Nei vicoli storti, fuori e dentro le mura del manicomio,
Lena si appunta su foglietti di carta
le storie che ha udito, per non dimenticarle,
e le custodisce in una borsa di tela rossa.
L’uomo che suonava l’organetto sotto le finestre del manicomio la aspetta sul molo.
Ti racconto una storia, gli sussurra lei all’orecchio, e poi un’altra e un’altra e ancora un’altra…
Sono storie di confino, dal luogo dove rinchiudono le donne che urlano per le strade e non si lavano e non si pettinano;
storie di uomini che vogliono le donne come proprietà,
animali per figliare, serve per accudire.
Sono storie di morti e nascite violente, di case-prigioni.
Nell’immaginario collettivo, la Calabria è come il dio bifronte Giano. O la amatissima meta turistica con il suo splendido mare e l’ottimo cibo, oppure la temutissima terra aspra come le sue montagne, piena di covi, nascondigli, segreti e Male.
Ma la Calabria raccontata da Fasanella nei suoi libri non appartiene ad alcuno di questi fronti, oppure a entrambi.
L’autrice narra la storia delle donne che vivono o che hanno vissuto quel territorio. Le cui vite sono scivolate attraverso i muri, i pavimenti, i camini sempre accesi e sono giunte fino a noi.
Hanno fatto sentire così la loro voce, altrimenti muta e silenziosa, come i granelli non della sabbia delle spiagge ma della cenere del fuoco con la brace ancora viva, ardente come l’amore, la passione, la sofferenza, il dolore… come i sentimenti che le vanno a comporre quelle vite che Fasanella tramanda.
Racconta la vita, Fasanella, ma quella intima, quotidiana, personale. Una vita che si consuma tra le mura di abitazioni che possono anche essere o diventare prigioni, o tra quelle di manicomi che prigioni lo sono davvero.
Aliti di vita che sembrano entrare in ogni seppur minima crepa di questi muri, negli oggetti, nei tessuti, come nelle persone, nella loro anima egualmente scalfita dalle crepe lasciate dalla stessa vita.
Il registro narrativo di Madri è molto introspettivo, come le storie di cui racconta. Frasi brevi, spesso minime, periodi che sembrano la trascrizione letterale dei pensieri e delle immagini presenti nella mente dei protagonisti, delle protagoniste, le cui azioni reali, concrete, si fondono e si confondono con i pensieri, i ricordi, i desideri, i tormenti.
Ricorre nei racconti di Madri l’immagine di queste donne che cercano la luce, l’aria, il respiro attraverso i vetri delle finestre e più ancora affacciandosi al balcone, in gesti assolutamente ordinari che assumono nelle parole dell’autrice una valenza simbolica di straordinaria importanza e significato. È l’anelito di libertà che, nonostante tutto, muove ancora la mente e il corpo di queste martoriate donne, di queste “indegne” madri.
Madri che si sentono immeritevoli oppure schiacciate, soffocate quasi da questo ruolo come da quello di mogli, e lo sono o lo diventano perché vittime di umiliazioni e vessazioni psichiche e fisiche.
Madri, donne che si guardano a vicenda, si studiano, si cercano ma senza mai trovarsi davvero. Senza volerlo in realtà perché, pur nella loro somiglianza, rifiutano di identificarsi le una nelle altre, proprio in virtù di ciò che esse rappresentano per la società: donne di scarto, madri folli, persone indegne, rifiuti umani.
Tutta questa oppressione influenza e condiziona la mente di queste donne al punto che esse, nel sentirsi inadeguate e inutili, finiscono col desiderare la fine, la morte, il suicidio.
«Abito questo luogo chiuso da muri e cancelli. Sono finestre alte fino al soffitto
quelle si affacciano sul parco, chiuse dalle grate, profonde come nicchie,
si vede solo il cielo nuvolo di questo giorno di fine ottobre,
si vede che è ancora giorno ma sembra notte.
Una nebbia fitta ha avvolto il mondo.
Non li chiamano più manicomi. Lo stesso ci legano le braccia,
frugano nelle nostre carni, scavano nelle pupille: siamo merce di scarto.»
Le donne, le madri di cui scrive Fasanella sono anime e corpi inquieti. Tormentate dai ricordi, dai sogni infranti, dagli amori sbagliati, dai comportamenti “storti” che originano conseguenze “storte”, punizioni spesso malvagie e crudeli, ingiuste e dolorose.
Più volte si forma nella mente di chi legge un’immagine che rimanda al torso ormai spolpato di una mela, una pera oppure di un qualsiasi frutto. Ai raspi acerbi privati di ogni acino d’uva.
Queste donne, che hanno imparato fin da piccole la durezza della vita, mostrano sul loro corpo i segni di questa brutalità quasi primitiva, certamente arcaica, ma è soprattutto nella loro anima che si leggono chiaramente i segni dei traumi, scalfiti e profondi come solchi rigati da un grosso aratro.
Queste donne che per secoli non hanno avuto voce, vittime di una cultura che le relega a un ruolo marginale all’interno della società e della casa. Donne la cui voce resterebbe ancora muta se non fosse la ribellione e il coraggio di chi sceglie, comunque, di parlare, di urlare a gran voce il diritto di esistere, di amare, di sognare, di sbagliare.
