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Irma Loredana Galgano

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Teoria e pratica del lavoro sociale: “Intercultura e social work”

17 domenica Gen 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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CentroStudiErickson, ElenaCabiati, Interculturaesocialwork, recensione, saggio

Arthur Schopenhauer affermava che ogni uomo confonde i limiti del suo campo visivo con i confini del mondo, è ciò induce a considerare il proprio mondo e la propria cultura come gli unici possibili e plausibili. A pensare il proprio gruppo di appartenenza come il centro di ogni cosa. A valutare e classificare gli altri in rapporto a esso.

Atteggiamento che Claude Lévi-Strauss e Bronislaw Malinowski definirono, intorno alla metà del secolo scorso, etnocentrismo, ovvero porre la propria cultura al centro dell’universo. Un pensiero che Elena Cabiati ritiene essereimponente e che, nella sua apparente banalità e immediatezza, può pervadere anche le pratiche di social work diventando l’espressione invisibile e gentile, più tollerabile e meno feroce, del razzismo.

Cabiati sottolinea come sia fondamentale, per un assistente sociale o un educatore, accogliere l’idea che, nei colloqui, andranno a interagire non solo con l’uomo, la donna o la famiglia che avranno di fronte ma anche con i loro rispettivi mondi micro-culturali composti da più voci interiori. Per cui, diventa difficile, seppur non impossibile, pensare a un assistente sociale o a un educatore convinto della supremazia della propria cultura. Peggio ancora immaginarlo intento a persuadere una famiglia ad adottare abitudini, stili di vita, norme sociali o credenze proprie della cultura di maggioranza poiché apertamente convinto che sia la migliore.

L’immagine di un operatore sociale etnocentrico è quella di un professionista culturalmente monolitico, con entrambi i piedi saldamente piantati nei propri valori, con radici immobilizzate nelle proprie concezioni e nelle esperienze che compongono la sua cultura. Per l’autrice, le radici non sono negative in quanto tali, bisogna però riuscire a muoversi.Quella mobilità necessaria per incontrare, accogliere e comprendere la differenza, per potersi decentrare, secondo il metodo degli shock culturali di Cohen – Emerique. La mobilità dalla propria visione del mondo non è la rinuncia o l’abbandono di questa. Per un operatore sociale è importante essere mobile per poter guardare aldilà dei propri confini senza doverli perdere.

Il social work implica una relazione etica con l’Alterità e una capacità di riconoscere e rispettare le componenti di differenza, non necessariamente derivanti dall’incontro con persone immigrate provenienti da Paesi lontani. Si pensi all’incontro tra un assistente sociale e una persona senza fissa dimora, analfabeta, tossicodipendente, affetta da malattia cronica, disabile, in stato di detenzione… Gli operatori sociali possono percepirsi distanti, con uno stile di vita, una cultura e dei valori diversi anche verso coloro che hanno un buon livello socio-economico, una prestigiosa occupazione o un alto grado di istruzione, e che tuttavia, per qualche motivo, sono diventati loro utenti.

Ricorda Cabiati che il social work, sia nella declinazione professionale che in quella accademica, è sempre una disciplina di frontiera dinamicamente protesa verso altri mondi. Una relazione tra self and other che nel pensiero filosofico di Lévinas è sempre inevitabilmente distante per via del fatto che l’Altro è quello che io non sono.

Nell’incontro con persone afferenti a minoranze etniche vi possono essere complicazioni extra derivanti dal dover fare i conti con l’idea che forse non possiamo sopportare troppa diversità.

Diversi studiosi hanno affermato che le relazioni di aiuto con persone e famiglie di minoranza etnica possono divenire per i professionisti fonte di disagio, se non di veri e propri shock culturali o intercultural misunderstandings, ossia incomprensioni interculturali. Elena Cabiati afferma di essere concorde con Badwall nel pensare che, mentre li vivono, gli operatori sociali non riescono a essere empatici, centrati sull’utenza e riflessivi. Eppure è necessario pensare ai social work come professionisti, ma anche volontari, che non incontrano cittadini che hanno un’origine diversa di per sé, piuttosto persone, gruppi e comunità di minoranza etnica che vivono particolari stati di sofferenza e disagio.

