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Irma Loredana Galgano

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“Il capitalismo oggi e la sua incidenza su popoli ed economie”

31 sabato Ott 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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articolo, Capitalism, capitalismo, economia, geopolitica, politica

La modernità del mondo occidentale è davvero così inscindibile dal sistema capitalistico oppure esistono, o dovrebbero esistere, forme e processi economici differenti, paralleli o alternativi?
Il dibattito è aperto e animato, richiede inoltre uno sguardo a quei paesi e alle rispettive economie che sono emergenti e, a tratti, emulative dei processi economici occidentali senza dimenticare le idee di coloro i quali, al contrario, vedono nelle dinamiche del mondo occidentale l’imitazione di sistemi e strutture pregressi, avanzando il bisogno di allungare indietro lo sguardo fino ai tempi del colonialismo.

CAPITALISMO E CAPITALE

Il capitalismo ha presentato, fin dalle origini, un accentuato dualismo simbolico e concreto. Da un lato è visto come il metodo migliore per lo sviluppo economico di un paese essendo basato su una economia di libero mercato, su una divisione netta tra proprietà privata e pubblica. Un metodo di sviluppo quindi con un potenziale altissimo che ha consentito a paesi, come gli Stati Uniti d’America, di diventare potenze economiche di livello mondiale. D’altro canto però è stato sempre criticato e per le medesime ragioni, generando un sistema nel quale il lavoro diventa lavoro salariato, sfruttato al fine ultimo di ottenere il massimo profitto, utile all’illimitato bisogno di accumulo di capitale.

A partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo, allorquando ha iniziato a diffondersi, il capitalismo si è sviluppato in maniera non univoca nei diversi paesi del blocco occidentale, garantendo comunque alti livelli di crescita economica e generando, per restare negli Usa, quello che Elizabeth Warren ha definito “il più grande ceto medio che il mondo abbia mai conosciuto”. Una classe sociale nata e sviluppatasi proprio grazie al lavoro e al profitto generatosi da esso.
Uno sviluppo e una crescita enormi che hanno ingenerato però una grande quantità di problemi dovuti, in larga parte, proprio alle difficoltà inerenti l’impossibilità o quasi di sostenere gli stessi ritmi e i medesimi consumi.

CAPITALISMO, MA A QUALE PREZZO?

È la domanda che si è posta Michel Martone analizzando la situazione economica dell’Italia all’indomani della grande crisi economica che, inevitabilmente, ha riportato l’attenzione sulle dinamiche di un sistema economico, che da tempo ormai strizza l’occhio alle grandi economie libere dei paesi capitalisti per tradizione, ritenuto da molti il principale responsabile.
Oggi, nel mercato globale, per soddisfare le richieste sempre più esigenti, sia sotto il profilo della qualità che sotto quello del costo dei prodotti, si finisce per sacrificare le retribuzioni e la stabilità degli stessi lavoratori.

Ragionamento eguale a quello portato avanti dalla Warren nella sua analisi al sistema americano dove il ceto medio, una volta grande, è ormai ridotto allo stremo. Il passaggio dal capitalismo economico a quello finanziario ha lasciato indietro tanti lavoratori, un’intera classe di lavoratori, il ceto medio appunto, trasformando quelli che erano i punti cardine dello sviluppo economico (risorse e manodopera) in aspetti secondari di un sistema che è tutt’ora in continua espansione e crescita.

L'AFROMODERNITÀ COME CONDIZIONE GLOBALE?

Diversi fenomeni osservabili in Africa hanno indotto Jean e John Comaroff a considerarli prodromi e non imitazioni di quanto sta accadendo in Europa e Nordamerica.
Un’economia emergente, quella africana, tutt’altro che priva di contraddizioni, basata sul desiderio degli stati post-coloniali e dei loro governanti di guadagnare entrate spendibili nelle forme più flessibili e deregolate, a scapito della protezione dei lavoratori, dei controlli ambientali, delle imposizioni fiscali.
Così lo sviluppo economico si è spesso manifestato in forme rapinose, che massimizzano il profitto al minimo costo realizzando pochi investimenti strutturali. Soluzioni ispirate a dottrine neoliberiste ma realizzate con formulazioni estreme e incontrollabili, con il conseguente aumento di fenomeni come conflittualità, xenofobia, criminalità, esclusione sociale, corruzione.
Una violenza strutturale sembra dunque accompagnare i più recenti sviluppi di un’economia deregolamentata che inizia a diffondersi a livello globale.

La modernità è sempre stata indissociabile dal capitalismo, dalle sue determinazioni e dalle sue logiche sociali, come ricordava già Amin nel 1989, per quanto ovviamente fascismo e socialismo abbiano provato a costruire delle loro versioni.
Così, la modernità capitalista, si è realizzata, per quanto in maniera molto ineguale, nelle grandi aspirazioni del liberalismo, tra cui l’edificio politico-giuridico della democrazia, il libero mercato, i diritti e la società civile, lo stato di diritto, la separazione tra pubblico e privato, sacro e laico. Ma, per i Comaroff, ha anche privato diverse popolazioni di queste cose, in primis quelle dislocate nei vari teatri coloniali. E, per Elizabeth Warren, il contemporaneo capitalismo finanziario sta privando gli stessi americani e occidentali in generale di queste medesime cose.

IL CAPITALISMO DELLA SORVEGLIANZA

Il capitalismo sembra evolversi in risposta ai bisogni delle persone in un tempo e in un luogo determinati. È in questo modo che si sarebbe giunti, nella visione di Shoshana Zuboff, alla attuale forma di capitalismo della sorveglianza. Una logica che permea la tecnologia e la trasforma in azione. Una forma di mercato inimmaginabile fuori dal contesto digitale ma non coincidente con esso. Si appropria dell’esperienza umana usandola come materia prima da trasformare in dati sui comportamenti.

I capitalisti della sorveglianza hanno scoperto che i dati più predittivi si ottengono intervenendo attivamente sui comportamenti delle persone, consigliandole o persuadendole ad assumere quelli che generano maggiore profitto. Come il capitalismo industriale era spinto dalla continua crescita dei mezzi di produzione, così il capitalismo della sorveglianza e i suoi operatori di mercato sono costretti ad accrescere continuamente i mezzi per la modifica dei comportamenti e il potere strumentalizzante.

Karl Marx paragonava il capitalismo a un vampiro che si ciba di lavoro, nell’accezione attuale il nutrimento non è il lavoro bensì ogni aspetto della vita umana.
Come le civiltà industriali hanno potuto prosperare a discapito della natura e delle sue risorse, così una civiltà dell’informazione segnata dal capitalismo della sorveglianza prospererà, per Zuboff, a discapito della natura umana.
In questa nuova forma di capitalismo per certo ci sarà un drastico calo nello sfruttamento delle risorse della natura e questo, per Andrew McAfee, è indubbiamente un aspetto positivo.

IL NUOVO MOTTO SARÀ: DI PIÙ CON MENO?

Per quasi tutta la storia del genere umano la prosperità è stata strettamente connessa alla capacità di attingere risorse dalla Terra, ma adesso le cose sono cambiate. Negli ultimi anni abbiamo visto emergere un modello diverso: il modello del di più con meno.

Le forze gemelle del progresso tecnologico e del capitalismo scatenate durante l’Era industriale sembravano spingere verso una direzione ben precisa: la crescita della popolazione umana e dei consumi, e il concomitante degrado del pianeta.
Se il capitalismo ha proseguito per la sua strada diffondendosi sempre più, il progresso tecnologico ha permesso di consumare sempre più attingendo sempre meno dal pianeta.

I dati forniti dall’agenzia Eurostat, oggetto di attenzione da parte della Commissione Europea, mostrano come, negli ultimi anni, paesi come Germania, Francia e Italia, hanno visto generalmente stabile, se non addirittura in calo, il loro consumo totale di metalli, prodotti chimici e fertilizzanti.

I paesi in via di sviluppo, in particolare quelli con la crescita più rapida, come India e Cina, probabilmente non hanno ancora raggiunto la fase di dematerializzazione.

Attraversiamo una fase nella quale il capitalismo non è molto ben visto da tanti, eppure Andrew McAfee è di tutt’altro parere, convinto che sia stata proprio la combinazione tra innovazione incessante e mercati contendibili, in cui un gran numero di competitor cerca di ridurre le spese per i materiali, a traghettare le economie occidentali nell’era post-picco di consumo delle risorse.

OCCIDENTE O ORIENTE: CHI PERDE E CHI VINCE NELLA GRANDE 
SFIDA DELLA CRESCITA ECONOMICA?

La quota occidentale dell’economia globale continua a ridursi. Il processo sembra inevitabile e inarrestabile poiché altre realtà hanno imparato a emulare le best practices dell’Occidente.
Fino a tempi anche molto recenti, gran parte della crescita globale è venuta dalle economie del G7, non da quelle degli E7. Negli ultimi decenni la situazione si è nettamente rovesciata. Nel 2015, ad esempio, le economie del G7 hanno contribuito alla crescita globale per il 31.5 per cento, gli E7 per il 36.3 per cento.

Nell’analisi di Kishore Mahbubani, la fine della Guerra Fredda non ha significato la definitiva vittoria del mondo occidentale, bensì il suo lento e progressivo declino. La convinzione di essere insuperabile lo ha spinto a sottovalutare, tra l’altro, il risveglio dei due grandi giganti asiatici – Cina e India -, e l’ingresso della Cina nel 2001 nella World Trade Organization.
L’ingresso di quasi un miliardo di lavoratori nel sistema mondiale degli scambi avrebbe avuto per forza come risultato una massiccia “distruzione creativa” e la perdita di molti posti di lavoro in Occidente.

Nell’agosto 2017, una relazione della Banca dei Regolamenti Internazionali confermava che l’ingresso di nuovi lavoratori provenienti dalla Cina e dall’Europa Orientale nel mercato del lavoro era la causa di salari in declino e della contrazione della quota del lavoro nel reddito nazionale. Tutto ciò, ovviamente, avrebbe significato, per le economie occidentali, un aumento della diseguaglianza.

L’Unione Sovietica vedeva l’America come un avversario sul piano militare. In realtà, l’America era il suo avversario economico, ed è stato il collasso dell’economia sovietica a decretare la vittoria degli Stati Uniti.
Allo stesso modo, per l’America la Cina è un avversario economico, non militare. Più l’America accresce le sue spese militari, meno capace sarà nel lungo andare nel gestire i rapporti con un’economia cinese più forte e più grande.

La sfida che attende gli Stati Uniti tuttavia non è la stessa dell’Europa. Per i primi la sfida è la Cina. Per la seconda è “il mondo islamico sulla porta di casa”.
Finché nel Nord Africa e nel Medio Oriente saranno presenti stati in gravi difficoltà, ci saranno dei migranti che cercano di arrivare in Europa, infiammando i partiti populisti. Una possibile soluzione potrebbe essere lavorare con la Cina e non contro di essa per la crescita e lo sviluppo dell’Africa settentrionale.

PER UN MODELLO DI SVILUPPO ALTERNATIVO

Dunque, ciò che necessita ai paesi economicamente avanzati così come a quelli emergenti sono delle politiche di mutuo soccorso, per così dire. Connettere prospettive differenti con l’obiettivo precipuo di individuare una crescita equilibrata. Individuare un nuovo modello di sviluppo globale, alternativo a quello esistente, capace di coniugare le esigenze dei paesi industrializzati, quelle dei paesi in via di sviluppo nonché di quelli poveri, anche di materie prime.
Idee già espresse nel North-South, a Program for Survival, noto come Rapporto Brandt, redatto nel 1980 e basato sostanzialmente su una coppia concettuale ben definita: interdipendenza e interesse comune. Per molti, ancora oggi il Rapporto Brandt rappresenta l’unica vera alternativa sistemica alla globalizzazione neoliberista.

Per Brandt e gli altri commissari si trattava di lavorare per far sì che nel medio termine alcuni interessi, a nord come a sud, si inter-connettessero, secondo la tesi per cui un più rapido sviluppo a sud sarebbe stato vantaggioso anche per la gente del nord. Il pre-requisito di questo tentativo non poteva che essere un maggior aiuto degli Stati industrialmente avanzati a quelli più deboli, sia attraverso forme di finanziamento dirette sia mettendo in campo dei programmi di prestiti a lunga scadenza.

Sulla scia delle idee di Kenneth Arrow, Stglitz e Greenwald invitano a riflettere sui modi possibili di intervento governativo sul mercato per migliorare l’efficienza e il benessere collettivo, tenendo sempre a mente che buona parte degli innalzamenti degli standard di vita sono associati al progresso tecnologico e all’apprendimento.
Nei quattro decenni trascorsi dalla fine degli anni Quaranta alla fine degli anni Ottanta, le economie socialiste si concentrarono con decisione sulle ricette di solito associate alla crescita, ossia l’accumulazione di capitale e l’istruzione. Presentavano tassi di risparmio e investimento elevati – in molti casi molto più elevati di quelli presenti in Occidente – e investirono seriamente nell’istruzione. Tuttavia, alla fine di questo periodo, presentavano risultati economici inferiori, spesso di molto.
Le economie non centralizzate si erano sviluppate migliorando costantemente la performance economica.

La situazione oggi si sta invertendo. Mahbubani afferma che il dono più grande che l’Occidente ha fatto al Resto del Mondo è stato la potenza del ragionamento logico. Filtrando nelle società asiatiche, lo spirito di razionalità e, potremmo aggiungere, conoscenza occidentale ha portato a un crescendo di ambizione, che a sua volta ha generato i molti miracoli asiatici che stanno sviluppandosi.

ALL'ALBA DI UN NUOVO MONDO

La cupa profezia sull’incipiente tramonto dell’Occidente sembra trovare sempre maggiore consenso e certezze ma, per Angelo Panebianco, è fin troppo scontato affermare che la società aperta occidentale con i suoi gioielli (rule of law, governo limitato, diritti individuali di libertà, democrazia, mercato, scienza) sia oggi a rischio. Un fenomeno caratterizzato dall’indebolimento degli intermediari politici che, secondo Bernard Manin, ha accompagnato il passaggio dalle vecchie democrazie di partito alle nuove democrazie di pubblico.

Crisi demografica e difficoltà di fronteggiare le conseguenze sociali, economiche e politiche dell’immigrazione extraeuropea – in Europa -, o latinoamericana – negli Stati Uniti – segnalano quella che viene indicata come una crisi morale che sta minando la fiducia in sé stesse delle società occidentali.
L’idea più diffusa è che siamo entrati in una nuova fase nella quale si assisterà al passaggio dalla breve stagione dell’unipolarismo americano a un nuovo multipolarismo, nel quale Stati Uniti e Cina, pur essendo le potenze più forti, dovranno comunque fare i conti con altre potenze, quali Russia, India e fors’anche Brasile, Indonesia e Sud Africa.

Bibliografia di riferimento

Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019. Traduzione di Paolo Bassotti.
Michel Martone, A che prezzo. L’emergenza retributiva tra riforma della contrattazione collettiva e salario minimo legale, Luiss University Press, Roma, 2019.
Jean Comaroff, John L. Comaroff, Teoria dal Sud del mondo. Ovvero, come l’Euro-America sta evolvendo verso l’Africa, Rosenberg&Sellier, Torino, 2019. Traduzione di Mario Capello.
Andrew McAfee, Di più con meno. La sorprendente storia di come abbiamo imparato a prosperare usando meno risorse, Egea UniBocconi, Milano, 2020. Traduzione di Giuseppe Maugeri.
Jacopo Perazzoli (a cura di), Per un modello di sviluppo alternativo. A quarant’anni dal Rapporto Brandt, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano, 2019.
Kishore Mahbubani, Occidente e Oriente chi vince e chi perde, Bocconi Editore, Milano, 2019. Traduzione di Giuseppe Barile.
Angelo Panebianco, Sergio Belardinelli, All’alba di un nuovo mondo, Società Editrice il Mulino, Bologna, 2019.
Elizabeth Warren, Questa lotta è la nostra lotta, Garzanti, Milano, 2020. Traduzione di Paolo Lucca.
Joseph E. Stiglitz, Bruce C. Greenwald, Creare una società dell’apprendimento. Un nuovo approccio alla crescita, allo sviluppo e al progresso sociale, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2018. Traduzione di Maria Lorenza Chiesara.


