Per gran parte del secolo scorso, lo Zaire è stato apprezzato da tutti gli africani per le sue caratteristiche di vera nazione africana, libera dai pesanti condizionamenti del colonialismo. Si pensava infatti che incarnasse l’immagine del paese davvero africano decolonizzato.
Il presidente Mobutu era stato l’inventore della autenticità, una forma di ideologia nazionalista basata su elementi della tradizione recuperati dal passato, miscelati con uno stile nel condurre la vita civile e gli affari del paese che si proclamava libero dagli influssi culturali occidentali.
Da qui anche la volontà di rinnegare il nome colonialista di Congo e riprendere l’autentico: Zaire.
Malgrado le speranze, il primo periodo della decolonizzazione era stato turbolento e molto violento: in quasi sei anni di crisi, dopo la dichiarazione di indipendenza del 30 giugno 1960, il paese era piombato in una situazione di precarietà alimentare e di vasto disordine sociale.
Già alla fine degli anni Sessanta il presidente aveva fatto del partito unico, il Mouvement Populaire de la Révolution(Mpr), il suo strumento di governo unitario e di propaganda politica.
All’inizio degli anni Settanta Mobutu diede avvio a una vasta campagna di «zairizzazione» delle risorse che si concretizzò, nel 1973, con la nazionalizzazione di tutte le maggiori imprese del paese.
Malgrado le immense risorse e ricchezze dello Zaire, una politica di redistribuzione sempre più ampia e corrotta aveva messo progressivamente a dura prova la capacità dello Stato di sopperire alle richieste dei vari gruppi di potere locali assieme ai bisogni della popolazione. Agli inizi degli anni Novanta la popolazione era ormai in uno stato di povertà cronica.
Nell’aprile del 1990 Mobutu dichiarò la fine del partito unico e l’avvio di riforme politiche. Durante i dibattiti della Conferenza nazionale sovrana l’impegno di alcuni rappresentanti più sensibili all’avviamento di una vera democrazia si scontrava con il populismo avventurista di altri e con il riemergere di scontri etnico-politici che avevano insanguinato il paese nei primi anni Sessanta.
Tra l’agosto del ’92 e la fine di quello stesso anno, il neo-rinsaldato partito xenofobo dello Shaba operò una vera e propria pulizia etnica contro i Kasaiani.
Il nuovo primo ministro Kengo wa Dondo riuscì a far scendere l’inflazione – che aveva raggiunto il 20mila per cento -, a re-incrementare la produzione mineraria – crollata al 10 per cento del totale – e ristabilire un minimo ordine nella vita pubblica.
Tuttavia, proprio in questo delicato frangente, si scaricò su uno Zaire esausto e in preda a spinte contraddittorie, l’immane flusso di oltre un milione di rifugiati ruandesi hutu.
L’entrata in scena dei profughi esportò la guerra del Ruanda in Zaire e lo travolse.
Il governo di Kengo cercò di liberarsi di tutti i rifugiati respingendoli verso il Ruanda, in contrasto con la posizione dello stesso Mobutu che manteneva forti legami con gli estremisti hutu. La misura intendeva cogliere l’occasione per liberarsi, in un sol colpo, di tutti i banyarwanda e banyamulenge presenti in Zaire, indipendentemente dal fatto che fossero hutu o tutsi.
Ma i campi profughi degli hutu in fuga erano ormai diventati delle vere e proprie roccaforti, dirette dalle ex forze armate ruandesi e dalle milizie interhamwe. Da quegli stessi insediamenti partivano operazioni e attacchi contro il Ruanda.
Ne derivò anche una forte polemica nell’opinione pubblica internazionale, laddove le organizzazioni umanitarie e le agenzie dell’Onu furono addirittura accusate di complicità con gli hutu oltranzisti genocidiari.
Dell’oltre un milione di profughi hutu, circa 600mila vennero accerchiati e ripresi dalle truppe dell’Alleanza delle Forze Democratiche per la Liberazione del Congo (AFDL) per poi essere rimandati in Ruanda. Dell’altro mezzo milione si persero quasi del tutto le tracce.
