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Irma Loredana Galgano

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Il futuro della comunicazione sono i video? Nasce a Milano il Festival #videomakeroftheyear

09 venerdì Mar 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Comunicazione, RinnovamentoCulturaleItaliano

Se il futuro della comunicazione sono i video allora ciò implica una grande responsabilità in coloro che li elaborano, ovvero la nuova figura professionale definita videomaker. Persone che, con l’avvento dell’era digitale, hanno condensato in un’unica figura le professioni di regista, cameraman, montatore, produttore e autore.

Una responsabilità enorme se si pensa che la maggiore diffusione i video la trovano nelle piattaforme online che premiano le visualizzazioni e non i contenuti, con il rischio elevato di far diventare virali produzioni trash, kitch, di cattivo gusto o gossip. Responsabilità degli utenti che li visualizzano certo ma anche di chi li produce con lo scopo precipuo di diffonderli.

Anche per questo motivo ben vengano iniziative volte a regolamentare le produzioni video e a premiare i meritevoli, in senso buono. Ovvero le produzioni di qualità.

Nasce a Milano #videomakeroftheyear il primo Festival dei videomaker e della comunicazione, che avrà luogo il 14 e il 15 marzo 2018 in diverse sale messe a disposizione dalla Libera Università di Lingue e Comunicazione (IULM). L’intero progetto nasce da un’idea del suo direttore, Marco Bertani, e sarà un’occasione per visionare i tanti video iscritti al concorso (500), premiare i più meritevoli, parlare della professione del videomaker, del filmmaker e dei video come strumento di comunicazione. Una parte dell’evento sarà dedicata alle opportunità di sviluppo del lavoro legato a videomaking e comunicazione, con incontri dedicati anche ad avvicinare differenti figure professionali del settore per discutere su idee e progetti, convergenze e possibilità (Meet Your Director).

Sono 15 le categorie video da premiare:

  • Cortometraggio
  • Lungometraggio
  • Documentario
  • Wedding
  • Spot
  • Virale/Fake
  • Travel/Reportage
  • Music/Videoclip
  • Sport
  • Action
  • Recensione
  • Vblog
  • Web serie
  • Istituzionale/Fashion/Training
  • Graphic/Animated

Cui si aggiungeranno 3 premi speciali offerti dalla rivista Tutto Digitale, per la miglior regia, miglior montaggio e miglior fotografia.

La giuria tecnica di 10 esperti sarà affiancata da 3 membri scelti tra videomaker professionisti e 3 semi-professionisti. Numerosi gli ospiti che interverranno durante gli speech, i workshop e le cerimonie di apertura e chiusura. Il Festival è aperto a tutti i talenti: il professionista, il semi-professionista, l’amatore e lo youtuber. I video inviati provengono da videomaker di ogni parte del mondo. Cosa che ha meravigliato gli stessi organizzatori. Ma, in fondo, questo è proprio uno degli aspetti peculiari della Rete e dell’era digitale.

Il Festival rientra tra le iniziative in programma per la Milano Digital Week (15-18 marzo), di cui è anche partner.

Tutte le info su www.videomakeroftheyear.com

C’è molta attesa ora per la visione dei video in concorso e per la premiazione, nella speranza che il Festival serva a lanciare un grande messaggio di qualità e professionalità, anche amatoriale, perché se è vero che i video sono il futuro della comunicazione lo è anche il fatto che rivestiranno sempre maggiore importanza nella diffusione della cultura, campo al quale il trash e il kitch non dovrebbero mai appartenere.


Source: Si ringraziano il direttore Marco Bertani e Ferdinando de Martino dell’Ufficio Stampa del Festival videomakeroftheyear per la disponibilità e il materiale


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© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La Globalizzazione come produttore di periferie. “IN-SECURITY. La comunicazione della paura nell’età medio-globale” di Annamaria Rufino (Mimesis, 2017)

12 sabato Ago 2017

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AnnamariaRufino, Comunicazione, Globalizzazione, INSECURITY, insicurezza, MichelMaffesoli, MIM, Mimesis, paura, recensione, violenza, webmondo

Esce con Mimesis, del marchio editoriale MIM, nella collana Eterotopie, il saggio sulla comunicazione nel tempo della globalizzazione IN-SECURITY di Annamaria Rufino, con la prefazione a firma del professore emerito della Sorbona Michel Maffesoli, tradotta dal francese da Ciro Pizzo.

Un testo breve e conciso ma, al contempo, interessante, chiaro e con un gran bello scopo: precisare alcuni aspetti essenziali della globalizzazione, che è un «produttore di periferie» per effetto della «crisi del sistema relazionale e della fine della dimensione spazio-tempo» e, soprattutto, della comunicazione al tempo della medio-globalità.

Il «totalitarismo dolce delle democrazie occidentali» si contrappone al «totalitarismo duro», come quello «del nazismo e dello stalinismo», ma è comunque necessario, doveroso discorrere dei buchi neri creati da questa “dolcezza”, degli errori e delle assenze di iniziative… in una parola, come sottolinea l’autrice nel testo, dei «vuoti» nel sistema che generano «insicurezza, paura, violenza». Vuoti, mancanze che non riguardano solo i cittadini, le persone, bensì le Istituzioni la cui responsabilità maggiore sembra risiedere nell’incapacità di fare in modo che «la conoscenza, il sapere sappiano adattarsi alla “complessità” attuale». Il “webmondo” prevede «nessuna partecipazione dell’utente» e può, a tutti gli effetti, essere considerato una «ideologia totale» che ha «destrutturato la capacità interpretativa del mondo, trasformando la società globale in una super-massa».

Per Maffesoli, l’intuizione fondamentale del libro della Rufino sta nel tentativo dell’autrice di cercare il modo per «integrare nella maniera più a buon mercato l’insicurezza, come canalizzare libido ed energia, personali e collettive». Un po’ svolgendo la funzione sociale che da sempre hanno avuto le «Feste dei folli, le inversioni sociali, i carnevali», ovvero quella di «ritualizzare l’insicurezza» mediante queste «configurazioni antropologiche che hanno saputo far metabolizzare l’istinto aggressivo, che è proprio dell’animo umano». Inutile negarlo o regalarlo ai margini, alle “periferie”. Etichettarlo come afferente a gruppi etnici e sociali specifici. Il risultato è questo “vuoto” conseguenza diretta di «quest’energia fondamentale “slancio vitale (Bergson) o anche “libido” (Jung)» che, non potendo essere repressa, viene manifestata sotto forma di in-sicurezza, paura, smarrimento, violenza fisica e verbale che ha trovato terreno fertile anche nella Rete e nei social network e che ha origine da seri «problemi di coesione sociale, ordine, sicurezza, identità».

