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Irma Loredana Galgano

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Rendere la natura inutile: come crescere di più spendendo meno risorse

08 lunedì Giu 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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AndrewMcAfee, BocconiEditore, Dipiùconmeno, Egea, recensione, saggio

Per Andrew McAfee, ricercatore del MIT Sloan School of Management e cofondatore e condirettore del MIT Initiative on the Digital Economy, l’unica strada percorribile per salvare il pianeta è quella indicata da Jesse Ausubel, scienziato ambientale statunitense direttore e associato senior del Programma di Ricerca per l’Ambiente Umano della Rockefeller University, ovvero è necessario “rendere la natura inutile”.

Bisogna lavorare per privarla di ogni valore sotto il profilo economico in modo tale da metterla al riparo dalla “vorace attenzione del capitalismo e poterne godere il valore vero”.

Abbiamo impoverito il pianeta oltre misura man mano che, popolandolo, lo adattavamo alle nostre esigenze. Ora, secondo McAfee, abbiamo l’opportunità di porre rimedio a quell’errore, perché ora abbiamo gli strumenti, le idee, le istituzioni necessarie per ritirarci da gran parte del mondo, Per ottenere tutto il cibo di cui abbiamo bisogno da un’esigua quantità di terra. Dobbiamo smettere di pompare veleni nel cielo e negli oceani. Scavare meno miniere e sfregiare meno montagne.

Dobbiamo e possiamo farlo perché ora abbiamo gli strumenti, la tecnologia per farlo.

Per quasi tutta la storia del genere umano la nostra prosperità è stata strettamente connessa alla capacità di attingere risorse dalla Terra. Ma adesso le cose sono cambiate, o stanno cambiando. Negli ultimi anni, sottolinea l’autore, abbiamo visto emergere un modello diverso: “di più con meno”. E nel libro McAfee descrive in dettaglio le modalità di origine e sviluppo di questo nuovo modello che è partito dai paesi tecnologicamente più avanzati.

L’Era industriale è stata caratterizzata da miglioramenti sorprendentemente grandi e rapidi della condizione umana; miglioramenti che, tuttavia, sono avvenuti a spese del pianeta.

Le forze gemelle del progresso tecnologico e del capitalismo, scatenatisi durante l’Era industriale, sembravano spingerci verso una direzione ben precisa: “la crescita della popolazione umana e dei consumi, e il concomitante degrado del pianeta”.

Se, da una parte, il capitalismo ha proseguito per la sua strada, diffondendosi a macchia d’olio, il progresso tecnologico ha invece mutato pelle.

Abbiamo inventato il computer, internet e tutta una serie di tecnologie digitali che ci hanno permesso di dematerializzare i consumi, consentendoci così, con il passare del tempo, di consumare sempre più attingendo sempre meno dal pianeta.

Per Andrew McAfee il progresso tecnologico, il capitalismo, un’opinione pubblica consapevole e un governo reattivo, ovvero i “quattro cavalieri dell’ottimismo”, sono ciò che occorre a un paese per migliorare sia le condizioni di vita dei propri cittadini sia quelle dell’ambiente.

Egli vede un lento ma costante avanzamento di tutti e quattro, in tutte le parti del mondo, dimodoché non si rende necessario apportare drastici quanto radicali cambiamenti alle società e alle rispettive economie, ma necessita semplicemente concentrarsi e implementare quanto di buono si sta già facendo.

L’autore è consapevole di quanto non sia semplice far passare il concetto che saranno proprio capitalismo e progresso tecnologico a consentire di alleggerire la nostra impronta sul pianeta. Bisogna abbandonare l’idea che, man mano che cresce, un’economia è costretta a consumare più risorse.

Al contempo non bisogna mai dimenticare i grandi errori commessi, nella fattispecie:

  • Schiavitù.
  • Lavoro minorile.
  • Colonialismo.
  • Inquinamento.
  • Decimazione di svariate specie animali.

Eppure è proprio osservando questi grandi errori che si può vedere emergere, secondo McAfee, un modello interessante. Man mano che i paesi industrializzati progredivano e diventavano via via più prosperi, hanno iniziato a riservare un trattamento migliore alle persone, ai propri cittadini, e a consumare meno risorse o materie prime.

Jesse Ausubel, insieme a Iddo Wernick e Paul Wagoner, ha condotto un studio dettagliato sull’uso di 100 materie prime negli Stati Uniti tra il 1900 e il 2010. Prima di loro, Chris Goodall aveva svolto un lavoro simile per il Regno Unito.

Delle 100 materie prime prese in esame, 36 hanno raggiunto il picco di utilizzo assoluto. Nella maggior parte dei casi, l’utilizzo di queste materie prime sembra sul punto di diminuire.

In base ai dati riportati nei grafici, McAfee ritiene di poter affermare che l’entità della dematerializzazione negli Stati Uniti è consistente. Ormai si è in grado di creare più “economia” partendo da meno metallo. E ciò vale per molte altre risorse. Solo per i materiali da costruzione l’autore ritiene negativa l’inversione di tendenza, essendo quei dati legati al crollo del settore dovuto in larga misura alla crisi del 2007.

 

Non esistono purtroppo studi equipollenti che possano consentire un raffronto diretto con quanto accade nel resto del mondo.

I dati dell’agenzia Eurostat mostrano come, negli ultimi anni, paesi quali Germani, Francia e Italia hanno visto generalmente stabile, se non in calo, il loro consumo totale di metalli, prodotti chimici e fertilizzanti.

I paesi in via di sviluppo, in particolare quelli con la crescita più rapida, come l’India e la Cina, probabilmente non hanno ancora raggiunto la fase di dematerializzazione. Tuttavia McAfee prevede che in un futuro non troppo lontano (almeno relativamente ad alcune risorse) cominceranno anche loro a ottenere di più con meno.

In buona sostanza per l’autore, nel tentativo continuo di utilizzare sempre meno risorse, le imprese “assetate di profitto” possono percorrere quattro strade principali:

  • Utilizzare una minore quantità di una determinata materia prima.
  • Sostituire una risorsa con un’altra.
  • Utilizzare un numero inferiore di molecole sfruttando meglio i materiali di cui dispongono già.
  • Accorpare dispositivi moltiplicando le loro funzioni e risparmiando risorse e materiali.

