 decine di migliaia di tutsi furono uccisi, ebbero le terre confiscate oppure dovettero rifugiarsi in Ruanda. Anche in questo caso si è parlato di pulizia etnica. Nazismo tropicale è stato definito dallo storico Jean-Pierre Chrètien. 2

Poco hanno fatto o potuto i tribunali costituiti dall’Onu, come anche quelli definiti popolari, i Gacaca. Tradizionali tribunali informali nei quali gli anziani erano solitamente chiamati a dirimere controversie di vita quotidiana, i Gacaca furono autorizzati nel 2001 dal governo ruandese a operare in via ufficiale.

Nel loro articolo apparso su African Affairs, Allison Corey e Sandra F. Joireman cercano di dimostrare come, in realtà, i Garaca, istituiti per recuperare l’arretrato di casi di genocidio non processati, abbiano poi in un certo qual modo ingenerato ulteriore confusione e imprecisione. Questi tribunali infatti avrebbero effettuato una eccessiva e troppo netta suddivisione tra i casi di genocidio e quelli di crimini di guerra, processando solo i primi. Ciò ha portato a una protratta insicurezza per tutta la popolazione ruandese, poiché così facendo si persegue una giustizia iniqua, si accentua il divario etnico e il processo viene visto più come una vendetta che una giustizia. 3

È necessario comunque sottolineare come, della terminologia connessa al genocidio, si tende a fare un uso politico sempre più strumentale – nel bene e nel male. Fenomeno più o meno simile a quanto accade, più in generale, con la terminologia dei diritti umani. Importante quindi precisare quale sia l’effettiva portata normativa della nozione di genocidio, quale sia cioè lo specifico giuridico di tale concetto. 4

Il valore giuridico tutelato dal primo paragrafo della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine internazionale di genocidio adottata dall’Assemblea delle Nazioni Unite nel 1948 con Risoluzione 260 (III) A, risulta essere la conservazione del gruppo umano. Colpire una massa di individui per motivi diversi dal mero fatto di appartenere a quel gruppo umano protetto (per esempio per motivi politici), non costituirebbe genocidio.

Ecco allora che bisogna chiedersi, per esempio, se per gli esecutori materiali sia davvero possibile parlare del medesimo dolo di cui è portatore il leader, la mente, che ha premeditato, pianificato e scatenato le azioni violente e delittuose. È indubbio che il genocidio sia un crimine collettivo. Per questo i tribunali internazionali indicano una sorta di “intento genocidiario collettivo”, pensato dai leader ma trasmesso poi a tutti gli agenti. Ma questa indicazione manca nella Convenzione.

Paolo De Stefani individua tre livelli di mens rea:

  • I leader della campagna genocidiaria.
  • Gli esecutori partecipi all’ideologia genocidiaria.
  • I complici (aiders and abettors).

Individuando poi nella seconda categoria la più significativa. Infatti, è proprio quando l’ideologia genocidiaria diventa una convinzione diffusa tra larghe fasce di popolazione, e cioè quando si affermano apertamente nel tessuto sociale comportamenti diffusi di carattere genocidiario, che un genocidio si attua nella sua forma più piena. Esattamente quello che è accaduto in Ruanda nel 1994.

Il 2 settembre 1998 il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, istituito dalle Nazioni Unite, emanò la prima condanna a livello mondiale per il reato di genocidio. Jean-Paul Akayesu fu giudicato colpevole di genocidio e crimini contro l’umanità per le azioni che aveva commesso personalmente o alle quali aveva sovrinteso mentre era sindaco della città ruandese di Taba. Sebbene dapprima egli era riuscito a tenere lontani i massacri, dopo una riunione con i leader del governo provvisorio, avvenuta il 18 aprile, qualcosa cambiò profondamente nella cittadina e anche, sembrerebbe, nella sua persona. Akayesu smise i panni civili, indossò una divisa militare e sembrò fare della violenza il suo nuovo modus operandi, al punto da trasformare quelli che erano stati luoghi tranquilli e sicuri fino a quel momento in luoghi di tortura, violenza e omicidio.

Sconta la condanna all’ergastolo in una prigione del Mali. 5

Durante la visita a Kigali, il presidente francese Macron non si è mai apertamente scusato, per le azioni del suo Paese, pur ammettendo le responsabilità per quanto accaduto. La Francia quindi è pronta a riconoscere la parte di sofferenze che ha inflitto ai ruandesi ma ciò non significa, secondo le parole di Macron, che sia stato versato sangue innocente ruandese per mano di complici francesi.

Di scuse dirette, come quelle esternate già nel 2000 dal Belgio, non se ne parla. Ma è un altro passaggio del discorso del presidente francese a meritare un approfondimento, ovvero quando si sofferma sull’importanza di riconoscere questo passato ma, soprattutto, proseguire l’opera di giustizia. Ecco allora che la mente rimanda ai tanti ruandesi riparati in Francia e al ruolo che alcuni potrebbero aver avuto nel massacro.

Il 16 maggio 2021, dopo ventisei anni vissuti in latitanza in diversi paesi europei, è stato arrestato in Francia Félicien Kabuga, presunto finanziatore del genocidio del 1994, accusato dal Tribunale Penale Internazionale per crimini contro l’umanità e genocidio nel 1997.

CRISI POLITICA E CONFLITTO ETNICO: A CHE PUNTO SIAMO?

In età recente, quattro sono state le fasi acute del conflitto che ha infiammato il Ruanda:

  • L’accesso all’indipendenza tra il 1959 e il 1962.
  • La crisi dei rifugiati tra il 1963 e il 1966.
  • La crisi esplosa tra il 1972 e il 1973 culminata nel colpo di Stato.
  • La crisi esplosa tra il 1990 e il 1994, culminata nell’atroce genocidio.