Furono chiamati ad aderire all’Alleanza tutti i congolesi che si opponevano a Mobutu e alla sua politica. Soprattutto dal Congo centrale e occidentale, ci fu uno slancio popolare sorprendente e furono migliaia i giovani e giovanissimi che si arruolarono per partecipare alla cacciata di Mobutu. Proprio tali giovani reclute, chiamate Kadago (bambini soldato) andranno a costituire poi il grosso delle future Fac (Forze Armate Congolesi).
Kabila si auto-nominò presidente della neonata Repubblica Democratica del Congo alla presenza dei presidenti di Ruanda, Uganda, Angola, Burundi e Zambia, i suoi alleati. Egli era ben consapevole che la maggioranza dei congolesi non era favorevole all’abolizione della legge del 1981 e alla conseguente naturalizzazione dei banyamulenge e dei banyarwandesi tutsi, così la lasciò in vigore. Tale scelta segnò l’inizio della fine della coalizione che aveva combattuto e cacciato Mobutu.
La Grande guerra d’Africa fu il risultato di un insieme di conflitti diversi, collegati tra loro attorno al nodo centrale del confitto tra il governo di Kabila e i suoi ex alleati ruandesi. Almeno sei paesi (Ruanda, Uganda, Angola, Zimbabwe, Namibia e Ciad) si combatterono con proprie truppe sul territorio congolese. A ciò vanno sommate le varie guerriglie locali il cui computo è ancor oggi arduo.
Così, a partire dall’epicentro congolese, tutta l’Africa centrale fu travolta, impoverendosi.
Secondo il Programma Alimentare Mondiale, circa un terzo dei congolesi vivrebbe ancora oggi in uno stato di denutrizione e sottoalimentazione grave.
Nel gennaio 2001, allorquando il presidente Kabila rimase vittima di un attentato posto in essere da una delle sue guardie del corpo, il parlamento, riunito in sessione straordinaria, elesse suo figlio Joseph Kabila quale suo successore.
Fin dall’aprile di quello stesso anno iniziarono gli incontri e le mediazioni tra Kabila junior e Kagame per giungere a una soluzione. Nel dicembre 2002 si procedette alla stesura dell’Accordo globale e conclusivo con l’intermediazione dell’Onu e del Sudafrica, cui parteciparono tutti i gruppi ribelli del paese. E nel 2006, dopo quarant’anni, furono organizzate delle elezioni libere.
La fine della guerra tuttavia non rappresentò anche la fine dei combattimenti, i quali continuavano nelle province del Kivu. Fu necessaria una rinegoziazione con il Ruanda per ottenere la fine del sostegno di Kagame alla ribellione del Cndp di Nkunda.
Alle elezioni del 2011 Kabila junior ottenne un nuovo mandato.
Le elezioni presidenziali del 2011 si svolsero in un clima teso e di accesa mobilitazione: gruppi ed ex gruppi armati erano al soldo di chi poteva pagare e vennero diffusamente utilizzati nella campagna elettorale per intimidire avversari e intere comunità.
Anche in Congo, come prima in Liberia e in seguito nel Sahel o in Nord Mozambico, il warlordismo ha cambiato pelle ed è diventato a pieno titolo un attore del caos indotto dalla globalizzazione competitiva, nel quale soggetti di tipo molto vario concorrono per il potere e le risorse.
La realtà odierna dei gruppi armati così come delle milizie è molto diversa da ciò che fu all’inizio della crisi degli anni Novanta: ogni gruppo armato ha un suo referente a Kinshasa, un uomo politico o una personalità facoltosa che si serve del gruppo per rafforzare la propria influenza e che è, a sua volta, necessario al gruppo per proteggere le proprie rivendicazioni locali.
Bibliografia di riferimento
Mario Giro, Guerre nere. Guida ai conflitti nell’Africa contemporanea, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2020
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