Come un’illusione ottica, «la globalizzazione e, direi, la comunicazione globale» non produce “conoscenza” o sapere ma “narrazioni”, «labili narrazioni come quelle giornalistiche, di ogni fonte, che dominano i fatti e sono fagocitanti rispetto a tutte le conoscenze e a tutti i saperi». Una vera e propria «ideologia destrutturante» in quanto la narrazione giornalistica è, in buona sostanza, un «produttore di fatti di cui non è possibile o è quantomeno difficile verificare la fondatezza, della notizia e della sua interpretazione». Ragion per cui «la percezione del dato sfuma in immagini e parole cui si fatica a dare un volto e un senso» e la comunicazione allora «rimane mera informazione». A lungo andare le narrazioni giornalistiche creano «un vuoto interpretativo e cognitivo». Inoltre questo tipo di comunicazione acquisisce sempre maggiore spazio. Quello «lasciato vuoto dalle istituzioni».

Annamaria Rufino più volte ripete ne IN-SECURITY la necessità di «un’azione coordinata e consapevole» da parte delle istituzioni in maniera tale da «correggere un sistema arido di comunicazione e di interpretazione», oltre che di «consapevolezza dei sistemi sicuritari», in quanto l’insicurezza percepita in modo diffuso e incontrollabile «si è trasformata paradossalmente nell’indicatore principale utilizzato per misurare i difetti d’ingranaggio tra sistema istituzionale e sociale» di un modello, quello occidentale, che «si è dissolto proprio nel momento in cui ha raggiunto la sua massima estensione».

Uno strumento valido di aiuto potrebbe essere, secondo la Rufino, «riabilitare alla sicurezza attraverso una comunicazione responsabile», individuando i «punti cruciali del complesso meccanismo dell’insicurezza» così da disattivare «il diffuso atteggiamento difensivo che si trasforma in violenza e aggressione, attive e passive, verbali e fisiche». La sfida a questo punto, che l’autrice pone ai suoi lettori in forma di domanda, è la concreta possibilità di una comunicazione sostenibile che contrasti le derive totalizzanti del non-luogo medio-globale.

Un libro interessante IN-SECURITY. La comunicazione della paura nell’età medio-globale di Annamaria Rufino, in grado di stimolare il lettore verso un dibattito solo in apparenza aperto e diffuso. Una riflessione valida e concreta sul problema della in-sicurezza e della paura, della comunicazione e dell’informazione nell’era dichiarata della loro massima diffusione.

Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Mimesis Edizioni per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte biografia dell’autrice www.mimesisedizioni.it

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© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Riflessioni sparse sul sistema giudiziario italiano in “La tua giustizia non è la mia” di Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo (Longanesi, 2016)

14 martedì Mar 2017

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Comunicazione, corruzione, GherardoColombo, giustizia, istruzione, Latuagiustizianonelamia, Longanesi, mafia, PiercamilloDavigo, politica, sistemagiudiziarioitaliano

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È uscito a settembre 2016 con Longanesi il libro di Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo La tua giustizia non è la mia. Dialogo tra due magistrati in perenne disaccordo. Un testo che rimanda a una amichevole discussione/dissertazione tra due colleghi, trascritta poi e diventata così un libro. Molto interessanti i contenuti mentre è proprio la struttura che a tratti infastidisce il lettore il quale, volendo esser certo di attribuire al giusto interlocutore questa o quella affermazione, è costretto più volte a ritornare al capoverso dove, di volta in volta come nei dialoghi, viene indicato il titolare delle dichiarazioni. Un dialogo di oltre cento pagine. Per il resto il libro risulta sin da subito molto utile per apprendere sfumature e misteri del sistema giudiziario italiano visto nel suo insieme e confrontato con altri stranieri, in particolare il norvegese, l’americano, il francese e l’inglese.
Dodici punti elaborati nel corso della discussione e una conclusione volta a chiarire se e quanto sia davvero differente il concetto di giustizia dei due autori. Non si chiarisce del tutto quanto effettivamente la giustizia di Colombo sia lontana da quella di Davigo ma leggendo il testo nel lettore vige costante l’impressione che mentre Gherardo Colombo sembra perdersi nei suoi ideali Piercamillo Davigo mantenga sempre attivo un certo pragmatismo. Per leggerli in accordo bisogna attendere il capitolo sulla corruzione, uno dei mali peggiori del nostro Paese, tutt’altro che risolto. Per Davigo «il problema principale è che mentre prima (di Tangentopoli, ndr), pacificamente, si rubava per fare carriera all’interno dei partiti politici» adesso «si usano altri sistemi» che al momento non è ancora chiaro quali siano perché «i processi relativi alle elezioni primarie non li abbiamo ancora fatti». Per Colombo prima di Tangentopoli «la corruzione, a livelli elevati, era un sistema» mentre ora «è diffusa a qualsiasi livello» e così tanto «che è praticamente impossibile riuscire a contrastarla attraverso strumenti di controllo».
Se la “élite” politica mostra ai cittadini questo volto non ci si può stupire quando Davigo afferma che «l’Italia è un paese nel quale la regola principale di comportamento verso l’autorità è la slealtà». Sono atteggiamenti, comportamenti, stili di vita che si apprendono quasi inconsciamente. Esattamente come quando a scuola si apprende la «apologia dell’omertà contro l’autorità, che è uno dei pilastri fondanti della cultura mafiosa». La scuola italiana, che Davigo considera «una delle peggiori fucine di illegalità che esistano in questo paese», è in prevalenza incentrata sul confronto/scontro tra i buoni e cattivi, i bravi e i somari, il rigore e le “spie”… E non si può non concordare con Davigo quando sostiene che «bisogna fare in modo che sia conveniente comportarsi bene e sconveniente comportarsi male. Altrimenti l’educazione non serve a niente».
Un ottimo modo per cominciare sarebbe quello di cominciare a “punire” dall’alto, nel senso che i primi a pagare per errori e crimini dovrebbero essere i cosiddetti colletti bianchi. «In Italia i ricchi rubano più dei poveri» eppure «non li prendono mai» e quando succede «gridano all’ingiustizia». Certo. Non ci sono abituati. La soluzione che viene cercata è peggiore di una beffa, è davvero un’ingiustizia considerando che «si cambiano le leggi, si fa di tutto perché non siano puniti». Un sistema talmente marcio che un governo viene indicato come “buono” se abbonda in condoni edilizi e voluntary disclosure. Il che, tradotto in parole più semplici, equivale a dire viva l’abusivismo edilizio, la cementificazione selvaggia e i conti nei paradisi fiscali.
«Dopo la stagione di Mani Pulite, stracciato il velo dell’ipocrisia, i politici disonesti sono diventati di singolare improntitudine. Non hanno smesso di rubare, hanno smesso di vergognarsi». Viene da chiedersi se l’obiettivo è che smettano di farlo anche gli abusivi e gli evasori. Ammesso che non l’abbiano già fatto.
In La tua giustizia non è la mia Colombo e Davigo affrontano anche il tema dei lunghi processi, delle pene inique, della riforma del sistema giudiziario e carcerario, dell’indulto che rischia di diventare il “condono” giudiziario, delle operazioni sotto copertura, un azzardo secondo Davigo perché va a finire che non si riesce più a capire «se la polizia giudiziaria ha infiltrato qualcuno nella criminalità organizzata o viceversa» e su tanti altri aspetti della giustizia che quotidianamente combatte “il male” e deve farlo qualunque ne sia l’origine. Metaforicamente Colombo si interroga sul perché «da diecimila anni ci diciamo sempre le stesse cose e cerchiamo di risolvere gli stessi problemi». La soluzione va ricercata nell’idea errata «secondo la quale il bene e il male si distinguono per paternità» invece vanno distinti «oggettivamente».
Un libro originale La tua giustizia non è la mia, molto interessante per i contenuti e molto utile per il lettore che apprenderà informazioni e nel contempo sarà invogliato a riflettere su aspetti del sistema giudiziario italiano e suoi suoi operatori che vengono presentati in un modo mentre nascondono dell’altro. Sui politici, sui governi, sugli insegnanti e sugli alunni, sui cittadini, sui criminali…