Articolo disponibile anche qui


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SPECIALE WMI: Il ruolo culturale delle biblioteche oggi in Italia

26 mercoledì Giu 2019

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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articolo, biblioteche, cultura, RinnovamentoCulturaleItaliano, WMI

Qual è il ruolo culturale delle biblioteche, pubbliche e private, oggi in Italia? Perché, nella società che si definisce dell’informazione, i luoghi simbolo della cultura vera, come appunto le biblioteche, si considerano ormai obsoleti, superati, inutili? Che relazione si pone tra diritto alla conoscenza, libertà di pensiero e di espressione e libertà di accesso all’informazione? I libri e la libertà. Le biblioteche e la democrazia. Bibliotecari e pubblico. Il rapporto dei cittadini con la lettura.

Le biblioteche sono istituzioni che, inspiegabilmente, restano fuori da ogni dibattito, mediatico e istituzionale, sulla cultura. Eppure esse rappresentano non solo i luoghi fisici di conservazione della memoria del passato ma, soprattutto, la struttura, la tecnica, il metodo, la fisicità e la possibilità concreta per la creazione di una cultura, di un’informazione e anche una educazione, quanto più ampie e diffuse possibile, che non siano faziose, di parte o partitiche, settarie e limitate.
Proprio le biblioteche, le quali rimangono ancora oggi estranee ed esterne alle logiche del mercato, all’economia imperante, al consumismo e alla superficialità di una conoscenza priva di fondamenta solide e logiche.
Michel Melot sosteneva che «la biblioteca è una macchina per trasformare la convinzione in conoscenza. La credulità in sapere». Come riportato anche nella premessa al testo L’azione culturale della biblioteca pubblica di Cecilia Cognini (Editrice Bibliografica, 2014).

Cognini ricorda che uno degli obiettivi dei programmi di Europa 2020 è proprio quello di «promuovere e consolidare la società della conoscenza». Ponendo al centro l’istruzione e le competenze, la ricerca, l’innovazione e la società digitale, allo scopo di favorire «un uso intelligente e consapevole delle nuove tecnologie». L’economia della conoscenza si basa sulla centralità del ‘capitale umano’ come «elemento capace di determinare un andamento positivo dello sviluppo di un paese». Nello scenario sociologico internazionale sempre di più si sta consolidando il bisogno di superare il PIL come indicatore dello stato di benessere di un paese, in Italia «lo Cnel e l’Istat hanno elaborato degli indicatori per misurare il BES, il benessere equo e sostenibile», ricollegando concettualmente il tasso di benessere di una società a fattori che «comprendono cultura e salute e altri aspetti immateriali della vita contemporanea».

Ecco che entra in gioco il concetto di apprendimento per tutto l’arco della vita, che diventa «un aspetto essenziale nella prospettiva esistenziale delle persone». L’intelligenza degli individui, ma anche quella di ognuno, non può essere ricondotta a una sola tipologia, «educare a pensare la complessità diventa un obiettivo rilevante per la società della conoscenza». L’azione della biblioteca pubblica può essere interpretata come una «sintesi efficace delle diverse vocazioni e stratificazioni di senso che il concetto di cultura rappresenta».
Affinché cultura e creatività si radichino in un territorio è necessario che si sviluppi una “atmosfera creativa”. In base al concetto largamente esposto nelle sue opere da Walter Santagata, per rendere percepibile un’atmosfera creativa è necessario che «il bagaglio di idee e creatività raggiunga un certo livello» e che siano presenti determinati ingredienti: «le reti creative, i sistemi locali della creatività, le microimprese di servizi». Anche le biblioteche, gli archivi e i musei sono soggetti essenziali da questo punto di vista, perché anch’essi qualificano il tessuto economico e sociale di un dato territorio, «aumentando la predisposizione delle persone a investire nelle loro capacità e competenze conoscitive e accrescendo la qualità sociale di una comunità».
Laddove per “qualità sociale” deve intendersi la misura secondo cui le persone sono capaci di «partecipare attivamente alla vita sociale, economica e culturale e allo sviluppo delle loro comunità», in condizioni che migliorino il benessere collettivo e il potenziale individuale.

Nella filiera del patrimonio culturale proprio le biblioteche possono conquistare «un ruolo e una rilevanza centrali, ancora solo parzialmente esplorate», e contribuire, per la loro capillarità e accessibilità e la loro vocazione alla divulgazione, a «promuovere la più ampia conoscenza e fruizione possibili del patrimonio culturale del nostro paese». Come indicato nel Manifesto IFLA/Unesco, la biblioteca pubblica svolge un «ruolo centrale anche nel promuovere la consapevolezza dell’importanza dell’eredità culturale che è propria di una comunità e di un territorio», non solo nel senso più scontato del mettere a disposizione del pubblico i fondi di storia e cultura locale o i documenti conservati nelle sezioni “Manoscritti e Rari”, ma più in generale come «promozione della capacità di lettura e interpretazione del patrimonio culturale di una comunità» al fine di trovare nuovi modi per raccontarlo, «nella consapevolezza delle nuove sfide poste dalla società multiculturale e dal digitale».

La vita degli adulti dovrebbe essere centrata sull’apprendimento continuo. Una educazione «fortemente correlata a una diversa concezione del sapere», non più focalizzato solo sull’acquisizione di abilità e contenuti ma anche di atteggiamenti e comportamenti. Esiste un sottostimato ma innegabile «legame fra formazione permanente e sviluppo democratico della comunità». L’atto di conoscere è a un tempo biologico, linguistico, culturale, sociale e storico e «la conoscenza non può essere dissociata dalla vita umana e dalla relazione sociale».
Nicholas Carr sostiene che la rete ci ha confinato nella superficialità e nell’incapacità di approfondire, mentre Rheingold Howard ritiene che questa ci aiuti a sviluppare appieno tutto il potenziale dell’intelligenza collettiva. Per Cecilia Cognini forse hanno ragione entrambi. Innegabile è di sicuro il fatto che internet e le nuove tecnologie hanno «modificato le modalità di apprendimento, i contesti e gli scenari di riferimento e con essi il ruolo delle biblioteche», da ricercarsi proprio nella formazione permanente.

La formazione permanente può avere un ruolo centrale nel «contrastare il ritardo di alfabetizzazione presente nel nostro paese».
Stando ai dati ISOFOL-PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) l’Italia è la più bassa fra i paesi Ocse per partecipazione ad attività di apprendimento formale e informale degli adulti, con appena il 24% a fronte di una media del 52%. In questo ambito la biblioteca «può promuovere una visione proattiva e non passiva della cultura».
Per Cecilia Cognini l’azione della biblioteca si esplica sostanzialmente in quattro modi:
Predisposizione all’accesso.
Formazione dei cittadini.
Definizione di un ambiente sicuro.
Costruzione della motivazione a imparare.

Nella premessa al testo di Mauro Guerrini curato da Tiziana Stagni De Bibliothecariis. Persone Idee Linguaggi (Firenze University Press, 2017) Luigi Dei, magnifico rettore dell’Università degli Studi di Firenze, definisce le biblioteche «uno dei più preziosi patrimoni che le Università posseggono o ai quali gli Atenei fanno costante riferimento come irrinunciabile stella polare per le loro missioni». Per il rettore Dei non bisogna lasciarsi intimorire dal progresso scientifico-tecnologico, dal digitale, dalla rete… perché «la nostra era non è più unica di quanto lo sembrassero le precedenti ai nostri predecessori». I nuovi media troveranno «il loro posto nelle biblioteche» e così i bibliotecari assolveranno alla loro missione secondo modalità «stupendamente innovative e con strumenti d’inenarrabile potenza e versatilità». Il destino che attende quindi queste istituzioni, secondo Luigi Dei, è quello di «rivestire nel futuro un ruolo sempre più centrale nella vita dell’uomo».

Il testo di Mauro Guerrini si apre al lettore con una citazione di Shiyali Ramamrita Ranganathan:

«Fino a quando l’obiettivo principale di una biblioteca fu la conservazione dei libri, tutto quello che si pretese dal suo personale fu che fosse costituito da guardiani capaci di combattere i quattro nemici dei libri: fuoco, acqua, parassiti e uomini. Non era strano che un posto di lavoro in biblioteca rappresentasse il rifugio possibile per le persone incapaci di fare altri lavori. Ci volle davvero molto tempo perché si comprendesse che era necessario un bibliotecario professionale.»

Per Guerrini il tronco di attività e di competenze che regge la professione bibliotecaria si basa essenzialmente su due temi caratterizzanti: gli utenti e le risorse bibliografiche. «Il bibliotecario mette in relazione positiva queste due entità». La biblioteca pubblica italiana è, in questa fase storica, chiamata a difendere la Costituzione, le istituzioni democratiche, il diritto a un’informazione libera, tempestiva e plurale, «arginando le manipolazioni che pervadono, armai da sessant’anni, l’assetto partitocratico delle istituzioni e dei mass-media». Non può esistere democrazia senza controllo. E il controllo, oltre che dalla tripartizione dei poteri, deve essere esercitato dall’elettorato: «un cittadino bene informato è un requisito della democrazia perché conosce e giudica tramite la scheda elettorale l’operato dei politici, dei potenti, della società».
La biblioteca è chiamata a documentare in modo imparziale i diversi punti di vista dai quali un tema può essere interpretato anche conflittualmente e senza avanzare, in modo evidente o tra le righe, la preferenza per nessuno.

Quella del bibliotecario è una professione, e la capacità di scindere tra orientamenti personali e comportamento professionale fa parte del bagaglio culturale e professionale, «anzi ne determina il livello di professionalità». Libro è libertà sono indissolubili. La biblioteca non è il luogo di una verità unica, e neanche della verità degli altri, è il luogo dove «il lettore deve costruirsi la propria».
Il diritto alla conoscenza, la libertà di pensiero e la libertà di espressione sono condizioni necessarie per la libertà di accesso all’informazione. «Il bibliotecario è il garante dell’accesso a un’informazione libera», senza restrizioni e non condizionata da ideologie, credi religiosi, pregiudizi razziali, condizioni sociali, ecc… «ovvero da tutto ciò che in qualsiasi misura possa rappresentare un fattore di discriminazione e di censura». Suo compito è inoltre garantire la riservatezza dell’utente e «promuovere, quale strumento di democrazia, l’efficienza del servizio bibliotecario».

Guerrini ritiene doveroso cercare di individuare le ragioni, in una prospettiva storica, sia della mancata consapevolezza da parte del cittadino dei servizi e delle potenzialità informative che le biblioteche mettono a disposizione della comunità, sia del venir meno di quei servizi essenziali verso il cittadino da parte di alcuni enti pubblici, motivati dal continuo costante e inarrestabile taglio dei finanziamenti statali. I tagli dei fondi alla cultura sono intesi e lasciati intendere come «tagli al superfluo». E allora, si chiede Mauro Guerrini: «quando si capirà che investire in biblioteche significa investire per la democrazia, lo sviluppo economico e la qualità della vita?»
L’Italia può, o meglio potrebbe, svolgere un ruolo importante a livello politico generale, come «ponte di cultura» ma anche di pace e di libertà intellettuale, di scambio informativo, di modello di conoscenza, «di incontro e di dialogo fra culture diverse, fra Nord Europa e paesi che si affacciano sul Mediterraneo». L’Italia è un Paese di confine che «subisce l’urto dei flussi migratori», ma «la nostra cultura, le nostre biblioteche possono essere un efficace strumento di pace, di diffusione della comprensione e di reciproco rispetto».

Per Antonella Agnoli, autrice de Le piazze del sapere (Editori Laterza, 2014), in una società caratterizzata da disuguaglianza crescente e dalla scomparsa o dalla privatizzazione di molti servizi sociali, «la biblioteca è diventata un presidio del welfare». Occorre fare della cultura una questione politica centrale per il paese, «chiedere al governo e agli enti locali di tornare a investire sulla scuola e sulla cultura». Tante buone pratiche si affermano a livello locale ma, alla fin fine, tutte o quasi sono costrette a cedere sotto il peso di una politica nazionale che «va in direzione opposta».
Inoltre va sottolineato che scuole, università, biblioteche e altre istituzioni culturali sul territorio «non comunicano tra loro, non agiscono in sinergia», non vanno a costituire un «ambiente globale dove i talenti possano svilupparsi e lavorare».
Le biblioteche pubbliche, per Agnoli, devono essere considerate «un servizio universale, come la scuola o l’ospedale». Ma, soprattutto, dovrebbero agire in sinergia con tutte le altre istituzioni culturali, soprattutto afferenti al sistema scolastico, secondo progetti e programmi coordinati dallo stesso Miur per ovviare a oggettivi e oramai sistemici deficit di apprendimento.
Stando ai dati Ocse-PISA (Programme for International Students Assessment), la capacità degli studenti italiani di leggere e interpretare un testo sono molto inferiori a quelli degli studenti degli altri paesi europei. Il che significa che diventeranno adulti non in grado di «leggere un libro o un giornale» e di comprenderne appieno il significato e, soprattutto, cittadini a rischio nei loro diritti elementari perché «in difficoltà a capire una scheda elettorale, una bolletta della luce o un estratto conto». Gli esempi potrebbero continuare a lungo.

Ne La biblioteca che vorrei (Editrice Bibliografica, 2014) Antonella Agnoli ricorda che ogni giorno in Italia si condividono online 5milioni di foto, Facebook ha 20milioni di iscritti mentre Twitter ne ha 10milioni e afferma che «il prezzo che paghiamo alle meraviglie offerte da iTunes, Youtube, Twitter e Instagram è la rinuncia, del tutto volontaria, ai libri. La fine della lettura». Ma è davvero così? Prima dell’avvento di internet e dei social le persone leggevano davvero molto più di adesso? E in che misura?
Tralasciando i tempi in cui il tasso di analfabetismo era ancora molto elevato e diffuso e osservando l’Italia e gli italiani della seconda metà del Novecento si deve ammettere di trovarsi di fronte un quadro dipinto per la maggiore da radio, calcio e televisione. Internet e i social sono solo il mezzo di distrazione del nuovo millennio che è andato ad aggiungersi o a sostituirsi a quelli imperanti nel secolo scorso. I lettori, quelli forti, che non si lasciavano attrarre dalla televisione nel Novecento non si lasciano sedurre neanche dai nuovi media. I numeri erano pochi allora e lo sono anche oggi. È questo il nocciolo del problema.

Andrea Capaccioni in Le biblioteche dell’Università (Maggioli Editore, 2018) sottolinea come già numerosi stati hanno incrementato gli investimenti per sostenere un più efficiente sistema di istruzione superiore e per fornire ai cittadini un accesso alla formazione lungo tutto l’arco della vita. Gli atenei sono dunque chiamati a svolgere «un ruolo sociale (civic university) sempre più importante» e a garantire livelli qualitativi elevati attraverso «periodiche verifiche dei risultati raggiunti sul piano scientifico e divulgativo». C’è un forte legame tra la biblioteca, l’insegnamento e la ricerca al punto che le biblioteche dell’università sono state definite «specchio dell’educazione superiore». Troppe volte però la biblioteca, invece di «luogo privilegiato della propria missione», viene considerata dagli atenei come mero «strumento da includere tra le attrezzature didattiche».
È tuttavia innegabile che in una società sempre più interessata alla produzione e alla gestione dell’informazione «le università costituiscono un obiettivo strategico per i governi di tutto il mondo» e con esse tutti i luoghi di produzione e conservazione delle informazioni e della cultura, comprese naturalmente le biblioteche.
Si prospetta la necessità di ripensare il ruolo e le funzioni della biblioteca nel nuovo contesto culturale e tecnologico e Capaccioni si chiede se le università siano pronte a gestire il cambiamento. Ma egli stesso rammenta poi che nel mondo è in costante crescita il numero di università che hanno individuato nelle loro biblioteche il luogo ideale per istituire dei learning center «in cui ai tradizionali servizi bibliotecari si affiancano iniziative legate alla didattica e all’information literacy».

