«È triste, in un terzo millennio già avanzato, doversi ancora occupare di razzismo.»
È con questa significativa frase che si apre al lettore il saggio di Marco Aime. Un libro che approccia il problema da differenti angolazioni, non da ultimo quella storica. È importante comprendere e analizzare, almeno cercare di farlo, perché in epoche diverse e in luoghi differenti sorgano sentimenti di repulsione verso certi gruppi e, soprattutto, come mai tali pulsioni possano trasformarsi in eventi tragici di esclusione, reclusione e anche di morte.
Aime ricorda che, escludendo la sua variante istituzionale – basata su leggi esplicitamente discriminatorie ̶ , e gli eccidi commessi in suo nome, molto spesso il razzismo si presenta come un atteggiamento strisciante, fatto di piccoli gesti, troppo spesso sottovalutati, e di sentimenti diffusi che finiscono talvolta per gettare le basi di un vero e proprio sistema.
Oggi sembra muoversi lungo il labile confine che lo separa dall’etnocentrismo, malattia diffusa che colpisce ogni gruppo umano, facendolo sentire superiore agli altri.
Riporta l’autore la definizione datane da William Graham Summer nel 1906: Etnocentrismo è il termine tecnico che designa una concezione per la quale il proprio gruppo è considerato il centro di ogni cosa, e tutti gli altri sono classificati e valutati in rapporto a esso.
Il razzismo infatti, per Aime, nasce dalla non volontà di conoscere e dall’ansia di classificare, di incasellare, ma di farlo nel modo più semplice e rassicurante, così come classifichiamo piante, animale, rocce. Un apartheid preventivo insomma, che ci allontana senza conoscerci e allo stesso tempo ci fa sentire vicini e simili, altrettanto senza conoscerci.
Oggi ci ritroviamo a dover fare i conti con alcune delle mille sfaccettature del razzismo, declinato in chiave identitaria. Sembrava impossibile che si potesse ritornare a quei deliri eppure sono bastati pochi decenni per assistere a un rifiorire di idee di stampo razzista, espresse in forme diverse ma sempre basate sullo stesso principio: la difesa ossessiva di una presunta purezza del Noi.
Un pregiudizio snobistico e autoreferenziale che sembra davvero essere una debolezza umana universale, evidenziata anche da Claude Lévi-Strauss.
«L’umanità cessa alla frontiera della tribù, del gruppo linguistico, talvolta persino del villaggio, a tal punto che molte popolazioni cosiddette primitive si autodesignano con un nome che significa gli “uomini” (o talvolta – con maggiore discrezione, diremmo – “i buoni”, “gli eccellenti”, “i completi”), sottintendendo così che le altre tribù, gli altri gruppi o villaggi, non partecipino delle virtù – o magari della natura – umane, ma siano tutt’al più composti di “cattivi”, di “malvagi”, di “scimmie terrestri” o di “pidocchi”.»
Le narrazioni sulla razza tentano di radicare la cultura nella natura e di equiparare i gruppi sociali con le unità biologiche. Essenzializzando sul piano somatico-biologico il diverso, l’Altro, ricorda Aime, si giunge a definire i puri (ovvero Noi) e gli impuri (Loro). Ed è nel momento stesso in cui differenze che potevano essere considerate culturali, religiose, etniche vengono percepite come innate e immutabili che inizia il razzismo vero e proprio.
Riprendendo i concetti espressi da Bruce Baum, Aime sottolinea come l’idea stessa di razza contenga già i germi del razzismo. Infatti la classificazione su base razziale, per esempio, non è che un’applicazione sistematica dell’etnocentrismo a tutta la specie umana. E, citando Karen e Barbara Fields, evidenzia come quella della razza sia a tutti gli effetti un’ideologia la quale, al pari di ogni altri ideologia, non ha vita propria. Se la razza sopravvive ancor oggi non è perché ci è stata tramandata o perché l’abbiamo ereditata, bensì perché continuiamo a crearla. E il tutto continua a essere coltivato anche sulla base di contraddizioni e ipocrisie, proprio come accaduto in passato.