Se social worker e utenti, imprigionati nei loro ruoli distinti, sostituiscono al riconoscimento una Mutual tollerance, ossia semplicemente si tollerano reciprocamente, può rivelarsi insufficiente per una relazione di comprensione e aiuto, pur essendo talvolta un primo importante passo. Mary Richmond sosteneva la necessità di portare nel cuore l’intima convinzione del valore infinito rappresentato dalla nostra caratteristica comune, quella di essere uomini.

L’idea che un operatore sociale ha del proprio interlocutore condiziona profondamente il modo in cui si relaziona a lui, sia per rispondere alla richiesta di aiuto, che per esprimere la propria capacità aiutante. Nessun assistente sociale riuscirà a essere di aiuto a una persona in difficoltà se i principi di rispetto, valore e dignità, enunciati a livello astratto, non trovano una congruente espressione nella pratica reale. Per Elena Cabiati non può esserci aiuto efficace finché non ci riconosce diversi ma di egual valore.

Ciò, naturalmente, vale anche al contrario. Non è solo colui che chiede aiuto ad aver bisogno di essere riconosciuto come persona nella sua differenza, unicità e valore. Anche un professionista o un volontario ha bisogno di riconoscimento per poter al meglio esprimere la propria attitudine all’aiuto. Uno dei due è coinvolto nella vita dell’altro per aiutarlo. Entrambi per aiutarsi reciprocamente, secondo il metodo Relazionale del lavoro sociale.

In ottica interculturale, lo stile relazionale non opprime il sentimento di sapere dei diretti interessati e non pone la competenza metodologica dei professionisti in balìa delle differenze interculturali. Esso si basa, come ricorda Elena Cabiati, sull’assunto che bisogna comprendere gli utenti di culture diverse prima che le diverse culture degli utenti. Distinzione sottile dal punto di vista linguistico ma sostanziale da quello metodologico.

Piuttosto che concentrarsi sulla conoscenza delle differenze astratte e provare a raggiungere l’elusivo, come teorizzato da Saunders, gli assistenti sociali devono concentrarsi sull’ascolto critico attivo e attentivo delle persone per farsi aiutare da quest’ultime nel comprendere quali aspetti delle loro vite sociali e culturali sono importanti per loro, come hanno evidenziato anche gli studi di Hollinsworth.

I social worker non devono guardare al mappamondo e pensare alle attribuzioni schematiche compatibili con la categoria di riferimento per individuare i tratti culturali delle persone. Devono invece fare affidamento sulla possibilità di chiedere aiuto al proprio assistito, mettendo in pratica il concetto di reciprocità nel lavoro sociale, come individuato da Folgheraiter.

Ritiene egli che nessun antropologo può essere così avvantaggiato nel conoscere un’altra cultura quanto un operatore sociale o terapeuta che accosti una vita sradicata e scossa. La stessa Cabiati riprende le teorizzazioni di Benhabib per delineare una efficace linea di azione. Per comprendere qual è la cultura della persona che deve aiutare, un operatore sociale deve iniziare dal presente. È importante riservare un alto grado di attenzione a ciò che le persone direttamente esprimono, nell’idea che è possibile venire a conoscenza dell’identità culturale altrui attraverso le narrazioni con cui questi identifica se stesso.

Non si tratta di ignorare la provenienza e la storia pregresse delle persone, mette in guardia l’autrice, bensì di non ancorarle staticamente a esse.

Senza dubbio la dimensione culturale può influenzare le scelte delle persone che incontra, talvolta anche inconsapevolmente, ma non è possibile pensare di immobilizzare la loro capacità d’azione entro uno scenario prospettico che è predeterminato nell’appartenenza a un’area geografica del mondo.