Durante la sua indagine, condotta in lungo e in largo per l’Italia, ciò che ha meravigliato molto Gaia van der Esch è stata la reticenza, l’insicurezza, la riservatezza mostrate dalle donne italiane. Mentre gli uomini, per la maggiore, si sono mostrati più spavaldi e sicuri, per così dire, nelle risposte, le donne esternavano spesso un’insicurezza e un’indecisione non necessariamente dovute a lacune o ignoranza.1 A ciò facilmente si potrebbe obiettare che si è trattato di una casualità. Potrebbe anche darsi ma più probabilmente ciò è il riflesso preciso della realtà, basterebbe osservarla con più attenzione. Come ha fatto Gaia van der Esch. Come fa Marisa Fasanella.
Scrive Peter May ne L’uomo di Lewis che la piccola Ceit ha dovuto imparare presto quanto il mondo può essere più difficile per una giovane donna rispetto a un uomo e che doveva imparare quanto prima a difendersi dagli adulti che la consideravano un peso o peggio un’occasione.2
Rispetto ai libri precedenti, la scrittura di Marisa Fasanella è diventata ancora più intimistica, anche se con ogni probabilità non strettamente personale. Appare fortissimo il legame tra i personaggi e la scrittura che li ha originati. Un certo distacco invece si evince tra i personaggi e la mente di chi li ha originati. Quasi come se l’autrice volesse lasciarli liberi di parlare, di raccontare da sé la loro storia. È questo un “artificio” narrativo di straordinario interesse.
Sembra quasi che Fasanella non volesse prendersi il merito di averli creati, generati, lasciando il cono di luce e l’intero palcoscenico a loro.
Una situazione che a tratti ricorda quella generatasi in Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello.3 Qui le protagoniste, le donne, le madri sembrano cercare la loro autrice, il suo assenso, come nel timore di poterla in qualche modo deludere. Il tutto potrebbe anche essere un grande gioco, perfettamente riuscito, della stessa autrice.
Le storie raccontate in Madri sono dei labirinti intrecciati di vita, ricordi, speranze e sogni infranti, dolore, amore e passione sfioriti, paura e follia. Un viluppo che si inerpica tra le parole tentando di vincerle, di uscire dalle pagine del libro e al contempo restarne imprigionate. Quasi come queste, tutto sommato, rimandano in loro un certo senso di sicurezza e stabilità, esattamente come accade con i muri e le inferriate dei manicomi, all’interno dei quali e in una maniera forse incomprensibile le donne arrivano addirittura a sentirsi a proprio agio, come a casa, più che a casa.
«Da questo luogo non è mai uscito nessuno fino a quando non li hanno chiusi.
Mi hanno liberata nel mondo e non sapevo dove andare.»
Fasanella racconta storie dure, tristi. Storie di soprusi, dolore, violenza. Aggressività fisica e verbale di uomini contro donne. Ma racconta anche quello che c’è dietro o prima. Le privazioni, le umiliazioni perpetrate da altre donne, le stesse cui è stato universalmente riconosciuto il compito di crescere, educare, accudire, amare. Madri. Nonne. Zie.
Traspaiono così dai racconti dell’autrice tutte le pecche di una cultura che è ancora molto indietro, per rispetto reciproco e senso civico. Una cultura nella quale chi non si allinea, chi è diverso viene additato come malato o pazzo.
Eppure in ognuno di noi albergano follia e malvagità. Bisogna solo vedere in che misura.
Di certo il libro di Marisa Fasanella non è una lettura distensiva. Il lettore capisce fin da subito di trovarsi tra le mani un testo con uno scopo. Che il suo raccontare «storie che vengono da lontano» serve a non lasciare «al buio le donne che sono venute prima e quelle che verranno». L’importante è sapersene prendere cura.
Un libro, Madri di Marisa Fasanella, che è un insieme di storie ma è soprattutto un ottimo romanzo moderno.
Il libro
Marisa Fasanella, Madri. Storie di Lena di luna e di maree, Castelvecchi Editore, Roma, 2021.
L’autrice
Marisa Fasanella: autrice di numerosi romanzi e racconti. Vincitrice dei Premi Letterari Corrado Alvaro e Vincenzo Padula. Menzione della giuria del Rapallo-Carige.
1Gaia van der Esch, Volti d’Italia. Viaggio nei nostri pensieri, desideri e paure, Il Saggiatore, Milano, 2021.
2Peter May, L’uomo di Lewis, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2013.
3Luigi Pirandello, Guido Davico Bonino (a cura di), Sei personaggi in cerca d’autore, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2014.
Articolo disponibile anche qui
Source: Si ringrazia l’autrice per la disponibilità e il materiale.
Disclosure: Per l’immagine in evidenza, credits www.pixabay.com
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“Doppia pena. Il carcere delle donne” di Nicoletta Gandus e Cristina Tonelli (Mimesis, 2019)
“Resti tra noi. Etnografia di un manicomio criminale” di Luigigiovanni Quarta (Meltemi, 2019)
“Il male in corpo” di Marisa Fasanella (Castelvecchi, 2019)
“L’uomo di Lewis” di Peter May (Einaudi Stile Libero, 2013)
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