Interessante ed emblematico l’esempio, riportato nel testo dall’autore, inerente la Dichiarazione d’Indipendenza americana nella quale si legge: We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal (Noi riteniamo per certo che queste verità siano di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali). Bellissime parole. Scritte e sottoscritte da persone che, con ogni probabilità, possedevano schiavi neri.
Oggi però il razzismo non si presenta sotto la forma di un’ideologia esplicita e definita, espressa in tesi facilmente condannabili. Il nuovo razzismo si è riformulato sul piano della differenza culturale e, aggirando così il vecchio biologismo, opera con o senza riferimento alla razza nel senso stretto del termine. Aime descrive nel dettaglio come esso, pur non basandosi più sulla razza, in realtà utilizza lo stesso atteggiamento rispetto alle differenze, mirato a svalorizzare l’altro. Questo neorazzismo fonda le proprie spiegazioni nella storia e nella cultura invece che nella biologia e, a volte, si maschera da nazionalismo o da sovranismo.
La nostra infatti è un’epoca postrazziale (ma non postrazzista), caratterizzata da nuove dinamiche di inclusione e di esclusione che si reggono non solo sui segni tangibili e visibili, come il colore della pelle, ma anche e soprattutto sulla cultura e sulla provenienza.
Ecco allora che un termine è rapidamente diventato leit motiv ed espressione chiave delle retoriche politiche postmoderne: identità.
A contribuire alla fortuna delle proposte identitarie sono concorsi diversi fattori tra cui il progressivo decentramento delle produzioni industriali, il passaggio da un modello capitalistico fondato sul lavoro a un’economia sempre più incentrata sulla finanza, la precarizzazione del lavoro, l’erosione progressiva dei servizi e del welfare… in breve, tutto quello che ha contribuito alla nascita di quella che Zygmunt Bauman ha definito società liquida e gravida di incertezze.
Fattori tutti che hanno ingenerato ansia e paure, portando a vedere minacce derivanti da una globalizzazione che vorrebbe omologare tutti attaccando cultura e identità locali.
La crisi economica e la sempre più snervante competizione sul mercato del lavoro offrono un terreno quanto mai fertile ai populisti, che tentano di incanalare rabbie, angosce, frustrazioni lungo la strada della xenofobia e dell’esclusione.
Atteggiamenti e prese di posizione che a volte, purtroppo, vengono sfruttate anche dagli stessi Stati i quali, depauperati della loro tradizionale sovranità, temono di dover prima o poi ammettere debolezze e limitazioni e, motivati dalla volontà di celare l’inganno e proseguire nella finzione, assumono atteggiamenti repressivi nei confronti di coloro che intaccano potenzialmente ma inevitabilmente questa finzione: gli stranieri, gli esclusi.
Aime ricorda al lettore come il pensiero di Stato abbia talmente condizionati i cittadini al punto da far ritenere davvero “loro” il territorio nazionale. Le nuove circolazioni internazionali stanno invece mettendo in crisi tale pensiero, togliendo il velo di ipocrisia che esista un territorio abitato da gente identica. La verità è che oggi, come in passato, il pianeta è costellato da diversi insiemi di quelli che Mbembe definisce territorio mosaico e l’appartenenza a una nazione non è più solo una questione di origine, ma anche di scelta.
Una cosa che accomuna oggi gran parte degli elettori è la rabbia e il risentimento contro chi governa o ha governato fino a ieri. Un qualcosa che a Marco Aime ricorda i rituali di ribellione, ovvero le manifestazioni collettive in cui i rappresentanti dell’autorità e del potere possono essere oggetto di schermo e di irriverenza, ma solo nei termini e nel contesto specifico del rituale. Una sorta di ribellione ritualizzata, come l’ha descritta, dopo averla studiata in Africa meridionale, Max Gluckman.