Sul concetto di cultura Elena Cabiati sottolinea l’importanza di cinque idee base che aiutano nella comprensione:

  • La geografia non determina la cultura.
  • La costituzione biologica non forma la cultura.
  • Ogni cultura è multiculturale.
  • Le culture si evolvono.
  • Tutti gli esseri umani sono inclini a difendere la propria cultura.

La cultura presenta infatti una dimensione intersoggettiva, ossia riguarda più soggetti e le relazioni tra essi. Per ciascuna delle parti, la cultura espressa è frutto delle esperienze e delle relazioni con i rispettivi altri significativi; persone che, a vario titolo, hanno contribuito e contribuiscono alla definizione delle scelte e alla costruzione delle attribuzioni di significato. L’autrice evidenzia in diversi punti del testo la necessità, in relazione alle finalità di aiuto degli interventi di un operatore sociale, di considerare la cultura nella sua componente intersoggettiva.

Come sottolinea Fabio Folgheraiter nella prefazione al testo, il lavoro sociale possiede in essenza una profonda matrice interculturale. Non si potrebbe immaginare tale pratica professionale al di fuori di una logica interculturale. Dover costruire ponti di umanità (connessioni emozionali forti) a fronte di estraneazioni psichiche di tali dimensioni, richiede agli operatori sociali non solo il loro tradizionale inossidabile spirito di abnegazione, ma anche un bagaglio davvero profondo di conoscenza scientifica.

E l’opera di Elena Cabiati risponde proprio a questa esigenza in area italiana, essendo il primo manuale sistematico che indaga il complesso rapporto tra antropologia delle culture umane e pratiche del social work. Nonostante il ragionamento e la letteratura sul lavoro sociale siano tutt’ora scarni, sia dal punto di vista della ricerca, sia per ciò che concerne la pratica operativa e la formazione degli operatori sociali, le organizzazioni di welfare devono rispondere ai rapidi cambiamenti demografici della popolazione che accede ai Servizi, e devono farlo, spesso, senza una preparazione adeguata né particolari aiuti strutturali.

Bibliografia di riferimento

Elena Cabiati, Intercultura e social work. Teoria e metodo per le relazioni di aiuto, Edizioni Centro Studi Erickson, Trento, 2020.

Prefazione di Fabio Folgheraiter.

L’autrice

Elena Cabiati è assistente sociale, ricercatrice del centro di ricerca Relational Social Work, docente di social work interculturale e di metodologia del servizio civile presso l’Università Cattolica di Milano e di Brescia.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa del Centro Studi Erickson per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


LEGGI ANCHE

L’occidentalizzazione del mondo non significa che l’Occidente sta diventando il mondo”. “Paesaggi migratori” di Iain Chambers (Meltemi, 2018) 

La conoscenza geografica del territorio ancor più necessaria nell’era della globalizzazione: “Limiti” di Alfonso Giordano (Luiss University Press, 2018) 

Ognuno guarda il mondo convinto di esserne il centro: Razzismi e Identità. “Classificare, separare, escludere” di Marco Aime (Einaudi, 2020) 

Perché abbiamo lasciato che ‘i nostri simili’ diventassero semplicemente ‘altri’? “Somiglianze. Una via per la convivenza” di Francesco Remotti (Editori Laterza, 2019) 


 

© 2021, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Crescere uomini. Le parole dei ragazzi su sessualità, pornografia, sessismo” di Monica Lanfranco (Erickson, 2019)

25 sabato Apr 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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CentroStudiErickson, Crescereuomini, MonicaLanfranco, recensione, saggio

Monica Lanfranco si occupa da anni di educazione alla sessualità. Gira con fatica nelle scuole di tutta Italia cercando, di volta in volta, di abbassare l’altezza e ridurre lo spessore, con lo scopo di arrivare a farli scomparire, dei muri costruiti a suon di stereotipi e pregiudizi, arcaici retaggi culturali e ignoranza purtroppo largamente diffusa, il tutto condito con una massiccia dose di presunzione di superiorità con cui ancora oggi vengono educati bambini e ragazzi.
Crescere uomini è il titolo del libro edito da Erickson che assembla l’esperienza e le considerazioni dell’autrice e riporta anche molte delle risposte date dai ragazzi che hanno partecipato al sondaggio, creato dalla stessa Lanfranco, basato sui temi della sessualità, della pornografia e del sessismo.