Per John Palfrey, autore di BIBLIOTECH (Editrice Bibliografica, 2016), «le biblioteche sono in pericolo perché ci siamo dimenticati quanto esse siano eccezionali». Le biblioteche danno accesso alle abilità e alle conoscenze necessarie per adempiere al nostro ruolo di cittadini attivi. La conoscenza che le biblioteche offrono e l’aiuto che i bibliotecari forniscono «sono la linfa di una repubblica informata e impegnata». Le democrazie possono funzionare soltanto se tutti i cittadini hanno pari accesso all’informazione e alla cultura, in modo tale che possano «essere aiutati a fare buone scelte, siano esse relative alle consultazioni elettorali o ad altri aspetti della vita pubblica». E l’accesso eguale e paritario alla cultura può esserci solo laddove ci siano istituti e istituzioni pubbliche (scuole, atenei, biblioteche, archivi, …) per usufruire dei quali non è importante «quanto denaro si ha in tasca». Nel mondo digitale le biblioteche, come anche gli altri istituti della cultura, devono continuare a ricoprire le funzioni essenziali di accesso libero alla conoscenza, laboratori per lo studio, l’apprendimento e la ricerca, depositi della conoscenza. Esattamente come hanno fatto nel periodo analogico.
Il futuro delle biblioteche è importante per vari motivi, ma per Palfrey in testa alla lista delle priorità vi è fuor di dubbio il loro ruolo nel tutelare in modo certo la conoscenza culturale nel lungo periodo.
Allorquando i nuovi materiali digitalizzati verrano seriamente inclusi nei piani di studio scolastici, «un’iniziativa nazionale fra biblioteche, che renda disponibili documenti di supporto appropriati a tutti i docenti e agli studenti» potrebbe abbattere i costi della transizione per le scuole e permettere agli allievi di avere «un facile accesso e gratuito a strumenti di studio rilevanti».
La scusante che va per la maggiore, in genere, è la mancanza di risorse finanziarie, ma in molti casi le questioni relative all’educazione non hanno molto a che fare con i soldi, quanto piuttosto «con l’amministrazione, la visione, l’impegno».

La mancanza di visione e impegno rischia di continuare a lasciare i cittadini di oggi e di domani in balìa di questo immenso «rumore informazionale di fondo», un vero e proprio «turbine di gossip» che genera una diffusa condizione di alfabetizzati-illetterati storditi «dagli irrilevanti contributi di un pervadente disturbo che li strania da ogni stimolo di autentica realtà». Alfredo Serrai, in La biblioteca tra informazione e cultura (Settegiorni Editore, 2016), indica come unica strada percorribile il progettare «un salvataggio della intellettualità antica racchiusa nelle gloriose biblioteche antiche innestandola nel quadro sistematico di una sintesi culturale che la valorizzi». Naturalmente incorporandola nella storia e nella cultura del passato ma «con le estensioni, gli sviluppi e i rivolgimenti prodotti dalle acquisizioni, tecnologiche e concettuali, del pensiero moderno».
Perché, a rifletterci bene, sottolinea Serrai, il problema di fondo rimane quello del rapporto che si intende avere con il passato. Conservarlo come fossero resti mummificati oppure continuare a «sentirci il ramo più alto di uno stesso grande albero ancora vitale» e verosimilmente prosperoso. Quando le biblioteche si ridurranno a Musei, nel senso di luoghi destinati alla conservazione delle testimonianze, sarà anche la fine della cultura che le biblioteche aveva generate e alimentate.
Chiedersi se spariranno le biblioteche va di pari passo con il domandarsi se continuerà il dissolvimento di quella che si continua a riconoscere ancora come la nostra attuale cultura.

Come conseguenza della aumentata velocità dei mezzi di comunicazione, della immediatezza delle comunicazioni, spesso identiche e ripetitive, si assiste a una generale e uniforme «omologazione concettuale e a un diffuso appiattimento di pensiero». Si percepisce come unicamente reale, «non solo sul piano personale ma anche su quello cosmico», soltanto il presente e l’immediato. Ma se l’informazione non diventa Cultura, ovvero «trama di un ordito molteplice e complesso» che si nutre del passato per affrontare il presente e guardare il futuro, allora è ben poca cosa, avverte Serrai. La biblioteca è e deve sempre porsi come sorgente di cultura e non di informazione o ragguaglio, come sono invece i motori di ricerca molto utilizzati nella navigazione su internet.

La motivazione a documentarsi, a interrogarsi, a immaginare ipotesi risolutive, a indagare e anche semplicemente a leggere può originarsi in «modo intrinseco solo se queste attività vengono comprese come necessarie per capire i mondi con cui si entra in contatto». Se l’intenzione è capire, non è sufficiente porsi di fronte a un testo, bisogna «costruire il proprio testo esplorando altri testi alla ricerca, in primo luogo, di ciò che non si capisce».
Tentare di motivare alla lettura attraverso la proclamazione della sua importanza, l’imposizione della sua realizzazione, la gratificazione del suo essere compiuta si rivelano, pressoché sempre, operazioni non sufficienti a produrre un’abitudine duratura nel ricorrere al documentarsi per conoscere, per capire, perché «non si basano su alcun bisogno del soggetto che dovrebbe compiere l’atto di leggere».
Attualmente in Italia la formazione scolastica «non riesce a trasmettere un approccio metodologico alla ricerca bibliografica» e, soprattutto, «non sempre aiuta a comprendere l’importanza di buoni documenti» per la ricerca e per l’approfondimento «per la vita, per il lavoro, per le scelte importanti».
Tra le convinzioni comuni c’è quasi sempre l’idea, «ben nota ai docenti e ai bibliotecari», che la rete, «o meglio un indifferenziato Google», sia la fonte documentale unica. Naturalmente non è così. È necessario dunque cominciare a trasmettere con fermezza l’idea che l’importante non è solo ottenere delle risposte immediate, indistinte e omogenee, bensì imparare a valutare «quali strumenti potrebbero aiutarci a raggiungere delle informazioni rilevanti, oltre che corrette». E così internet, invece che essere il mezzo attraverso cui si accede, «con approcci specifici, a libri elettronici, articoli scientifici da acquistare, preziosa documentazione di fonte pubblica, documenti open access da consultare, migliaia di cataloghi di biblioteche nel mondo da interrogare,» … diventa un tutto indistinto, in cui il recupero è affidato al «funzionamento di algoritmi non noti o all’uso di pochissime fonti note».
Queste alcune delle importanti indicazioni illustrate da Piero Cavaleri e Laura Ballestra nel Manuale per la didattica della ricerca documentale (Editrice Bibliografica, 2014).
L’obiettivo è quello di rendere gli studenti consapevoli del processo che conduce a «una trasformazione dei dati informativi in reali conoscenza e cultura». Consapevolezze e competenze che il personale docente dovrebbe già aver acquisito.

La lezione di Roberto Tassi del 2015, raccolta da Ugo Fantasia nel testo Luciano Canfora. Per una storia delle biblioteche ed edita da il Mulino nel 2017 è la miglior risposta possibile al quesito di senso sull’esistenza delle biblioteche.
Nel testo si compiono un’analisi e un’indagine sulle origini e sulla storia delle biblioteche, condotte attraverso i testi antichi e i documenti anche meno noti, tali da diventare esse stesse la testimonianza diretta dell’importanza della conservazione. Dal diventare la ragione evidente per la quale tutto il sapere accumulato non deve andare perduto bensì custodito, coltivato, nutrito, incrementato, fortificato.

«Studiare la storia dei testi significa studiare la storia della realtà bibliotecaria.»

Si fa tanto e presto a dire che bisogna avvicinare i giovani alla lettura. E questo è senz’altro un ottimo proposito. Ma gli adulti quanto leggono? Genitori, insegnanti, dirigenti scolastici, al ministero, la classe politica e dirigente in generale quanto leggono e quanto si documentano in realtà?
L’importanza perentoria delle biblioteche, degli archivi, dei musei e di tutti gli istituti della cultura è innegabile. Ciò che invece va accantonata, dismessa, dimenticata è la convinzione dell’inutilità della cultura e della sua scarsa incidenza sul benessere collettivo, anche economico.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

Andrea Capaccioni, Le biblioteche dell’Università. Storia, Modelli, Tendenze, Maggioli Editore (nuova edizione 2018).

Andrea Capaccioni, Le origini della biblioteca contemporanea. Un istituto in cerca d’identità tra vecchio e nuovo continente (secoli XVII-XIX), Editrice Bibliografica, 2017.

Mauro Guerrini, Tiziana Stagni (a cura di), De Bibliothecariis. Persone, Idee, Linguaggi, Firenze University Press, 2017.

Cecilia Cognini, L’azione culturale della biblioteca pubblica, Editrice Bibliografica, 2014.

John Palfrey, Elena Corradini (traduzione di), BIBLIOTECH. Perché le biblioteche sono importanti più che mai nell’era di Google, Editrice Bibliografica, 2016.

Antonella Agnoli, Le piazze del sapere. Biblioteche e libertà, Editori Laterza, 2014.

Antonella Agnoli, La biblioteca che vorrei. Spazi, Creatività, Partecipazione, Editrice Bibliografica, 2014.

Alfredo Serrai, La biblioteca tra informazione e cultura, Settegiorni Editore, 2016.

Piero Cavaleri, Laura Ballestra, Manuale per la didattica della ricerca documentale, Editrice Bibliografica, 2014.

Anna Maria Mandillo – Giovanna Merola (a cura di), Archivi Biblioteche e Innovazione. Atti del Seminario tenuto a Roma il 28 novembre 2006 (Annale 19/2008 dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli fondata da Giulio Carlo Argan), Iacobelli Editore, 2008.

Massimo Accarisi – Massimo Belotti (a cura di), La biblioteca e il suo pubblico. Centralità dell’utente e servizi d’informazione, Editrice Bibliografica, 1994.

Ugo Fantasia (a cura di), Luciano Canfora. Per una storia delle biblioteche (Lezione Roberto Tassi 2015), il Mulino, 2017.


Articolo apparso sul numero 54 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte


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Ancora minacce al Movimento Agende Rosse – sezione Modena e Brescello. Le attiviste non si arrendono. Che la loro lotta diventi di tutti gli italiani

10 venerdì Ago 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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articolo, mafia

Il 22 luglio scorso attiviste del Movimento antimafia Agende Rosse – sezione di Modena e Brescello allestiscono un banchetto a Serramazzoni nell’ambito del tour Donne contro la mafia–19luglio1992 che vede numerose tappe, oltre a quella nella cittadina emiliana.

Il fomat vede la presenza di donne, impegnate a vario titolo nella lotto contro le mafie, che si prefiggono un unico grande obiettivo: opporsi fermamente a un sistema mafioso che da decenni si è radicato anche nel Nord Italia.

L’incontro-banchetto del 22 luglio prevedeva la trasmissione dei discorsi del 19 luglio, registrati a Palermo in occasione della commemorazione della strage di via D’Amelio, e l’affissionedi striscioni e altro materiale inerente il processo Aemilia.

Secondo quanto riportato anche dalla Gazzetta di Modena, durante la manifestazione pacifica e informativo-divulgativa, alcuni uomini si sono avvicinati al banchetto e, mantenendo sguardi fissi e minacciosi, hanno tentato di dissuadere le attiviste con plateali e inequivocabili gesti dellamano, come a voler dire: “finitela qui e andatevene via subito”. Una foto sarebbe stata scattata, come fosse una segnalazione di schedatura e poi il pedinamento di una delle tre attiviste allorquando si è allontanata, da sola, dal luogo del banchetto.

Sabrina Natali, una delle attiviste che da anni ormai segue l’inchiesta e i dibattimenti in aula del processo Aemilia contro le infiltrazioni della ‘ndrangheta nel Nord Italia, sul suo profilo social ha ringraziato tutti coloro che le hanno mostrato solidarietà. Ha ribadito che “questi segnali di fastidio” sono e restano tali e non riusciranno a intimorire né tantomeno fermare il Movimento, il tour e il lavoro tutto che portano avanti. Fondamentale però è la rete, che deve esserci, e che deve fare quadrato intorno a loro, come a tutti gli attivisti o cronisti minacciati.

Una rete fatta di persone, di parole e di azioni concrete. Una rete che deve, o meglio dovrebbe, passare anche attraverso l’informazione, i media. Perché quanto sta accadendo in Emilia Romagna non è molto dissimile da quanto accade in Calabria, in Puglia, in Campania, in Sicilia, in Lombardia, in Veneto… e tentare, inutilmente, di catalogare i fatti come fraintendimenti, le azioni come visionarie e paranoiche immagini di pochi, le inchieste e i processi come una persecuzione giudiziaria, di fatto, non cambierà la realtà delle cose e non renderà l’Emilia Romagna e l’Italia intera un posto migliore solo perché, per non urtare interessi, turismo e commercio, si sceglie e si preferisce non parlare, non vedere, non capire. O meglio fingere di non vedere e non capire.

Al banchetto era presente anche Catia Silva, ex-consigliere al comune di Brescello, primo nel Nord Italia a essere stato sciolto per mafia, più volte oggetto di minaccia.

La tempestiva comunicazione alle forze dell’ordine di quanto accaduto durante il banchetto del 22 luglio ha reso possibile l‘immediato inizio delle attività investigative. Intanto le attiviste dichiarano di non avere intenzione alcuna di arretrare e confermano un nuovo incontro a Serramazzoni per il 19 agosto e la presenza costante in aula alla ripresa delle udienze per il processo Aemilia a partire dal 6 settembre.

Ecco perché la rete della comunità deve farsi ancora più forte e folta e quella dei media ancora più luminosa, affinché una accecante luce abbagli anche l’ombra di tutta quella zona grigia che vorrebbe e chiede invece profilo basso e silenzio per continuare ad agire indisturbata.


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The Corporation e Piigs: fin dove si spingono i tentacoli del libero mercato? È questa l’Europa che vogliamo?

05 martedì Giu 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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articolo, Europa, Italia, italiani, NWO, Piigs, TheCorporation, USA

La questione in fondo si riduce a due semplici quesiti: fin dove sono disposti ad arrivare i business men per raggiungere il loro tanto agognato profitto? Fino a che punto cittadini e governi sono disposti a rinunciare a doveri e diritti pur di rispettare le impunite leggi del libero mercato?

Originariamente il ruolo e lo scopo delle Corporation era tutt’altro rispetto a quello attuale e somigliava più a una cordata di persone o società che appaltavano un grosso lavoro dallo Stato, il quale stabiliva rigidamente tempi, costi e regole. Così sono stati costruiti la gran parte dei ponti americani e le immense ferrovie che attraversano il Paese.
Oggi sono persone giuridiche cui vengono riconosciuti tutti i diritti delle persone e anche più, in quanto sono indicate come particolari. Per legge hanno il solo scopo di tutelare gli azionisti e non la comunità o la forza lavoro. «Non hanno un’anima da salvare o un corpo da incarcerare» e sono prive di «coscienza morale» come sottolinea Noam Chomsky, uno dei tanti intervistati del documentario The Corporation appunto, prodotto da Jennifer Abbott, Mark Achbar e Joel Bakan nel 2003.

La Corporation è ormai un’istituzione dominante nella realtà contemporanea. Grandi, enormi società di capitali con poteri altrettanto sconfinati e controlli sempre più limitati.
Le Corporation oggi sono globali ed essendo tali, in sostanza, i governi hanno perso qualsiasi forma di controllo su di loro. A dirlo è l’ex amministratore delegato della Goodyear, una delle Corporation che si scoprì aveva preso parte al complotto ordito per spodestare il presidente Roosevelt. Oggi queste azioni, questi complotti sono inutili perché «il Capitalismo è il padrone incontrastato». Rappresenta ormai a tutti gli effetti «l’Oligarchia regnante del nostro sistema».