La combinazione tra l‘innovazione incessante e i mercati contendibili in cui un gran munero di competitor cerca di ridurre le spese per i materiali ci ha traghettati in un’era post picco. Ed è questa la strada da continuare a percorrere rendendo sempre più la natura inutile, da un punto di visto economico, in modo da farle riacquisire sempre più il suo giusto valore.

Bibliografia di riferimento

Andrew McAfee, Di più con meno. La sorprendente storia di come abbiamo imparato a prosperare usando meno risorse, Egea UniBocconi, Milano, 2020.

Traduzione dalla lingua inglese di Giuseppe Maugeri.

Titolo originale More from less. The surprising story of how we learned to prosper using fewer resources, Scribner, a division of Simon & Schuster Inc, New York, 2019


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Egea – Bocconi Editore per la disponibilità e il materiale


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Promuovere la crescita delle economie in via di sviluppo attraverso la conoscenza. L’analisi di Stiglitz e Greenwald in “Creare una società dell’apprendimento” (Einaudi, 2018) 

Gli elettori devono assumersi la propria responsabilità civile e civica per riuscire a risolvere i problemi delle loro famiglie e del loro Paese. “La conoscenza e i suoi nemici” di Tom Nichols (Luiss University Press, 2018) 


 

© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Fabbrica Futuro” di Marco Bentivogli e Diodato Pirone (Egea-UniBocconi, 2019)

22 mercoledì Gen 2020

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BocconiEditore, DiodatoPirone, FabbricaFuturo, MarcoBentivogli, recensione, saggio

Le linee di tendenza in atto nel mondo sono il ritorno alla fabbrica e la diffusione a macchia di leopardo di nuove filiere di valore. Con Fabbrica Futuro, Marco Bentivogli e Diodato Pirone intendono focalizzare l’attenzione su un Paese, l’Italia, che appare in larga misura inconsapevole o distratto e che, invece, non può permettersi di restare ai margini.

L’industria italiana, sottolineano gli autori, è una delle vittime del processo di mitriadismo, ovvero dell’assuefazione a dosi piccole ma quotidiane di “un veleno fatto di cifre sbagliate o false o distorte da strumentalizzazioni”, di commenti semplicistici, da notizie magari anche vere ma quasi sempre decontestualizzate e prive di un valido confronto.

I lavoratori, non solo gli operai, assumono quasi sempre il profilo di vittime destinate al sacrificio invece di veri e propri protagonisti dell’evoluzione del lavoro.

Per Bentivogli e Diodato necessita innanzitutto liberarsi da una visione della fabbrica ferma al Novecento. La manifattura si è evoluta tantissimo e, assieme alla capacità di intrapresa e al lavoro fondato sulla competenza, “è tornata a essere il caposaldo di una società il più possibile equa, solidale, inclusiva, democratica”.

All’indomani della grande crisi finanziaria del 2008, sono stati gli Stati Uniti i primi a riscoprire la fabbrica.

L’occupazione del settore industriale Usa è passata da 11.5milioni di unità del gennaio 2010 a quota 12.8milioni del gennaio 2019. Stando ai dati diffusi dal Bureau of Labor Statistics, l’industria americana assicura 120-150mila posto di lavoro in più ogni anno, da quasi dieci anni.

Ciò contribuirebbe molto a sfatare il mito ben radicato anche in Italia ormai che associa l’innovazione tecnologica alla compressione dei posti di lavoro industriali.

Bentivogli e Pirone sottolineano con forza come il caso americano dovrebbe costituire una lezione importante per un Paese manifatturiero come l’Italia.

Una svolta che fu colta in tutta la sua portata dalla FIAT sotto la guida di Sergio Marchionne ma che non è stata assimilata e ben compresa dal Paese in generale. Eppure “anche l’industria italiana è tornata a creare posti di lavoro”, che a fine 2018 sono risaliti intorno a quota 4milioni, con una crescita di 2.5 punti percentuali circa nel biennio 2017-2018.

La ragione ultima per la quale Bentivogli e Pirone hanno scritto Fabbrica Futuro è la volontà, da loro considerata una utile necessità, di dare voce a una realtà industriale italiana strategica, ovvero le fabbriche FCA, “che sembra rimasta afona”.

Gli autori sottolineano come l’opinione pubblica italiana semplicemente ignora che dagli stabilimenti italiani di Fiat Chrysler nel 2019 sono usciti tra gli 800 e i 900mila veicoli, vi lavorano 57mila persone che assicurano fra il 2 e il 3 per cento del Pil e oltre 20miliardi di export. Questi stabilimenti, inoltre, rappresentano la punta di un iceberg di una filiera composta da 2190 aziende della componentistica, che generano 46miliardi di fatturato, hanno 156mila addetti e garantiscono circa 5miliardi di attivo della bilancia commerciale.

Analizzano a fondo la situazione attualmente presente negli stabilimenti FCA in territorio italiano, sottolineando come la vecchia FIAT ormai ha profondamente cambiato la propria cultura del lavoro. L’aumento della componente intellettiva nel lavoro operaio è un processo che già si tocca con mano e che “è destinato a importanti sviluppi nei prossimi anni”.

Soffrono mille problemi quelle fabbriche e ciò è innegabile ma è nell’intenzione degli autori la volontà di non vederle solo come degli stipendifici. La loro presenza nel territorio fa ancora da ascensore sociale e assicura robustezza alle aree territoriali nelle quali sono inserite.

A dimostrazione di ciò Bentivogli e Pirone riportano una luna serie di esempi, tra i quali:

  • le donne-capo che gestiscono Pomigliano;
  • il basso tasso di divorzi fra i lavoratori FCA di Melfi rispetto alla media regionale;
  • la scelta di Sevel (la joint venture tra FCA e PSA) che forma e assume giovani supertecnici direttamente nelle scuole.

Eppure il ricco patrimonio umano e tecnico dell’automotive italiano oggi corre rischi serissimi.

Entro i prossimi dieci anni vetture elettrificate, autonome e condivise trasformeranno “l’oggetto automobile in una sorta di computer su quattro ruote”, da usare e produrre in maniera molto differente rispetto all’oggi. Quote sempre maggiori di valore aggiunto dell’industria auto dovranno essere dirottate verso i produttori di batterie e di tecnologie. Anche FCA, come tutti i costruttori, è quindi “stretta nella morsa fra l’inevitabile aumento degli investimenti e la prevedibile riduzione degli utili «resi» dal capitale impegnato”.