Gherardo Colombo: è entrato in magistratura nel 1974. È stato consulente delle commissioni parlamentari di inchiesta sul terrorismo e sulla mafia. Ha condotto o collaborato a inchieste divenute celebri, tra cui la scoperta della Loggia P2, l’omicidio Ambrosoli, i cosiddetti fondi neri dell’IRI, Mani Pulite. Dal marzo 2005 è stato giudice presso la Corte di Cassazione. Nel 2007 si è dimesso dalla magistratura per dedicarsi a incontri formativi nelle scuole, dialogando negli anni con migliaia di ragazzi sui temi della giustizia e del rispetto delle regole. È attualmente presidente della casa editrice Garzanti. Nel 2010 ha fondato l’associazione Sulle regole, punto di riferimento per il dibattito sulla Costituzione e la legalità.

Piercamillo Davigo: è presidente di sezione della Corte Suprema di Cassazione, in servizio alla Seconda sezione penale dal 2005. Entrato in magistratura nel 1978, è stato assegnato al Tribunale di Vigevano con funzioni di giudice, poi dal 1981 alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano con funzioni di sostituto procuratore. Dal 1992 ha fatto parte del pool di Mani Pulite, trattando procedimenti relativi a reati di corruzione e concussione ascritti a politici, funzionari e imprenditori. Dall’aprile 2016 è presidente dell’Associazione nazionale magistrati.

Fonte biografia autori http://www.longanesi.it

Articolo originali qui

© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Rivoluzioni storiche delle donne, repressione e conservazione al maschile in “Socialfemminismo” di Stefano Santachiara (Digitalpress, 2017)

26 domenica Feb 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Comunicazione, Digitalpress, femminismo, istruzione, paura, politica, recensione, saggio, Socialfemminismo, StefanoSantachiara, violenza

È da poco uscito il nuovo saggio del giornalista investigativo Stefano Santachiara, Socialfemminismo edito dalla Digitalpress. Già oggetto di critiche e tenzone, il libro di Santachiara non poteva non far parlare di sé. Una vera sfida, ecco cos’è. Contro il pregiudizio, i preconcetti, le disparità e le ingiustizie. Scritto con una intrigante verve da cronista che ha investigato a lungo prima di procedere alla narrazione di un articolato percorso informativo volto a dimostrare che la violenza da combattere non è solo quella dell’uomo che aggredisce una donna. Questo rappresenta il braccio. Bisogna conoscere e lavorare sulla mente che quel braccio arma ogni giorno.

La violenza di genere di cui è piena la cronaca nera non rappresenta che la punta dell’immenso iceberg della violenza strutturale di cui non solo la nostra società è pregna ma su cui proprio sembra essere fondata.

Leggi anche – L’Istituto della violenza e il cammino della nonviolenza

Santachiara si chiede quali siano i reali motivi per cui «le analisi femministe subiscono la marginalizzazione dei mass media» a tal punto da sembrare che debbano «restare nella nicchia e privarsi della dialettica». Tutti dovrebbero interrogarsi sul perché. La realtà è che viviamo in una società basata sulla competizione tra «dipendenti, disoccupati, schiavi nel terzo mondo e nel sottoproletariato occidentale; giovani e anziani, stranieri e autoctoni, uomini e donne». È necessario quindi «portare alla luce il gap tra la parità formale e le discriminazioni reali». Lo scopo di Socialfemminismo sembra essere proprio questo.

Nel testo Santachiara scrive ciò che nessuno sembra voler leggere o ascoltare, perché in tal caso si sarebbe costretti ad ammettere che rei della violenza di genere non sono solo gli uomini che manualmente la praticano bensì l’intero sistema che, più o meno consapevolmente, non li condanna. A cominciare dal mainstream mediatico che «riproduce la logica sessista dell’onore cavalleresco», ancora più opinabile quando lo fa in riferimento a «vili lanciatori di bombe, missili, armi batteriologiche» che hanno effetti e conseguenze devastanti per la popolazione civile.

Non di rado la stampa, con titoli e articoli a effetto, contribuisce a fomentare l’odio non solo verso il presunto aggressore o femminicida ma lo fa «dissennatamente verso interi gruppi sociali» o etnici. Tranne i casi in cui si parla di «occidentali di buona famiglia».

«L’Occidente si erge a giudice di altre culture per farne il capro espiatorio, sbatte in prima pagina il “mostro” straniero e la vittima “ingenua” fomentando la xenofobia e i peggiori stereotipi. Ma non può lavare la coscienza di uomini americani ed europei che vessano, stuprano e uccidono le donne.»