Un sistema che nel 2008 ha portato il mondo intero ad affrontare una delle crisi economiche più terribili mai presentatesi dove, ancora una volta, a rimetterci sono stati i deboli e i meno furbi. In Europa, per esempio, a farne le spese sono stati i Paesi additati come deboli o peggio come piigs. Infelice acronimo che voleva sottolineare le porcine economy dei Paesi con un’economia debole e un debito pubblico insostenibile, «i Paesi maiali sono Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna». Un acronimo che è diventato anche il titolo del documentario di Adriano Cutraro, Federico Greco, Mirko Melchiorre girato nel 2017.

Come il documentario The Corporation anche Piigs risulta essere molto illuminante per quello che si scopre e non si conosceva e per quello che viene invece confermato da chi, magari, in altre sedi tende a negare o minimizzare.

Stefano Fassina sostiene che la distinzione tra economie forti e deboli all’interno dell’eurozona, e che dà adito a stereotipi e luoghi comuni duri da scalfire, sia in realtà «una lettura strumentale» fatta, «come sempre avviene nella Storia, da chi è più forte, da chi orienta la comunicazione, da chi orienta l’interpretazione» e lo fa per «scaricare su una parte problemi che invece erano sistemici». E va avanti sottolineando il fatto che i Paesi virtuosi erano tali proprio per i problemi dei Paesi periferici: «la Germania cresceva per le esportazioni e la Grecia, che era in debito, riceveva dei prestiti perché qualcuno premeva per importare Mercedes dalla Germania».

Chi esercitava dette pressioni? Gli interessi di chi stanno tutelando in questo modo gli Stati e l’UE?
Possiamo ipotizzare che anche in Europa le Corporation, che chiamiamo Multinazionali o Società di Capitali, si beffano dei diritti dei cittadini e delle leggi per raggiungere i loro tanto amati profitti? Ma laddove i Governi accettano e acconsentono il loro “gioco” non vengono minati i principi fondamentali della Democrazia?

Yanis Varoufakis sostiene che, in realtà, «la Democrazia non è mai stata la caratteristica principale dell’Unione Europea». E racconta nel dettaglio le risposte che si è sentito dare nel momento in cui vi si è recato per contrattare i termini di una eventuale soluzione per il suo Paese. Soluzione che per molti versi poteva sembrare una vera e propria punizione, per un popolo, quello greco, che aveva osato alzare la testa e la voce contro i ferrei diktat dell’austerity. Per esempio, l’Europa nello «spostare le perdite delle banche sulle spalle dei contribuenti più deboli ha rivelato il suo autoritarismo».

Sergio Mattarella lo scorso 26 maggio ha sottolineato come la funzione e il ruolo del Presidente della Repubblica sia di garanzia e non può quindi né deve subire imposizioni di alcun tipo, dichiarando di poter accettare tutte le nomine proposte tranne quella del Ministro dell’Economia. «La designazione del Ministro dell’Economia costituisce sempre un messaggio immediato di fiducia o di allarme per gli operatori economici e finanziari». L’incertezza della nostra posizione nell’euro «ha posto in allarme gli investitori e i risparmiatori italiani e stranieri che hanno investito nei nostri titoli di Stato e nelle nostre aziende».

Paolo Barnard, sempre all’interno del documentario Piigs, afferma che il debito pubblico è un problema quando uno stato contrae passivi con una moneta non sua. Gli fanno eco Stephanie Kelton e Paul De Grawe. «I Paesi eurozona riscuotono le tasse in euro, spendono in euro ma non hanno sovranità monetaria». Il risultato di questo è che «i mercati possono mettere in sofferenza lo Stato italiano, vendendo in massa i titoli sapendo che il governo non ha euro per ripagare i detentori dei titoli».

Federico Rampini invece sottolinea la necessità di «riprendere l’economia perché è il nostro futuro». E rimarca «l’analfabetismo economico» di cui soffrono gli italiani. Che non suona tanto come un’offesa quanto come una mera constatazione del fatto che si stenta a capire i concetti base di economia. Si continua a credere che tutto ciò che riguarda l’economia rimanga «nel mondo magico» della stessa. Bisogna invece iniziare a riflettere sul fatto che «tutto è economia»: le guerre, lo sfruttamento, l’abbandono dello stato sociale, della sanità, dell’istruzione…

Per i broker di Wall Street l’Undici Settembre è stata una «benedizione camuffata». Tutti quelli che non erano nelle Torri Gemelle e si sono salvati hanno immediatamente investito in oro e hanno raddoppiato il capitale. A raccontarlo alla telecamera degli operatori di The Corporation è un broker di Wall Street.
Quando l’America bombardò l’Iraq nel 1991, tutti i broker tifavano affinché Saddam Hussein continuasse a dare problemi, a incendiare pozzi, così il prezzo del petrolio sarebbe continuato a salire e loro a guadagnare. «Noi speravamo in una pioggia di bombe su Saddam». Quella, al pari dell’Undici Settembre, era una tragedia, una vera e propria catastrofe con bombardamenti, guerre, morti… il broker si rende conto di questo ma ammette che anche «la devastazione crea opportunità».

Fin dove si spingono questi operatori dei mercati, mediatori o investitori che siano? Esiste un limite oltre il quale si rifiutano di pescare nel torbido?

Stando ai dati forniti da un Rapporto del Dipartimento del Tesoro, in una sola settimana 56 Corporation americane sono state multate per aver commerciato con nemici ufficiali degli Stati Uniti, «compresi terroristi, tiranni e regimi dittatoriali». Le Corporation sono in grado di produrre grande ricchezza ma anche «enormi danni, molto spesso taciuti».

Le politiche governative e statali non possono e non devono piegarsi sempre e comunque agli umori del libero mercato, in considerazione anche e soprattutto del fatto che a guadagnarci, come anche a rimetterci, sono sempre gli stessi. Da un lato le grandi società di capitali, gli investitori e i broker e dall’altro i piccoli investitori e le popolazioni.
Ancora il Presidente Mattarella, sempre nel corso dell’intervento per motivare la bocciatura di Paolo Savona a Ministro dell’Economia, sottolinea come la manifesta volontà di uscire dall’euro è cosa ben diversa «da un atteggiamento vigoroso, nell’ambito dell’Unione Europea, per cambiarla in meglio dal punto di vista italiano». E i cambiamenti necessari da porre in essere sarebbero davvero tanti.

A chiusura del documentario Piigs c’è la lunga e amara analisi di Giuliano Amato sulla sovranità monetaria e su quella economica dei Paesi membri e dell’intera Unione Europea. Egli stesso ammette che la soluzione da loro trovata e poi posta in essere è stata sconsigliata da molti economisti, specie americani. «La vostra Banca Centrale se non è la Banca Centrale di uno Stato non può assolvere alla stessa funzione a cui assolve la Banca Centrale di uno Stato che, quando lo Stato lo decide, diventa il pagatore senza limiti di ultima istanza». Che poi è quanto affermato anche da Paolo Barnard. Ma gli “architetti” ideatori dell’eurozona, tra cui appunto lo stesso Amato, non hanno voluto dar retta a questi economisti, stabilendo addirittura nei Trattati dei «vincoli che impedissero di aiutare chi era in difficoltà». L’Unione Europea in sostanza non si assume la responsabilità degli impegni dei singoli stati e la Banca Centrale Europea non può comprare direttamente i titoli pubblici dei singoli stati. Non sono previste agevolazioni creditizie e finanziarie per i singoli stati… insomma, moneta unica dell’eurozona ma ciascuno deve essere in grado di provvedere a se stesso. «Era davvero difficile che funzionasse e ne abbiamo visto tutti i problemi», chiosa Giuliano Amato.

«Certo che ci saranno trasferimenti di sovranità. Ma non sarebbe intelligente da parte mia richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su questo» (Jean-Claude Juncker, Presidente della Commissione Europea, Europe Agency, 24 giugno 2007).

I problemi, che già sapevano esserci in potenza, sono aumentati notevolmente dopo la crisi del 2008 ma, soprattutto, in conseguenza delle misure intraprese per “superarla”. Politiche che, nell’opinione di Stefano Fassina, «hanno aggravato i problemi invece di risolverli».
Si pensi, per esempio, al Fiscal Compact. Il Patto di Pareggio di Bilancio. L’anticristo del Bilancio di un’istituzione pubblica che, paradossalmente, può garantire maggiore benessere ai cittadini lavorando in sofferenza. Perché l’istituzione pubblica è l’unica società esistente al mondo che non ha scopo di lucro, quindi non opera per il profitto ma per i servizi ai cittadini. Basti pensare al New Deal lanciato dal Presidente americano Roosevelt che, forse anche per politiche come questa, si inimicò le Corporation che tramarono per destituirlo.
«Il pareggio di Bilancio dà priorità alla stabilità dei prezzi mettendo in secondo piano il diritto al lavoro, alla salute e a un salario dignitoso… per esempio».

Ma se tutti sapevano l’inutilità, o meglio la nocività di questi provvedimenti per i singoli Stati e, soprattutto, per i cittadini, perché sono stati posti in essere comunque? Sono stati imposti a reale beneficio di chi? Del mercato? Delle Corporation, che in Europa diventano le Multinazionali?

A seguito del veto del Presidente Mattarella, il capo politico del Movimento Cinque Stelle Luigi Di Maio diffonde un video nel quale sottolinea che il governo del cambiamento sia stato stoppato non per Paolo Savona e l’impossibilità di trovargli un sostituto, bensì perché chiunque, nel corso della sua carriera, fosse stato in qualche misura critico sull’euro non andava bene. Non poteva andare bene. «Se siamo in queste condizioni non siamo in una Democrazia libera». Nel Contratto di Governo non c’è l’uscita dall’euro, è prevista la modifica dei Trattati, la rivisitazione di alcune regole europee. Il veto quindi si basava su opinioni non su reali intenzioni. Eppure il tutto andava fermato o cambiato. Perché?

Nel momento stesso in cui Luigi Di Maio ha palesato l’eventualità di procedere con l’iter per la messa in stato di accusa del Presidente il dibattito sui media ma, soprattutto, sui social si è infervorato generando due aperte fazioni che, prontamente, si sono schierate a favore o contro Sergio Mattarella. Gli interventi vertevano tutti o quasi sul diritto costituzionale o meno che aveva o che ha il Presidente della Repubblica di opporsi alla nomina di un singolo Ministro e su quali motivazioni detta scelta debba basarsi. Nessuno però o quasi si è posto l’unico interrogativo utile, ovvero: i mercati e gli investitori sono una motivazione valida?
La risposta è arrivata, qualche giorno più tardi le dichiarazioni di Mattarella, da Günther Oettinger, commissario UE al Bilancio: «I mercati insegneranno agli italiani a votare nella giusta direzione» (“The markets will teach the Italians to vote for the right thing”). Il giornalista Bernd Thomas Riegert ha poi rimosso questo tweet e lo ha sostituito adducendo come motivazione il fatto di non aver riportato fedelmente la citazione di Oettinger. Il succo di quanto scrive in seguito non si discosta poi tanto dalla prima versione. Si tratta semplicemente di un messaggio meno chiaro, meno esplicito ma di eguale sostanza.
Un modo meno “aggressivo” di dire la stessa cosa, diciamo nei termini usati anche dal Presidente Mattarella.

Gli italiani però si sono offesi per le sue parole, quelle del commissario UE, e questi allora si è pubblicamente scusato. Va bene, scuse accettate ma la sostanza non cambia. È vero oppure non lo è che i mercati influenzano i governi? È vero oppure non lo è che se un Ministro dell’Economia non piace ai mercati il ministro non lo può fare? È vero oppure non lo è che, se i singoli Paesi mantengono la responsabilità sui debiti pubblici pur avendo abbandonato la sovranità monetaria, è necessario quantomeno rinegoziare i Trattati?

Nell’intervista rilasciata per il documentario Piigs, Noam Chomsky evidenzia quanto sia «interessante osservare le reazioni in Europa quando qualche politico suggerisce che forse la gente dovrebbe avere voce su ciò che la riguarda». Citando, per esempio, i Referendum popolari indetti in Grecia nel 2015. «La reazione è stata di incredulità: Come osate chiedere alla gente cosa deve accadergli? Non sono affari loro. Devono seguire gli ordini. Prendiamo noi le decisioni…».
Yanis Varoufakis ricorda che al primo Eurogruppo cui ha presenziato propose un accordo, un compromesso tra la Troika e il Governo greco, «a metà tra le loro imposizioni e il mandato elettorale». Wolfgang Schauble rispose: «Le elezioni non possono essere permesse se modificano il programma economico della Grecia».

«La Grecia è stata selvaggiamente punita per aver osato chiedere un Referendum e i tecnocrati europei hanno imposto misure ancora più dure, per togliere loro dalla testa l’idea folle che la democrazia possa avere un qualche valore». (Noam Chomsky)

Fin dove si spingono i tentacoli del libero mercato? È questa l’Europa che vogliamo?


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“Il collasso della modernizzazione: dal crollo del socialismo di caserma alla crisi dell’economia mondiale” di Robert Kurz (Mimesis, 2017 a cura di Samuele Cerea) 


 

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Scuola dell’Infanzia violata da maltrattamenti e abusi. Come fermare tanta rabbia?

22 giovedì Mar 2018

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articolo, paura, RinnovamentoCulturaleItaliano, violenza

Dalla onlus La via dei colori, fondata e presieduta da Ilaria Maggi, avvertono di usare con cautela termini come maltrattamenti e abusi, almeno fin quando non si hanno prove certe di quanto può rivelarsi solo un’apprensione esagerata o un fraintendimento. Esistono dei campanelli d’allarme, sintomi specifici che connotano in maniera pressoché inequivocabile una situazione d’abuso. Questi campanelli però sembra che li ascoltino troppi genitori.

Dal dicembre 2010 al marzo 2017, La via dei colori ha preso in carico circa 95 processi per reati di maltrattamento (572 cp), abuso dei mezzi di correzione (571), abuso sessuale e pedofilia. 95 processi, non segnalazioni o denunce. Sul sito ministeriale si legge che, per quanto riguarda la scuola dell’infanzia, è previsto un numero minimo di 18 e uno massimo di 26 bambini per classe. Considerando una semplice media ponderale di 22 bambini se ne deduce che nei 95 processi seguiti dalla onlus sono coinvolti, a vario titolo, almeno 2090 alunni. La via dei colori non è l’unica associazione che si occupa di questo e i tribunali in Italia sono tantissimi… Si arriva così a cifre spaventosamente alte da indurre immediatamente a chiedersi cosa in concreto è stato fatto per prevenire ulteriori aggressioni e maltrattamenti, denunce e processi.

Sembra impossibile reperire, forse perché non esiste, un dossier, un report ufficiale, un’indagine conoscitiva istituzionale sulla situazione scolastica italiana, o meglio sulle qualifiche degli insegnanti, sulle procedure di valutazione, se ce ne sono, e sui dati relativi ai maltrattamenti e agli abusi ma soprattutto sulle conseguenze a lungo termine. Sulle innocenti vittime certo ma anche su chi le ha generate. Che fine fanno questi insegnanti?

I casi balzati alla cronaca che hanno destato maggiore clamore sono stati sovente accompagnati da spezzoni di video delle riprese effettuate dalle telecamere nascoste posizionate dalle forze dell’ordine. Immagini che colpiscono soprattutto per le urla, tante urla da parte delle o degli insegnanti. I locali di quelle scuole hanno l’isolamento acustico? Difficile a credersi. Come arduo è pensare che nessuno sentisse. Non si denuncia per omertà o perché lo si considera un atteggiamento educativo normale? In entrambi i casi si parla di situazione terrificante inammissibile e inaccettabile.

