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Irma Loredana Galgano

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Melancholica deliria multiformia: “L’anatomia della malinconia” di Robert Burton

25 lunedì Gen 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Bompiani, Giunti, Lanatomiadellamalinconia, recensione, RobertBurton, saggio

Come si fa a sconfiggere la malinconia? Essere malinconici equivale a essere folli? Bisogna guarire il corpo o la mente? O entrambi?

Sono queste, o simili, le domande che deve essersi posto Robert Burton quattrocento anni or sono, allorquando iniziò la stesura del suo trattato sulla malinconia.

Burton iniziò la scrittura del testo nel 1620 e la portò avanti, praticamente, fino a che la sua vita non ebbe fine.

Come sottolinea Luca Manini, nella sua introduzione al libro, L’anatomia della malinconia doveva essere, nelle intenzioni dell’autore, una vera e propria cura, una sorta di trattato medico della guarigione.

Accostarsi al libro di Burton significa, per il lettore, avvicinarsi a un’opera che è anche un mondo, che racchiude in sé cielo terra e inferi. Lo trasporta dall’armonia delle sfere celesti sino agli abissi dell’inferno, facendogli osservare il caos che domina il mondo terreno. Ed è in questo caos che si insinua e s’impone, per Burton, la malinconia, questa afflizione dell’animo.

Robert Burton, con L’anatomia della malinconia, ha assunto il compito di studiare la malinconia allo scopo di indicare le possibili cure, e lo ha fatto seguendo uno schema preciso, che trova la sua origine nei principi medici enunciati nell’antichità da Ippocrate e da Galeno:

  1. Analisi sistematica delle cause e dei sintomi.
  2. Esposizione della diagnosi.
  3. Somministrazione della cura.

Il lettore però non deve aspettarsi, nel leggere l’opera di Burton, una trattazione che sia unica e uniforme, piuttosto egli troverà una scrittura ben rappresentativa della natura varia delle manifestazioni dello stato malinconico. Deve quindi il lettore, come scrive lo stesso autore nelle conclusioni dell’opera, attendersi di ridere e di piangere e deve essere, al contempo, sarcastico e comprensivo.

Robert Burton presenta se stesso come una persona malinconica e con questo attiva due distinti processi: da una parte, procede a una identificazione con il lettore malinconico e, dall’altra, assume la possibilità di parlare come auctoritas, ponendosi alla pari con le autorità passate e presenti con le quali puntella ogni pagina della sua opera.

Così come duplice è anche lo scopo ch’egli vuol raggiungere: curare gli altri e curare se stesso, usando la scrittura per sé a scopo terapeutico e destinando agli altri la lettura.

D’altronde duplice è, per Burton, anche la natura stessa della malinconia, poiché essa può essere un sentire di dolce struggimento, ma può anche essere il genio malvagio, che porta sofferenza e tormento spirituale.

La malinconia, che Burton assimila a una delle infinite forme della pazzia, è qualcosa di più di un semplice stato di alterazione mentale e/o fisica.

Secondo le teorie mediche dell’antichità, ancora seguite quando Burton scrisse L’anatomia della malinconia, la salute di corpo e mente era il risultato dell’equilibrio tra i quattro umori che costituiscono l’essere umano: sangue, flegma, bile gialla e bile nera.

Nel momento in cui questo precario equilibrio si spezza, ecco insorgere la malattia, la quale dunque può essere indicata come uno squilibrio tra gli umori, nel segno dell’eccesso o del difetto.

La salute poteva essere riacquistata solo ricomponendo questo equilibrio. Tuttavia Burton vede la malinconia talmente diffusa in tutti da farsi cifra del mondo, causa e motore primi dell’agire umano, degli umani comportamenti al punto che essi sono sorretti non dalla sapienza o dalla ragione bensì dall’irragionevolezza e dall’irrazionalità; dalla vanità che nega la visione di ciò che è vero e reale; dalla mancanza di una virtù che dia alle cose il loro giusto peso e valore; da uno squilibrio che è alterazione, cecità, deformazione, mutilazione.

Ed è proprio la consapevolezza di questo tormento universale che spinge Burton a scrivere L’anatomia della malinconia.

L’autore vuole condurre i suoi lettori nei gironi infernali della malinconia, per indicare loro una via d’uscita dal labirinto di male che la malinconia è, perché la malinconia assume mille forme diverse, tante quante sono le persone. E così li trascina, i lettori, in un flusso ininterrotto di parole citazioni immagini storie personaggi esempi… al punto che per Manini si potrebbe porre a epigrafe dell’opera una delle tante citazioni che lo stesso Burton riporta: melancholica deliria multiformia. Sono parole che hanno in sé il tema del libro, il disordine della mente che delira e la molteplicità.