Tutte queste crisi sono imputabili alle ideologie derivanti dalla diversità etnica, che hanno reso il Ruanda l’archetipo del paese tribale agli occhi del mondo.

All’arrivo dei tedeschi, sul limitare del XIX secolo, la società e la monarchia ruandesi erano un sistema feudale in piena evoluzione. I colonizzatori si limitarono inizialmente a congelare la situazione preesistente. Anche il Belgio dapprima attuò una forma di governo indiretto, ma poi manovrò per scaricare il malcontento sul prestigio della monarchia feudale, attuando de facto una separazione tra il re e i capi collina tutsi. Un numero sempre più alto di giovani tutsi venne scelto dai colonizzatori per le cariche amministrative e come capi villaggio o capi collina.L’intervento europeo sulla società feudale del Ruanda aveva trasformato i rapporti sociali, indurendoli attraverso gerarchie d’importazione e contribuendo in maniera cospicua alla loro razzializzazione. 6

Gli hutu erano circa l’84 per cento della popolazione, i tutsi il 14 e il restante 1 per cento era composto dai twa pigmei.

Una ricerca condotta a Bruxelles tra il 2001 e il 2003 presso le comunità di rifugiati ed esuli ruandesi ha mostrato come la questione identitaria sia stata ulteriormente acutizzata proprio a causa della condizione di popolo in diaspora. Molti dei ruandesi residenti in Europa, in America o altrove, si sentono sopravvissuti tutsi del genocidio ruandese, oppure ingiustamente stigmatizzati come carnefici hutu. In entrambi i casi, la percezione che hanno di loro stessi, del Ruanda e degli assassini dei loro familiari è molto più etnica di quanto non lo fosse in passato. 7

In Ruanda invece la presidenza Kagame ha sempre dichiarato di voler sopprimere l’appartenenza etnica, in linea con le idee del nazionalismo africano convenzionale, che condivide e condivideva con quello più radicale la volontà di de-razzializzare le istituzioni, lo Stato e il diritto.8

1Mario Giro, Guerre Nere. Guida ai conflitti nell’Africa contemporanea, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2020

2Jean-Pierre Chrètien, Un “nazisme tropical” au Rwanda? Image ou logique d’un génocide (articolo), Vingtième Siècle. Revue d’histoire, Anno 1995, pp. 131-142.

3Allison Corey, Sandra F. Joireman, Retributive Justice: The Gacaca Courts in Rwanda (articolo), African Affairs, 2004, pp. 73-89.

4Paolo De Stefani, Nozioni e contesti del crimine internazionale di genocidio (articolo), Pace Diritti umani – Peace Human Right, 1/2008, pp. 31-56.

5Ruanda: La prima condanna per genocidio, United States Holocaust Memorial Museum. ( https://encyclopedia.ushmm.org/content/it/article/rwanda-the-first-conviction-for-genocide )

6Mario Giro, ibidem

7Carla Pratesi Innocenti, Ibuka. Pratiche, politiche e rituali commemorativi della diaspora ruandese, Annuario di Antropologia 5, 2005, pp. 121-133.

8Stefano Bellucci, Africa contemporanea. Politica, cultura, istituzioni a sud del Sahara, Carocci Editore, Roma, 2010.

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Articolo disponibile anche qui

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Disclosure: Per le immagini, tranne lo screenshot del tweet, credits www.pixabay.com

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09 domenica Mag 2021

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Africa, GuerinieAssociati, Guerrenere, MarioGiro, recensione, saggio

Sulla base delle analisi riportate nel Conflict Barometer2020 dello Heidelberg Institute for International Conflict Research, appare subito chiaro come le guerre in Africa, più che moltiplicarsi e aumentare di numero, tendono a diventare endemiche.

L’orientamento generale che emerge, nell’analisi dei conflitti africani, è di caratterizzarli come lotte intestine, intra-statali, in apparenza etniche. Si ha la tendenza a spiegarne origine e sviluppo ricercandone un solo registro interpretativo principale, laddove gli stessi protagonisti ne utilizzano più di uno, dando loro il medesimo valore. 

Mario Giro sottolinea come, in Europa e sui media occidentali, in genere vengono rappresentate come brutali e selvagge, dal sapore esclusivamente etnico e perciò stesso arcaiche, quasi incomprensibili. Egli stesso le ha definite guerre nere a causa della loro enigmaticità, le cui radici sono difficili da capire. Eppure si tratta di conflitti molto più moderni di ciò che si è portati a credere, legati alle condizioni socio-economiche e ambientali delle terre in cui scoppiano, dove si mescolano registri culturali e umani diversi. 

Ricorda l’autore come, paradossalmente, l’Africa sia entrata nella globalizzazione ancor prima dell’Europa, tornando a essere al centro degli interessi del commercio globale sia per le materie prime che per le infinite possibilità economiche che offre, inclusi i traffici illeciti. In molti casi ciò non ha fatto che acutizzare o far riemergere vecchi conflitti mai del tutto risolti o crearne addirittura di nuovi. 

Nel volume Giro non riesce a trattare tutti i conflitti africani e sceglie di approfondire quelle guerre nere che hanno un valore emblematico del cambiamento sociale e antropologico dovuto alla globalizzazione. Un’analisi sui conflitti armati e violenti che conduce necessariamente a quella del fenomeno dei «signori della guerra» come reazione socio-antropologica alla decomposizione della società tradizionale, il cosiddetto fenomeno del warlordismo.

Un tema particolare, ampiamente discusso da Giro, è quello della privatizzazione del guerra, di come sia possibile per milizie, ribelli, e in qualche caso anche eserciti ufficiali, continuare a vivere di guerra senza la guerra, trasformando i gruppi armati in bande dedite ad altri tipi di traffici o con funzioni di provider di sicurezza.