In un’intervista rilasciata per ilfattoquotidiano.it, la Maggi parla di circa 13 segnalazioni al giorno ricevute al numero verde dell’associazione. Non sempre si tratta di reati già commessi certo ma nel corso della loro attività hanno scoperto di «insegnanti che li tengono legati, che fanno mangiare loro il cibo vomitato e che usano percosse non solo con le mani. Le vessazioni sono all’ordine del giorno».

Più di una volta è capitato che i dirigenti dell’istituto coinvolto hanno provato a giustificarsi adducendo di non sapere, di non essere a conoscenza e di non essersi mai resi conto… scusanti che, in ogni caso, non li esimono dalla responsabilità legale e, soprattutto, morale di quanto accaduto. La legge italiana non ammette ignoranza, neanche noncuranza e mai come in questi casi così deve essere.

Violenze non solo fisiche ma anche psicologiche sono state documentate in diversi asili nido, con «urla sistematiche e cibo spesso raccolto da terra e imboccato a forza erano purtroppo la norma per una ventina di spaventatissimi bambini, troppo piccoli per reagire o solo per parlare con i genitori». Agghiacciante il resoconto che rovigooggi.it fa di quanto accaduto nell’asilo dove l’intero corpo docente, composto da tre maestre, è risultato coinvolto. Violenze fisiche e psicologiche protratte su bambini di età compresa tra uno e tre anni.

Sembra che oltre al danno ci si diverta quasi ad aggiungere anche la beffa allorquando si tenta di giustificare i comportamenti ritenuti “meno gravi” come reminiscenza di una formazione e, conseguentemente, di un’educazione all’antica. Il fatto è che non conta se e quando era in vigore o di uso comune una simile tipologia di educazione, in famiglia o a scuola, il punto è che nel Terzo Millennio è assolutamente inaccettabile anche solo credere di poter giustificare una tal simile mancanza di correttezza e professionalità in educatori ed educatrici che sono, in un certo senso, figure istituzionali perché si occupano, o dovrebbero farlo, dell’educazione di coloro che saranno i cittadini futuro dello Stato, che direttamente o indirettamente, tra l’altro, garantisce loro il posto di lavoro e il salario.

Lavorare a stretto contatto con i minori di anni sei richiede una preparazione e delle conoscenze che non riguardano solo la sfera della didattica, abbracciando invece campi che vanno dalla psicologia alla medicina in senso stretto. Gli operatori de La via dei colori sottolineano l’importanza di conoscere aspetti e caratteristiche del funzionamento del corpo umano anche per evitare di causare danni involontari ma che potrebbero egualmente essere gravi e irreversibili per i piccoli alunni.

Shaken Baby Syndrome, ovvero la ‘sindrome da bambino scosso‘ può essere una terribile conseguenza di un gesto che in pochi sanno o ritengono essere potenzialmente molto pericoloso. Il cervello dei neonati e dei bambini molto piccoli è ancora immaturo e lo scuotimento con brusche accelerazioni e decelerazioni del capo causa o può causare lesioni di tipo meccanico all’encefalo.

Il 21 novembre 2013 La via dei colori ha lanciato, a tal proposito, l’iniziativa #iostoconMattia per sensibilizzare genitori e insegnanti «sulla Shaken Baby Syndrome che ha ucciso il piccolo Mattia» e anche per fare in modo che la triste vicenda di Mattia Pierinelli, per troppo tempo passata in sordina, continui a essere raccontata sia come riscatto che come monito a non sbagliare più.

Negli Stati Uniti 30 bambini ogni 100mila nati l’anno subiscono gravi danni a causa della ‘sindrome da bambino scosso’. In Italia mancano dati ufficiali ma «tutte le strutture ospedaliere più avanzate per la diagnosi precoce del maltrattamento sui bambini ci confermano la necessità di avviare un’ampia azione informativa per la prevenzione». A dirlo è Federica Giannotta, responsabile Advocacy e Programmi Italia di Terre des Hommes, che ha lanciato la prima campagna di sensibilizzazione su questa sindrome, “Non scuoterlo!”, con uno spot tv e un sito informativo dedicato.

La scusante più frequente al comportamento aggressivo degli insegnati è la diseducazione o mala-educazione dei bambini che assumerebbero atteggiamenti ingestibili, emulati anche dai soggetti più remissivi, generando il caos in classe. Sottolineando che bisogna anche tenere presente le condizioni precarie e oggettivamente difficili nelle quali sono costretti a operare i docenti. E la soluzione che avrebbero trovato è aggredire i bambini? Viene da sé che questo ragionamento, portato avanti da chi vuol difendere l’indifendibile, non convince neanche un po’. Se ci sono dei bambini con deficit comportamentali non è aggredendoli che la situazione migliora. Se ci sono carenze strutturali e di organico sul posto di lavoro non è aggredendo i piccoli ospiti della struttura che si migliorano le cose.

Si dice che la violenza è lo strumento preferito di chi non ha a disposizione altri strumenti. E gli insegnanti di strumenti e metodi dovrebbero averne molti altri e differenti. Soprattutto con i bambini piccoli, piccolissimi e in età da asilo nido.

L’ordinamento giuridico italiano pone tra i diritti fondamentali e inviolabili dell’uomo il pieno sviluppo della persona umana. L’articolo 13 della Costituzione sancisce che “la libertà personale è inviolabile”. La Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nell’articolo 2 consacra espressamente “il diritto alla vita”. Quando si parla di persona o di uomo bisogna leggere ogni cittadino di qualunque sesso o età anagrafica. Maltrattare verbalmente, psicologicamente e/o fisicamente un bambino è una grave violazione della sua libertà, della sua persona e dei suoi diritti umani.

Nel pieno di un dibattito pubblico e mediatico sulla sicurezza dei bambini dietro le porte chiuse delle aule, la segreteria nazionale della Federazione Italiana Scuole Materne (FISM) diffonde una nota nella quale, pur dichiarando di comprendere le preoccupazioni dei genitori, ritiene che «la richiesta di introdurre negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia sistemi di videosorveglianza allo scopo di prevenire comportamenti di violenza e maltrattamenti sui bambini da un lato non risolverebbe la preoccupazione, dall’altro darebbe origine ad altre questioni di non poco conto». La telecamera «disincentiva, quando non sostituisce, il dialogo, l’ascolto, la relazione indispensabili tra scuola e famiglia». Non sarebbe quindi necessario l’uso di questo strumento per ‘controllare’ «come gli insegnanti impostano e realizzano il lavoro educativo». Molto meglio sarebbe, a parer loro, il confronto, il dialogo, la parola… I genitori «devono essere aiutati a imparare a partecipare alla vita della scuola», perché «devono essere aiutati a imparare a ‘vedere’, leggere, capire, direttamente nei/dai loro figli la presenza di eventuali problemi e non guardare la loro esperienza di vita scolastica attraverso una telecamera».

Il punto è che proprio attraverso la ‘lettura’ del comportamento dei propri figli i tanti genitori che hanno denunciato si sono accorti di quanto in realtà accadeva a scuola. Dopo che era accaduto. Invece di insistere tanto sul voler aiutare i genitori a ‘vedere’ i segnali di pericolo perché non si tenta di studiare un modo per prevenire i danni? Si può anche convenire che l’uso delle telecamere non sia la migliore delle soluzioni ma almeno si focalizzi sulla prevenzione, perché un bimbo maltrattato non è un danno collaterale ma il nocciolo della questione.

Una posizione che ricalca quella del garante della privacy espressosi in merito alla legge 2574 (Prevenzione abusi in asili e case di cura) ma che, forse, la minimizza troppo. Per Antonello Soro infatti non bisogna «inseguire le scorciatoie tecnologiche come esclusiva risposta ai problemi complessi» ma è importante sottolineare come «anche uno solo di questi episodi costituisce motivo di apprensione e di grave allarme sociale». Dovrebbe. Invece si rabbrividisce a leggere la voce pressoché univoca di coloro che operano a vario titolo nel comparto scolastico e che, pressoché all’unisono, definiscono il sistema scolastico nazionale un ambiente “sano” e un’istituzione che funziona “bene”, certo l’esistenza di mele marce, anche alla luce dei processi e delle sentenze giudiziarie, non può essere negata ma di casi isolati vogliono si tratti.

La realtà e l’onestà intellettuale invece vorrebbero che a fronte di maltrattamenti visti, sentiti e taciuti ognuno di questi operatori si passasse una mano sulla coscienza. Perché l’omertà difronte a un reato, anche laddove non è punibile legalmente, lo è per certo moralmente.

«La tecnica non potrà mai sostituire “l’uomo”, nessuna telecamera potrà mai sopperire a carenze insite nella scelta e nella formazione del personale deputato all’educazione e all’assistenza di soggetti particolarmente vulnerabili». Necessario quindi seguire le indicazioni del «disegno di legge approvato» volte a «introdurre sistemi di controlli più articolati ed efficaci che coinvolgano attivamente il personale tutto e, se del caso, le famiglie stesse».

Nel ddl 2574 infatti si parla di accurati metodi di valutazione dei requisiti all’atto dell’assunzione e di successivi e continuati processi formativi e di aggiornamento. Sostegno e ricollocamento per chi risulta non idoneo. Persiste il solito intoppo che dalle modifiche apportate «non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica» che stride notevolmente quando si parla di strutture pubbliche, statali o comunali. Nel testo ci si sofferma poi sull’utilizzo e sui modi di impiego delle telecamere di sorveglianza e sugli oneri finanziari, null’altro su requisiti, formazione e aggiornamento degli operatori.

Il quadro che emerge dall’osservazione di questo grave allarme sociale dipinge i tratti a tinte forti di una formazione (quella degli operatori) che cerca di fare il più possibile quadrato per difendere la categoria e anche il posto di lavoro, che si indispone e assume un atteggiamento ostile per ogni critica o accusa, continuando ad accumulare in questo modo rabbia e frustrazione. Per contro c’è la ressa dei genitori, intimoriti e spaventati, impossibilitati a ottenere garanzie certe e vessati dalla necessità di affidare i propri figli a queste strutture, diversamente non avrebbero a chi affidarli durante quelle ore. Anche in loro questa situazione genera rabbia e frustrazione. Quasi marginale appare la figura di questi piccoli che sembrano non avere voce e non solo perché per molti di loro è prematuro anche il solo saper parlare.

Lo Stress Lavoro Correlato è «la percezione di squilibrio avvertita dal lavoratore quando le richieste del contenuto, dell’organizzazione e dell’ambiente di lavoro, eccedono le capacità individuali per fronteggiare tali richieste», secondo la definizione datane dalla European Agency for Safety and Health at Work (EU-OSHA). Le categorie professionali più interessate dallo Stress Lavoro Correlato sono:
Medici
Infermieri
Poliziotti
Assistenti Sociali
Insegnanti
Autotrasportatori

Lasciando da parte un attimo le professioni sanitarie, immaginiamo che dei poliziotti sfoghino tutto l’eccesso di rabbia accumulata e il senso di frustrazione su vittime, a caso, inermi. Tipo quanto accaduto alla scuola Diaz dopo il G8 di Genova. Oppure che un autotrasportatore dia di matto e sfoghi tutto lo stress accumulato verso ignari automobilisti che, per caso, lo incontrano lungo le strade percorse. Anche i bambini che subiscono maltrattamenti sono vittime casuali. Visionando gli spezzoni di video delle riprese delle camere posizionate dalle forze dell’ordine si può osservare che si tratta, semplicemente, di bambini, con i loro atteggiamenti e le loro peculiarità. Niente di più e niente di meno.

Il voler cercare a tutti i costi di ridimensionare quanto sta accadendo, considerando gli eventi come esempi isolati e non come un grave allarme sociale rischia di ingigantire il problema piuttosto che arginarlo. Poi succede che i genitori, esasperati, cercano di farsi giustizia da soli, cercano la vendetta e per trovarla usano a loro volta la violenza.

Ilaria Maggi de La via dei colori, lei stessa genitore di un bambino maltrattato a scuola, lancia un accorato appello affinché episodi del genere non si verifichino più: «non solo corriamo il rischio di inficiare il processo, che è la giusta sede per punire i maltrattamenti, ma incorriamo nel grave errore di non dare il buon esempio. I nostri bambini hanno già conosciuto la violenza e meritano da noi un esempio diverso». Eguali parole sarebbe stato utile ascoltare o leggere da tutti quegli operatori che si ritengono la parte buona del ben funzionante sistema scolastico nazionale e sarebbe stata già una ottima base di partenza per contrastare il fenomeno. Il persistente tentativo diffuso di minimizzare, di negare, di distrarre oltre a confermare una carenza o una mancanza addirittura di professionalità, non fa altro che alimentare il fuoco della rabbia e della frustrazione, di entrambe le posizioni.


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La responsabilità globale del ‘deserto esistenziale’ de “L’infanzia nelle guerre del Novecento” di Bruno Maida (Giulio Einaudi Editore, 2017) 

La preparazione degli insegnanti italiani. La verità 


 

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Guerre dichiarate e guerre segrete. Analisi geostrategica della guerra delle informazioni combattuta nel conflitto civile siriano

17 sabato Mar 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli, Recensioni

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I governi di tutto il mondo basano le proprie decisioni sui rapporti informativi dei servizi di intelligence, strutture di sicurezza cui spetta il compito di reperire tutte le informazioni possibili necessarie alle autorità per compiere le proprie scelte e prendere le relative decisioni. Un potere enorme racchiuso nelle mani di una rete di persone pressoché invisibili, ma che esistono e agiscono, anche se all’ombra di governi e istituzioni, determinandone però la linea e le iniziative. Andrea Foffano, docente di sicurezza e intelligence presso ASCE e ANVU-ISOPOL, sottolinea come alcune notizie di carattere internazionale sono in grado di poter stabilire l’andamento politico, sociale ed economico di un’intera comunità nazionale. Anche laddove queste informazioni fossero volutamente forzate o addirittura falsate. Infatti, uno dei principi cardine dell’attività d’intelligence, svolta da tutti i servizi di informazione del mondo, non è altro che l’imperativo: usa tutto e tutti per raggiungere i tuoi scopi.
Quali sono allora gli scopi dei servizi di intelligence e quali quelli degli stati per cui lavorano?

Per esemplificare il lavoro svolto da servizi segreti e governi Foffano analizza il conflitto civile siriano partendo da quanto accaduto due anni prima l’inizio della guerra. Ovvero allorquando nel tratto di mare compreso tra l’Iran e la penisola del Qatar, fu scoperto uno dei più grandi giacimenti energetici di gas naturale, usufruibile da entrambi i Paesi. La Siria, al cui governo si trovavano gli Alauiti del Presidente Bashar al-Assad, fedeli alleati degli Sciiti iraniani, negò il consenso al transito delle strutture di trasporto sul proprio territorio nazionale per la Qatar-Turkey pipeline, che avrebbe dovuto collegare l’Europa con il Qatar. Mentre diede il proprio consenso per il passaggio dell’Islamic pipeline progettato dall’Iran. Washington decise di intervenire in difesa dei propri alleati (Qatar e Arabia Saudita) e iniziò a sostenere militarmente le fazioni ribelli che, dopo l’avvento della Primavera Araba in Siria, avevano iniziato a opporsi al regime di Assad. Parallelamente, l’Arabia Saudita iniziò a finanziare in modo massiccio molti dei gruppi terroristici e jihadisti che si opponevano allo stesso regime.

Secondo quanto riportato in un’inchiesta del NewYork Times, l’Arabia Saudita avrebbe finanziato la guerra segreta della CIA in maniera continua e massiccia, si parla di circa un miliardo di dollari da parte degli Stati Uniti e svariati miliardi di dollari provenienti da ricchi e anonimi finanziatori sauditi. Un servizio segreto estero che fornisce sistemi d’arma di ultima generazione a gruppi ribelli divenuti poi estremisti, jihadisti, terroristi è di sicuro una scomoda verità. Modi di agire che ricordano molto, forse troppo, la guerra russa in Afghanistan, con gli americani intenti a sostenere militarmente i Talebani e i Mujaheddin. Americani e sauditi, con il sostegno fondamentale del Pakistan e dei pashtun della zona tribale, avevano creato a Peshàwar il più grande centro jihadista del mondo. Come ricorda Pierre-Jean Luizard, storico e direttore del Centre national de la recherche scientifique, del tempo in cui gli jihadisti erano i nostri eroi che combattevano contro l’Impero del Male, e solo in un secondo momento si trasformarono in barbari che avevano portato il terrorismo nel cuore dell’Occidente.

