Da pochi giorni tornato nelle librerie italiane con Sedici alberi, edito da DeA Planeta nella traduzione di Alessandro Storti, Lars Mytting continua il suo racconto della forza e della potenza degli alberi ma questa volta, a fare da sfondo alle vicende dei protagonisti, ci sono i grandi accadimenti del recente passato europeo, in primis la seconda guerra mondiale e il nazismo. Una scrittura potente quella di Mytting in grado di affascinare i lettori parlando di piante ma raccontando la vita.
Lars Mytting sarà ospite del Festival della Letteratura di Mantova e racconterà Sedici alberi dal suo punto di vista ma intanto lo abbiamo raggiunto per un’intervista sul libro e qualche curiosità sullo stile della scrittura.
Dopo il successo di Norwegian Wood ritorna nelle librerie italiane con Sedici alberi, un libro che racconta una storia diversa ma nella quale “gli alberi” rivestono egualmente un ruolo fondamentale. Cosa si è prefisso di raccontare in realtà ai suoi lettori con Sedici alberi?
Il desiderio di raccontare una storia buona, e forse bella, è sempre il principale motore per me nella fiction. Non inizio mai un romanzo con la volontà che sia un “progetto” in grado di illuminare o documentare qualcosa di politico o storico. Ma quando scrivo noto solo che questo elemento sarà grande, questo periodo della storia europea è adeguato, questo gusto del paesaggio delle foreste nordiche suona bene. Dopo un paio di anni passati a scrivere comincio a pensare che vada bene, che questa è la storia dove ci rendiamo conto che gli eventi del lontano passato, forse due generazioni fa, possono direttamente impattare su persone che vivono molti decenni dopo. E questo percorso della storia europea, specialmente le due guerre, più altre interessanti ambientazioni come le isole Shetland e campi di battaglia in Francia hanno trovato spazio nella storia. Ma prima e soprattutto mi piace che il romanzo sia uno specchio attraverso il quale il lettore vede parti della sua vita.
La complessità del protagonista, Edvard Hirifjell, ha reso la strada della verità così tortuosa oppure è stata l’intricata vicenda a determinare l’uomo che infine è diventato?
Edvard è affascinante. Si prefigge la ricerca della verità senza sapere se la verità sarà buona per lui o se sarà troppo spiacevole da sopportare. Pone un grande fardello su di sé, dicendo: “Sarò quello su cui i morti possono fare affidamento”. Dall’inizio sa che c’è un mistero di famiglia nascosto nel suo passato, e prova il grande desiderio di scoprire cos’è successo, ma man mano che le cose vanno avanti ha bisogno di sbloccare davvero i segreti spiacevoli per avvicinarsi al suo obiettivo originale. Così penso che siano gli eventi a modellare lui, il periodo descritto nel libro diventa il più importante di tutta la sua vita.
Sedici alberi sembra un ibrido tra un poliziesco e il racconto di una saga famigliare che coinvolge intere comunità provate dalla seconda guerra mondiale e dalle sue conseguenze. Suo scopo era raccontare delle devastazioni che i conflitti arrecano anche a distanza di svariati decenni?
In una certa misura, perché sono così tragici che non dovrebbero essere dimenticati. Ma le storie di guerra sono state raccontate molte volte, con riferimento sia a eventi militari sia civili, così per me era più importante usarli come uno sfondo per quello che poteva accadere tra le persone quando c’è una guerra, semplicemente perché sanno che le loro vite sono fragili e si assumono maggiori rischi e le regole originarie non sono più valide. Nessuno dei più importanti eventi del passato descritti nel libro sarebbero potuti accadere in tempo di pace, sebbene non siano necessariamente delle azioni militari.
Nel testo si legge: “l’albero deve incapsulare la ferita per continuare a crescere. I cerchi della crescita deviano tutto intorno alla lesione, generando linee imprevedibili”. È stato così anche con Edvard? È così anche con le persone reali?
Sì, penso che sia uno dei punti più sottili del libro. Gli alberi con le loro vite straordinarie, spesso crescendo in luoghi ostili, hanno al loro interno dei bei modelli. Un pino con una vita facile si rivela molto noioso, duro e a grana dritta, quando viene tagliato per farne legna da ardere o mobili. Lo stesso succede con le persone. Le cicatrici delle battaglie che affrontiamo in vita possono essere belle. So che ci sono delle culture in cui le cicatrici sono autoinflitte perché è prova che possono sopportare il dolore, e il dolore e la bellezza vanno mano nella mano nel libro.
In Sedici alberi si parla molto delle bombe inesplose che hanno reso sterminati campi vere e proprie roulette russe, assurde e pericolose. Anche Edvard sembra, a suo modo, essere una “bomba” pronta a esplodere in qualsiasi momento. Lo salvano più i ricordi o i suoi amati alberi?
Difficile da dire, in realtà, dato che sta combattendo così tanto con le forze che ha dentro, ma penso che voglia andare alla conclusione, o forse dovremmo dire all’inizio, degli eventi che l’hanno modellato. Quando infine diventa quello su cui i morti possono fare affidamento, penso che abbia raggiunto il suo obiettivo, e s ritrova con un semplice desiderio per il resto della vita: voler fare qui sulla terra cose che quelli in paradiso saranno lieti di vedergli fare.
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Cercando la verità nel suo passato e in quello dei suoi parenti, Edvard sembra imparare molto dagli errori commessi. Guardando alla storia del secolo scorso e ai conflitti mondiali lei pensa che gli uomini abbiano imparato qualcosa dagli sbagli e dalle atrocità inflitte e subite dalla popolazione mondiale?
Sì, senz’altro abbiamo imparato. La nostra consapevolezza delle conseguenze della guerra e di altre atrocità è giustamente ritenuta molto importante, e noi reagiamo immediatamente quando qualcosa per esempio ci ricorda i movimenti fascisti dell’Europa degli anni Trenta. Il problema è che, quando qualcosa di molto pericoloso inizia a prendere piede, ha una nuova forma e non sempre riusciamo a riconoscerlo. Dato che l’immaginazione umana è senza fine, lo è anche il male purtroppo. Così noi potremo ritrovarci con altri disastri anche in futuro, a meno che non iniziamo a usare la nostra immaginazione meglio della nostra capacità di distruzione.
Per la prima foto, copyright: Adarsh Kummur.
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