A tutto ciò, per Bentivogli e Pirone, va aggiunta “la disfunzionalità aziendale di FCA”, che ha circa 90mila dipendenti in Nord America e che assicurano quasi il 90 per cento dei 5miliardi di utili aziendali, “mentre la parte europea, italiana in particolare, a fatica resta a galla”.

Ma, per gli autori, l’Italia non può assolutamente permettersi di rinunciare a queste fabbriche.

Stabilimenti che già non esisterebbe più, o sarebbero finite “a mo’ di spezzatino”, se non si fosse affermato in FCA un nuovo modello di lavoro, figlio:

  • della visione di un manager speciale come Sergio Marchionne;
  • del progetto di cambiamento e di modernizzazione da parte del sindacato;
  • della qualità e del sapere dei lavoratori.

Fabbriche che rappresentano, a conti fatti, “una testimonianza valida per l’intera società italiana”.

Uno dei meriti maggiori che Bentivogli attribuisce all’operato di Sergio Marchionne è l’aver abituato la FIAT a fare a meno della politica e dello Stato, “a differenza dei suoi predecessori e di gran parte dei suoi detrattori”. Lavorando di concerto con i sindacati, si è riusciti a creare “un clima di affidabilità, un terreno che prima del contratto di Pomigliano era pregiudicato”.

Cambiamento riscontrabile in particolare nell’implementazione del World Class Manufacturing (Wcm), che spinge i gruppi dirigenti degli stabilimenti a esporsi, a coinvolgere i dipendenti e comunque a lavorare con spirito di squadra.

Più uno stabilimento è efficiente, sulla base di un codice comune a tutti gl stabilimenti, e più il premio ai lavoratori è consistente. Il medagliere del Wcm, del resto, non contiene solo elementi di efficienza, ma anche aspetti relativi alla sicurezza sul lavoro (zero incidenti è il primo obiettivo), e a tutti quei fattori che all’interno di un’azienda concorrono a migliorare in modo condiviso la gestione e i risultati dello stabilimento.

Per cui, la fusione con Crysler, l’adozione del Wcm, gli accordi sindacali innovativi, sono la dimostrazione, per Bentivogli, della capacità italiana di gestire la diversità multidimensionale in un’economia globale.

Un esempio che l’autore ritiene necessario estendere il più possibile e il prima possibile all’intero comparto manifatturiero italiano perché se è vero che “FCA può fare a meno dell’Italia ma l’Italia non può fare a meno di FCA”, lo è anche che ciò vale per tutte le grandi realtà industriali e manifatturiere. Ovvio quindi che bisogna creare le condizioni necessarie affinché diventi conveniente restare o tornare in Italia. Operando magari sull’onda di quanto fatto negli Stati Uniti, laddove si può ritenere che il boom del manifatturiero sia stato favorito dalla convergenza di moltissimi fattori, non solo politici:

  • le scelte monetarie accomodanti;
  • la relativa debolezza del dollaro;
  • l’energia a basso costo legata allo shale gas;
  • la forbice del costo del lavoro che tende a ridursi rispetto a molti Paesi asiatici, in particolare la Cina;
  • l’alta produttività del sistema americano;
  • la rapidità nel trasferire le innovazioni alle linee produttive;
  • la scoperta che fare manifattura all’estero è difficile e in definitiva non è così premiante, a causa dell’inferiore scolarizzazione del personale e dell’inefficienza di sistemi meno evoluti di quelli occidentali.

Negli Stati Uniti sono rientrati interi spezzoni della “vecchia industria”, a partire dagli elettrodomestici di General Electric ai camion della Ford, alle gigantesche macchine movimento terra della Caterpillar, alle turbine a gas di multinazionali europee come la Siemens.

Ragioni per cui, secondo l’analisi di Bentivogli e Pirone, il caso americano dovrebbe costituire una lezione importante per un Paese manifatturiero come l’Italia.

Perché, concludono, oggi sono proprio le fabbriche a parlarci di futuro.



Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Egea-UniBocconi per la disponibilità e il materiale


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A quanto ammonta il valore della ciclo-ricchezza? “Bikeconomy. Viaggio nel mondo che pedala” di Gianluca Santilli e Pierangelo Soldavini (Egea-UniBocconi, 2019) 

Ci perde e chi vince nella nuova epoca storia? “Occidente e Oriente” di Kishore Mahbubani (Bocconi Editore, 2019) 


 

© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Non avevamo capito che l’alterità resta anche se i regimi crollano. “Il Muro. La fine della guerra fredda in quindici storie” di Francesco Cancellato (Egea-UniBocconi, 2019)

16 lunedì Dic 2019

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BocconiEditore, FrancescoCancellato, IlMuro, recensione, saggio

Il Muro di Francesco Cancellato è un libro che celebra delle ricorrenze, ma non è questa la migliore chiave di lettura. È un libro che, attraverso il ricordo di accadimenti, piccoli e grandi, importanti o meno, voluti o casuali, apre al lettore tante finestre, preludi per altrettanti spunti di riflessione su un determinato periodo storico e, soprattutto, sull’attualità e sulla contemporaneità di fatti ed eventi che davvero sembrano destinati alla ciclicità.

Attraverso il racconto di quindici storie, Cancellato accompagna il lettore in una profonda riflessione su quanto in realtà non abbiamo compreso di quell’evento noto a tutti come la fine della Guerra Fredda, ovvero la caduta del Muro di Berlino. Un accadimento definito epocale, soprattutto per i significati simbolici che si è scelto di accostarvi.
Sottolinea però l’autore nella introduzione, con estrema precisione, tutto quello che non si è voluto o non si è riuscito a comprendere. Che non abbiamo capito. A partire dal motivo per cui il Muro è stato abbattuto che, per Cancellato, coincide con quello per cui fu costruito: “evitare un esodo di massa dalla Repubblica Democratica Tedesca verso Occidente”.