Per Luizard, il regime siriano ha avuto sempre alcuni difetti agli occhi degli occidentali. In primis per il diniego a una pace con Israele che non prevedesse la restituzione del Golan, occupato dall’esercito ebraico nel 1967. Continua ad avere ottimi rapporti con Mosca, alleato della repubblica sciita dell’Iran e a sostenere militarmente gli Hezbollah, l’unica formazione araba che abbia fermato Israele nella guerra del 2006. Appartiene a quell’asse della resistenza che intende mantenere un’indipendenza dal sistema occidentale alleato con le potenze sunnite del Golfo. Insomma, il nemico perfetto che ha fatto della Siria il terreno ideale per una guerra santa.

Secondo Joshua Landis, uno dei massimi esperti mondiali della politica siriana, circa il 60-80% delle armi che gli Stati Uniti hanno introdotto nel paese sono finiti nelle mani di gruppi terroristici jihadisti riconducibili ad al-Qaeda. Ma se a qualcuno venisse in mente di trovare le prove per accusare gli Stati Uniti di fomentare la guerra in Medio Oriente, avverte Foffano, sappia che andrà incontro a un fallimento certo. Il conflitto in atto in Siria appartiene a una nuova tipologia di guerra: quella per procura, nella quale gli attori in campo mascherano il proprio intervento tramite il sostegno, più o meno indiretto, ad una delle parti in causa. Scontri nei quali il secondo livello, ovvero la guerra delle informazioni, risulta alla fin fine più potente e pericoloso del primo, gli scontri armati sul campo. Almeno per gli Stati che non risultano in apparenza coinvolti direttamente nello scontro perché per quelli direttamente chiamati in causa e soprattutto per le popolazioni ad essi afferenti la situazione naturalmente cambia e anche di molto.

Bana Alabed, la ragazzina che ha fatto conoscere il dolore dei cittadini di Aleppo a tutto il mondo attraverso i suoi tweet inviati ai presidenti di tutte le maggiori potenze mondiali, si chiede come le persone possano essere così crudeli da far diventare, per un bambino, nessun posto sicuro e dedica il libro che racchiude la sua storia a tutti i bambini che soffrono a causa di una guerra, per dire loro che non sono soli, purtroppo. In tanti, in troppi soffrono e subiscono le conseguenze di scelte non proprie, non volute e non condivise in nome di una pace che stenta ad arrivare e a causa di interessi che raramente coincidono con quelli di interi popoli e troppo spesso invece con quelli elitari di ristrette cerchie e categorie di persone.

 

Quei terroristi che in altri scenari operativi sparsi per il mondo gli Stati Uniti stavano combattendo, a prezzo di numerose vittime fra i soldati dell’esercito americano e della coalizione internazionale, anche come conseguenza dell’intervento, diretto o indiretto che sia, degli stessi nel conflitto civile rischiavano di prendere il potere in Siria e allora lo Stato Maggiore decise di servirsi dei servizi segreti di intelligence per passare informazioni militari alle forze armate delle altre nazioni impegnate nel conflitto. Con la certezza che i servizi segreti di Assad avrebbero intercettato il movimento di dati e utilizzato il tutto nella lotta contro gli jihadisti. I cablo del Dipartimento di Stato americano, resi pubblici nel corso degli anni da Wikileaks, avrebbero gettato un fascio di luce su un retroscena assai torbido e buio.

Un rischio enorme quindi quello corso dagli americani. Non si può non chiedersi il perché reale del continuo e persistente intervento degli Stati Uniti in Medio Oriente o in qualsiasi altra parte del mondo si prospetti o si profili una qualsivoglia instabilità. Al termine della cosiddetta Guerra Fredda, gli Stati Uniti sono diventati l’unico polo dominante schierato in campo geopolitico mondiale. L’America è una di quelle nazioni, insieme a tante altre del cosiddetto Occidente, ad aver improntato il proprio sistema economico sulla competitività: non riescono a trovare una sicura e certa stabilità interna, senza ricorrere a nuovi mercati e ad altrettanti investimenti. Lo slogan del ventennio era: “Chi si ferma è perduto!”. Ecco, mai parole furono più adatte a descrivere la situazione di alcune potenze mondiali a ridosso del ventunesimo secolo.

Gli attacchi dell’11 settembre 2001, da questo punto di vista, sono stati un avvenimento strategicamente molto importante. Hanno decretato l’inizio della «guerra al terrore» che ha significato l’invasione dell’Afghanistan, la guerra ai Talebani, l’invasione dell’Iraq, gli interventi in Libia e in Siria. Operazioni nelle quali ogni mossa è politica, è dettata da convenienze economiche e risponde sempre a chiare regole sociali. Giulietto Chiesa, giornalista e politico italiano, considera il terrorismo islamico un prodotto diretto dell’azione coordinata degli occidentali che usa semplicemente i terroristi, che pure esistono, come manodopera che spesso non riesce a capire neanche per chi sta lavorando. L’Occidente ha sempre avuto bisogno di un nemico. L’Unione Sovietica del ventesimo secolo era perfetta in questo senso. Ma, una volta abbattuto il Comunismo sovietico, l’Occidente si è ritrovato senza un nemico da combattere. Senza nemici e con un nuovo gigantesco alleato e vassallo non è riuscito a spiegare al mondo intero come mai l’economia mondiale andava comunque a rotoli. Il problema non sarebbe quindi esterno, bensì interno, nel modello di sviluppo scelto. Il piano messo in atto sarebbe stato quello di sostituire il terrore rosso con il terrore verde. Il terrore rosso non era un’invenzione, era un antagonista serio. Il terrore verde non è un’antagonista, è stato inventato dall’Occidente. È un’ipostasi messa davanti agli occhi della gente per terrorizzarla e costringerla a rifugiarsi sotto l’ala protettrice degli Stati Uniti d’America.

Per Foffano, prima di passare all’analisi oggettiva dei fatti, provando conseguentemente a interpretarli sino a giungere a una spiegazione logica e razionale degli avvenimenti, bisogna forzatamente sgombrare il campo da ogni sorta di pregiudizio politico-ideologico, che potrebbe in qualche modo viziare la nostra intrinseca capacità critica. Quello che Chiesa definisce con parole molto più crude Matrix, con riferimento diretto alla omonima produzione cinematografica. L’Occidente ha forgiato un apparato di comunicazione, attraverso il suo meraviglioso sistema dell’immagine gradevole e dell’immagine in movimento in generale, che è riuscito a modificare profondamente la psicologia della gente. Ha lavorato in tutti i modi possibili e immaginabili alla penetrazione cognitiva nel cervello degli uomini, delle donne e dei bambini soprattutto, modificando la loro percezione del mondo. Il mondo reale è altrove però, fatto in un altro modo, è furibondo, è feroce, è senza tregua. Siamo sistematicamente mitragliati da una sterminata quantità di messaggi gradevoli che uccidono la nostra capacità critica di sentire, di percepire e di conoscere.

Anche quanto sta accadendo o è già accaduto in Siria, per fare un esempio, viene tagliato fuori dall’immagine che del conflitto hanno milioni di occidentali indotti a credere che si stia parlando, solo, dell’ennesima lotta contro il terrorismo, di matrice islamica questa volta, necessaria e imprescindibile per la sicurezza e la stabilità del mondo, occidentale naturalmente.


Bibliografia di riferimento:

A. Foffano, “Siria. La guerra segreta dell’intelligence”, Ed. Solfanelli, 2017
P.J. Luizard, “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna”, Rosenberg&Sellier, 2016
B. Alabed, “Caro mondo”, Tre60, 2017
G. Chiesa, “Putinofobia”, Piemme, 2016


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La nascita dei “mostri” del terrorismo e il rifiuto delle responsabilità dell’Occidente in “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna” di Pierre-Jean Luizard (Rosenberg&Sellier, 2016) 

Il grido dei bambini vittime delle guerre. “Caro mondo” di Bana Alabed (Tre60, 2016) 

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Quando una poltrona in Parlamento conta più della dignità dei cittadini. Campagna elettorale e diritti fondamentali nell’Italia del Terzo Millennio

02 venerdì Mar 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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A ridosso della conclusione dell’ennesima campagna elettorale basata, per la gran parte, su promesse, vere-false buone intenzioni, veri-falsi buoni propositi, allarmismi vari e dominata dall’intramontabile retorica della propaganda, ci è sembrato doveroso analizzare e puntare i riflettori su un aspetto pressoché dimenticato da tutti, o quasi, i candidati alle imminenti parlamentarie: i diritti dei cittadini italiani.

Su una pubblica affissione si legge: “Incontro con gli elettori”. Si riduce a questo l’importanza dei cittadini per i politici alla ricerca disperata della poltrona o di un incarico? Ascoltare, o fingere di farlo, le lamentele, i disagi, i problemi, e promettere il cambiamento inevitabile ma successivo e conseguente le elezioni, o meglio l’elezione del diretto interessato.

Una ricerca dell’Espresso ha calcolato che, nelle liste presentate per le elezioni 2018, sono presenti tantissimi politici oltre il terzo mandato. Significa che sono persone entrate in parlamento da quasi o oltre venti anni.

Persone che della politica ne hanno fanno un mestiere certo ma che, soprattutto, non vedono alternativa al rimanere dentro le istituzioni. Sembra quasi lo considerino un loro diritto. Non è così. Il loro è un dovere invece. Hanno il dovere di servire lo Stato e il popolo italiano. Sono in tanti, tantissimi che dovrebbero farlo eppure i diritti dei cittadini italiani sono continuamente e ripetutamente calpestati. E sarebbe il momento di dire basta, indipendentemente dalle elezioni e dal loro esito.

Stando ai dati riportati nel report Rule of Law Index 2017-2018 di World Justice Project, l’Italia si attesta in 31° posizione, tra Barbados e Emirati Arabi.

Gli indicatori utilizzati sono:

Restrizioni del potere governativo
Livelli di corruzione
Amministrazione aperta (open government)
Diritti fondamentali
Ordine e Sicurezza
Rispetto e Controllo dei Provvedimenti
Giustizia (Civile e Penale)

A onor del vero va detto che, rispetto al precedente studio, l’Italia guadagna 4 posizioni ma viaggia ancora su un binario lento e accidentato rispetto alla nazione europea top performer, ovvero la Danimarca.
Naturale a questo punto chiedersi cosa manca davvero all’Italia e agli italiani rispetto alla Danimarca certo ma anche agli altri 29 Paesi che la precedono.

Dal precedente report del 2016, gli indicatori maggiormente peggiorati a livello globale riguardano l’area dei diritti umani, il controllo del potere governativo, la giustizia. In Italia gli indicatori evidenziati in negativo riguardano principalmente la corruzione, l’ordine e la sicurezza (della persona e della proprietà), la giustizia civile.

Anche una semplice ricerca online basta per mettere in risalto l’innumerevole quantità di organismi, enti e associazioni presenti in Italia sorti allo scopo di tutelare il cittadino, il consumatore, lo studente, il docente, il lavoratore, il pensionato, il diversamente abile, il lavoratore autonomo, l’imprenditore, l’orientamento religioso, l’orientamento sessuale, e via discorrendo. Ma per questo non ci sarebbero già le Istituzioni e lo Stato? Domanda ovviamente retorica.
Se un cittadino necessita dell’intervento di una terza parte per tutelare i propri interessi, o meglio i propri diritti, e farli valere anche nei confronti del medesimo stato di cui fa parte allora viene da sé che in questo “stato” molti conti non tornano.

Leggendo i dati pubblicati nel Rapporto sullo stato dei diritti in Italia dell’Associazione per le libertà A buon diritto, il quadro negativo viene confermato in toto. Scrive Luigi Manconi nella prefazione allo studio: «La tutela e l’effettività dei diritti umani non è questione esotica che riguardi solo lande lontane, popoli oppressi e regimi totalitari. Al contrario, è problema che ci riguarda direttamente. Ed è bene, di conseguenza, partire da noi, prima di andare in giro per il mondo a predicare, di quei diritti, il valore e l’urgenza». Come dargli torto.
La premessa fondante del progetto da cui ha avuto origine il rapporto è «una visione unitaria del sistema dei diritti e una concezione piena della persona umana che ne è titolare». Del resto se non si rispetta la persona come si può anche lontanamente pensare ne saranno tutelati gli averi e relativi diritti? La Storia passata e presente ci insegna che «non c’è libertà, non c’è eguaglianza, non c’è reciprocità senza il riconoscimento della dignità di ciascun essere umano in relazione con i suoi simili».

A settembre 2016 il ministro Poletti annuncia un incremento del Fondo per la non autosufficienza di 50milioni di euro. A febbraio 2017, in sede di Conferenza Stato-Regioni, l’aumento viene annullato. La associazioni di rappresentanza delle persone con disabilità protestano. L’aumento viene reintegrato ma senza specificare tempi e modalità. «La vicenda del Fondo per le non autosufficienze è indicativa della situazione di incertezza e precarietà che accompagna la vita delle persone con disabilità nel nostro paese». Incertezza e precarietà che accompagnano la vita di tutti i cittadini ma che, certo, nel caso di disabili e malati, diventa un boccone ancor più amaro e disgustoso da ingoiare.

Dopo l’approvazione della legge sulle unioni civili «non sembra esserci più nessuno in Italia che non sia stato invitato almeno una volta al matrimonio di due amici o di due amiche». Nell’immaginario collettivo infatti le unioni civili sono equiparate al matrimonio, ma «ciò non è pienamente vero». A cominciare dal «diritto ai figli», sia quelli già esistenti che quelli da concepire e mettere al mondo. Per giungere su un terreno «sul quale l’inezia della politica e del legislatore si fa pesantemente sentire ed è quella degli atti di omofobia».

Molteplici sono gli esempi che si potrebbero addurre per elencare le violazioni della libertà di espressione e di informazione. Troppe le intimidazioni fisiche e verbali ai danni di cronisti. Innumerevoli i casi in cui la libertà di stampa è pregiudicata da pressioni politiche sociali criminali.

La percentuale di laureati in Italia è tra le più basse in Europa. La spesa pubblica destinata all’istruzione è stata via via sempre più ridimensionata. La condizione contrattuale e lavorativa del corpo docente, la condizione di precarietà lavorativa per un significativo numero di insegnanti, lo stato disastroso in cui versano molte scuole pubbliche determinano una situazione di innegabile violazione del diritto allo studio e all’istruzione pubblica per i giovani e di sfavorevoli condizioni di lavoro per gli insegnanti.

Un sistema sanitario nazionale che, di fatto, si compone di «21 sistemi (19 Regioni e le Province di Trento e Bolzano), ognuno dei quali è strutturato in modo autonomo» non può garantire eguaglianza nelle prestazioni mediche e sanitarie e quindi se regna la disparità è presente una grave violazione dei diritti dei cittadini. Anche se sono stati rinnovati i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) da garantire su tutto il territorio, in concreto permangono forti squilibri su base territoriale nell’erogazione dei servizi, sull’importo dei ticket e sui tempi d’attesa. Inoltre va ricordato che i LEA sono gli “essenziali” appunto, ovvero la punta dell’iceberg dei servizi di cui i cittadini possono aver bisogno e a cui hanno diritto.

Sulle garanzie di lavoro e di reddito è quasi pleonastico sottolineare quanto la situazione italiana sia «ben lontana dal poter essere considerata positivamente». Lo stesso può dirsi di protezione dell’ambiente e vita buona.

