È da poco uscito il rapporto 2019 di Reporters Sans Frontières sulla libertà di stampa, sempre a rischio anche in quelle che si dichiarano democrazie avanzate e consolidate. Rapporto che definisce il quadro allarmante di una situazione diffusa in cui «l’odio verso i giornalisti è degenerato in violenza». Una violenza che va da minacce verbali ad aggressioni fisiche, da intimidazioni e querele temerarie a veri e propri attentati. Violenza che proviene da malavitosi e criminali ma anche, purtroppo, dalla società civile e dalle istituzioni.
Quando un giornalista sa fare il proprio lavoro e non ha timore di rendere pubblico quanto è riuscito a scoprire deve essere pronto davvero a tutto. Purtroppo. Ed è sempre stato così. Purtroppo.
Il 20 marzo del 1979, quaranta anni fa, fu ucciso Mino Pecorelli, un giornalista le cui inchieste ma, soprattutto, la cui morte violenta si intreccia con nomi tristemente celebri come Giulio Andreotti, Licio Gelli, Massimo Carminati, Claudio Vitalone, Pippo Calò… e a tutta quella rete grigia fatta di politica, massoneria, servizi segreti, banche, mafia. Quaranta anni, un processo durato quattro anni, fiumi di parole e neanche un colpevole accertato, finora.
Verso la fine degli anni Sessanta, Carmine Pecorelli, detto Mino, fonda a Roma OP-Osservatore Politico, un’agenzia quotidiana stampata in ciclostile. Fin dal primo momento, gli inquirenti hanno cercato tra gli articoli pubblicati dal giornalista, inchieste spesso scomode anche per politici, magistrati, militari, alla ricerca del possibile movente dell’omicidio.
Pecorelli aveva scritto sul caso Moro, sul traffico illecito di petrolio con la Libia, per fare alcuni esempi. Inchieste “terribili” per il potere, o meglio per quella parte di potere corrotta.
A marzo di quest’anno esce per Baldini+Castoldi Pecorelli deve morire di Valter Biscotti, avvocato scrittore che attualmente rappresenta legalmente Rosita Pecorelli, sorella del giornalista, in una nuova istanza avanzata per tentare di far riaprire le indagini sulla base, in prevalenza, di quanto scoperto dalla giornalista d’inchiesta Raffaella Fanelli. Un libro che racconta l’omicidio, le indagini e il processo come anche il Pecorelli uomo, ciò reso possibile grazie ai racconti della sorella Rosita fatti direttamente a Biscotti. Un resoconto che vuol narrare i fatti, quanto accaduto e, soprattutto, quanto è stato omesso o trascurato.
Un libro, Pecorelli deve morire, che sembra un dettagliato resoconto d’inchiesta, o meglio di raccolta fonti e testimonianze, con dei risvolti da legal thriller, soprattutto nella parte di narrazione legata al processo e agli atti giudiziari. Il tutto scritto con un registro narrativo lontano da quello comunemente utilizzato per opere letterarie di argomento simile. Una scrittura molto romanzata quella preferita e utilizzata da Valter Biscotti nel testo. Forse per la volontà dell’autore di far arrivare la storia raccontata a un pubblico più vasto, a tutta quella fetta di lettori che sarebbero, o avrebbero potuto essere scoraggiati da un saggio scritto e inteso in senso stretto.
Un libro, quello scritto da Valter Biscotti, che sembra voler essere anche un omaggio a un uomo, Carmine Pecorelli. Un simbolo di rispetto per la coerenza e la rettitudine, che invano si è cercato di scalfire, anche se solo nel ricordo, e per la grande professionalità nei lavori di indagine e di inchiesta svolti e che diventavano articoli per OP, lavoro che, purtroppo, gli è costato la vita. Per certo c’è la volontà di illuminare una parte ancora tristemente oscura della storia italiana del secolo scorso, una storia che, nelle parole del pentito Buscetta, si intreccia con quella del generale Dalla Chiesa, altra vittima della parte marcia del sistema. Si intreccia con i troppi misteri ancora irrisolti della prima come anche della seconda Repubblica.
Molto preoccupante l’allarme lanciato dalla ong Ossigeno per l’informazione riguardo gli oltre mille giornalisti uccisi nel mondo negli ultimi dieci anni. L’Italia, purtroppo, lo conosce bene il sacrificio in termini di vite umane pagato da chi non si arrende al compromesso o al silenzio: Giuseppe Fava, Peppino Impastato, Mauro Rostagno, Giancarlo Siani, Ilaria Alpi, Miran Hrovatin, Mino Pecorelli, Mauro de Mauro, Giovanni Spampinato, Giuseppe Alfano… una lista che fa rabbrividire, inorridire.
Secondo i dati forniti dalla Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI), sono centinaia gli atti intimidatori nei confronti dei giornalisti durante l’esercizio della loro professione, la gran parte delle quali poste in essere in maniera pubblica, sui canali web o in modo verbale, ma anche con missive, danneggiamenti e telefonate anonime. Ma l’aspetto che più fa riflettere sono le matrici o motivazioni, riconducibili a quella che viene definita una “natura politico-sportiva” e poste in essere dalla criminalità organizzata o da afferenti ad ambienti di illegalità diffusa o di degrado sociale.
Nell’elenco di violenze, aggressioni, minacce e intimidazioni varie ai danni dei giornalisti investigativi raccolto da Index on Censorship per il progetto Mapping Media Freedom 2014-2018, 387 risultano quelle a carico di giornalisti italiani. Dati che Ossigeno per l’informazione, inclusa nel progetto con un’intervista, si appresta a chiarire: «sono migliaia i giornalisti investigativi che hanno subito minacce, aggressioni, danneggiamenti. Ossigeno ne ha censiti quattromila, ma sono molti di più».
«indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la CIA, uso illecito di enti, come il SID, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità. questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come si usa dire, paurosa delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono «selvaggio» delle campagne, responsabilità dell’esplosione «selvaggia» della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari anche distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori…»
Si tratta di un breve stralcio del lungo articolo pubblicato a firma di Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera del 24 agosto 1975, noto come Il Processo. Un pezzo che sintetizza tutto ciò contro cui hanno lottato e lottano i giornalisti d’inchiesta, come Pasolini e Pecorelli, come gli altri i quali, paradossalmente, spesso si ritrovano a dover subire essi stessi un processo anche fuori dalle aule del tribunale, a causa della manipolazione errata dell’opinione pubblica che vuol farli diventare visionari, corrotti, violenti, pedanti, guastafeste, complottisti, esibizionisti… Motivi tutti per cui libri come quello scritto da Valter Biscotti diventano a loro volta veri e propri atti di coraggio.
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© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).