Ciò che Burton mette in scena nella sua opera è l’uomo dinanzi al mistero delle cose; è l’anelito di conoscenza; l’ansia di investigare. E, nella commedia/tragedia che è la vita umana, egli raffigura, insieme, la possibilità di conoscere e l’impossibilità di farlo fino in fondo, la vastità e il limite, la chiarezza e l’opacità.

Nel momento in cui Burton avoca a sé una conoscenza precisa di ogni singolo aspetto del cosmo, si appella a una serie infinita di auctoritates le quali, a ben vedere, si contraddicono a vicenda. Così egli prima le mette in discussione, poi addirittura le nega.

Per Manini sembra quasi che Burton lanci delle vere e proprie sfide ai lettori, alla loro intelligenza, alla capacità di discernimento, spronandoli così al confronto, come lui stesso fa, e alla riflessione.

Il suo è il metodo di chi non smette mai di porsi domande, che lascia sempre degli spazi aperti alla ricerca nuova. Un invito forse che egli fa al lettore, a non lasciarsi mai pienamente soddisfare da una teoria o da un’altra, a essere sempre aperti a nuove interpretazioni, nuove proposte.

Ma come si riesce a tornare all’armonia? Come si vince lo stato universale della malinconia?

Due sono i rimedi principe che Burton suggerisce a conclusione della propria opera:

  1. Evitare l’ozio. Tenersi sempre fisicamente e mentalmente impegnati.
  2. Pregare.

Somma cura è, per la malinconia, raggiungere il summum bonum che, secondo Epicuro e Seneca, è la tranquillità della mente e dell’animo. Per sconfiggere questo male, o malessere che sia, la disperazione deve essere volta in speranza di rigenerazione.

In diversi punti del testo ma, in particolare nelle conclusioni, Robert Burton si rivolge direttamente al lettore, lo coinvolge in qualità di agente attivo della propria guarigione dalla malinconia, gli ricorda il legame indissolubile tra mente e corpo.

Ma ciò che colpisce delle parole dell’autore è l’umiltà che egli prova dinanzi al lettore, il timore e, al contempo, la consapevolezza di essersi messo allo scoperto scrivendo il libro e, di conseguenza, esposto alla critica. Teme che alcuni passaggi del testo possano essere poco apprezzati, perché troppo satirici e pieni di amarezza, oppure perché troppo comici o scritti con troppa leggerezza.

Si mostra consapevole di eventuali errori e sviste e non esita a imputarle alla mancanza di revisione. Avrebbe dovuto leggere, rileggere, correggere ed emendare ma non lo ha fatto: non ne ho avuto l’agio o il tempo, non avevo né amanuenses né assistenti.

L’anatomia della malinconia è un’opera monumentale, e non solo per la sua grandezza fisica – essendo composta infatti da oltre tremila pagine. È un viaggio nella cultura seicentesca. È un’opera che potrebbe continuare all’infinito, è un trattato medico ma anche un manuale di anatomia e fisiologia, un trattato filosofico ma anche una sorta di antologia della poesia europea, un atlante geografico e un testo di storia antica e moderna, un trattato di astrologia e astronomia ma anche un libello satirico.

Un libro che si può leggere come un viaggio verso un rinnovato ordine, verso una luce nuova; come una lotta per riconquistare ciò che si è perduto, riformando e rifondando il mondo. E se diamo per certo l’assunto di Burton secondo cui il mondo intero è malinconico (se non addirittura pazzo), allora, sottolinea Manini, tutte le persone potranno trovare qualcosa che, ne L’anatomia della malinconia, possa parlare a loro, essere loro di aiuto e di conforto.

Burton stesso scrive che trova conforto nel pensare le critiche varie come i palati: tanti saranno quelli che lo criticheranno almeno quanti quelli che lo apprezzeranno. Nella sua opera sarà talmente vasta e varia la mole di informazioni che il lettore, anche contemporaneo, troverà che questo equilibrio sarà per certo mantenuto.


Bibliografia di riferimento

Robert Burton, L’anatonia della malinconia, Giunti Editore S.p.A./Bompiani, Firenze/Milano, prima edizione settembre 2020.

Titolo originale: The anatomy of melancholy – volumi I, II, III, originally published by Oxford University press, 1989, 1990, 1994.

Traduzione e note Luca Manini.

Introduzioni di Luca Manini, Amneris Roselli, Yves Hersant.

Traduzione delle citazioni latine e revisione generale di Amneris Roselli.