L’autore affronta il tema del misoginismo spaziando attraverso i vari campi del sapere e narrando di esempi o riportando riflessioni circa avvenimenti accaduti in ogni angolo del pianeta, a riprova dell’idea che i diritti umani non hanno muri o barriere che reggano. Bisogna prendere atto del «nesso tra maschilismo e violenza», consapevolezza che il problema riguarda tutti e la comunità nel suo complesso, ragione del fatto che una società per essere realmente “civile” deve combattere seriamente le molestie e le violenze, «mettendo in circolo tutti gli impulsi culturali volti a prevenirle». Impulsi culturali che, come sottolinea lo stesso Santachiara, non riguardano la «sola educazione al rispetto e ai sentimenti nella scuola ma di ridefinire il quadro per intiero».

Che senso e quali risultati concreti potranno mai dare le campagne contro la violenza se ai violentatori si continuano a infliggere pene irrisorie? Che senso e quali risultati concreti potranno mai dare le campagne di informazione scolastica se governanti e media continuano a utilizzare un linguaggio e un comportamento sessista? Santachiara sembra proprio centrare il nocciolo quando afferma che «vi è un problema più profondo di abitudine alla disumanità».

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Osservando con più attenzione il messaggio profuso dall’apparato mediatico e informativo, come l’autore ha fatto, si riesce a scorgere la volontà di «impedire la presa di coscienza», tinteggiando di «rosa il genere femminile mediante la produzione positiva delle consuetudini». Ed è così che le massaie vengono rappresentate «splendide al rientro del marito, impegnate con biberon e pignatte», mentre le lavoratrici che lottano contro l’ingiustizia «non di rado, appaiono astiose e frustrate».

Se «una italiana su tre subisce violenza» e «le sentenze della magistratura raccontano storie di mobbing, demansionamenti, licenziamenti ingiustificati, mancati pagamenti di contributi e stipendi» bisogna prendere atto e ammettere che stiamo parlando di una conseguenza, non di una causa.

Molti uomini e purtroppo anche alcune donne non riescono a elaborare «il semplice concetto per cui la differenza sessuale attiene al portato anatomico, biologico, genetico, cromosomico mentre le scelte – culturali e intime – sono strettamente personali», per cui ne deriva la difficoltà a superare il luogo comune della “naturale” predisposizione femminile a svolgere le incombenze domestiche e alla cura dei famigliari. Non vi è alcuna predisposizione naturale o biologica, «a costringerla, difatti, è l’ideologia predominante». Ideologia rafforzata anche da governanti e amministratori. Fa bene Santachiara a ricordare l’inqualificabile campagna pro-fertilità lanciata solo pochi mesi fa dal ministero e dal ministro della salute.

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Socialfemminismo va letto senza pregiudizi, cercando di non lasciarsi offuscare dagli stereotipi imperanti nella ideologia dominante, secondo cui le democrazie occidentali sarebbero il non plus ultra del vivere civile, bensì aprirsi all’idea che spesso, troppo spesso ciò che viene fatto passare per “naturale” e quindi “giusto” non lo è affatto. Colpisce, a tal proposito, la citazione di Grazia Francescato, riportata nel testo.

«Bisogna smettere di pensare che l’uomo è buono per natura, che il popolo è buono per definizione, bisogna partire dall’uomo com’è realmente e non dall’Uomo come vorremmo che fosse».

Non si può, a questo punto, non concordare con la posizione di Judith Butler analizzata da Santachiara in Socialfemminismo. Sulle nostre vite pendono «le norme eterosessuali», trasmesse «quotidianamente dai media, dai film, così come dai nostri genitori». Norme che poi noi stessi perpetriamo «nelle nostre fantasie e nelle nostre scelte di vita». In buona sostanza sono queste norme che «prescrivono ciò che dobbiamo fare per essere un uomo o una donna». E anche se, come ricorda la scrittrice norvegese Toril Moi, «il femminile è il dato biologico, la femminilità il costrutto culturale e il femminismo una posizione politica», per Santachiara quest’ultimo non potrà «mai perdersi finché ci saranno sfruttamento e ingiustizia». E questo, sicuramente, non rappresenta solo una mera posizione politica dell’autore, bensì una speranza e una dichiarazione di fiducia, nonostante tutto, nel genere… umano.

Source: Si ringrazia Stefano Santachiara per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte biografia autore stefanosantachiara2.wordpress.com

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Qual è la strada per sconfiggere il terrorismo? Intervista a Benedetta Berti

10 venerdì Feb 2017

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BenedettaBerti, Comunicazione, intervista, Lafinedelterrorismo, Mondadori, Occidente, Oriente, paura, terrore, Terrorismo, violenza

Qual è la strada per sconfiggere il terrorismo? Intervista a Benedetta Berti

Il 31 gennaio 2017 esce con Mondadori La fine del terrorismo di Benedetta Berti, nella versione tradotta da Teresa Albanese. TED Senior Fellow e ricercatrice al Foreign Policy Research Institute e al Modern War Institute a West Point, Benedetta Berti ha trascorso gli ultimi dieci anni “sul campo”, in luoghi impervi e pericolosi a studiare la nascita e l’evoluzione dei gruppi armati ribelli, politici e/o terroristici allo scopo di capirne l’essenza. Questa la via da lei stessa indicata nel libro per riuscire a “superarli”. Una sconfitta che passa attraverso la conoscenza e l’analisi di fatti e dati, non mediante il caos ingenerato dalla paura.

Nell’era della digitalizzazione e della globalizzazione infinite sono le “informazioni” che circolano su terrorismo e anti-terrorismo, notizie spesso falsate faziose o imprecise. Per questo e anche per altre motivazioni la Berti sostiene che sia necessario riportare tutto alla linearità di una conoscenza basata su dati certi, informazioni sicure e analisi che siano fedeli alla realtà dei fatti. Solo in questo modo si riuscirà a comprendere il fenomeno terroristico e forse anche a superarlo.

Ne abbiamo parlato nell’intervista che gentilmente ci ha concesso.

L’introduzione a La fine del terrorismo si apre al lettore con una citazione di Diego Gambetta. Parole forti, immagini tanto chiare quanto cruenti di ciò che mafia e Isis rappresentano o intendono rappresentare.  A cosa “servono” o “possono servire” mafia e Isis per l’Italia e l’Occidente?