Si è preferito credere e lasciar credere che patrie, frontiere, nazionalismi e pulizie etniche erano un qualcosa che l’Europa fosse riuscita a seppellire insieme al nazismo e non si è dato il giusto peso ai segnali contrari. Come la guerra nei Balcani, esplosa contemporaneamente alla fine della Guerra Fredda.
Non ci si aspettava di certo che quella stessa Unione Europea nata dalla “liberazione dei Paesi dell’Est sarebbe stata messa in discussione proprio da loro”. Loro, che hanno conosciuto il dramma del totalitarismo, della repressione, dell’esodo di massa, sono diventati i più spietati nemici dei profughi del Terzo Millennio.
Vittime di muri e confini di filo spinato che li separavano dal resto del mondo, oggi sono i costruttori dei nuovi muri d’Europa.

Per Cancellato, quando il Muro fisico che divideva la Germania è crollato un altro, invisibile ma ben più resistente, è rimasto esattamente com’era. Perché il 9 novembre del 1989 non si è riabbracciato un popolo diviso, dai medesimi tratti somatici e con le stesse radici culturali, ma si sono mescolati due mondi che per quarant’anni hanno vissuto uno in opposizione all’altro. Perché “non avevamo capito che l’alterità resta anche se i regimi crollano”. E non avevamo capito anche che, in fondo, “gli europei che ci guardavano dall’altra parte della cortina di ferro non avevano proprio tutti i torti”.

Ricorda l’autore che, con la crisi di Lehman Brothers del 2008, abbiamo scoperto che fabbricavamo denaro col denaro, che la nostra ricchezza era qualcosa di effimero, che si reggeva sul nulla, che l’Europa non è destinata per diritto divino a essere la guida del mondo civilizzato, che la globalizzazione tanto agognata ci ha portato in casa nuove economie che ci hanno fatto sembrare d’un tratto obsoleti.
Cancellato, ovviamente, non ha la soluzione a tutti questi problemi ma afferma che tornare indietro, studiare quanto accaduto, può aiutare a capire cosa è andato storto e perché.
In effetti, leggere le quindici storie che vanno a comporre il libro, come del resto la stessa introduzione, si rivela essere molto utile al lettore il quale, egualmente non ha soluzioni immediate e dirette, ma ne riceve potenti stimoli di riflessione, rilettura critica, analisi. E questo è per certo, sempre, positivo.

Leggendo i racconti de Il Muro ci si ritrova in più occasioni a rapportarli con il presente, quasi sempre per analogia purtroppo. Una Storia che tende sempre a ritornare. Utilissimo quindi appare al lettore il consiglio di Francesco Cancellato allorquando invita il lettore a non fermarsi all’evidenza della contraddizione, ma di scavare più a fondo in questi quarant’anni di Storia che meritano senz’altro di essere approfonditi. E di usare il libro come “una specie di piccola porta d’ingresso”.

Una piccola porta d’ingresso che aiuta il lettore a varcare la soglia di un ampio mondo di riflessione e analisi.


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Egea Editore-UniBocconi per la disponibilità e il materiale


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“La parabola d’Europa. I trent’anni dopo la caduta del Muro tra conquiste e difficoltà” di Marco Piantini (Donzelli, 2019) 

Quale futuro per le democrazie del post liberalismo e populismo? Jan Zielonka “Contro Rivoluzione. La disfatta dell’Europa liberale” (Editori Laterza, 2018) 

All’alba di un nuovo mondo_ l’Occidente, il sé e l’altro (Analisi del testo “All’alba di un nuovo mondo” di Angelo Panebianco e Sergio Belardinelli – IlMulino, 2019) 

Lo sbandamento dell’Occidente e “Il futuro contro” di Andrea Graziosi (IlMulino, 2019) 

Democrazie senza scelta e partiti anti-establishment. La rivolta degli elettori nell’indagine di Morlino e Raniolo (Analisi del testo “Come la crisi economica cambia la democrazia” di Leonardo Morlino e Francesco Raniolo – IlMulino, 2019) 

Chi vince e chi perde nella nuova epoca storica? “Occidente e Oriente” di Kishore Mahbubani (Egea-UniBocconi, 2019) 


 

© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

A quanto ammonta il valore della ciclo-ricchezza? “Bikeconomy. Viaggio nel mondo che pedala” di Gianluca Santilli e Pierangelo Soldavini (Egea-UniBocconi, 2019)

10 domenica Nov 2019

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Bikeconomy, BocconiEditore, GianlucaSantilli, PierangeloSoldavini, recensione, saggio

L’Italia ancora oggi resta il maggior produttore europeo di biciclette, con un fatturato complessivo di 1.3miliardi di euro, pur in calo di oltre il 50% rispetto a dieci anni fa.
I dati di Confindustria/Ancma, sull’andamento del mercato delle bici in Italia per il 2018, confermano l’inarrestabile crescita del settore e-bike che “vola a doppia cifra e si prevede farà la parte del leone entro quattro-cinque anni” rispetto alla bicicletta tradizionale: 173mila le e-bike vendute (+16.8%).
Un rapporto di Legambiente del 2019 stima in 7.6miliardi il valore economico generato in senso lato dal comparto cicloturistico. Un dato che farebbe lievitare a quasi 12miliardi il valore attuale del Pib, il Prodotto interno bici (indicatore che calcora il giro d’affari complessivo a due ruote).

Stime che Gianluca Santilli e Pierangelo Soldavini, autori di Bikeconomy. Viaggio nel mondo che pedala, ritengono credibili, anche se non hanno un fondamento scientifico, e possono dare un’indicazione concreta del valore attuale della ciclo-ricchezza. In considerazione, soprattutto, del margine di crescita enorme cui potrebbe ambire il settore in Italia.
Per fare un esempio, a margine delle 173mila e-bike vendute in Italia nel 2018 c’è il milione venduto in Germania nello stesso anno.

Per Santilli e Soldavini, il ritardo italiano è legato a una rete di vendita che è stata incapace di innovarsi e fatica a scrollarsi di dosso convinzioni senza fondamento e tradizionalismi pericolosi, uniti a un’oggettiva difficoltà a gestire un prodotto che è una via di mezzo tra una bici e un motorino, con ricadute anche sui temi della gestione e manutenzione.

L’Italia ha sempre avuto un ruolo di leadership, indiscussa fino a una decina di anni fa, grazie alla sua grande tradizione manifatturiera, ma che arretra ormai pericolosamente. Eccellenze, storie affascinanti, imprenditori straordinari. Ma, come ricordano gli autori di Bikeconomy, il mondo non è stato a guardare e se una colpa si può dare ai costruttori italiani è proprio da ascrivere alla loro incrollabile convinzione che nessuno avrebbe potuto togliere all’Italia e ai suoi produttori la leadership del ciclismo.
Ma così non è stato.
La produzione italiana nel 1994 era 5.8milioni di pezzi. Nel 2017 appena 2.4milioni.