A colpire è, tra le tante cose, il fatto che la quasi totalità dei ragazzi dichiara che la fonte unica, primaria e assoluta di insegnamento, apprendimento e ispirazione per la propria sessualità è la pornografia attraverso il web.
Lanfranco afferma che questo è un dato che dovrebbe fare riflettere le persone adulte di riferimento. Verissimo.
La pornografia basa i propri bias sulla carnalità e l’assenza di contesti, emozioni, sentimenti, responsabilità, maturità… le persone diventano corpi-oggetto atti a soddisfare pulsioni. È evidente e palese che il ricorso a questo tipo di visione produca effetti non proprio lodevoli negli adulti quindi si possono facilmente immaginare le conseguenze nefaste che causano sui giovani.
È lecito a questo punto domandare quanti degli adulti che dovrebbero orientare ed educare i giovani coltiva la propria sessualità matura allo stesso modo, ovvero attraverso la pornografia.

È prassi comune confondere la divisione biologica che vede la presenza di persone o animali di sesso maschile e di sesso femminile (maschi e femmine) con quella sociale che vede invece la divisione in uomini e donne. L’avere un apparato di riproduzione che funziona regolarmente o meno non dovrebbe essere fattore determinante e descrivente l’essere umano cui appartiene. Purtroppo non è così e la confusione che impera nell’attuale sistema culturale non può che ingenerare seri danni a coloro i quali viene trasmesso.
Esiste poi tutto l’universo dei transgender. Dal libro di Monica Lanfranco appare palese che i giovani – e anche i non più tali in realtà – fatica ancora a ben comprendere i diritti delle categorie più longeve, figuriamoci poi con quelle recenti. Purtroppo.

Da una recente indagine condotta da wired.it è emerso chiaramente che questi ragazzi, educati alla sessualità dalla pornografia, non si accontentano di esserne semplici fruitori passivi ma la trasformano in azioni concrete nelle quali si fondono e si confondono desideri e pulsioni sessuali, risentimento e vendetta, aggressività e violenza.
Per quanto tempo ancora gli adulti designati alla loro educazione e formazione e le istituzioni continueranno a ignorare il problema o a relegarlo come fenomeno marginale?
E di nuovo si ritiene lecito e doveroso domandare quanti adulti in realtà, pur non ammettendolo, condividono le posizioni espresse e le azioni intraprese da questi ragazzi.

Si chiede Lanfranco come si potrà mai riuscire a sconfiggere modelli sessisti e stereotipi che vogliono, ad esempio, l’uomo cacciatore e la donna preda, senza un’educazione ai sentimenti e all’empatia sin dai primi anni di scuola e socializzazione. Già. Come darle torto.
Invece di lasciare che i ragazzi e le ragazze formino il loro immaginario e attingano informazioni sulla sessualità attraverso il mondo della pornografia online bisognerebbe instaurare con loro un dialogo fin dall’infanzia, perché affrontare il discorso della sessualità nelle varie età della vita serve certamente a prevenire gravidanze precoci o indesiderate nonché malattie sessualmente trasmissibili ma anche a educare “alla convivenza pacifica tra le persone e nella collettività, avendo l’educazione una potente funzione preventiva nei confronti della velenosa piaga della violenza maschile sulle donne, che è alla base di ulteriori violenze nel contesto umano”.

Nelle risposte date al questionario somministrato loro dalla stessa autrice, i ragazzi hanno mostrato immaturità e, al contempo, una violenza inaudita. Sono soli, troppo soli nell’affrontare un aspetto fondamentale della loro crescita esistenziale ed è evidente che da soli e soprattutto attraverso il ricorso alla pornografia non ce la potranno mai fare a crescere uomini davvero.