Nel 1998 Grecia e Germania hanno istituito rispettivamente la Commissione per i Diritti Umani e la figura di un Commissario per i diritti umani e gli aiuti umanitari. Nel 2001 lo ha fatto l’Irlanda. Nel 2007 Francia e Regno Unito. E l’Italia? Non risulta esserci nulla del genere. Perché?
Un impegno che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite chiede agli Stati firmatari dal 1993 e che in Italia vede il progetto di legge per realizzarlo fermo in Parlamento dal 2002.

Sul sito del Festival dei Diritti Umani a tal riguardo si legge una dichiarazione del luglio 2015 dell’allora ministro Paolo Gentiloni: «È importante che nasca con una fortissima caratteristica di indipendenza un’agenzia per la salvaguardia dei diritti umani, serve anche a noi che stiamo al governo». “È importante che nasca” e “serve anche a noi che stiamo al governo”. Già.

I principi fondamentali della Costituzione sono straordinari, nella teoria del pensiero e della ideologia che li ha generati ma diventano quasi improponibili volgendo lo sguardo al mondo reale concreto nel quale sono costretti a districarsi i cittadini di ieri come di oggi. Una realtà nella quale ogni diritto è una conquista ottenuta con la strenua forza di volontà, con la “lotta” non armata di cortei e manifestazioni, referendum e quant’altro dovrebbe servire a far ottenere e preservare i diritti di tutti i cittadini e di ognuno di essi.

Le campagne elettorali strutturate secondo la logica della promessa e della chiacchiera andrebbero abolite, vietate per coloro che sono politici uscenti, che essendo già stati in carica devono produrre prove concrete del lavoro svolto durante il mandato. Non promesse ma rendicontazioni perché l’ad e il consiglio di amministrazione di un’azienda che incassano corposi cedolini azionari e assegni sostanziosi mentre i dipendenti della medesima società temono il licenziamento o sono alla bancarotta non sono di certo dei buoni amministratori. Lo stesso deve valere per gli amministratori pubblici che hanno per certo incassato tutti i loro stipendi e benefit per l’intero periodo trascorso nelle istituzioni e oltre e devono dimostrare, quantomeno, di aver meritato quel denaro per il lavoro svolto e i risultati ottenuti. Le promesse non servono e le scuse non bastano, contano solo i fatti e i dati, reali, tangibili e documentati.

Determinante quindi, per i cittadini, l’abbandono del voto di scambio, di quello per cortesia, per abitudine, per illusione… necessario invece il voto ragionato per cambiare davvero un Paese, per costringere la sua classe dirigente a fare bene il proprio lavoro.
Albert Einstein definiva la follia come l’ostinazione nel fare sempre la stessa cosa aspettandosi ogni volta un risultato diverso. I cittadini italiani devono smetterla di aspettare che le cose cambino rimanendo inermi ad aspettare, devono fare in modo di essere loro stessi il cambiamento che vogliono vedere, come auspicava Martin Luther King. A cominciare dal voto per le prossime elezioni parlamentarie. Un voto ragionato.


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Università: corsi, titoli, tanto studio ma quanto lavoro? Dati occupazionali a confronto e riflessioni sulla formazione accademica in Italia

25 domenica Feb 2018

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articolo, RinnovamentoCulturaleItaliano

Il 25 gennaio 2018 viene pubblicata una news sul blog informativo del Miur presentata come una “buona notizia” per le studentesse che intendono frequentare l’università e in particolare per coloro che scelgono corsi accademici con indirizzo scientifico.
Con un Decreto a firma della ministra Fedeli vengono stanziati 64,2milioni di euro per le università pubbliche, da utilizzarsi nella misura di 59,2milioni per il Fondo giovani e 5milioni per i Piani per l’orientamento, e 2,6milioni di euro per le università non statali. 3milioni di euro sono destinati a essere un incentivo per l’iscrizione a corsi scientifici da parte delle studentesse. Le università potrebbero prevedere per questo l’esonero totale o parziale delle tasse, contributi aggiuntivi o varie forme di sostegno. Una misura resasi necessaria in virtù del fatto che questi percorsi accademici sono «scelti, in media, da solo tre studentesse su dieci». Vengono anche suggeriti dei possibili profili, come «data scientist, esperto di Big Data, analista degli investimenti o come ingegnere».

Dando uno sguardo anche sommario alla classifica stilata dal social Linkedin, il cui scopo dichiarato è far entrare in contatto le aziende con chi cerca lavoro, si riesce a ipotizzare almeno una motivazione per cui il ministro spinga verso l’iscrizione a questi precisi corsi accademici e non altri.
I mestieri più ambiti, con uno stipendio più alto e una maggiore offerta di impiego sono, o sarebbero:

Medico
Ingegnere
Ingegnere informatico
Product manager
Analista finanziario
Data (Big Data)

Si parla naturalmente di chi entra o cerca di entrare nel mercato del lavoro, altrimenti sono ben altri i lavori con retribuzioni da capogiro e via discorrendo… ma questo è un altro discorso.
Il Rapporto 2017 del Consorzio Interuniversitario AlmaLaurea, XIX Indagine Condizione occupazionale dei Laureati, redatto con il sostegno dello stesso Miur, offre numerosi spunti di riflessione e analisi anche riguardo i suggerimenti della ministra Fedeli.

Il gruppo disciplinare scelto come percorso di studi ha una notevole incidenza per le chance occupazionali. Le professioni sanitarie e di ingegneria risultano più favorite, i gruppi disciplinari psicologico e geo-biologico i meno favoriti. Confermate le tradizionali differenze di genere, quelle su cui cerca di incidere la ministra, e soprattutto territoriali. Si riescono a collocare meglio gli uomini e quanti risiedono nei medesimi luoghi di studio, preferibilmente al Nord Italia. I neo-laureati provenienti da famiglie nelle quali almeno un genitore è laureato registrano una minore occupazione a un anno dal conseguimento del titolo. Il voto conta, ma di certo è più determinante la velocità, il rispetto dei tempi previsti dal corso di studi e quindi il proporsi nel mercato del lavoro in età giovane. Le esperienze di lavoro, le competenze informatiche, i tirocini e gli stage, come pure le esperienze di studio all’estero contribuiscono ad aumentare le probabilità di lavorare entro un anno dalla laurea.

Per il 51% dei laureati triennali e il 48% dei magistrali biennali il titolo risulta “molto efficace o efficace” ai fini dell’assunzione. Valori ancora in calo rispetto al 2008 ma confermati se confrontati con «l’utilizzo, nel lavoro svolto, delle competenze acquisite all’università e la richiesta, formale o sostanziale, della laurea per l’esercizio della propria attività lavorativa».
I dati di AlmaLaurea migliorano ancora se si considera l’occupazione a cinque anni e la percezione dell’efficacia del titolo, ma chi osserva questi grafici rimane un tantino perplesso in virtù anche delle considerazioni e delle conclusioni cui giungono i rapporti internazionali su preparazione universitaria e occupazione.

The Sodexo International University Lifestyle Survey 2017, intervistando oltre 4000 studenti cerca di capire qual è il loro livello di soddisfazione. Le percentuali delle risposte date dagli universitari italiani definisce un quadro un po’ meno roseo di quello abbozzato da AlmaLaurea.
Il 43% degli intervistati si dichiara insoddisfatto circa le scarse possibilità di trovare un’occupazione dopo la laurea. Questi studenti lamentano anche un eccessivo carico di lavoro (51%) e un disequilibrio nel tempo da dedicare a studio, socializzazione e lavoro (44%). Ci si chiede allora se gli studenti universitari abbiano delle ambizioni eccessive, fretta nel realizzarle, stanchezza cronica nell’essere ancora degli studenti oppure se i dati occupazionali a un anno o cinque anni dalla laurea necessitino di un’analisi più dettagliata.

I dati prodotti dal Rapporto di AlmaLaurea si basano su rilevazioni Istat, presumibilmente quindi con esse dovrebbero convergere anche prendendo in considerazione altri parametri.
L’Italia del Sud e del Centro si colloca in posizioni molto inferiori alla media degli altri Paesi dell’Europa a 28 e delle aree settentrionali dello stivale. Per intenderci, i livelli medi occupazionali dell’Italia si trovano esattamente tra Spagna, Croazia e Grecia. Questa volta la fonte dei dati riportata dall’Istat è Eurostat.

Salta subito all’occhio l’elevata incidenza dell’aumento dell’occupazione a termine per i dipendenti, la stima Istat a novembre 2017 calcolava in +14mila lavoratori permanenti e ben +54mila lavoratori a termine. Un dato che diventa ancor più significativo se si prende in considerazione il trimestre settembre-novembre, dove l’occupazione è cresciuta esclusivamente tra i dipendenti a termine (+101mila). Ed ecco allora che ci si ritrova a pensare ai numeri, ma soprattutto alle persone che stanno dietro a questi valori e li vanno realmente a comporre. Gli occupati a termine del trimestre settembre-novembre non è detto che saranno i medesimi del trimestre, per esempio, gennaio-marzo. In questo modo i tassi di occupazione potrebbero anche restare stabili o magari salire ma le persone veramente occupate non è detto che siano sempre le stesse. Lavorare per un trimestre o un semestre e rimanere inattivo magari per il resto dell’anno o anche più come si configura nelle classifiche occupazionali?

Il calo della popolazione di età compresa tra i 15 e i 49 anni «amplifica in particolare la diminuzione della disoccupazione nella classe 35-49 anni», mentre la crescita della popolazione di ultracinquantenni «amplifica l’aumento della disoccupazione in questa classe di età». Sorge il dubbio a questo punto sulla veridicità degli slogan che parlano di “aumento di posti di lavoro”, quando in realtà a concretizzarsi è solamente una diminuzione nel numero della forza lavoro.

Rimanendo sulle esigenze e sui doveri della classe di età più giovane, ovvero quella compresa tra i 15 e i 24 anni, numerosi sono i problemi da dover affrontare nella scelta prima e nell’impiego poi dei titoli scolastici conseguiti. Anche in virtù del fatto che poi in tanti si ritrovano a dover cercare e a svolgere mansioni differenti dalle quali, in teoria, si erano preparati durante gli anni della formazione scolastica, è bene ricordare che la scelta dell’indirizzo di studi viene compiuta troppo spesso usando il parametro dell’esclusione o il metro dell’onere, di studio ed economico. Anche per questo, presumibilmente, la ministra Fedeli ha scelto di impiegare 5milioni di euro per i Piani per l’orientamento.

Stando ai dati diffusi dal Rapporto Economico sull’Italia 2017 dell’OCSE, la situazione occupazionale nel nostro Paese non è buona «perché non c’è incontro tra domanda e offerta di lavoro». Ci sono relativamente pochi laureati nelle materie che interessano le aziende o le istituzioni e, contemporaneamente, continuano a ingrossarsi le fila tra i laureati il cui titolo conduce a lavori che hanno un mercato già oltremodo saturo. Il che è ulteriormente paradossale se si considera che l’Italia ha un numero di laureati (in percentuale 18%) che è molto inferiore alla media europea (in percentuale del 37%).
Cosa chiede il mercato del lavoro lo abbiamo visto, interessante a questo punto scorrere l’elenco delle facoltà che hanno più iscritti e più laureati:

Lettere
Scienze politiche
Economia
Formazione artistica

Un deciso aumento si è riscontrato negli iscritti alla facoltà di ingegneria, mentre in netto calo le iscrizioni a medicina e chirurgia. A scoraggiare e fare da imbuto per certo i test di ammissione. Meglio allora ripiegare su qualcosa di più “accessibile”. Con la pecca però che poi gli studenti italiani continuano a essere meno preparati, rispetto ai coetanei stranieri, in materie scientifiche, in formazione linguistica e anche in tecnologia. Poco competitivi quindi sul mercato del lavoro italiano e ancora peggio su quello internazionale.

La formazione è una sfida e, come per tutte le sfide, se si preferiscono le scorciatoie si arriverà forse prima al traguardo ma per certo si sarà impreparati ad affrontarlo e superarlo. Non bisogna lasciarsi abbindolare da facili promesse. Bisogna metterci il massimo impegno e pretendere che i propri diritti, come quello all’istruzione, vengano rispettati. È doveroso chiedere, urlare, pretendere l’adeguamento della formazione scolastica a tutti i livelli e non lasciarsi facilmente abbindolare o tentare da entrate immediate, legate a lavori saltuari e temporanei perché, inutile illudersi, se non si maturano le competenze necessarie, con estrema difficoltà si riuscirà poi a inserirsi adeguatamente nel mercato del lavoro. A meno che non si scelga la via biasimevole della “raccomandazione”. La peggiore delle scorciatoie, perché non creerà mai una forza lavoro all’altezza della concorrenza, nazionale e soprattutto internazionale, ma continuerà a generare solamente degli schiavi, sottomessi all’avidità senza scrupoli di classi dirigenti e malavitosi che si nutrono, come vere e proprie sanguisughe, di cittadini ignoranti, inermi e passivi.


Articolo originale qui


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La preparazione degli studenti italiani rispetto ai coetanei stranieri 

La preparazione degli insegnanti italiani. La verità 

Il dossier “UNDER. Giovani mafie periferie” curato da Danilo Chirico e Marco Carta per illuminare il buio dei suburbi di vita (Giulio Perrone Editore, 2017)


 

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La memoria troppo condivisa dei social network: i like diventano surrogato della realtà. Quando la filter bubble la creiamo noi, a quale prezzo e a beneficio di chi?

20 sabato Gen 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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articolo, Italia, italiani, NWO, ordinemondiale, paura

Mark Zuckerberg, ideatore e ceo del social network Facebook, il 12 gennaio 2018 scrive, sulla sua pagina social, un post che ha scatenato una grande eco mediatica. Il succo del suo comunicato riguarda l’imminente e progressivo cambiamento dell’algoritmo che gestisce la condivisione dei post e dei video perché, a suo dire, Facebook sta deragliando da quello che era lo scopo originario per cui lui stesso l’ha inventato.

Facebook sarebbe quindi stato ‘costruito’ per aiutare le persone a rimanere in contatto e avvicinarsi a quelle ritenute importanti, affettivamente parlando. Per questo motivo famigliari e amici devono restare il fulcro del mondo social racchiuso nell’universo del libro delle facce. La esplosione di contenuti pubblici starebbe quindi rompendo l’asse dell’equilibrio, allontanandosi dallo scopo principale del social, ovvero «help us connect with each other» (“aiutarci a connettersi tra noi”).
Zuckerberg si augura che il tempo passivo trascorso sui social, in particolare il suo, diminuisca e che gli utenti siano sempre più stimolati a interagire. Adottando queste misure lui dichiara di aspettarsi una diminuzione del tempo trascorso sul social ma, al contempo, si augura che sia tempo prezioso, di qualità.


«I expect the time people spend on Facebook and some measures of engagement will go down. But I also expect the time you do spend on Facebook will be more valuable.»


Il social network Facebook quindi, per mano dei suoi organizzatori, vuole spronare i suoi utenti a essere più attivi, cliccando like e commentando post personali, famigliari, di amici e conoscenti, foto e riflessioni… saranno quindi scoraggiate le condivisioni di post da pagine pubbliche, da link esterni, notizie, informazione e quant’altro possa distogliere l’attenzione e l’interesse degli utenti dallo scopo principale del social: “aiutarci a connettersi tra noi”.
Ora, a meno che una persona non abbia tutti i suoi affetti lontano e viva isolato su un eremo, davvero si fatica a comprendere fino in fondo la necessità della condivisione social e non di quella reale di immagini, foto, ricordi, impressioni, pensieri, riflessioni, considerazioni… che invece potrebbero e possono benissimo essere condivise de visu, via mail, in chat, su skype, al telefono… Ma l’aspetto più interessante e a tratti inquietante è il tentare di capire se davvero Zuckerberg sia così filantropo da boicottare volutamente il suo social network a beneficio dell’affettività dei suoi iscritti.