Più che a “servire” all’Italia o all’Occidente, credo che il punto fondamentale sia che, oggi come in passato, gruppi armati violenti di matrice religiosa, politica o criminale sfruttano e traggono vantaggio dalla loro reputazione violenta. Più questi gruppi vengono analizzati e descritti come brutali, irrazionali e misteriosi, più ci sembrano minacciosi. Quello che non possiamo capire o spiegare ci fa inevitabilmente paura, questo però è un circolo vizioso: la paura non ci aiuta a capire, né tantomeno a fare le scelte più giuste ed efficaci per la nostra società e sicurezza. Allora, credo che sia importante andare oltre. Oggi come ieri, per capire ISIS così come le organizzazioni criminali nostrane, dobbiamo andare oltre la reputazione e il velo di mistero e analizzare le logiche interne, organizzative, politiche ed economiche di questi gruppi.

Qual è la strada per sconfiggere il terrorismo? Intervista a Benedetta Berti

La chiave di lettura da lei indicata per una maggiore comprensione delle «attuali tendenze nella violenza politica e nel terrorismo internazionale» è la comprensione in «termini semplici e razionali». Perché ritiene necessario seguire questa strada?

Perché, oggi più che mai, ci troviamo di fronte a un mondo caotico dove, tra sensazionalismo, informazioni disorientanti e decine di versioni contrastanti, diventa quasi impossibile capire che cosa stia davvero succedendo quando si parla di terrorismo e violenza politica. In questo contesto, credo sia importante cercare di spiegare le dinamiche globali legate alla violenza politica: dall’ascesa al declino dell’ISIS, alle nuove forme di terrorismo “autoctono” partendo da dati solidi e da un’accurata analisi del contesto storico, politico e geo-politico. Nel libro cerco di descrivere le complesse ragioni che hanno portato a una crescita del terrorismo a livello mondiale e anche di capire come i gruppi armati – come ISIS ma non solo – sono in grado di sfidare stati con maggiori risorse finanziarie e militari. Nel fare questo, mi propongo di spiegare la logica militare, politica ed economica di questi gruppi. Non per volerne giustificare le azioni, ma semplicemente perché capire la logica e la strategia della violenza politica odierna in modo semplice e razionale ci aiuta ad avere un dibattito pubblico basato sui fatti e non sulla paura; ci aiuta a trovare politiche più efficaci e a non essere manipolati.

Quali sono le immagini stereotipate relative ai gruppi armati che maggiormente influenzano l’opinione pubblica e l’operato dei governi?

Ce ne sono molte; e avendo passato gli ultimi dieci anni “sul campo” studiando i gruppi armati (in Medio Oriente, America Centrale, Latina, Africa orientale e altrove) credo che uno dei problemi principali sia la tendenza a sottovalutare l’evoluzione dei gruppi armati moderni, oltre alla facilità con la quale si fa di tutta l’erba un fascio, senza soffermarsi su come diversi contesti producano distinte dinamiche di violenza politica. In particolare, sottovalutare questi gruppi non aiuta a capirli meglio, né tantomeno a contrastarli. Per esempio, tendiamo a non prestare sufficiente attenzione alle motivazioni economiche e ai modelli finanziari usati dai gruppi armati; questo però ci porta a trascurare una delle componenti fondamentali della loro strategia e, spesso, del loro successo. Nel libro, anche attraverso esempi e storie ottenute in anni di ricerca, racconto di come molte organizzazioni terroristiche abbiano sviluppato complessi modelli di business, impegnandosi in attività economiche lecite e illecite, sfruttando la globalizzazione per aumentare la loro ricchezza. Ancora più interessanti sono le dinamiche di “governance” e le “politiche sociali” di questi attori violenti; per non parlare poi delle attività di marketing e comunicazione.

Qual è la strada per sconfiggere il terrorismo? Intervista a Benedetta Berti

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Quali sono i punti in comune e quali invece le divergenze tra la violenza politica di oggi e quella del passato?

Il libro parte dal semplice ma importante fatto che l’uso delle armi, della violenza e del terrorismo non sono tattiche nuove. Ci sono però numerose differenze tra gruppi terroristici “tradizionali” – come ad esempio le Brigate Rosse – e le principali organizzazioni violente attive negli ultimi due, tre decenni. Un punto fondamentale è che il contesto è cambiato: i gruppi armati non-statali, da organizzazioni terroristiche a milizie, sono sempre più spesso i protagonisti dei conflitti armati, che oggi avvengono prevalentemente a livello di guerre civili, interne e/o irregolari. Inoltre, nel libro guardo attentamente anche a come i processi di globalizzazione e di crisi degli stati abbiano offerto l’opportunità a molti gruppi armati di aumentare il loro potere, il loro status e le loro capacità di esercitare controllo sulla popolazione civile. Si può anche aggiungere che i gruppi armati moderni – sia di stampo politico che criminale – tendano ad essere più globali, più orientati ad agire attraverso complesse reti di alleati e partner, anche grazie all’accesso alle nuove tecnologie militari e di comunicazione. Negli anni dopo l’11 settembre, anche le dinamiche e le tattiche del terrorismo globale sono cambiate, e nel libro cerco di analizzare il come e il perché questo sia avvenuto.

È vero che un’organizzazione come l’Isis è riuscita ad affermarsi e a crescere sempre più perché si è sostituita e ha in parte sopperito alle carenze di governi corrotti e inefficienti?

Sicuramente sì.  Quando guardiamo alla mappa della violenza politica a livello mondiale, troviamo senza dubbio un nesso tra stati deboli inefficienti e caratterizzati da violenza interna e l’ascesa di gruppi armati che si propongono come un’alternativa allo stato e al sistema politico. Dall’ISIS ai Talebani, un contesto di guerra insicurezza repressione corruzione ha creato terreno fertile per questi attori violenti. Inoltre, non c’è dubbio che, almeno nelle prime fasi della sua espansione, anche un gruppo repressivo e violento come ISIS ha dedicato energie nel cercare di guadagnarsi una parvenza di legittimità, utilizzando per esempio l’inefficacia dello stato e cercando di sopperire a queste carenze come ad esempio la manutenzione stradale, la distribuzione del pane, per citarne solo alcune, rafforzando così la pretesa di essere uno “stato” di nome e di fatto.

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Quale sarà il futuro della violenza politica e quale quello di chi cerca di combatterla?