«È la libertà di concepire il sesso in modo personale e di manifestarlo a proprio modo. La sessualità è una libertà di chiunque.»

Dietro questa risposta, che non è tra le peggiori che si leggono nel libro, traspare pesante un retaggio culturale, consentitemi, molto bigotto che affianca la sessualità a qualcosa di nascosto, sporco, peccaminoso. Almeno questo è ciò che viene insegnato nella speranza di tenere i giovani lontano il più possibile da essa. Complice anche una certa ingerenza religiosa che raconta di castità, purezza, celibato… E così nell’immaginario di giovani e non il piacere sessuale diventa ben presto qualcosa di proibito e, come tale, ancora più desiderabile. Ottenerlo equivale allora a raggiungere la libertà. Ottenerlo a qualunque costo. E le donne, seguendo quest’ottica, sono tutte solamente delle femmine procura piacere, proprio come le femmine della pornografia, ovvero l’unica educazione alla sessualità che hanno conosciuto.

Viene da sé che nel Terzo Millennio ciò è palesemente inammissibile, o dovrebbe esserlo. In Italia di educazione sessuale fatta bene se ne discute sin dagli anni Settanta ma ancora non si è trovato il bandolo della matassa. Possibile? Incredibile ma vero. Quando si affrontano argomento quali il sesso, la sessualità e l’orientamento sessuale, ci ricorda l’autrice, è necessario sapere che ci si trova davanti, prima di tutto, alla paura: di dire la cosa sbagliata, di dire troppo, di essere troppo espliciti… in buona sostanza istituzioni, educatori e famiglie non riescono a trovare il modo giusto per parlare agli adolescenti di sesso, sessualità e orientamento sessuale per timore, paura, ignoranza e, mentre loro lasciano passare anni prima di decidere come fare, intere generazioni fanno formazione con la pornografia attraverso il web e danno libero sfogo alla rabbia e al risentimento accumulati nelle chat di social dove impera sessismo, maschilismo, misoginia, istigazione palese alla violenza e allo stupro, pornografia e pedopornografia… Sintetizzando ancora: un vero disastro.

Alla domanda cosa significa per te essere virile?, due risposte sono risultate particolarmente esemplificative degli universi culturali contrapposti tra i quali la società può scegliere, spingendo l’educazione verso l’uno o l’altro paradigma:

•“Essere carismatico e donnaiolo, di corporatura massiccia e peloso.”
•“Secondo il codice dei gentlemen significa avere rispetto dell’altro sesso.”

Il rispetto, il pilastro intorno al quale andrebbe costruito l’intero sistema di valori. Un rispetto che naturalmente deve essere reciproco e universale.

Crescere uomini di Monica Lanfranco, ma in realtà tutto il lavoro da lei svolto, rappresenta un’ottima base di partenza per serie riflessioni sul tema e sui problemi esistenti ma, soprattutto, è la testimonianza di una strada percorribile per risoluzione di questi problemi.


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa del Centro Studi Erickson per la disponibilità e il materiale


Consiglio di Lettura

Françoise Héritier, Maschile e femminile. Il pensiero della differenza. Titolo dell’edizione originale Masculin/Féminin. La pensée de la différence


 

© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Neuromarketing e potere subipnotico dell’era digitale. “Il cervello aumentato l’uomo diminuito” di Miguel Benasayag (Erickson, 2016)

23 lunedì Gen 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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CentroStudiErickson, Comunicazione, filosofia, Ilcervelloaumentatoluomodiminuito, MiguelBenasayag, neuromarketing, recensione, saggio

Siamo certi che l’unica via possibile per una coabitazione e una coevoluzione fra la vita, la cultura e la tecnica sarebbe questa vera e propria «artefattualizzazione del mondo»? Miguel Benasayag dichiara un suo convinto no e afferma di aver scritto Il cervello aumentato l’uomo diminuito proprio per dare il suo “piccolo” contributo alla famosa questione del senso, che «non è niente di più e niente di meno che il mondo della vita e della cultura», allo scopo di non farla annientare dalla «fascinazione infantile e spesso nichilista dei tecnofili irriflessivi».