Fino a qualche anno fa si trattava di fenomeni temporanei che gli Stati cercavano di riassorbire rapidamente, oppure di forme di violenza occulta, magari manipolata dagli Stati stessi ma mai apertamente rivelata. Ufficialmente e sostanzialmente l’utilizzo della forza rimaneva monopolio pubblico.

I barbouzes francesi, i mercenari sudafricani o le squadre speciali Usa o britanniche facevano parte di tale storia occulta. 

Oggi gli Stati, incluse le grandi potenze, hanno accettato il principio della privatizzazione della guerra. Il risultato più evidente è l’utilizzo dei dei cosiddetti contractors, nuovi mercenari impiegati già dagli Usa nelle guerre del Golfo. 

L’effetto immediato di tale indirizzo è il moltiplicarsi delle milizie – private e semi-private – in tutti gli scenari di conflitto. In un tale contesto la violenza diviene, nell’analisi di Giro, ibrida: spesso non è chiaro se si ha a che fare con un gruppo armato che lavora per uno Stato, per una etnia o un clan, per sé stesso, per un’idea o un’ideologia, per una potenza straniera o per un gruppo terrorista.

È possibile vedere tale evoluzione nell’universo islamico, laddove il conflitto ideologico o religioso si trasforma in “impresa armata” e deve mutare caratteristiche per tener conto delle rivendicazioni ed esigenze delle popolazioni nei territori ove si è fissato.

Esattamente ciò che è avvenuto in Nigeria e Sahel, dove la guerra ha costretto l’islam jihadista a fare i conti con la complessità della realtà socio-economica e umana. 

Anche in Africa, come in Medio Oriente, l’islam radicale e jihadista può essere analizzato, per Giro, quale grammatica della rivolta per giovani senza più etnia e famiglia, espulsi dalla società tradizionale. In buona sostanza, la scelta delle armi per i giovani africani può dipendere dalla necessità di trovare un diverso ordine sociale dentro il caos che li avvolge, la scoperta di una nuova via per emergere in una società che non li considera più.

Unirsi ai seguaci di Boko Haram o con al Qaeda nel deserto del Sahara può sembrare loro davvero un’alternativa valida laddove non c’è altra prospettiva, se non quella dell’emigrazione. È questo il destino dei «cadetti sociali» in tempi di crisi e di grandi trasformazioni.

Nel Sahel, come nella regione dei Grandi Laghi, del Sudan o del Corno, la guerra si trascina dagli anni Sessanta. 

Il conflitto tra nomadi e governi nazionali, frattura di cui starebbero approfittando gli jihadisti, rappresenta per l’autore un caso tipico in cui la radice socio-economica e identitaria dello scontro è stata affrontata mediante uno scambio diseguale tra élite, senza mai incidere sugli aspetti legati alla comunità reale. 

Né del tutto bianco (nomadi e arabi) né davvero nero, il mondo saheliano ha assistito all’affiliazione di molti dei suoi giovani ai cartelli vari, all’emigrazione di tanti di loro o all’arruolamento nelle varie guerriglie locali. In un tale caos antropologico e sociale si è innestato di recente anche il jihadismo globale. 

L’islam di tendenza rigorista – sia esso di matrice salafita o jihadista – contesta l’accento prevalentemente moderato dell’Islam nero, legato alla tradizione africana che dà maggiore importanza all’appartenenza etnica, e predica un ritorno alle fonti allo scopo di «purificare la religione» dagli elementi tradizionali africani. 

In ambito musulmano, e in particolare nella Nigeria del Nord, i movimenti salafiti hanno rappresentato una risposta a un’esigenza largamente sentita: preservare l’unità e l’integrità della comunità islamica sfidata dalle innovazioni della globalizzazione ma anche dai privilegi di un’élite vecchia e corrotta, incapace di mantenere un ordine sociale equo. Ed è proprio nella motivazione di fondo della sua origine che Mario Giro ravvede il suo primo grande paradosso. I riformisti salafiti, pur condannandola, sono stati uno dei frutti della globalizzazione: offrono un prodotto religioso deterritorializzato e pronto all’uso ovunque, disintermediando la stessa educazione religiosa una volta affidata ai soli ulema tradizionali. 

In Mozambico, a metà del 2020 le violenze attribuibili ai ribelli jihadisti hanno provocato circa mille morti in oltre duecento attacchi. In più occasioni i miliziani hanno issato la bandiera nera dello Stato islamico. 

Dalla ricostruzione dettagliata di Giro emerge con chiarezza che, esattamente come avvenuto con la nascita dei Boko Haram, la prima versione di Ansar in Mozambico sarebbe stata non violenta, conseguenza del malcontento etnico degli nwani e dei macua, per poi passare a rappresentare il disagio di un gran numero di giovani della provincia. 

L’insorgenza jihadista sarebbe, secondo anche i concetti espressi da Olivier Roy, una forma di islamizzazione della rivolta, in reazione alla marginalità e alla povertà, a cui non sono estranee le conseguenze provocate dalla presenza, ingombrante, delle grandi compagnie petrolifere e dai corrotti settori del commercio delle pietre preziose e del legno, ciò naturalmente con stretto riferimento a quanto accaduto in Mozambico ma applicabile, per corrispondenza, anche ad altre zone del continente africano. 

Almeno nella fase iniziale di repressione anti-jihadista, le autorità mozambicane hanno arrestato numerosi tanzaniani, congolesi, ugandesi, gambiani e burundesi. Nelle rare dichiarazioni rese, gli insorti stessi affermano di avere come obiettivo quello di creare la nazione indipendente dei musulmani dell’Africa orientale, che copra il Nord del Mozambico, una parte della Tanzania, inclusa l’isola di Zanzibar, e altri territori, imponendo la sharia. Nei loro proclami hanno più volte affermato di essere associati allo Stato islamico (Isis). Malgrado ciò l’autore evidenzia come molti esperti ritengano invece tale affiliazione solo presunta, o meglio ideale, nel senso che vada ricondotta all’aspetto dell’emulazione e del libero franchising, ormai frequente nell’universo del radicalismo islamico. 