Anche se è impossibile sapere che cosa ci aspetterà nel futuro, credo che un’analisi attenta della realtà ci possa aiutare a capire alcune delle sfide in materia di violenza politica in generale e terrorismo in particolare. Per esempio, tutto indica che il ginepraio che caratterizza la situazione mondiale: insicurezza, inefficienza dello Stato, corruzione e repressione continuerà ad aiutare gruppi insurrezionali a emergere, e che la diffusione di nuove tecnologie militari e di comunicazione contribuirà alla maggiore pericolosità di molti di questi gruppi. Questa analisi sembra suggerire anche che contrastare il terrorismo dovrà essere sempre di più un’attività complessa e integrativa, a livello militare e di forza pubblica, ma anche sociale politico economico e culturale.

http://www.sulromanzo.it/blog/qual-e-la-strada-per-sconfiggere-il-terrorismo-intervista-a-benedetta-berti

© 2017 – 2022, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Neuromarketing e potere subipnotico dell’era digitale. “Il cervello aumentato l’uomo diminuito” di Miguel Benasayag (Erickson, 2016)

23 lunedì Gen 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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CentroStudiErickson, Comunicazione, filosofia, Ilcervelloaumentatoluomodiminuito, MiguelBenasayag, neuromarketing, recensione, saggio

Siamo certi che l’unica via possibile per una coabitazione e una coevoluzione fra la vita, la cultura e la tecnica sarebbe questa vera e propria «artefattualizzazione del mondo»? Miguel Benasayag dichiara un suo convinto no e afferma di aver scritto Il cervello aumentato l’uomo diminuito proprio per dare il suo “piccolo” contributo alla famosa questione del senso, che «non è niente di più e niente di meno che il mondo della vita e della cultura», allo scopo di non farla annientare dalla «fascinazione infantile e spesso nichilista dei tecnofili irriflessivi».

El cerebro aumentato, el hombre disminuido uscito nel 2015 con Paidós in Argentina, arriva in Italia nel 2016 edito dal Centro Studi Erickson nella versione tradotta da Riccardo Mazzeo che ne ha curato anche la prefazione. Un libro, Il cervello aumentato l’uomo diminuito, che si rivela fin da subito molto interessante, per l’argomento trattato come per le considerazioni personali dell’autore che possono anche non essere condivise dal lettore ma che egualmente lo invogliano a una utile riflessione sull’evoluzione del mondo e dell’uomo contemporaneo. Benasayag comunque cerca di rimanere quanto più neutrale gli riesce e di affidare a studi scientifici i dati su cui riflettere, con riferimenti a conoscenze mediche, chimiche, fisiche, psicologiche, filosofiche e tecnologiche.

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Per Benasayag lo sviluppo tecnologico sovverte la struttura della nostra società con una forza comparabile soltanto «all’emergenza storica del Rinascimento», con tutto il carico di speranze e di paure che ne deriva. Quella attuale è la prima cultura a essere letteralmente «posseduta dalla tecnologia» che ha generato l’idea di vivere un’epoca dove tutto è possibile, e dove ciò che appare impossibile in realtà viene interpretato come non ancora possibile. Questa «tentazione di una potenza illimitata», che si affianca sempre più spesso alla «promessa di una deregolazione totale», si pone in netta antitesi alla «essenza stessa della vita in tutte le sue dimensioni: la fragilità». Che non va intesa come debolezza, bensì come “caducità della vita” di ungarettiana memoria.

 

L’autore non è contrario alla tecnologia e al suo sviluppo, solamente si sofferma su alcuni aspetti “deviati” del suo utilizzo. Tutto ciò che la tecnologia rende possibile si trasforma, nelle nostre società e nelle nostre vite, «rapidamente in qualcosa di obbligatorio» e non perché ci sia una costrizione fisica ma in quanto questi «possibili» che in «linea di principio ci facilitano la vita, scolpiscono il mondo secondo modi e caratteristiche propri». Inoltre va sottolineato che è in atto una vera e propria «rivoluzione della misura» che «punta a migliorare (aumentare?) le capacità del cervello umano a vantaggio della efficacia economica». Le conoscenze e i risultati degli studi sul cervello vengono usati sempre più spesso come «neuromarketing». Dove condurrà tutto questo? L’intento di Benasayag non è giudicare ma conoscere, capire e, potendolo fare, scegliere se proseguire lungo questa che viene indicata come l’unica via percorribile oppure provare almeno a trovarne delle altre.

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Il cervello umano viene di continuo equiparato a una «Macchina di Turing», capace di elaborare una quantità enorme di dati e di “trarre conclusioni” a partire dall’utilizzazione degli algoritmi e del programma incorporato, ovvero il software. Ma il cervello umano è altro. Innanzitutto questo è legato e strutturato al corpo che lo contiene e la «deterritorializzazione imposta dalla digitalizzazione sta creando una vera e propria distanza fra l’uomo e il mondo, e fra l’uomo e se stesso». Una “deterritorializzazione” che si declina in una «alterazione del cervello e del biologico organico in generale».

L’eccesso di informazione codificata priva di esperienza diretta trasforma gradualmente il cervello in una «lastra di gestione di informazioni» ma si tratta di informazioni che non «modellano il cervello perché non passano per il corpo». Tra gli esempi più efficaci addotti dall’autore spiccano quelli relativi alla formazione e alle “conoscenze” dei bambini.

Gli schermi di TV, giochi, tablet, computer dinanzi ai quali grandi e piccoli umani trascorrono sempre più tempo non solo non «aggregano le dimensioni» ma addirittura le annientano, creando una «forza irresistibile che ci affascina» e ci pone in uno «stato subipnotico, né gradevole né spiacevole: assente».

I bambini hanno perso o stanno perdendo il loro diritto ad annoiarsi, non tollerano la «frustrazione ingenerata dall’interruzione della cascata di stimoli» cui sono quotidianamente sottoposti durante i giorni «regolarmente strutturati da un diluvio di immagini». In questi momenti i bambini si sentono come di fronte a «un vuoto angoscioso». Ciò rappresenta un problema reale in quanto «la noia è fondamentale per lo sviluppo delle zone cerebrali associate all’immaginazione e alla creatività».

 

Scrivere a mano vuol dire «impegnarsi in una pratica che territorializza quel che stiamo pensando» mettendo in movimento reti neuronali e modificando la quantità di neuroni, la loro dimensione, le sinapsi e via discorrendo. La digitalizzazione del mondo, «la sostituzione di qualunque riferimento al mondo, per passare a funzionare con modellazioni di esso» implica un importante mutamento qualitativo. Il ruolo degli umani diventa secondario anche «nella circolazione ultrafluida dell’informazione». L’umano non è che un segmento di tale circolazione, «un segmento ogni volta sempre più destrutturato e fluido».