El cerebro aumentato, el hombre disminuido uscito nel 2015 con Paidós in Argentina, arriva in Italia nel 2016 edito dal Centro Studi Erickson nella versione tradotta da Riccardo Mazzeo che ne ha curato anche la prefazione. Un libro, Il cervello aumentato l’uomo diminuito, che si rivela fin da subito molto interessante, per l’argomento trattato come per le considerazioni personali dell’autore che possono anche non essere condivise dal lettore ma che egualmente lo invogliano a una utile riflessione sull’evoluzione del mondo e dell’uomo contemporaneo. Benasayag comunque cerca di rimanere quanto più neutrale gli riesce e di affidare a studi scientifici i dati su cui riflettere, con riferimenti a conoscenze mediche, chimiche, fisiche, psicologiche, filosofiche e tecnologiche.

Leggi anche – Neuroschiavi, la Manipolazione del Pensiero attraverso la Ripetizione

Per Benasayag lo sviluppo tecnologico sovverte la struttura della nostra società con una forza comparabile soltanto «all’emergenza storica del Rinascimento», con tutto il carico di speranze e di paure che ne deriva. Quella attuale è la prima cultura a essere letteralmente «posseduta dalla tecnologia» che ha generato l’idea di vivere un’epoca dove tutto è possibile, e dove ciò che appare impossibile in realtà viene interpretato come non ancora possibile. Questa «tentazione di una potenza illimitata», che si affianca sempre più spesso alla «promessa di una deregolazione totale», si pone in netta antitesi alla «essenza stessa della vita in tutte le sue dimensioni: la fragilità». Che non va intesa come debolezza, bensì come “caducità della vita” di ungarettiana memoria.

 

L’autore non è contrario alla tecnologia e al suo sviluppo, solamente si sofferma su alcuni aspetti “deviati” del suo utilizzo. Tutto ciò che la tecnologia rende possibile si trasforma, nelle nostre società e nelle nostre vite, «rapidamente in qualcosa di obbligatorio» e non perché ci sia una costrizione fisica ma in quanto questi «possibili» che in «linea di principio ci facilitano la vita, scolpiscono il mondo secondo modi e caratteristiche propri». Inoltre va sottolineato che è in atto una vera e propria «rivoluzione della misura» che «punta a migliorare (aumentare?) le capacità del cervello umano a vantaggio della efficacia economica». Le conoscenze e i risultati degli studi sul cervello vengono usati sempre più spesso come «neuromarketing». Dove condurrà tutto questo? L’intento di Benasayag non è giudicare ma conoscere, capire e, potendolo fare, scegliere se proseguire lungo questa che viene indicata come l’unica via percorribile oppure provare almeno a trovarne delle altre.

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Il cervello umano viene di continuo equiparato a una «Macchina di Turing», capace di elaborare una quantità enorme di dati e di “trarre conclusioni” a partire dall’utilizzazione degli algoritmi e del programma incorporato, ovvero il software. Ma il cervello umano è altro. Innanzitutto questo è legato e strutturato al corpo che lo contiene e la «deterritorializzazione imposta dalla digitalizzazione sta creando una vera e propria distanza fra l’uomo e il mondo, e fra l’uomo e se stesso». Una “deterritorializzazione” che si declina in una «alterazione del cervello e del biologico organico in generale».

L’eccesso di informazione codificata priva di esperienza diretta trasforma gradualmente il cervello in una «lastra di gestione di informazioni» ma si tratta di informazioni che non «modellano il cervello perché non passano per il corpo». Tra gli esempi più efficaci addotti dall’autore spiccano quelli relativi alla formazione e alle “conoscenze” dei bambini.