Le ragioni del ritardo e dell’arretramento italiano sono molteplici e Santilli e Soldavini le descrivono tutte nel dettaglio.
Dimensioni aziendali troppo piccole, scarsa attenzione al marketing, allo sviluppo di reti commerciali globali, alle analisi dei mercati, alla finanza aziendale, alla comunicazione. Il tutto aggravato da un’evidente incapacità di gestire gli inevitabili e spesso deficitari passati generazionali, nonché la ritrosia all’ingresso di manager competenti e in grado di arricchire le potenzialità dell’azienda.
Molte imprese italiane hanno capi d’azienda che non sono stati in grado di innovare o di passare per tempo il testimone a soggetti adeguati, mentre i produttori stranieri, dietro i quali ci sono gruppi finanziari e industriali, sono cresciuti vertiginosamente.

Due gli esempi virtuosi italiani che gli autori riportano nel testo.

Il primo riguarda l’azienda Pinarello che, nel marzo 2017, ha ceduto la maggioranza a L Cattertan, il più grande fondo di private equity consumer-focused globale, legato al gruppo del lusso LVMH. La scelta ha avuto come obiettivo lo sviluppo internazionale dell’azienda trevigiana e ha premiato la coraggiosa strategia messa in atto da Fausto Pinarello.

Il secondo riguarda il marchio specializzato in abbigliamento ciclistico sportivo La Passione, il primo brand in Italia a essere venduto solo online. Al suo terzo anno di attività, punta a chiudere il 2019 con un fatturato superiore ai 5milioni di euro, in arrivo soprattutto da mercati come Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Giappone, Sud Corea e Nord Europa.

Si chiedono a questo gli autori quali siano le intenzioni degli altri imprenditori italiani, di certo presi in contropiede da queste operazioni e da esse allarmati.
Cosa si può fare allora per preservare le eccellenze italiane?
Santilli e Soldavini consigliano di aggregarle e farle convergere in un polo del ciclismo di qualità, ispirandosi al modello del lusso mondiale rappresentato da LVMH, gruppo presente nei cinque più importanti settori del mercato del lusso: vini e alcolici, moda e pelletteria, profumi e cosmetici, orologi e gioielleria, con 75 maison e un fatturato, nel 2017, di 46.8miliardi di euro.

Purtroppo la gran parte degli imprenditori interpellati dagli autori si dichiarano convinti che nel mondo ci sarà sempre chi acquisterà i loro prodotti. Si chiedono allora Santilli e Soldavini, e il lettore con loro, su quali basi si fondi questa certezza, in considerazione anche dei grandi gruppi in grado di penetrare il mercato a livello globale, di fare ricerca e sviluppo con fondi pari all’intero fatturato delle aziende italiane, pronti “a diversificare o peggio a entrare in comparti che ancora vedono una certa leadership italiana”.

Invece di arroccarsi su posizioni e vedute ormai obsolete, andrebbe esaltato il binomio tradizione-innovazione e rivolto lo sguardo al futuro, che è già presente considerando la rapidità con la quale evolvono mercato e consumatori. In sintesi si dovrebbe pedalare più velocemente per stare o rimanere un passo avanti agli altri e non accontentarsi di starne uno indietro nella convinzione che oltre non si può indietreggiare.

La scarsa e tardiva attenzione rivolta al “fenomeno e-bike”, il sostanziale disinteresse verso la mobilità cittadina e il connesso “fenomeno delle smart city”, la sottovalutazione del cicloturismo e delle potenzialità del cosiddetto “ciclismo per tutti”, hanno portato, secondo l’analisi di Santilli e Soldavini, a relegare gran parte dei produttori italiani in nicchie quasi esclusivamente dedicate al ciclismo agonistico e agli amatori agonisti, che però sono una percentuale minima del mercato.
Bisognerebbe invece guardare e magari copiare le sempre più frequenti partnership, dalle quali per il momento i produttori italiani sembrano essere tagliati fuori. Partenariati tipo quello stilato tra Bmw e Mercedes per le bici a pedalata assistita e i progetti delle “ciclabili del futuro”.
Senza ignorare o sottovalutare un fattore che è invece assai rilevante, ovvero quello dei new corner. Soggetti finora estranei a operare in questo comparto che ne hanno ben capito le potenzialità e che possiedono capacità imprenditoriali, manageriali e finanziare “sconosciute a chi opera nel settore da decenni”, come sembrano essere tanti imprenditori italiani.

Bikeconomy. Viaggio nel mondo che pedala di Gianluca Santilli e Pierangelo Soldavini, edito da Egea-UniBocconi in prima edizione a settembre 2019, è una lettura sorprendente. Il lettore non si aspetta di certo di trovarvi tutte le informazioni che invece gli autori sono riusciti a reperire e organizzare in maniera ordinata e interessante. Un’analisi dettagliata della cosiddetta “economia della bicicletta” che stupisce anche chi riteneva di conoscerne a fondo i dettagli, come ammette lo stesso Beppe Conti nella prefazione al libro.




Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Egea-UniBocconi per la disponibilità e il materiale


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All’alba di un nuovo mondo: l’Occidente, il sé e l’altro 

Ci perde e chi vince nella nuova epoca storica? “Occidente e Oriente” di Kishore Mahbubani (Bocconi Editore, 2019) 

L’occidentalizzazione del mondo non significa che l’Occidente sta diventando il mondo. “Paesaggi migratori” di Iain Chambers (Meltemi, 2018) 

Lo sbandamento dell’Occidente e “Il futuro contro” di Andrea Graziosi (IlMulino, 2019)


 

© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Chi perde e chi vince nella nuova epoca storica? “Occidente e Oriente” di Kishore Mahbubani (Bocconi Editore, 2019)

01 martedì Ott 2019

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BocconiEditore, KishoreMahbubani, OccidenteeOriente, recensione, saggio

Mai come adesso in Europa la prosperità è stata così alta e diffusa. Mai come adesso in Europa vi è stata tanta pace. Eppure, mai come adesso, vi è stato un sentimento così diffuso, profondo e cupo di pessimismo per il futuro. Mahbubani si è domandato il perché di tutto questo proprio ora che invece ci sarebbe bisogno di un protagonismo positivo dei valori migliori che il mondo occidentale ha saputo sviluppare.
Perché, invece, l’Occidente si sente perduto?
Per Mahbubani, all’inizio del XXI secolo la Storia ha svoltato, ma l’Occidente ancora si rifiuta di ammetterlo e di adattarsi a questa “nuova epoca storica”.

