Le trasformazioni indotte nei paesi della semi-periferia dai paesi capitalisticamente avanzati, in associazione con le élite locali, hanno plasmato il mondo extraeuropeo nel corso del lungo diciannovesimo secolo e stanno, di fatto, trasformando il mondo europeo in questo nuovo secolo.
Tali riforme dimostrano che il processo di liberalizzazione economica non è frutto di una spontanea evoluzione del mercato, bensì è il risultato di un’azione diretta operata dagli attori economici che più ci guadagnano da tali grandi trasformazioni.
Il problema non è il liberal-capitalismo in sé, che indubbi meriti in termini di prosperità è riuscito a ottenere in molti paesi, ma il principio secondo cui la sua replica istituzionale possa avere lo stesso successo in termini di benessere materiale in paesi che non hanno il medesimo background sociale, culturale ed economico.
Eppure lo schema che si è presentato sembra essere sempre lo stesso, egregiamente analizzato da Giampaolo Conte nel libro: prima gli inglesi, poi gli americani e infine gli europei capitanati dalla Germania hanno esportato, o tentato di farlo, attraverso l’azione pacifica di una proposta riformista, un modello, un contratto sociale, spesso sotto la retorica della modernizzazione, funzionale alla riproduzione del proprio sistema economico di ispirazione liberal-capitalista.
Siffatte riforme, concentrate specialmente nel settore finanziario, rimescolano gli stessi equilibri sociali perfino all’interno dei paesi avanzati, che devono a loro volta subire i costi di esternalizzazione che in passato non hanno mancato di scaricare su paesi della semi-periferia. Non essendo funzionali al processo di accumulazione finanziaria, anche le società nei paesi avanzati diventano vittime della trasformazione del capitalismo sostenuta dall’ideologia neoliberista.
Molti libri sul capitalismo e sulla sua crisi si sono rivelate essere interessanti letture per comprendere un fenomeno la cui portata va intesa come epocale, laddove incide sulla vita e sull’esistenza di intere popolazioni. Ma Riformare i vinti di Giampaolo Conte è un libro che non ti aspetti, per la profondità dell’analisi e la metodica applicata. Dati alla mano, l’autore compie un’indagine sincronica e diacronica sul capitalismo e le sue riforme, sul liberalismo e sull’ideologia neoliberista che ha ispirato gran parte di dette riforme, definite eterne proprio perché applicate in stati, imperi o entità territoriali non inglesi, non statunitensi o quantomeno non appartenenti al club esclusivo delle grandi potenze capitaliste.
All’interrogativo sulla necessità di leggere un libro come quello di Conte si deve necessariamente rispondere che il punto di rottura di un sistema economico-finanziario, qual è stato ad esempio la crisi del 2007, non è l’inizio di un nuovo periodo bensì il punto di arrivo di tutto ciò che prima è stato. Per evitare l’insorgere di nuove gravi crisi è quello che bisogna indagare e comprendere, ed è esattamente ciò che l’autore ha fatto. Egregiamente.
Il libro
Giampaolo Conte, Riformare i vinti. Storia e critica delle riforma liberal-capitaliste, Guerini Scientifica, Edizione Angelo Guerini e Associati, Milano, 2022.
L’autore
Giampaolo Conte: docente di Storia economica e Storia del capitalismo presso l’Università Roma Tre. In precedenza ha insegnato il Olanda presso l’International Institute of Social Studies ISS. Inoltre, ha avuto incarichi di ricerca ed è stato fellow all’Università di Cambridge e alla London School of Economics LSE.
Tra le macerie del ponte Morandi c’era anche un carico di droga destinato a uomini di Scampia e Secondigliano. E la ‘ndrangheta provò a recuperare quei 900 chili di hashish nascosti dentro il camion giallo, coinvolto nel crollo del viadotto Polcevera il 14 agosto 2018. Nulla era emerso dagli atti giudiziari e non si sa se il recupero della droga sia mai veramente avvenuto.1 Il punto però è un altro: 900 chili di hashish che viaggiavano indisturbati su un comune mezzo percorrendo una qualsiasi strada.
Nel 2020, a livello globale la diffusione delle droghe è stata:2
Cannabis 209.220.000
Oppioidi 61.290.000
Oppiacei 31.100.000
Cocaina 21.470.000
Anfetamine e simili 34.080.000
Ecstasy 20.040.000
Un grammo di eroina in Italia, sempre nel 2020, costava tra i 55 e i 68 dollari americani. Un grammo di cocaina aveva un prezzo variabile tra gli 80 e i 100 dollari americani. Il prezzo della cannabis, nelle varianti di marijuana e hashish, rispettivamente compreso tra i 9 e i 22 e i 12 e i 14 dollari americani. Le anfetamine tra i 24 e i 28, mentre le metanfetamine tra i 35 e i 44.
Il prezzo delle droghe varia anche di molto da paese a paese e nelle varie aree del pianeta, risulta quindi molto complesso procedere con il calcolo dell’incasso totale dovuto dalla vendita delle dosi delle varie droghe. Ma viene da sé che si sta parlando di cifre enormi.
Il dato è in continuo aumento, ma alle 18:21 del 16 dicembre 2022 l’ammontare dei soldi spesi in droga quest’anno era calcolato in 383.307.297.851 dollari.3 Il dato è meramente indicativo del volume globale di denaro e interessi che ruotano intorno al fattore droga.