Fenomeni noti come i foreign fighters o il diffondersi di gruppi jihadisti in terreni dove non c’era mai stata la presenza dell’islam militante, dimostrano come si tratti in effetti di un vero e proprio prodotto replicabile ovunque. Del resto il jihadismo globale, come prodotto religioso del ribellismo globale è dovuto proprio al suo sradicamento dal territorio e dalla cultura di origine. Sempre più di frequente ci si converte all’islam estremista da soli, mediante un computer, e non all’interno di una comunità. 

Ormai la gran parte dei conflitti si configura come guerre con più attori:

  • In Siria si sono contati fino a duecento attori.
  • In Nigeria o in Somalia poco meno di duecento.
  • In Yemen o in Libia circa cento.
  • In Iraq o in Afghanistan circa cinquanta. 

Si tratta di milizie di autodifesa, di gang di criminali, di contractors, di agenzie di sicurezza private, di cittadini organizzati… Per Mario Giro ormai la dottrina liberista ha occupato anche il campo della forza militare che non è più monopolio degli Stati. È un fenomeno che è sempre esistito certo, ma ora si è giunti a un livello superiore con la guerra che diviene un affare al pari di altre imprese, inserita nel quadro delle opportunità possibili con la globalizzazione. 

Stando ai dati diffusi dalla società britannica War on Want, il giro d’affari dei contractors ammonta oggi tra i 200 e i 400 miliardi di dollari. 

Bibliografia di riferimento

Mario Giro, Guerre nere. Guida ai conflitti nell’Africa contemporanea, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2020.

L’Autore

Mario Giro: Docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università per stranieri di Perugia. Già viceministro degli esteri dal 2013 al 2018, è membro della Comunità di Sant’Egidio di cui è stato responsabile delle relazioni internazionali dal 1998 al 2013. 

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Articolo disponibile anche qui

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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa delle Edizioni Angelo Guerini e Associati per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com

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La Grande guerra africana: dallo Zaire al Congo

28 domenica Feb 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Africa, Congo, RepubblicaDemocraticadelCongo, Zaire

Per gran parte del secolo scorso, lo Zaire è stato apprezzato da tutti gli africani per le sue caratteristiche di vera nazione africana, libera dai pesanti condizionamenti del colonialismo. Si pensava infatti che incarnasse l’immagine del paese davvero africano decolonizzato. 

Il presidente Mobutu era stato l’inventore della autenticità, una forma di ideologia nazionalista basata su elementi della tradizione recuperati dal passato, miscelati con uno stile nel condurre la vita civile e gli affari del paese che si proclamava libero dagli influssi culturali occidentali. 

Da qui anche la volontà di rinnegare il nome colonialista di Congo e riprendere l’autentico: Zaire. 

Malgrado le speranze, il primo periodo della decolonizzazione era stato turbolento e molto violento: in quasi sei anni di crisi, dopo la dichiarazione di indipendenza del 30 giugno 1960, il paese era piombato in una situazione di precarietà alimentare e di vasto disordine sociale. 

Già alla fine degli anni Sessanta il presidente aveva fatto del partito unico, il Mouvement Populaire de la Révolution(Mpr), il suo strumento di governo unitario e di propaganda politica.

All’inizio degli anni Settanta Mobutu diede avvio a una vasta campagna di «zairizzazione» delle risorse che si concretizzò, nel 1973, con la nazionalizzazione di tutte le maggiori imprese del paese.

Malgrado le immense risorse e ricchezze dello Zaire, una politica di redistribuzione sempre più ampia e corrotta aveva messo progressivamente a dura prova la capacità dello Stato di sopperire alle richieste dei vari gruppi di potere locali assieme ai bisogni della popolazione. Agli inizi degli anni Novanta la popolazione era ormai in uno stato di povertà cronica. 

Nell’aprile del 1990 Mobutu dichiarò la fine del partito unico e l’avvio di riforme politiche. Durante i dibattiti della Conferenza nazionale sovrana l’impegno di alcuni rappresentanti più sensibili all’avviamento di una vera democrazia si scontrava con il populismo avventurista di altri e con il riemergere di scontri etnico-politici che avevano insanguinato il paese nei primi anni Sessanta. 

Tra l’agosto del ’92 e la fine di quello stesso anno, il neo-rinsaldato partito xenofobo dello Shaba operò una vera e propria pulizia etnica contro i Kasaiani. 

Il nuovo primo ministro Kengo wa Dondo riuscì a far scendere l’inflazione – che aveva raggiunto il 20mila per cento -, a re-incrementare la produzione mineraria – crollata al 10 per cento del totale – e ristabilire un minimo ordine nella vita pubblica. 

Tuttavia, proprio in questo delicato frangente, si scaricò su uno Zaire esausto e in preda a spinte contraddittorie, l’immane flusso di oltre un milione di rifugiati ruandesi hutu.

L’entrata in scena dei profughi esportò la guerra del Ruanda in Zaire e lo travolse. 

Il governo di Kengo cercò di liberarsi di tutti i rifugiati respingendoli verso il Ruanda, in contrasto con la posizione dello stesso Mobutu che manteneva forti legami con gli estremisti hutu. La misura intendeva cogliere l’occasione per liberarsi, in un sol colpo, di tutti i banyarwanda e banyamulenge presenti in Zaire, indipendentemente dal fatto che fossero hutu o tutsi. 

Ma i campi profughi degli hutu in fuga erano ormai diventati delle vere e proprie roccaforti, dirette dalle ex forze armate ruandesi e dalle milizie interhamwe. Da quegli stessi insediamenti partivano operazioni e attacchi contro il Ruanda. 