Testo in inglese a cura di Thomas C. Faulkner, Nicolas K. Kiessling, Rhonda L. Blair.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Giunti Editore per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Il senso della vita raccontato da Edith Pearlman in “Intima apparenza” (Bompiani, 2017)

28 venerdì Lug 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Bompiani, EdithPearlman, Honeydew, Intimaapparenza, recensione, romanzo

Il senso della vita raccontato da Edith Pearlman in “Intima apparenza”

Esce in prima edizione a luglio 2017 con Bompiani Intima apparenza di Edith Pearlman, nella versione tradotta in italiano da Stella Sacchini dall’inglese americano. Il titolo originale del libro, Honeydew, è legato a uno dei racconti, Melata appunto. Questa secrezione zuccherina lasciata dagli insetti sui vegetali e raccolta dalle api le quali, a loro volta, la depositeranno nel loro alveare e diventerà parte del loro miele, “catturato” anche da altri esseri, tra cui gli umani. L’essenza di questa dolcezza che viene presa, trasportata, trasformata, lasciata… zuccheri che nel libro della Pearlman diventano sentimenti, soprattutto amore e dolore.

Un libro struggente, Intima apparenza, che mostra al lettore la disarmante sofferenza quotidiana, che lacera e tormenta nei gesti ordinari e abitudinari della vita, i desideri che rimangono nascosti, gli amori celati, le passioni proibite, i dolori profondi… «chiunque fossero, erano stati spediti all’altro mondo e avevano abbandonato il futuro. Avevano voltato le schiene morte ai sopravvissuti condannati a piangerli fino alla fine dei loro giorni».

Ventidue racconti, alcuni brevi altri di più ampio respiro ma tutti, indistintamente, profondi e intensi. Storie che il lettore legge come rapito dall’abilità narrativa dell’autrice, magistralmente preservata dalla traduttrice, dal registro linguistico che sembra formarsi attorno ai vari personaggi e originarsi direttamente dal loro parlare. Tante storie che raccontano tanti argomenti. Narrazioni del vivere quotidiano ambientate in una camera, una casa, un ospedale, un bosco o una via… fin da subito e ogni volta l’ambientazione sembra essere determinante per il racconto ma poi il lettore scopre che ad esserlo, in realtà, sono le persone e i loro sentimenti indissolubilmente legati a doppio filo non solo con l’ambiente che li circonda ma proprio con la Natura da cui tutto si origina.

Il senso della vita raccontato da Edith Pearlman in “Intima apparenza”

La natura, il tempo, i sentimenti… componenti essenziali dell’essere e della stessa vita. Esistenze intere votate a risparmiare tutto per poi scoprire che è meglio «spenderlo il tempo piuttosto che risparmiarlo». Abbandonare l’ottica della sola apparenza e concentrarsi verso obiettivi e concetti meno effimeri seppur egualmente evanescenti. «Ciò che contava davvero per Bonnie era come ci si comporta finché la morte ti permette di vivere e come affrontare la morte quando la vita ti lascia».

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La perdita prematura di un congiunto, la malattia, la sofferenza, la devianza, i disturbi mentali e quelli fisici, la paura, l’adulterio, i disordini alimentari, i compromessi… argomenti forti trattati dalla Pearlman con grande profondità e sensibilità, raccontati al lettore attraverso i pensieri, le azioni e le parole dei protagonisti delle intense storie partorite dalla sua fervida immaginazione che molto, moltissimo sembra aver attinto e imparato dalla vita quotidiana, dall’apparente ordinaria vita che uomini e donne, adulti e bambini vivono ogni giorno. La normalità, dietro cui spesso si nascondono un grande mistero, un segreto, un vizio o una virtù. Proprio dall’osservazione dei comportamenti umani sembrano aver avuto origine le storie narrate da Edith Pearlman in Intima apparenza, filtrate dalla sua immaginazione ed elaborate dalla stessa autrice in base a quello che effettivamente si era prefissa raggiungesse e colpisse i suoi lettori.

Il senso della vita raccontato da Edith Pearlman in “Intima apparenza”

Storie che, come frecce scagliate dall’arco di un abile arciere, raggiungono il centro dei pensieri di chi legge le parole e, al contempo, riflette sul loro significato. Un libro, Intima apparenza di Edith Pearlman, di un realismo talmente vero da apparire crudele.


Per la prima foto, copyright: Toa Heftiba.

Articolo originale qui

© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La quotidianità sconfigge i demoni in “Fato e Furia” di Lauren Groff (Bompiani, 2016)

01 mercoledì Feb 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Bompiani, FatesandFuries, FatoeFuria, LaurenGroff, recensione, romanzo

La quotidianità sconfigge i demoni in “Fato e Furia” di Lauren Groff

Lauren Groff ha costruito la vicenda portante di Fato e Furia, tradotto in italiano per la cura di Tommaso Pincio e pubblicato dalla Bompiani, attorno a una serie di interrogativi fondanti. Cosa si nasconde nei meandri più bui della nostra mente? Si possono cancellare le azioni commesse o subite con la sola forza del pensiero? Si può rinnegare una figlia perché ha commesso un errore?