Gli schermi di TV, giochi, tablet, computer dinanzi ai quali grandi e piccoli umani trascorrono sempre più tempo non solo non «aggregano le dimensioni» ma addirittura le annientano, creando una «forza irresistibile che ci affascina» e ci pone in uno «stato subipnotico, né gradevole né spiacevole: assente».

I bambini hanno perso o stanno perdendo il loro diritto ad annoiarsi, non tollerano la «frustrazione ingenerata dall’interruzione della cascata di stimoli» cui sono quotidianamente sottoposti durante i giorni «regolarmente strutturati da un diluvio di immagini». In questi momenti i bambini si sentono come di fronte a «un vuoto angoscioso». Ciò rappresenta un problema reale in quanto «la noia è fondamentale per lo sviluppo delle zone cerebrali associate all’immaginazione e alla creatività».

 

Scrivere a mano vuol dire «impegnarsi in una pratica che territorializza quel che stiamo pensando» mettendo in movimento reti neuronali e modificando la quantità di neuroni, la loro dimensione, le sinapsi e via discorrendo. La digitalizzazione del mondo, «la sostituzione di qualunque riferimento al mondo, per passare a funzionare con modellazioni di esso» implica un importante mutamento qualitativo. Il ruolo degli umani diventa secondario anche «nella circolazione ultrafluida dell’informazione». L’umano non è che un segmento di tale circolazione, «un segmento ogni volta sempre più destrutturato e fluido».

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Jean-Jacques Rousseau sosteneva che «il problema, con il progresso, è che vediamo quel che guadagniamo ma ignoriamo quello che perdiamo». Tanto più ci avvaliamo di informazioni custodite nella macchina e da questa elaborate, tanto meno il cervello potrà «scolpirsi, svilupparsi». La quantità di «vita intensiva» è differente per ogni cervello e dipende da quel che ciascun cervello «sperimenta». La domanda giusta da porsi è se davvero si vuole “delegare” alle macchine e alla digitalizzazione una quantità via via maggiore di funzionalità che caratterizzano il cervello nella consapevolezza che quello che di questo organo non viene utilizzato o stimolato o sfruttato in breve diventa “perduto”.

 

Nell’interscambio macchina-uomo avviene «un processo in una sorta di playback di trasformazione del cervello in “applicazioni” pratiche». In altre parole: l’interscambio con le macchine “macchinizza” l’uomo. Benasayag evidenzia la necessità di riuscire a «individuare dove si sia posizionata la singolarità in un mondo e in un paesaggio che cambiano giorno dopo giorno». Un mondo dove la tecnologia sembra abbia «colonizzato la cultura e la vita» e dove si può ancora cercare una modalità di «ibridazione umano-biologica-artefatto» che favorisca la «colonizzazione della tecnologia da parte della vita e della cultura».

Un ottimo saggio, Il cervello aumentato l’uomo diminuito di Miguel Benasayag, in grado di accompagnare il lettore in un viaggio nella “fragilità” degli umani in un mondo, quello attuale, in cui tutto sembra orientato verso «l’ideale di emanciparsi dalla natura». L’uomo moderno è colui che «pretende di autocostruirsi», ambisce a essere «il creatore e la creatura» e per raggiungere il suo obiettivo vorrebbe che «nulla di ciò che è innato venga a disturbarlo», incluso il suo corpo. L’uomo moderno però sembra dimenticare o non conoscere che corpo e cervello sono strutturati insieme, che la “potenza tecnologica” in realtà è molto meno complessa del biologico organico, che un “cervello aumentato” non corrisponde necessariamente a conoscenze di “spessore” maggiore… e Benasayag ha fatto benissimo a ricordarlo.

Miguel Benasayag: Filosofo e psicoanalista di origine argentina che vive ed esercita la professione di psicoterapeuta a Parigi. Partecipò alla guerrilla guevarista nel suo Paese dove restò in carcere per anni. È autore anche di L’epoca delle passioni tristi e C’è una vita prima della morte?

Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa del Centro Studi Erickson per la disponibilità e il materiale.

 

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© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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