Ne derivò anche una forte polemica nell’opinione pubblica internazionale, laddove le organizzazioni umanitarie e le agenzie dell’Onu furono addirittura accusate di complicità con gli hutu oltranzisti genocidiari. 

Dell’oltre un milione di profughi hutu, circa 600mila vennero accerchiati e ripresi dalle truppe dell’Alleanza delle Forze Democratiche per la Liberazione del Congo (AFDL) per poi essere rimandati in Ruanda. Dell’altro mezzo milione si persero quasi del tutto le tracce. 

Furono chiamati ad aderire all’Alleanza tutti i congolesi che si opponevano a Mobutu e alla sua politica. Soprattutto dal Congo centrale e occidentale, ci fu uno slancio popolare sorprendente e furono migliaia i giovani e giovanissimi che si arruolarono per partecipare alla cacciata di Mobutu. Proprio tali giovani reclute, chiamate Kadago (bambini soldato) andranno a costituire poi il grosso delle future Fac (Forze Armate Congolesi). 

Kabila si auto-nominò presidente della neonata Repubblica Democratica del Congo alla presenza dei presidenti di Ruanda, Uganda, Angola, Burundi e Zambia, i suoi alleati. Egli era ben consapevole che la maggioranza dei congolesi non era favorevole all’abolizione della legge del 1981 e alla conseguente naturalizzazione dei banyamulenge e dei banyarwandesi tutsi, così la lasciò in vigore. Tale scelta segnò l’inizio della fine della coalizione che aveva combattuto e cacciato Mobutu. 

La Grande guerra d’Africa fu il risultato di un insieme di conflitti diversi, collegati tra loro attorno al nodo centrale del confitto tra il governo di Kabila e i suoi ex alleati ruandesi. Almeno sei paesi (Ruanda, Uganda, Angola, Zimbabwe, Namibia e Ciad) si combatterono con proprie truppe sul territorio congolese. A ciò vanno sommate le varie guerriglie locali il cui computo è ancor oggi arduo. 

Così, a partire dall’epicentro congolese, tutta l’Africa centrale fu travolta, impoverendosi. 

Secondo il Programma Alimentare Mondiale, circa un terzo dei congolesi vivrebbe ancora oggi in uno stato di denutrizione e sottoalimentazione grave. 

Nel gennaio 2001, allorquando il presidente Kabila rimase vittima di un attentato posto in essere da una delle sue guardie del corpo, il parlamento, riunito in sessione straordinaria, elesse suo figlio Joseph Kabila quale suo successore. 

Fin dall’aprile di quello stesso anno iniziarono gli incontri e le mediazioni tra Kabila junior e Kagame per giungere a una soluzione. Nel dicembre 2002 si procedette alla stesura dell’Accordo globale e conclusivo con l’intermediazione dell’Onu e del Sudafrica, cui parteciparono tutti i gruppi ribelli del paese. E nel 2006, dopo quarant’anni, furono organizzate delle elezioni libere. 

La fine della guerra tuttavia non rappresentò anche la fine dei combattimenti, i quali continuavano nelle province del Kivu. Fu necessaria una rinegoziazione con il Ruanda per ottenere la fine del sostegno di Kagame alla ribellione del Cndp di Nkunda. 

Alle elezioni del 2011 Kabila junior ottenne un nuovo mandato.

Le elezioni presidenziali del 2011 si svolsero in un clima teso e di accesa mobilitazione: gruppi ed ex gruppi armati erano al soldo di chi poteva pagare e vennero diffusamente utilizzati nella campagna elettorale per intimidire avversari e intere comunità.

Anche in Congo, come prima in Liberia e in seguito nel Sahel o in Nord Mozambico, il warlordismo ha cambiato pelle ed è diventato a pieno titolo un attore del caos indotto dalla globalizzazione competitiva, nel quale soggetti di tipo molto vario concorrono per il potere e le risorse.

La realtà odierna dei gruppi armati così come delle milizie è molto diversa da ciò che fu all’inizio della crisi degli anni Novanta: ogni gruppo armato ha un suo referente a Kinshasa, un uomo politico o una personalità facoltosa che si serve del gruppo per rafforzare la propria influenza e che è, a sua volta, necessario al gruppo per proteggere le proprie rivendicazioni locali. 

Bibliografia di riferimento

Mario Giro, Guerre nere. Guida ai conflitti nell’Africa contemporanea, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2020

Disclosure

Per le immagini, credits www.pixabay.com

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Articolo disponibile anche qui

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L’importanza di indagare sul senso della vita ne “Il segreto del coltivatore di rose” di Antonino La Piana (Falco Editore, 2016)

26 mercoledì Apr 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Africa, AntoninoLaPiana, FalcoEditore, filosofia, Ilsegretodelcoltivatoredirose, recensione, romanzo

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Esce con Falco Editore a maggio 2016 il romanzo di formazione di Antonino La Piana, Il segreto del coltivatore di rose. Un libro di poco oltre duecento pagine nel quale l’autore mette nero su bianco tutti i pensieri, le riflessioni, le argomentazioni e gli interrogativi che lo hanno accompagnato dalla giovinezza, trascorsa tra le aule della Facoltà di Filosofia all’età adulta, vissuta in vari paesi soprattutto dell’Africa. E ritornando in maniera fors’anche più acuta nel momento del suo rientro in Italia.
Il segreto del coltivatore di rose pur trattando di temi esistenziali, di religione e filosofia sembra ruotare interamente intorno alla figura del protagonista, che altri non è che lo stesso autore, e spesso la narrazione si perde nel dettagliato racconto di episodi ordinari e quotidiani che non riscontrano molto interesse in chi li legge. Come la rocambolesca rincorsa per non perdere la corsa del tram o l’iter della rottura del fidanzamento, o meglio di quando il protagonista è stato lasciato dalla fidanzata. Il lettore non riesce a ben comprendere il fine ultimo di queste prolungate narrazioni che a volte addirittura interrompono il racconto di altre vicende, in considerazione anche del fatto che esulano dal ragionamento che l’autore porta avanti nel suo libro e che trova la sua conclusione nell’ultimo capitolo.