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Stando a quanto riportato dal quotidiano britannico «The Guardian» il 25 dicembre del 2015 il presidente americano Obama e Amazon hanno incoronato Fates and Furies libro dell’anno. Sembrerebbe che i lettori vengano catturati dal lato oscuro del moderno matrimonio raccontato dalla Groff. È la stessa autrice nei ringraziamenti a legare il libro a un doppio matrimonio: da una parte quello dei protagonisti, Lotto e Mathilde, e dall’altra al proprio, «incredibilmente fortunato», con Clay. Ma non dice che Fato e Furia è un libro che parla di matrimonio, né antico né moderno, e infatti non lo è. Ciò che invece afferma con estrema chiarezza è la sua opinione «ambivalente riguardo al matrimonio». E questo si ritrova più volte nel testo.

Dalla Florida al Maine passando per Parigi e la campagna francese, la Groff sfrutta tutti gli scenari possibili per ambientare le “scene” del suo romanzo che a tratti ricorda le saghe famigliari tanto care al pubblico americano. Case coloniche, grandi proprietà, immense ricchezze e fortune, i sogni e le chimere del successo… tutti tasselli del puzzle noto come “sogno americano” che in Fato e Furia si scontrano, come uno schiaffo sulla guancia, con la miseria, la delusione, la depressione, l’alcolismo, la perversione e i demoni di personalità borderline lasciate da sole ad affrontare paure e dolori. E sarà questo a unire le vite e i corpi di Lotto e Mathilde, i segreti non detti, le passioni represse, i desideri inespressi… non la loro unione, né classica né moderna, che per convenzione viene chiamata “matrimonio”.

La quotidianità sconfigge i demoni in “Fato e Furia” di Lauren Groff

La struttura del libro di Lauren Groff sembra costruita su un doppio binario, da una parte il bianco e dall’altra il nero. Prima l’io narrante è Lotto, poi Mathilde. Nella prima parte il protagonista è lui, nella seconda lei. Risulta quasi incredibile scoprire come le due metà combacino alla perfezione, siano convergenti e allo stesso tempo complementari; sarà solo dopo averle lette entrambe che il lettore avrà una visione d’insieme e una maggiore coscienza della portata dell’opera e del lavoro dell’autrice. Nel libro gli eventi sembrano governati dal fato ma in realtà è la furia a dominare su tutto e tutti, sia quando essa decide di agire sia quando sceglie invece di rimanere sopita. La furia nelle sue tre personificazioni (vendetta, ira e rimorso) regola la vita di Lotto e di sua madre Antoinette, del suo migliore amico Chollie e di Mathilde, la cui vera natura verrà svelata solo nelle ultime pagine allorquando compirà l’azione, l’unica possibile e necessaria per cancellare il buio del diniego dal suo essere più profondo. Solo allora Mathilde capirà di non essere una persona completamente sbagliata e che forse a una bambina di quattro anni il beneficio del dubbio va dato lo stesso, anche se ha commesso un gravissimo errore.

Dopo la repentina morte di Lotto, Mathilde si ritrova nuovamente sola ad affrontare la vita e i suoi demoni. Mentalmente ripercorre ogni singolo fotogramma, ogni istante durante il quale il suo respiro ha incontrato quello degli altri dando origine a un’alchimia rivelatasi nella gran parte dei casi esplosiva. Rivive gli anni del matrimonio con Lotto, le feste con gli amici di sempre, il suo lavoro in galleria e il rapporto controverso con il titolare Ariel, gli anni del college, quelli trascorsi in casa di suo zio e gli altri da sua nonna… fino a ritrovarsi di nuovo bambina nella grande casa di famiglia con i nonni paterni, i genitori e il fratellino.

La quotidianità sconfigge i demoni in “Fato e Furia” di Lauren Groff

Ripensando al giorno in cui la sua vita è cambiata, nell’esatto momento in cui quella di suo fratello si spegneva a causa dei traumi riportati in seguito alla caduta dalle scale di cui viene incolpata lei, matura l’idea della cancellazione come vendetta e impiega i soldi guadagnati lavorando costantemente al fianco di suo marito per distruggere proprietà, ricordi, senso di colpa, passato e futuro. Non le rimane che il presente, gli anni del suo “matrimonio” con Lotto, quelli in cui ha deciso di vestire i panni della persona che avrebbe sempre voluto essere.

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Non so se Fates and Furies sia o meno il miglior libro del 2015; quel che è certo è che leggendo Fato e Furia di Lauren Groff si rimane affascinati dalla prosa scorrevole, dalla trama intrigante, dai contenuti mai scontati, dal retrogusto amaro che lascia nel lettore l’intera vicenda.

http://www.sulromanzo.it/blog/la-quotidianita-sconfigge-i-demoni-in-fato-e-furia-di-lauren-groff

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