Il cittadino postmoderno è sempre più solo e solitario e pervaso da un senso di rabbia crescente e indistinta, che non riesce più a tradursi in proposta politica. Allora si limita a chiedere ciò a cui pensa di avere diritto in un modo sempre più incontrollabile, e il colpevole di ogni perdita diventa chi tale mondo ha governato fino al giorno prima: l’élite, la casta o la politica in generale. I populisti non hanno un vero progetto per risolvere i problemi, ma sono in grado di intercettare e fare proprio quell’immaginario rancoroso, che cerca una sorta di vendetta.
Il sentimento politico si trasforma in rancore e il voto diventa il rifugio del disagio e delle pretese privatistiche. In buona sostanza, uno sfogo più che una scelta.
Senza una progettualità vera e propria la politica si ribella a se stessa ma lo fa con un cambiamento apparente. Ecco allora che Aime vede il nesso con i rituali di ribellione. Il sentimento è diventato risentimento. Ciascuno esprime la propria scelta, spesso rabbiosa, senza però inquadrarla in un qualsivoglia orizzonte futuro.
Queste paure, queste solitudini, questo risentimento, avverte l’autore, sono il brodo di coltura di cui si nutrono i diversi movimenti xenofobi che stanno raccogliendo più consensi in tutto il mondo occidentale, presentandosi come l’antipolitica nel momento in cui occupano tutti gli spazi della politica.
E, ancora una volta, lo si fa sulla base di un grande paradosso: i nemici, causa di tutti i mali, sono l’Europa, intesa come Unione Europea e, al contempo, coloro che ne sono chiamati fuori, gli extracomunitari, ovvero i non europei.
C’è senz’altro del vero nelle parole di George David Aiken: se dovessimo svegliarci una mattina e scoprire che tutti sono della stessa razza, credo e colore, troveremo qualche altra causa di pregiudizio entro mezzogiorno. Perché, come sottolineava Umberto Eco, avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro.
Quando consideriamo diverso l’Altro è perché lo misuriamo sul nostro metro ed è qui che nascono i problemi. Abbiamo tutti bisogno, sottolinea Aime, di uno specchio che non rifletta l’immagine di noi stessi, ma quella di colui o coloro da cui vogliamo distinguerci.
I giovani identitari si ritagliano addosso un abito da guerriero Come i loro padri cinquant’anni prima, mettono in discussione chi li ha preceduti ma non per chiedere pace, libertà, uguaglianza e diritti per tutti, al contrario, per limitarli a loro stessi, esponenti bianchi nati in Europa.
Il mito dell’identità ha il vantaggio di presentarsi come nuovo, senza il peso della storia e senza il carico negativo che il razzismo si porta dietro. Ma è ben noto dove porta l’anelito alla “purezza” della razza o, in questo caso, della cultura. Eppure, sottolinea con rammarico Aime, oggi sembra che i termini “fascista” o “razzista” stiano perdendo sempre più la loro carica di stigmatizzazione e quasi non ci si vergogna di proclamarsi, anche pubblicamente, tale. Nella quasi totale indifferenza o rassegnazione.
«Non temo le urla dei violenti, ma il silenzio degli onesti.»
Martin Luther King
A margine dell’analisi di questo straordinario saggio mi sia consentita una breve nota. Nei ringraziamenti Marco Aime elenca tra i suoi “maestri” Vanessa Maher. Nel leggerlo tanti sentimenti sono riemersi, all’improvviso. Mia docente per la seconda annualità del corso di antropologia culturale e relativo esame ho avuto modo di vedere, e ricordare, la preparazione, la dedizione, la serietà… l’incarnazione della grandezza e della potenza della Cultura, quella vera che non ha bisogno e non cerca nemici, che vuole abbatterli i muri invece di costruirli, che vuole capire e non giudicare. La Cultura vera che si basa sulla Conoscenza e non il suo falso alter ego basato su pregiudizio, ignoranza e arroganza.
Bibliografia di riferimento
Marco Aime, Classificare, separare, escludere. Razzismi e identità, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2020
Articolo disponibile anche qui
Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa Einaudi per la disponibilità e il materiale
Disclosure: per la prima immagine, credits www.pixabay.com
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