La quota occidentale dell’economia globale si riduce e continuerà a farlo. Inutile negarlo o fingere di non saperlo. Il processo è ormai inarrestabile, perché sempre più nuove società imparano ed emulano le best practices dell’Occidente.
Fino a tempi recenti, gran parte della crescita globale è venuta dalle economie del G7 ma, negli ultimi due decenni, la situazione si è invertita. Nel 2015 le economie del G7 hanno contribuito alla crescita globale per il 31,5%, mentre quelle degli E7 per il 36,3%.

Tre diverse tipologie di rivoluzioni silenziose hanno determinato e al contempo spiegano lo straordinario successo di molte società non occidentali. Mahbubani le descrive nel dettaglio.

La prima rivoluzione è politica. Per millenni, le società asiatiche sono state profondamente feudali. La ribellione contro ogni genere di mentalità feudale che ha preso impulso a partire dalla seconda metà del XX secolo è stata enormemente liberatoria per tutte le società asiatiche. Milioni di persone hanno smesso di essere spettatori passivi e si sono trasformati in agenti attivi del cambiamento, evidente nelle società che hanno accettato forme democratiche di governo (India, Giappone, Corea del Sud, Sri Lanka), ma anche in società non democratiche (Cina, Birmania, Bangladesh, Pakistan, Filippine), che lentamente e costantemente stanno progredendo. E diversi paesi africani e latino-americani guardano ai successi asiatici. Mahbubani ricorda l’iniziativa della Banca mondiale sullo scambio di conoscenza Sud-Sud, che ha incoraggiato lo scambio di lezioni politiche e di assistenza tecnica tra i paesi latino-americani e i loro “modelli” di riferimento asiatici. Oppure gli incentivi del CINDE (Agenzia di promozione degli investimenti del Costa Rica), sulla scia delle best practices di Singapore, all’impianto da parte di Intel di uno stabilimento nel Paese.
La seconda rivoluzione è psicologica. Gli abitanti del Resto del Mondo si stanno liberando dall’idea di essere passeggeri impotenti di una vita governata dal “fato”, per giungere alla convinzione di poter assumere il controllo delle proprie esistenze e produrre razionalmente risultati migliori.
La terza rivoluzione è avvenuta nel campo delle capacità di governo. Cinquanta anni fa, pochi governi asiatici credevano che una buona governance razionale potesse trasformare le loro società. Oggi questa è la convinzione prevalente, al punto che per l’autore siamo vicini al paradosso. Gli asiatici hanno appreso dall’Occidente le virtù della governance razionale, eppure mentre i livelli di fiducia asiatici stanno risalendo molti occidentali stanno perdendo la fiducia nei propri governi.

In buona sostanza, il Resto del Mondo ha compreso come poteva replicare il successo occidentale nella crescita economica, nella sanità, nell’istruzione… Ora, si domanda Mahbubani, come è stato possibile che l’Occidente non se ne sia accorto oppure non vi abbia dato importanza?

Nella fine della Guerra Fredda l’Occidente tutto ha voluto vedere il trionfo indiscusso della sua supremazia. Sbagliando. Innanzitutto, ricorda l’autore, perché la vittoria non è imputabile a una supremazia reale dell’Occidente ma al collasso dell’economia sovietica, ovvero di uno Stato che, mente il suo nemico “vincente” gongolava, si è pian piano ripreso fino a ritornare a occupare il posto che aveva come potenza a livello mondiale. La fine della Guerra Fredda non è stato altro che la svolta verso una nuova fase storica.
Un altro evento che, secondo Mahbubani, ha “distratto” l’Occidente è stato l’attentato dell’11 settembre 2001. Invece di una reazione ben meditata e appropriata, la hybris intellettuale predominante ha generato la disastrosa decisione di invadere l’Iraq. Nessuno, in Occidente, ha messo in luce che “l’evento più gravido di conseguenze storiche del 2001 non era l’11 settembre. Era l’entrata della Cina nella WTO “(World Trade Organization). L’ingresso di quasi un miliardo di lavoratori nel sistema mondiale degli scambi avrebbe per forza di cose avuto come risultato una massiccia “distruzione creativa” e la perdita di molti di posti di lavoro in Occidente.
Nell’agosto 2017, una relazione della Banca dei Regolamenti Internazionali confermava che l’ingresso di nuovi lavoratori provenienti dalla Cina e dall’Europa Orientale nel mercato del lavoro era la causa di “salari reali in declino e della contrazione della quota del lavoro nel reddito nazionale”.

Per Mahbubani queste sono tra le principali ragioni per cui si è arrivati all’elezione di Trump a Presidente degli Stati Uniti d’America e alla Brexit.
Le classi lavoratrici hanno percepito e subito direttamente ciò che le classi dirigenti e politiche non sono riuscite o non hanno voluto captare per tempo.
Perché, si chiede ancora l’autore, molti occidentali non hanno percezione alcuna della portata di questo epocale cambiamento che sta investendo il Resto del Mondo e travolgendo l’Occidente?
Una possibile ragione Mahbubani la ritrova nel fatto che gli occidentali sembrano essere diventati dipendenti dalle “news”, prestando attenzione solamente agli eventi e non ai trend.
Mahbubani fa l’esempio della Malaysia, un Paese “raccontato” dai media occidentali soprattutto o prevalentemente attraverso “news” tragiche (faide e scandali politici, attentati e disastri aerei, scandali finanziari e assassinii…). Il risultato è che “poche persone si rendono conto che, in termini di sviluppo umano, la Malaysia è uno dei Paesi di maggior successo nel mondo in via di sviluppo”. Il suo tasso di povertà è sceso dal 51,2% del 1958 all’1,7% del 2012. Per esempio.