Tutto questo va un po’ a inficiare il tono e il senso del libro, che a tratti risulta confusionario. Scritto come fosse la trascrizione simultanea dei pensieri e delle riflessioni dell’autore che spaziano e saltellano tra i vari argomenti. Maggiore ordine avrebbe potuto coincidere con un più alto gradimento e interesse in chi legge e, al contempo, avrebbe garantito più spazio alle valide conoscenze ed esperienze che La Piana dimostra di avere e aver fatto.
Interessante risulta il racconto dell’incontro-scontro tra le varie culture, lo stridente contrasto tra le futilità del vivere occidentale e il forte legame con la Terra che ancora conservano le etnie “primitive” che l’autore ha avuto modo di conoscere nei lunghi soggiorni nel continente africano. Traspare dagli aneddoti trascritti ne Il segreto del coltivatore di rose quella corrente che trascina tutti, chi più chi meno, nel vortice dei legami morbosi con gli oggetti solo in apparenza utili e necessari, nell’inutilità del pensiero rivolto solo alla materialità del ‘possedere’ senza la benché minima cura del proprio essere e del proprio pensiero. Un vortice che non lascia indenne neanche lo stesso autore. Accusa La Piana tutti coloro che scelgono di vivere «senza comprendere la ragione ultima per la quale si vive», che sono in buona sostanza il suo esatto contrario, tormentato invece dagli interrogativi esistenziali fin da giovanissimo. «Porsi delle domande, porsi le domande giuste e nel modo giusto, per tentare di cominciare a svelare, almeno in parte, il mistero nel quale siamo immersi», sembra essere il suo mantra.
Un libro particolare, Il segreto del coltivatore del rose di Antonino La Piana, che si ‘insinua’ nella mente di chi legge, nonostante i suoi limiti, e lo accompagna in riflessioni sul senso della vita e sulla vita stessa. Un libro con un finale dichiarato sensazionale dallo stesso protagonista. Il lettore potrebbe non concordare con le conclusioni cui giunge l’autore ma ne apprezza di certo l’entusiasmo. Un libro che nonostante tutto ha il suo perché. E questo, in un ragionamento sugli interrogativi esistenziali, potrebbe anche bastare.

Antonino La Piana: nato a Messina, ha vissuto molto all’estero, soprattutto in Africa. Ha sempre continuato a coltivare la sua passione per la Filosofia. La professione di Funzionario Diplomatico gli ha permesso di entrare in contatto con diverse culture, stimolando ulteriormente la curiosità sui grandi perché della vita.

Source: pdf inviato dall’autore. Ringraziamo l’Ufficio Stampa “Falco editore”.

Articolo originale qui

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Umanità e Giustizia salveranno i migranti… e anche tutti gli altri. “Padre Mosé” di Mussie Zerai e Giuseppe Carrisi (Giunti, 2017)

03 lunedì Apr 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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AbbaMussieZerai, Africa, DonMussieZerai, Europa, Giunti, GiuseppeCarrisi, immigrazione, Italia, migranti, PadreMose, paura, recensione, romanzo

È uscito a gennaio di quest’anno con Giunti il libro-denuncia di Abba Mussie Zerai, scritto con Giuseppe Carrisi, Padre Mosé. Nel viaggio della disperazione il suo numero di telefono è l’ultima speranza. Un pugno nello stomaco e un simbolico schiaffo in faccia a chi ancora vuol fingere di non vedere e non capire che la punizione in alcun modo deve essere progettata e inflitta a coloro che, in balia della disperazione più nera, si lanciano in un viaggio disperato alla ricerca di un luogo dove raccogliere ciò che resta della loro dignità e della loro esistenza e tentare almeno di ricominciare. Uomini e donne, bambini e bambine costretti a lasciare i loro luoghi natii a causa della sofferenza, della povertà, delle carestie, delle guerre, delle dittature, del terrorismo… La soluzione a questa immensa emergenza umanitaria non deve essere studiata contro di loro ma per loro. Se si riuscisse anche a punire i reali colpevoli sarebbe meglio ma intanto bisogna pensare a non aggredire ulteriormente queste persone perché così facendo non solo causiamo loro altro male e sofferenze ma perdiamo anche quel briciolo di umanità che si spera alberghi ancora in tutti e in ogni occidentale, emblema e simbolo condiviso del corretto “viver civile”.

I cristiani imparano fin dalle prime lezioni di catechismo il racconto del liberatore del popolo di Israele, riuscito a salvare la sua gente dall’esercito del faraone e dalle acque del mare. La storia di Padre Zerai invece ancora non è così nota. Ma anche lui, come l’altro Mosé, cerca di salvare la sua gente da un esercito di famelici assalitori e dalle acque di un mare. Un’impresa titanica, considerando i numeri e le distanze, che avrebbe scoraggiato e fatto desistere tanti ma non lui che ha scelto di andare sempre avanti nonostante la mancanza di risorse, le difficoltà oggettive, le intimidazioni, le minacce e le porte in faccia. Abba Zerai è molto cristiano, credente e praticante una spiritualità che nulla sembra avere in comune con i fasti dello Stato Pontificio, con il lusso di chiese palazzi e cattedrali rivestite di oro e preziosi… ma molto assomiglia alla fede predicata e praticata da Gesù Cristo, da san Francesco, dai padri francescani e benedettini… un amore senza tempo e senza limiti verso le creature che popolano la Terra, soprattutto i più bisognosi, i meno “fortunati”, gli ultimi che il Vangelo stesso indica come quelli che “saranno i primi”.