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Jean-Jacques Rousseau sosteneva che «il problema, con il progresso, è che vediamo quel che guadagniamo ma ignoriamo quello che perdiamo». Tanto più ci avvaliamo di informazioni custodite nella macchina e da questa elaborate, tanto meno il cervello potrà «scolpirsi, svilupparsi». La quantità di «vita intensiva» è differente per ogni cervello e dipende da quel che ciascun cervello «sperimenta». La domanda giusta da porsi è se davvero si vuole “delegare” alle macchine e alla digitalizzazione una quantità via via maggiore di funzionalità che caratterizzano il cervello nella consapevolezza che quello che di questo organo non viene utilizzato o stimolato o sfruttato in breve diventa “perduto”.

 

Nell’interscambio macchina-uomo avviene «un processo in una sorta di playback di trasformazione del cervello in “applicazioni” pratiche». In altre parole: l’interscambio con le macchine “macchinizza” l’uomo. Benasayag evidenzia la necessità di riuscire a «individuare dove si sia posizionata la singolarità in un mondo e in un paesaggio che cambiano giorno dopo giorno». Un mondo dove la tecnologia sembra abbia «colonizzato la cultura e la vita» e dove si può ancora cercare una modalità di «ibridazione umano-biologica-artefatto» che favorisca la «colonizzazione della tecnologia da parte della vita e della cultura».

Un ottimo saggio, Il cervello aumentato l’uomo diminuito di Miguel Benasayag, in grado di accompagnare il lettore in un viaggio nella “fragilità” degli umani in un mondo, quello attuale, in cui tutto sembra orientato verso «l’ideale di emanciparsi dalla natura». L’uomo moderno è colui che «pretende di autocostruirsi», ambisce a essere «il creatore e la creatura» e per raggiungere il suo obiettivo vorrebbe che «nulla di ciò che è innato venga a disturbarlo», incluso il suo corpo. L’uomo moderno però sembra dimenticare o non conoscere che corpo e cervello sono strutturati insieme, che la “potenza tecnologica” in realtà è molto meno complessa del biologico organico, che un “cervello aumentato” non corrisponde necessariamente a conoscenze di “spessore” maggiore… e Benasayag ha fatto benissimo a ricordarlo.

Miguel Benasayag: Filosofo e psicoanalista di origine argentina che vive ed esercita la professione di psicoterapeuta a Parigi. Partecipò alla guerrilla guevarista nel suo Paese dove restò in carcere per anni. È autore anche di L’epoca delle passioni tristi e C’è una vita prima della morte?

Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa del Centro Studi Erickson per la disponibilità e il materiale.

 

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Neuroschiavi, la Manipolazione del Pensiero attraverso la Ripetizione

27 venerdì Feb 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Comunicazione, monocolooccidentale, neuromarketing, Neuroschiavi, NWO, ordinemondiale

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«Nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo» (Johann Wolfgang von Goethe).

Marco della Luna e Paolo Cioni nel libro Neuroschiavi (Macro Edizioni, 2009) pongono l’attenzione sulle tecniche di manipolazione mentale collettiva e individuale e soprattutto sulla conoscenza che è il miglior sistema per «restare o ritornare liberi».

La ‘comunicazione’ da sempre ha costituito per l’uomo il principale strumento di ‘sviluppo sociale’, comunicazione spesso identificata con la ‘educazione’. Educare attraverso la comunicazione impiegando parole, suoni o immagini.

Comunicare o non comunicare qualcosa è stato da subito inteso come un efficace metodo per ottenere la ‘obbedienza’, piegando quella che oggi definiamo la ‘volontà popolare’. Re, imperatori, gerarchi, dittatori, maestri di setta, leader politici utilizzano e hanno utilizzato spesso la potente arma della ‘persuasione propagandistica’ per orientare la volontà popolare utilizzando il mezzo strategicamente ideato della ‘comunicazione di massa’.

Non è un caso che l’informazione sia indicata come il ‘quarto potere’ dopo, o prima a seconda dei punti di vista, quello esecutivo, legislativo e giudiziario.

Ricorre spesso la citazione esemplificativa, per avvalorare i concetti di ‘persuasione propagandistica’ e ‘comunicazione di massa’ e della loro efficacia, dell’ampio uso che ne hanno fatto due organizzazioni politiche che, da semplici movimenti legati alle ideologie predominanti dell’epoca si trasformarono in regimi totalitari con un larghissimo consenso tra la popolazione.

Fascismo e Nazismo basarono il loro sistema politico sul monopolio dell’informazione e sulle nuove tecniche di propaganda.

In Italia Benito Mussolini capì fin da subito l’importanza fondamentale della propaganda, in particolare attraverso la stampa, per affermare il suo potere. Il popolo italiano fu letteralmente ‘bombardato’ di messaggi volti a dimostrare la natura giusta e potente dell’ideologia fascista e con le cosiddette Leggi fascistissime del 1926 la stampa si ritrovò sottoposta a rigidissimi controlli e di fatto Mussolini affidò al Ministero della Cultura Popolare il compito di censurare tutti quei documenti ritenuti pericolosi o dannosi per il Regime.

In Germania Adolf Hitler unì al potere coattivo del terrore quello dell’attrazione, con una martellante propaganda condotta per mezzo radio, stampa, cinema, sistema scolastico ed educativo. In particolare il regime nazista si pose tra gli obiettivi quello dell’indottrinamento dei giovani in maniera tale da assicurarsi non solo il futuro, ma anche l’interpretazione del passato. Tutta la Storia fu rivista attraverso il messaggio ‘salvifico’ del nazismo, unica forza in grado di sconfiggere il marxismo e l’influenza dell’ebraismo nel mondo.

Ovviamente i regimi Nazista e Fascista non sono e non sono stati gli unici ad aver adottato le tecniche di manipolazione del pensiero collettivo attraverso il condizionamento dell’informazione, rappresentano forse solo i casi di cui più spesso si narra.

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«La parola è energia, ripetere una frase o una parola come avviene nei mantra, fa sì che essa acquisti una forza energetica abbastanza notevole. Questa energia investe le masse e, a seconda del grado di ricezione, diviene il pensiero delle stesse, come se i ricettori lo avessero pensato e generato dalla loro stessa mente» (White Wolf).