Kishore Mahbubani, come ambasciatore di Singapore alle Nazioni Unite, ha sperimentato in prima persona il grado di autocompiacimento degli occidentali per la loro intrinseca superiorità. I diplomatici occidentali dispensavano consigli all’88% della popolazione globale al di fuori dell’Occidente “con una condiscendenza appena velata”.
Ha ragione l’autore. Esiste questo atteggiamento, a volte inconscio altre meno, degli occidentali, siano essi politici, intellettuali, giornalisti o anche comuni cittadini, nei confronti di chi abita il Resto del Mondo. Un atteggiamento di superiorità, di chi posto di fronte all’altro, al diverso, sente quasi istintivo il bisogno di istruirlo, educarlo, indirizzarlo, civilizzarlo, forte proprio della sua posizione di superiorità culturale, intellettuale, politica ed economica. Vera o presunta tale.
Un modo di porsi che impedisce quasi di vedere che in realtà una sempre più ampia parte del Resto del Mondo ha guadagnato o sta guadagnando la corsia di sorpasso e si mostra sempre più determinata a non lasciarla.

Per Mahbubani è giunto il momento, per l’Occidente, di abbandonare molte delle sue politiche miopi e autodistruttive e perseguire una strategia completamente nuova nei confronti del Resto del Mondo. Una strategia che egli sintetizza con tre parole chiave e definisce appunto delle 3M: minimalista, multilaterale, machiavellica.
– Il Resto del Mondo non ha bisogno di essere salvato dall’Occidente, né erudito nelle sue strutture di governo, né tantomeno convinto della sua superiorità morale. Certamente poi non ha alcun bisogno di essere bombardato. L’imperativo minimalista dovrà essere fare meno e fare meglio.
– Le istituzioni e i processi multilaterali forniscono la migliore piattaforma per ascoltare e comprendere le diverse posizioni a livello mondiale. Il Resto del Mondo conosce molto bene l’Occidente, ora questo deve imparare a fare altrettanto. Il miglior luogo è, per Mahbubani, l’Assemblea Generale dell’ONU, il solo forum dove tutti i 193 Paesi sovrani possono parlare liberamente.
– Nel nuovo assetto mondiale la strategia servirà più della forza delle armi, per questo l’Occidente deve imparare da Machiavelli e sviluppare maggiore scaltrezza per proteggere i propri interessi a lungo termine.

Il saggio Occidente e Oriente. Chi perde e chi vince di Kishore Mahbubani non risparmia di certo le critiche agli occidentali ma, alla fin fine, può essere definito un interessante omaggio allo stesso Occidente. Al suo interno infatti contiene innumerevoli consigli affinché esso possa attuare i cambiamenti necessari per affrontare la nuova e rivoluzionaria epoca storica. Un omaggio al suo lodevole passato ma anche una necessità. Proseguendo su questa direzione infatti, per Mahbubani, l’Occidente rischia di diventare il principale fattore di turbolenza e di incertezza “nell’ora della più grande promessa per l’umanità”.
Non si può non convenire con Enrico Letta, che ha curato l’introduzione al libro, allorquando egli afferma che è una fortuna, per gli italiani, avere la possibilità di leggere questo libro. Vero. Verissimo. Occidente e Oriente di Kishore Mahbubani è per certo una lettura necessaria.


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Bocconi Editore per la disponibilità e il materiale


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Lo sbandamento dell’Occidente e “Il futuro contro” di Andrea Graziosi (Il Mulino, 2019) 

L’occidentalizzazione del mondo non significa che l?Occidente sta diventando il mondo. “Paesaggi migratori” di Iain Chambers (Meltemi, 2018) 

 

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L’Italia e “L’illusione del cambiamento” nella metamorfosi della Tecnica. Recensione al testo di Alessandro Aleotti (Bocconi Editore, 2019)

22 sabato Giu 2019

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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AlessandroAleotti, BocconiEditore, Lillusionedelcambiamento, recensione, saggio

L’innovazione è l’evoluzione del capitalismo occidentale. AI, Blockchain e Ubiquitous Computing: ma la tecnologia non dominerà mai sull’uomo. “L’illusione del cambiamento. L’Italia di oggi, l’Italia di domani” di Alessandro Aleotti (Bocconi Editore, 2019)

Un titolo palesemente provocatorio quello scelto da Alessandro Aleotti per il suo saggio L’illusione del cambiamento. L’Italia di oggi, l’Italia di domani, edito da Bocconi Editore. Voluto proprio per attirare l’attenzione su un tema solo in apparenza molto discusso nel dibattito politico e culturale. Per sottolineare come il termine cambiamento sia oggi «utilizzato con estrema superficialità», dimenticando che, «nel discorso pubblico, il cambiamento appartiene alla complessità dei processi sociali e non alla semplicità del variare dei gusti, delle mode o delle opinioni personali».
La principale sfida che pone il «cambiamento generato dalle trasformazioni economiche e sociali» è quella che, individualmente e collettivamente, «ci deve vedere impegnati nello sforzo di sottrarsi alle egemonie retoriche» le quali, «in nome di una dogmatica apologia del cambiamento, uniformano i pensieri e i comportamenti».

Se è per certo vero che il cambiamento rappresenta «la cifra identificativa della contemporaneità», ciò che per Aleotti permane illusorio è l’idea che le sue forme ci inglobino e, in questo modo, «ci sollevino dall’onere e dalla responsabilità di osservarle e capirle». L’obiettivo a cui richiama il provocatorio titolo del libro è quello di «rafforzare nel lettore un punto di vista personale» che non deleghi le scelte che competono alla «sua capacità cognitiva e spirituale». Rincorrere semplicemente «la velocità del cambiamento», senza soffermarsi in analisi e riflessioni critiche, porta a «esaurire le energie fisiche e instupidire quelle mentali». Necessita invece l’utilizzo, sia sul piano individuale che collettivo, «di un paradigma comportamentale diverso da quello delle narrazioni prevalenti».

Un libro, L’illusione del cambiamento di Alessandro Aleotti, provocatorio nel titolo ma senz’altro molto riflessivo e metodico nel suo contenuto.