Mussie Zerai dà a questa affermazione un significato tanto probabile quanto preoccupante. Bisogna avere il «coraggio di cambiare nel rispetto reciproco», è necessario «mettere l’uomo al centro di ogni scelta» altrimenti «si rischia di imboccare una strada in rapida discesa, alla fine della quale c’è il buco nero della negazione dei diritti fondamentali dell’uomo». Dobbiamo riflettere su quanto afferma Zerai perché «oggi tocca ai profughi e ai migranti. E domani?».

Nonostante le testimonianze orribili riportate nel testo traspare dalle parole di Mussie Zerai una profonda fiducia nel genere umano e non si può fare a meno di chiedersi se ciò derivi dal fatto che egli sia nato e cresciuto in quella parte del pianeta dove vi è più sofferenza proprio perché c’è più umanità. Interi popoli sopraffatti dalla brama di pochi avidi e corrotti, soggiogati da dittature ed estremismi politici e religiosi, che non vogliono e non riescono a piegarsi alla violenza e scelgono di fuggire dai luoghi che hanno dato loro i natali, quegli stessi posti che continuano a essere i supermercati del benessere occidentale. Oggetto di contese che in apparenza hanno motivazioni politiche o religiose ma che in realtà nascondono quasi sempre valenze economiche e finanziarie. Petrolio, gas, diamanti, minerali… giacimenti che fanno gola a tanti, servono a tutti, arricchiscono pochi e condannano alla miseria troppi.

Leggi anche – Yemen, la Strage degli Innocenti dimenticati

Perché l’Italia e l’Europa non riescono a stilare un efficace piano di prevenzione e sostegno dell’emergenza umanitaria in atto? Padre Zerai afferma di aver avuto la risposta a questo interrogativo «nel 2014, quando è scoppiato lo scandalo di Mafia Capitale». Se lui solo con pochi amici fidati è riuscito in questi anni ad aiutare migliaia e migliaia di profughi senza avere a sua disposizione né risorse né mezzi come si può davvero credere che gli stati occidentali con tutte le risorse a loro disposizione non riescano a studiare un concreto piano di prevenzione e intervento? La risposta va cercata lontano da quello che viene da politici e media indicato come il problema, ovvero il fiume di migranti che con ogni mezzo cerca la salvezza lungo le coste italiane e greche. Non sono loro il problema, queste persone rappresentano la conseguenza dei problemi generati anche dagli stessi stati occidentali.

Leggi anche – La nascita dei “mostri” del terrorismo e il rifiuto delle responsabilità dell’Occidente in “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna” di Pierre-Jean Luizard (Rosenberg&Sellier, 2016)

Un libro necessario Padre Zerai di Mussie Zerai e Giuseppe Carrisi, capace di raccontare senza filtri quanto realmente sta accadendo alle persone che abitano la Terra, quello che viene taciuto e perché. «Anche gli ultimi esistono e il loro diritto alla vita non è diverso da quello degli altri», sottolinea Abba Zerai che ha deciso di votare la sua vita al sacerdozio dopo aver scelto di impiegarla per aiutare i più bisognosi. Azioni e concetti che non sono banale retorica ma esempi di vita vera, reale umanità che ancora persiste in persone, come Zerai, cresciute in un clima di violenza e paura che al contatto con il benessere del mondo occidentale non hanno scelto di volere ogni bene per se stessi bensì di adoperarsi affinché ognuno possa avere almeno il minimo per mantenere o riguadagnare la dignità spettante a ogni essere umano. Perché «la Persona non deve essere il custode della legalità, anzi costantemente deve mettere in crisi la legalità confrontandola con la giustizia». E la giustizia non deve essere mero rispetto della legalità bensì pieno rispetto dell’equità.

Source: Si ringrazia Fiammetta Biancatelli della Walkabout per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Fonte Biografia autori www.walkaboutliteraryagency.com

Leggi anche:

Migrazioni… di organi

Cosa siamo diventati? Migrazioni, umanità e paura in “Lacrime di sale” di Bartolo-Tilotta (Mondadori, 2016)

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Cosa accade quando i diversi siamo noi? Intervista a Riccardo de Torrebruna per “Mardjan” (Edizioni Ensemble, 2016)

20 martedì Dic 2016

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Africa, Ensemble, Europa, intervista, Mardjan, RiccardodeTorrebruna, romanzo

riccardo-de-torrebrunaCosa accade se si immagina, anche solo per un istante, di vivere in un mondo dove le parti sono invertite? Dove i diversi siamo noi occidentali che ancora ci sentiamo padroni dell’universo?
Riccardo de Torrebruna lo ha fatto in Mardjan, un libro intenso profondo che raccontando una storia ne scopre un’altra al lettore. Una “Storia” che deve essere scritta e narrata per non essere dimenticata.
Ne abbiamo parlato durante l’intervista che gentilmente ha accettato di fare.

Mardjan accompagna il lettore in un intenso viaggio alla scoperta dell’Africa vera nascosta ignorata… Perché ha scelto di portare la scena nel Continente Nero?