L’idea base del sistema scolastico adottato in molti paesi occidentali, tra cui l’Italia, della ripetizione ciclica degli argomenti e dell’obiettivo prefissato che tutti raggiungano lo stesso livello di conoscenza, apprendendo non solo la stessa quantità ma proprio le medesime nozioni, è messo in discussione da chi ritiene questo metodo omologatore e annientatore delle inclinazioni individuali di ognuno. Al pari della cultura di massa anche la ‘istruzione di massa’ viene inserita in quel sistema da cambiare. Istruzione di massa che non va intesa come la possibilità data a tutti, quindi alla massa, di accedere alla cultura, all’istruzione e alla conoscenza bensì come la volontà di livellare la cultura, l’istruzione e la conoscenza di tutti e di ognuno. Processo paragonabile quindi al ‘consumismo di massa’: vestire tutti allo stesso modo, mangiare gli stessi cibi, frequentare gli stessi luoghi, avere la stessa istruzione, le medesime conoscenze, la stessa cultura, gli stessi sogni, le medesime aspettative…

Attualmente sono circa 20.000 le scuole in tutto il mondo che hanno scelto di abbandonare lo schema rigido dell’istruzione omologativa abbracciando quello alternativo denominato ‘montessoriano’ in onore della sua ideatrice Maria Montessori. Indipendenza, libertà di scelta, rispetto per il naturale sviluppo fisico, psicologico e sociale, apprendimento per scoperta e ‘costruzione’ delle conoscenze sono i principi cardine su cui si basa questa forma di apprendimento ‘alternativa’ sicuramente diversa se non addirittura opposta al metodo ‘tradizionale’ più ampiamente diffuso e caldeggiato dai vari Stati.

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L’emblema della ‘comunicazione di massa’ potrebbe essere ben individuato nella televisione che, nella società contemporanea, ha raggiunto livelli di diffusione inauditi e anche oggi, che già la si comincia ad additare come mezzo inabilitante delle coscienze capace di bloccare e a volte inibire le capacità creative e critiche dell’individuo, rimane ancora il massmedia che quotidianamente raggiunge il più elevato numero di individui. Pier Paolo Pasolini parlava di «genocidio del pluralismo culturale» riferendosi ai danni dell’omologazione cui stava portando la ‘cultura di massa’ trasmessa dalla televisione. Tutti con gli stessi vestiti, con gli stessi ideali, con gli stessi sogni… non si può veramente credere che l’omologazione sociale e culturale sia semplicemente una moda, una tendenza, una caratteristica dei tempi moderni e non rappresenti invece ciò che effettivamente è, ovvero la diretta conseguenza di una politica volta a raggiungere potere sfruttando la comunicazione per ottenere consenso e il consumismo per ottenere profitto.

«Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni. Le strade, la motorizzazione ecc. hanno oramai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale. Ma la rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. L’antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente l’unico fenomeno culturale che ‘omologava’ gli italiani. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre.»

Questo scriveva Pier Paolo Pasolini sulle pagine del Corriere della Sera il 9 dicembre del 1973. Da allora «i mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione)» hanno continuato inesorabilmente a comunicare e informare, a indottrinare e omologare.

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Dire apertamente alle persone che le si priva dell’informazione e della conoscenza avrebbe come diretta conseguenza lo stimolo in ognuno di loro a riappropriarsi del diritto negato, del servizio inatteso… lasciar invece credere loro di essere quotidianamente correttamente e ampiamente informati su tutto ciò che è necessario ed utile sapere provoca un senso di tranquillità ed anche sicurezza. È lo stesso principio su cui si basa il concetto di libertà. «Se dici alle persone che esse sono prigioniere di un sistema è pericoloso e controproducente perché può scatenare rivolte e ribellioni, mentre convincere gli stessi prigionieri di essere liberi e in democrazia elimina ogni forma avversa e ogni tentativo di ‘evasione’. L’importanza dell’informazione è fuori da ogni discussione. Informare deriva da in-formare, cioè ‘dare forma’. Ma dare forma a cosa se non alle coscienze?»

Nel 2007 la giornalista Naomi Klein pubblica il saggio Shock Economy  (Bur Rizzoli, 2008) nel quale collega disastri naturali, guerre e crisi economiche alle azioni di economia e finanza che anche e a volte soprattutto da tutto ciò guadagnano e anche molto. Il tutto reso possibile dallo ‘ebetismo’ dei popoli letteralmente ‘shoccati’ e per questo pronti ad accettare qualsiasi decisione governativa in nome di un riscatto e di un miglioramento che puntualmente latitano. Ruolo determinante in questa operazione di vero e proprio ‘terrorismo’ giocano i media che ‘scelgono’ di parlare o meno di un determinato argomento, di farlo ripetutamente, saltuariamente o ciclicamente.

«Cercare di spiegare cosa sono e come vengono praticate le cosiddette ‘tecniche di manipolazione mentale’ in una società quasi completamente controllata e manipolata come la nostra non è compito facile. Affermare che la nostra società – com’è strutturata – è una vera e propria gabbia mentale fa subito aizzare i paladini e difensori dei diritti civili, che sbandierano ai quattro venti termini come ‘libertà’ e ‘democrazia’, cercano immediatamente di tranquillizzarci tutti, soprattutto le loro coscienze. Forse non capiscono. Forse fanno finta di non capire, che parole bellissime come ‘libertà’ e ‘democrazia’ primo non significano granché e secondo vengono sfruttate e amplificate proprio dall’establishment economico-finanziaria (cioè i veri e propri Burattinai), proprio per dare a noi l’illusione di non essere in gabbia» (Marcello Pamio).

L’esser riusciti a far credere a una tale moltitudine di persone nel mondo che questo modo di vivere, di istruirsi, di informare, di nutrirsi, di sognare, di conformarsi sia l’unico sistema per raggiungere la crescita e il progresso che sono stati sempre identificati come gli unici e soli baluardi degni di essere perseguiti anche a costo di guerre, morti e distruzioni rappresenta una grande vittoria oppure una incommensurabile sconfitta, a seconda di quello che si vuol mettere sul piatto della bilancia. Potere e denaro nel primo caso, valori e cultura nel secondo. Ammettere che un altro modo è possibile non è così facile perché bisognerebbe per forza di cose confessare o sconfessare tanto e riscrivere non soltanto la storia del presente ma anche e soprattutto quella del passato.

«Uno degli aspetti più micidiale dell’attuale cultura è di far credere che sia l’unica cultura, invece è semplicemente la peggiore» (Silvano Agosti).

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