Quella in cui viviamo è l’era definita della globalizzazione, una rivoluzione che Aleotti definisce della «mobilità». Un processo che se ha generato «indiscutibili elementi di emancipazione individuale e collettiva», ha contemporaneamente condotto a «una progressiva dissoluzione delle struttura intermedie», a cominciare dagli Stati-nazione, che tradizionalmente «garantivano quadri identitari e forme di protezione agli individui». Conseguenza diretta sono le tensioni cui la condizione umana viene di continuo sottoposta. Due le possibili alternative per l’autore:
– Accettazione di forme di adattamento che, retoricamente protette dalle miracolistiche del cambiamento, rischiano di condurre a un disorientamento individuale e a un’alienazione collettiva.
– Assunzione di responsabilità di un “progetto umano” che non deleghi alcuna soluzione al cambiamento, ma sia in grado di affrontarlo e renderlo funzionale alla condizione esistenziale, ovvero sia capace di dominarlo.
Aleotti protende decisamente per la seconda alternativa.

Il cambiamento è, contemporaneamente, «la struttura del presente, ma anche lo strumento attraverso cui il presente si esprime». L’idea di poter inseguire il cambiamento «adeguando lo sforzo umano alla sua velocità, risulta ben presto velleitaria». Quello che necessita è, quindi, «un approccio strumentale che vede il cambiamento come un ostacolo da superare e non come un fine a cui tendere».

È evidente come la parte preponderante di ciò che consideriamo «cambiamento» nella società contemporanea «derivi dalla Tecnica, cioè dall’implementazione tecnologica ed economica delle innovazioni cognitive» che provengono da scienze considerate esatte come la matematica, la fisica e la cibernetica. I beni prodotti dalla Tecnica divengono un «fine un sé» e «ogni sistema cerca di accaparrarsene la maggior quota possibile», non solo per soddisfare i propri bisogni, ma «soprattutto per stabilire un’egemonia sui soggetti con cui compete».
La tendenza della Tecnica, quindi, mette all’ordine del giorno «il rischio reale che l’uomo ne sia travolto e inglobato». Se ciò non accade è perché, in ultima analisi, «resta un elemento prodotto dallo sforzo umano e, come tale, attribuisce all’uomo ogni responsabilità in termini di dominio e sottomissione». Quindi se è vero che la Tecnica («cioè la forma principale da cui origina il cambiamento») perde la sua «natura strumentale per diventare uno scopo», è altrettanto vero che l’uomo («sia individualmente che come parte di un progetto umano») resta sempre «in grado di decidere di non farne il proprio obiettivo esistenziale».

Analizzando le metamorfosi della Tecnica «da mezzo a scopo» sul «fronte più evidente dell’economia contemporanea», ovvero «la finanziarizzazione», si può vedere con chiarezza come «l’abnorme crescita delle attività finanziarie derivi da paradigmi della Tecnica che danno vita a prodotti – come i derivati – generati da complesse formule algoritmiche». Nessuna forma di scarsità viene debellata dalla gigantesca crescita della ricchezza finanziaria, «confermando la natura non più strumentale del capitale finanziario generata dalla Tecnica».

Sottoposto alla «frusta» di mercati finanziari pienamente inseriti nella società della Tecnica, «lo storico capitalismo industriale riesce a mantenere il proprio tasso di profitto solo a costo di forti riduzioni di manodopera e di spregiudicate strategie disruptive», come la war economy, l’obsolescenza programmata, il sovraconsumo generato dall’economia dei brand e via discorrendo.
L’evoluzione del capitalismo occidentale, «posto che la produzione di beni tradizionali si è spostata sull’asse indo-cinese», prenderà corpo attraverso la produzione di ancora sconosciuti beni e servizi, «di cui la Silicon Valley rappresenta il modello embrionale».
Questo nuovo «capitalismo dell’innovazione» non si porrà più l’obiettivo dell’integrazione lavorativa e sociale della totalità degli individui, ma solo quello di una «crescita trascinata dalle continue accelerazioni della società della Tecnica». In questo scenario evolutivo, ciò che si troverà «sotto» e «sopra» il corpo sociale rappresentato da coloro che lavorano all’interno dell’economia capitalistica «non sarà più una patologia, bensì una parte fisiologica del sistema».

L’impossibilità di scegliere «la via facile della mercatizzazione dei bisogni primari» obbligherà il capitalismo a ricercare sempre più «in avanti» gli spazi da far divenire «economia» e, contemporaneamente, «lo costringerà a ritirarsi da altri fondamentali common goods sociali» come la salute, l’abitazione e il primo accesso al credito.
Attraverso una simile dinamica si genereranno, per Aleotti, le condizioni necessarie a far sì che una fascia significativa di popolazione esca definitivamente dallo «scenario lavorista». Le economie saranno «libere di competere» senza preoccuparsi dei livelli occupazionali e i bisogni primari verranno «garantiti da strutture della Tecnica non assimilabili allo Stato o al sistema capitalistico».
I mercati finanziari assumeranno una funzione di «casa da gioco globale», la cui legittimazione non deriverà più dalla gestione ordinaria dei debiti pubblici e dei risparmi privati, bensì da «globali volontà di potenza che muoveranno le masse monetarie verso la creazione di nuove superfici abitabili del capitalismo», siano esse avventure spaziali, perforazioni terrestri, recupero di terre desertiche o di fondali marini.

Oggi, dunque, conclude Alessandro Aleotti, «la pressione mediatica e la potenza tecnologica» ci pongono di fronte «suggestioni quasi irresistibili». A ogni suggestione, tuttavia, «corrisponde sempre un sacrificio». Perciò, rimanere fedeli a se stessi, «attraverso un agire disincantato», resta la più feconda e consigliabile delle esperienze, anche perché «non vi è alcuna contropartita che superi la vita stessa e la soddisfazione del capire».


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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Bocconi Editore per la disponibilità e il materiale


Alessandro Aleotti, 55 anni, bocconiano. Pensatore e realizzatore eclettico, ha fondato e diretto un quotidiano d’opinione, la terza squadra di calcio di Milano, un centro di ricerca sulle trasformazioni urbane e progetti imprenditoriali nell’ITC e nell’editoria. Nel 2014 le sue tavole di “scrittura visiva” sono state esposte al Museo della Permanente. Vive e lavora a Milano


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La conoscenza geografica del territorio ancor più necessaria nell’era della globalizzazione: “Limiti” di Alfonso Giordano (Luiss University Press, 2018) 

L’epistocrazia per contrastare lo strapotere degli hooligan politici. “Contro la democrazia” di Jason Brennan (Luiss University Press, 2018) 

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© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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