Credo che l’Africa sia un luogo dello spirito, oltre che un continente e m’interessava raccontare una qualità specifica di quello spirito, qualcosa che in Europa è andato perduto. Inoltre, volevo raccontare dei personaggi africani che hanno tutta l’intenzione di restare nel loro paese e magari migliorarlo.
Sembra che oggi parlare di Africa significhi necessariamente fare un riferimento al tema dell’immigrazione. Siamo sovrastati mediaticamente da questa immagine, un’Africa che vuole invaderci. Nei miei sopralluoghi a Zanzibar e in Tanzania ho incontrato molte persone e la maggior parte di loro voleva restare, malgrado le condizioni siano difficili per tante ragioni.
L’Europa ha prima colonizzato e poi sfruttato in maniera subdola le risorse minerali ed energetiche dell’Africa. Ma questi atti hanno un prezzo, determinano delle conseguenze. In Mardjan, i personaggi di una troupe cinematografica entrano in rapporto con il magma di contraddizioni che la colonizzazione (anche quella musulmana e indù, oltre a quella europea) ha lasciato. Lo fanno in maniera inconsapevole, con la rapacità tipica dei predatori. Da quel momento in poi, il film che sono venuti a girare li condanna a un cambiamento ineluttabile. Le loro vite non riusciranno più a liberarsi da questa esperienza, dalle ramificazioni del corallo (mardjan significa, appunto, “corallo” in arabo), e saranno costretti a fare i conti con l’incertezza della loro identità.
È la sensazione tipica che si prova, come bianchi, a camminare in un bazar africano, dove i diversi siamo noi. Veniamo scossi dalla relatività del colore della pelle, dall’inappropriata accuratezza di ciò che indossiamo, tutto sembra stridere con la realtà che ci troviamo di fronte. Siamo sconcertati dalla potenza della natura, degli odori, dalla vitalità e dalla pazienza degli africani che sciamano lungo le strade. Ecco, m’interessava raccontare cosa succede dopo, al rientro nella comodità e nel confortante progresso di cui ci sentiamo protagonisti. La storia tormentata di questo film, Mardjan, è un pretesto per raccontare anche questo.

Un legame sottile ma resistente e persistente unisce i fatti dell’11 settembre alle vicende del libro. Gli attacchi terroristici del nuovo millennio hanno cambiato la Storia oppure hanno contribuito a svelarne aspetti reconditi?

Mardjan è ambientato all’indomani dell’11 settembre in un’isola, Zanzibar, che ha forti radici e una maggioranza di religione musulmana. I francesi della troupe non sono ben visti in un momento del genere, non si va per il sottile, ci sono forti pulsioni antioccidentali. Questo acuisce la tensione e descrive i germi di ciò che 15 anni più tardi è diventato un repertorio di violenza inaudita.
La collisione imminente si percepisce nell’aria, anche se non è ancora strutturata nelle forme che i media ci descrivono oggi. Una cosa è certa, l’indole africana sarebbe estranea al fanatismo terrorista. Solo la deriva dei campi profughi delle guerre interne veicolate dall’Occidente per interessi economici e oggi anche dalla Cina, i giovani ridotti a larve senza futuro, hanno poi dato vita (strano parlare di vita in questo caso) al fenomeno, hanno permesso che attecchisse anche in Africa.
È un ulteriore scempio che si è prodotto. Con questo non voglio dire che l’indole africana sia immune dal seme della violenza, ci sono esempi eclatanti in proposito, ma dal terrorismo e dal fanatismo di matrice islamista, sì, lo sarebbe stata senza l’avvento di certe condizioni.

Dominic e Milton, i protagonisti del libro, si sentono inversamente attratti rispettivamente dall’Africa e dalla Francia. In entrambi i casi il loro si rivelerà un viaggio di ritorno. Cosa voleva comunicare al lettore raccontando così in dettaglio gli stati emozionali dei due?

Dominic è un attore che vive nella precarietà, un idealista a cui è sempre mancata la giusta dose di cinismo per avere il successo a cui segretamente ambisce. Milton è un ispettore di polizia africano, un outsider che non ha amici tra i quadri corrotti del sistema, non è un eroe, ma non ha simpatia per gli africani che s’ingrassano con la corruzione, è uno che cerca di non sporcarsi, di mantenere una sua integrità. La lavorazione del film determina l’incontro delle loro vite. Uno è bianco, uno è nero. Dominic inizia un lavoro che solo Milton proverà a portare a termine, anche se non del tutto. Mi sono chiesto spesso: e se ognuno di noi, da qualche parte nel mondo, avesse un doppio, uno che non gli somiglia affatto, un “altro” che senza neanche saperlo è destinato a raccogliere il testimone di ciò che avremmo voluto realizzare, chi potrebbe essere?

Nella sua carriera ha avuto modo di confrontarsi con diversi mezzi comunicativi ma sembra che preferisca di gran lunga la parola scritta, perché?

Ho finanziato il privilegio di scrivere con vari mestieri. Il lavoro di attore in cinema è stato quello più redditizio; ma non sempre, anzi, quasi mai, si riesce a interpretare i ruoli che si vorrebbero. In teatro è diverso, ma si guadagna molto meno. In ogni caso, l’attore è esposto, non ha protezione, è sempre nudo in scena, se vuole fare sul serio. La scrittura è altrettanto rivelatoria, ma permette di non essere fisicamente davanti al lettore, gli si lascia il libro e ci si mimetizza. Ci si può permettere più tempo per elaborare la materia della scrittura. La vanità dell’attore si spegne appena le luci si spengono, quella dello scrittore dura finché qualcuno ha il tuo libro tra le mani e ci si può illudere che questo duri a lungo. Mettiamola così, anche se si potrebbe ribaltare l’intera faccenda.

Riccardo de Torrebruna: È nato a Roma, dove attualmente vive. Ha lavorato come attore di cinema e teatro in Italia e all’estero per poi dedicarsi alla scrittura (romanziere, drammaturgo, sceneggiatore) e alla regia.
Vincitore dei premi Enrico Maria Salerno e Oltreparola per la drammaturgia.
Esordisce come autore nel 2000 con Tocco Magico Tango (Minimum Fax). Pubblica poi Storie di Ordinario Amore (Fandango, 2003), con Luigi Turinese Hahnermann. Vita del padre dell’omeopatia (E/O, 2007), Blood&Breakfast (Ensemble, 2014), Hahnermann. Diario di un guaritore (Mincione, 2015) da poco tradotto in Messico.

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© 2016 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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