Due giorni dopo l’annuncio di Marc Zuckerberg già è virale la notizia, basata su dati della rivista Forbes, di una perdita di 3,3miliardi di dollari a causa del calo nella quotazione in borsa del titolo Facebook. Zuckerberg possedendo il 17% delle azioni ne avrebbe quindi subito un danno personale. Ora, considerando che sempre secondo la rivista Forbes, il patrimonio complessivo dell’ideatore di Facebook ammonterebbe a 72,4miliardi di dollari, quella subita è una perdita che, pur ammettendo non fosse stata calcolata, sarebbe per certo facilmente recuperabile.
La scelta di modificare l’algoritmo di condivisione non sarebbe piaciuta a investitori e sponsor e il titolo societario scende del 4,4%.
Lo stesso Zuckerberg ha dichiarato di prevedere un leggero calo nella quantità del tempo che gli utenti trascorreranno sul social a seguito dei cambiamenti dell’algoritmo. È lecito supporre avesse anche preventivato un iniziale calo di fiducia da parte di investitori e sponsor?

Dopo un 2017 trascorso a tentare in vari modi di bloccare segnalare contrastare confutare le fake news Facebook sembra compiere una decisa virata che prevede, in buona sostanza, una riduzione delle notizie, presumibilmente quindi anche delle cosiddette bufale, e l’ammissione neanche troppo implicita che il social non è un organo idoneo alla diffusione dell’informazione. Non è per questo scopo che è stato creato.
La ricerca condotta dal team di Facebook in sinergia con esperti accademici avrebbe messo in luce che l’utilizzo dei social per connettersi con persone a cui teniamo sarebbe un toccasana per il nostro benessere.

Quindi creare un ambiente social con parenti, famigliari e amici, connettersi virtualmente con loro, condividere sul social momenti di vita, di affetto, di amore, di delusione, di tristezza, di passione… gioverebbe alla di ognuno “felicità e salute”. Essere sempre più il fulcro della propria filter bubble. Questo lo scopo reale di Facebook. Questo il ‘benessere’ di cui sembra parlare il suo fondatore, il quale anni fa ha dichiarato, parafrasando forse inconsapevolmente le parole del patron di Le Figaro, Hippolyte de Villemessant (“Per i miei lettori è più importante l’incendio di in solaio nel Quartiere Latino che una rivoluzione a Madrid”), ha detto: “La morte di uno scoiattolo davanti casa può essere più pertinente per i tuoi interessi di quella di una persona in Africa”. Naturale a questo punto chiedersi cosa esattamente “è più pertinente” per “gli interessi” immediati e futuri del ceo di Facebook.

Il primo data center di Facebook fuori dagli Stati Uniti è stato impiantato a Luleå, in Svezia. Un anonimo enorme capannone grigio che racchiude in sé un’immensa memoria connessa. È prevista l’apertura prossima di strutture simili a Clonee in Irlanda e a Odense in Danimarca. I responsabili della struttura svedese più volte hanno ribadito al giornalista Diego Barbera, giunto in loco per un servizio, che «i dispositivi vengono trasportati in modo riservato e sicuro» affinché «sia impossibile accedere a qualsivoglia dato». Tutte «le informazioni sono conservate, e i vecchi supporti sono completamente distrutti». Massima protezione e cautela quindi nella raccolta dei dati che assolutamente non devono lasciare la struttura, né essere trafugati. Ma allora a cosa serve questo immenso archivio di dati e informazioni condivise dagli utenti del social network Facebook?

In un servizio di Stefania Rimini per la trasmissione Report, girato nell’ormai lontano 2011, illuminante già nel titolo (“Il prodotto sei tu”) ci si chiedeva come mai una società fondata dall’allora poco più che ventenne Marc Zuckerberg che, in apparenza, non comprava e non vendeva nulla, assolutamente gratuita, facesse tanto gola a investitori internazionali quali «la banca Goldman Sachs ma anche la Microsoft, il miliardario russo Yuri Milner e il magnate di Hong Kong Li Ka Shing». Una società all’epoca non ancora quotata in borsa che ha subito una crescita vorticosa ed esponenziale, nel numero degli iscritti come nel valore di mercato nella quale sembra «tutto bello tutto gratis ma se ti va di leggere i termini contrattuali che quasi nessuno legge, scopri che sì, non stai pagando per il prodotto… perché il prodotto sei tu».

Profili che ogni utente compila volontariamente al momento dell’iscrizione, con dati personali anche sensibili, consegnati autonomamente ma con quanta reale coscienza dell’uso che ne verrà fatto? Schede zeppe di informazioni personali, di gusti e preferenze, livello culturale e titoli di studio, professione, stato civile, sesso e orientamento sessuale, orientamento politico e religioso… che rischiano però di diventare dati troppo statici e obsoleti se non li si rinvigorisce con aggiornamenti continui. Nuovi like, nuove foto, nuovi commenti… espressioni a loro volta delle singole personalità che navigano in questo mare che il suo proprietario dichiara di voler far diventare sempre più un porto sicuro. Stare bene quando si accede al social, sentirsi in famiglia, condividere con gli affetti, con gli amici, con i conoscenti… tutto per far sentire al meglio l’utente, libero di manifestare e condividere il suo essere. A pieno beneficio di chi?

Non è naturalmente un problema precipuo di Facebook ma generale della Rete e dei social. Semplicemente è la costante premura del suo fondatore a creare e fortificare questa sorta di filter bubble a destare qualche sospetto di troppo.

Sempre nel 2011 esce per Il Saggiatore il libro di Eli Pariser Il filtro. Quello che internet ci nasconde (“The Filter Bubble. What The Internet Is Hiding From You”). Nel libro Pariser sottolinea l’impiego dei filtri per creare la bolla nella quale ognuno poi naviga in base alla “rilevanza” che è in pratica l’unico vero criterio seguito. Una bolla creata in base alle pagine che visitiamo, ai link che cerchiamo, agli interessi e via discorrendo. Quello verso cui non mostriamo interesse semplicemente scompare… dalla nostra filter bubble. Se due persone compiono la medesima indagine su un motore di ricerca, per esempio Google, i risultati saranno molto dissimili tra loro. Ciò è conseguenza della «personalizzazione del web», creata dagli indicatori impiegati per stabilire chi siamo e cosa potrebbe piacerci in base proprio agli interessi che abbiamo mostrato e che sono costantemente monitorati.

I nostri interessi devono essere mostrati e costantemente aggiornati a beneficio di chi li cataloga, li archivia, li studia e poi, magari, li utilizza come merce di scambio con chi questi dati li usa per creare prodotti ad hoc, studiati e realizzati sulle esigenze e sugli interessi dichiarati, proposti poi direttamente a chi ha manifestato il desiderio di possederli tramite pubblicità, newsletter, spot, link… Il tutto, naturalmente, in forma anonima e sicura per l’utente. Certo.

Il mondo cambia, il commercio anche, la globalizzazione avanza, la Rete è fondamentale e anche utile. Nessuna obiezione. Rimane però la curiosità di sapere con quanta coscienza l’utente compie le sue scelte, definisce i suoi interessi, manifesta e soddisfa i propri bisogni.

Per Pariser «la democrazia dipende dalla capacità dei cittadini di confrontarsi con punti di vista diversi. Quando internet ci offre solo informazioni che riflettono le nostre opinioni limita questo confronto».

A questo punto viene naturale chiedersi quanto potere abbiano effettivamente Google e Facebook, per citarne alcuni, nella creazione della di ognuno filter bubble e quanto invece sia dovuto alla incoscienza o proprio alla volontà dell’utente di dedicare il suo tempo e le sue energie solo per ciò che gli interessa e gli piace e annullare i problemi, le opinioni dissimili, gli argomenti per lui ostici. In base a queste considerazioni viene da affermare che la vera filter bubble la creiamo noi stessi, dentro e fuori la Rete e i social.

Sul portale di wearesocial.com si può leggere una dettagliata descrizione di cosa sia in realtà il social thinking, ovvero l’approccio alla «creatività per risolvere problemi di business e brand». La base di partenza sono i social insight – «comprensione del comportamento sociale delle persone e, di conseguenza prendere in considerazione i canali e le piattaforme per loro rilevanti» – permettendo così lo sviluppo di «idee creative che costruiscano valore per i brand e per le persone». Mentre gli insight tradizionali permettono di comprendere i comportamenti delle persone concentrandosi solo su motivazioni individuali, gli insight social «mettono questa comprensione nel contesto delle nostre relazioni interpersonali, delle community e della società fornendo evidenze spesso nascoste, inaspettate o inespresse».

Le social idea sono idee «powered by people». Sono idee con un altissimo potenziale e di grande valore, in altre parole sono preziose, esattamente come il tempo passato sui social a raccontarle, perché «sono in grado di creare o rafforzare relazioni e community, unire le persone, attivare conversazioni e stimolare all’azione». Addirittura possono o potrebbero «influenzare il comportamento delle persone e avere un impatto culturale». Molto più spesso però sono studiate per capire come «creino valore di business».

Il numero delle persone in Italia Europa e nel mondo connesse a internet è in costante aumento, lo stesso per il tempo trascorso sui vari social. In crescita anche la connessione tramite smartphone, in calo quella da pc. Social e video sono le ‘mete’ preferite dalla gran parte degli utenti connessi in Italia. Oltre la metà della popolazione online utilizza applicazioni di messaging e chat dai dispositivi mobile. Perché?

I motivi addotti per spiegare il fenomeno ormai di massa dell’adesione a social e chat sono numerosi e spaziano dalla paura della solitudine che attanaglierebbe tutti fuori dal web alla possibilità di trovare lì campo libero allo sfogo delle proprie frustrazioni, dell’aggressività altrimenti repressa e via dicendo. Ma la verità è che online, sui social, nelle chat, nei gruppi… non troviamo altro, troviamo esattamente ciò che incontriamo per strada, al bar, allo stadio, nei parchi e lungo le vie. La differenza forse è che nella auto-celebrazione di se stessi che spesso si fa sui social ci si illude di trovare un pubblico copioso interessato alle foto, ai pensieri, ai commenti, alle riflessioni, alle offese, agli sfoghi, ai like… il pubblico in effetti c’è ed è anche molto attento a ogni interazione, ma non è quello che si pensa.

Albine ha reso pubblico il Val-You Calculator, un ‘divertente’ test che consente a ognuno di calcolare quanto vale il suo profilo social per Facebook. Farlo equivale a ritrovarsi dinanzi a un risultato che dà una cifra irrisoria, soprattutto se non si è molto attivi sui social. Ma, a ben pensarci, stando alla stima di giugno 2017, Facebook ha raggiunto i 2miliardi di utenti. Ed ecco che una cifra irrisoria moltiplicata per 2miliardi diventa un colosso quotato in borsa, finanziato da investitori globali e con un potere sociale, culturale e commerciale enorme. Enorme.


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Neuromarketing e potere subipnotico dell’era digitale. “Il cervello aumentato l’uomo diminuito” di Miguel Benasayag (Erickson, 2016)

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Quanto ha inciso l’essere ‘imbecille’ nell’evoluzione umana? “L’imbecillità è una cosa seria” di Maurizio Ferraris (Il Mulino, 2016)


 

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“La legge sugli ecoreati sta dando i suoi frutti”, parola di Legambiente: 574 ecoreati, 971 persone e 43 aziende denunciate nel 2016

11 domenica Giu 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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articolo, dossier, ecoreati, Legambiente

Bilancio in positivo per i primi due anni della legge sugli ecoreati, approvata il 29 maggio 2015. A sottolinearlo un dossier di Legambiente che ne evidenzia l’utile impiego per il sequestro di depuratori malfunzionanti, per fermare l’inquinamento causato da attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, per intervenire su situazioni di inquinamento pregresso e per fermare attività illegali di vario genere. Una legge con la quale lo Stato italiano, finalmente, sembrerebbe aver dichiarato “guerra” agli ecocriminali. Una svolta necessaria. Una “riforma di civiltà” com’è stata definita proprio da Legambiente.

Il dossier Ecoreati nel Codice penale analizza nel dettaglio i numeri e le storie di una «legge che funziona», frutto di un lavoro parlamentare trasversale sul testo che aveva unificato i progetti di legge di Ermete Realacci (Pd), Salvatore Micillo (M5s) e Serena Pellegrino (Si) ha finalmente consentito alla giustizia italiana di lasciarsi alle spalle «decenni di disastri ambientali senza colpevoli».

Nel 2016, a fronte di 1215 controlli, sono stati sanzionati 574 ecoreati, denunciate 971 persone e 43 aziende e sequestrati 133 beni per un valore di quasi 15 milioni di euro. 18 le ordinanze di custodia cautelare.

143 i casi di inquinamento ambientale, 13 quelli di disastro ambientale, 6 di impedimento di controllo, 5 i delitti colposi contro l’ambiente, 3 quelli di omessa bonifica e 3 i casi di aggravanti per morte o lesioni come conseguenza del delitto di inquinamento ambientale.

La Campania si conferma la regione in cima alla lotta al crimine ambientale con 70 ecoreati contestati mentre è la Sardegna la regione con il maggior numero di denunciati (126). L’Abruzzo è in cima per numero di aziende coinvolte (16) mentre la Puglia per numero di arresti (14). In Calabria è stato registrato il numero più alto di sequestri (43). L’Umbria è invece la regione con il maggior numero di reati contravvenzionali contestati (64). In Liguria è stato registrato il maggior numero di persone denunciate (83).

In base ai dati raccolti dal ministero della Giustizia, per l’attività di 87 procure nel 2016, risultano iscritti 265 procedimenti in applicazione della legge 68/2015 con 446 persone indagate e 13 imputate.

Estendendo l’indagine a ritroso fino al 1 giugno 2015, ovvero alla data di inizio dell’applicazione della legge sugli ecoreati, risultano iscritti 467 procedimenti con 651 persone indagate e 17 imputate. Nel 2015 sono stati 41 i procedimenti in tribunale che hanno portato a condanne di primo grado, dei quali 35 per inquinamento e 3 per disastro ambientale.

Anche l’attività delle Arpa, nell’elaborazione dei dati forniti da AssoArpa, sono positivi e in costante aumento. Dal 2015 al 2016 le prescrizioni impartite sono aumentate da 580 a 1296, le asseverazioni sono passate da 183 a 935, mentre il gettito economico è passato da 491mila euro a quasi 2,2 milioni di euro incassati direttamente dalle tasche dei trasgressori. Per il 2016 le Arpa che hanno prodotto più prescrizioni sono state quelle di Emilia Romagna (413), Piemonte (373) e Veneto (190), mentre quelle più impegnate nelle asseverazioni sono state ancora il Veneto (208), poi Lazio (157) e di nuovo Emilia Romagna (115), che ritorna anche per quanto riguarda il gettito economico (oltre un milione di euro), seguita da Piemonte (circa 950mila euro) e Toscana (oltre 550mila euro).

Tra le indagini più significative del 2016 vengono annoverate:

  • Operazione Poseydon, conclusa il 2 novembre dalla Guardia di Finanza e dalla Capitaneria di porto di Taranto con 14 arresti per i delitti di inquinamento e disastro ambientale, oltre che per illegale fabbricazione e detenzione di ordigni e sostanze esplosive.

  • Operazione Panta Rei eseguita dall’allora Corpo forestale dello Stato di Chieti e Pescara che ha contestato i reati di inquinamento ambientale, insieme alle attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, truffa ai danni dello Stato, peculato e abuso d’ufficio.

  • Operazione condotta dai Carabinieri del Ros e dalla Procura di Brescia, che lo scorso novembre ha bloccato una presunta organizzazione criminale dedita alla miscelazione sistematica di rifiuti speciali pericolosi da spacciare come “materiali ferrosi”, con destinazione ricorrente le acciaierie bresciane.

  • Inchiesta Spazzatura d’oro della Dda di Perugia per i reati di disastro ambientale, inquinamento ambientale e altri reati ambientali.

  • Accuse di disastro ambientale colposo e permanente per la gestione della discarica di Malagrotta alle porte della Capitale, indagine portata avanti dalla Procura di Roma.

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