È stato stimato che nel 2018 269milioni di persone, equivalenti al 5.4 per cento della popolazione globale compresa tra i 15 e i 64 anni, hanno fatto uso di droga. Per il 2030 si prevede un incremento fino all’ 11 per cento, ovvero 299milioni di persone.4
La carta5 definisce con molta chiarezza quali sono le tratte attraverso le quali si muovono gli ingenti quantitativi di droga e, soprattutto, la direzione verso cui viaggiano: il Vecchio Continente e gli Stati Uniti d’America.
La “guerra alla droga” condotta dagli USA si è trasformata da metafora in realtà con attività di contrasto in patria, sul confine e all’estero. Non c’è droga che sia stata obiettivo militare più della cocaina. Fu il boom della coca a offrire la motivazione per classificare ufficialmente la droga, dal 1986, come una minaccia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. L’ossessione per la cocaina ha portato alla militarizzazione delle attività di polizia e al ricorso a operazioni militari per questioni interne, facendo sfumare il confine tra scontro bellico e lotta alla criminalità in tutte le Americhe.
Mentre la guerra statunitense contro la cocaina dilagava, nel Centroamerica la droga contribuiva silenziosamente a finanziare un tipo di guerra molto insolito: la campagna dei ribelli Contras, sostenuti dagli Stati Uniti, in opposizione al governo rivoluzionario sandinista del Nicaragua. Episodio simile alle vicende degli insorti anticomunisti finanziati dai proventi della droga nel Sudest asiatico e in Afghanistan.
Un’inchiesta congressuale, durata tre anni e guidata dal senatore del Massachusetts John Kerry, rivelò che alcune delle società di trasporto aereo occultamente ingaggiate dalla CIA per spedire rifornimenti ai Contras erano coinvolte anche nel traffico di cocaina.6
Perché si è ritenuto necessario iniziare e protrarre una guerra alla droga perlopiù esterna ai propri confini piuttosto che concentrare ogni sforzo nella cura e assistenza nonché, prioritariamente, nella prevenzione?
Quanto a lungo potevano tollerare i governi occidentali che milioni di dollari si riversassero di continuo in America latina?
Si impara presto che la vita è ben più complessa di come la si immagina, e che Bene e Male sono concetti relativi non assoluti.
Più di qualunque altro presidente, fu George H.W. Bush a usare il suo potere di comandante in capo per reclutare l’esercito americano nella guerra alla droga. Con la fine della Guerra fredda l’entusiasmo con cui il Pentagono assunse compiti di contrasto alla droga aumentò notevolmente. La possibilità di riciclare le tecnologie della Guerra Fredda per le missioni della guerra alla droga offrì un nuovo margine di crescita agli appaltatori della difesa, che faticavano ad adattarsi al mutato ambiente della sicurezza. L’allora senatore Joseph Biden, rispecchiando lo stato d’animo dell’epoca, sostenne nel 1990 che «molte delle tecnologie più promettenti [per il controllo della droga] sono già state sviluppate negli ultimi dieci anni dal dipartimento della Difesa a fini militari» ed esortò l’adozione e disponibilità di queste tecnologie per le attività antinarcotici.7
All’indomani degli attacchi terroristici dell’11 settembre, i guerrieri antidroga statunitensi, che tipicamente avevano avuto poco o nulla a che fare con la lotta al terrorismo, si adoperarono per riadattare e ridefinire i loro compiti in un ambiente della sicurezza improvvisamente mutato. I funzionari della DEA (Drug Enforcement Administration) insisterono per integrare la guerra alla droga con la guerra al terrore, con una nuova attenzione al “narcoterrorismo” e sollecitando un focus più accurato sui presunti legami tra traffico di droga e attività terroristiche.8
A fine 2001, il presidente George W. Bush sottolineò quanto sia importante per gli americani sapere che il traffico di droga finanzia le attività del Terrore. E che smettendo di drogarsi si partecipa alla lotta conto il terrorismo.9
La guerra alla droga non è mai cessata eppure nel tempo la produzione e il consumo delle droghe non ha fatto che aumentare, inoltre ci sono altri aspetti e conseguenze dirette di ciò che meritano una riflessione.
Nei primi decenni del XXI secolo, l’America Latina è diventata il capoluogo mondiale degli omicidi, con oltre 2milioni di morti violente dall’anno 2000 in poi. Un numero di gran lunga superiore alle circa 900mila vittime dei conflitti in Siria, Iraq e Afghanistan. In America Latina vive solo l’8 per cento della popolazione mondiale, ma si è verificato un terzo di tutti gli assassini. Inoltre, le dieci città più violente del mondo sono tutte in quella regione.10
La droga e la guerra alla droga rappresentano solo una parte della risposta, ma soprattutto in paesi come Messico, Colombia e Brasile si tratta di un aspetto cruciale.11
E sul versante opposto, ovvero nei paesi prevalentemente consumatori di droga, cosa accade?
Secondo i Centers for Disease Control and Prevention (Cdc), ci sono stati oltre 100mila morti per overdose negli Stati Uniti nell’anno compreso tra aprile 2020 e aprile 2021.12
In Italia, i decessi riconducibili all’abuso di sostanze stupefacenti nell’anno 2021 sono 293, in calo rispetto agli anni precedenti ( 2020 – 309; 2019 – 374). La gran parte imputabili all’eroina (135), segue la cocaina (64).13 Negli Stati Uniti invece a causare più decessi è il fentanyl, un oppiode sintetico, 50 volte più potente dell’eroina.
In Europa, nell’anno 2020, i decessi per overdose sono stati 5.800.14
Nel 2021 tra le persone seguite dai Ser.D. – i servizi pubblici per le dipendenze patologiche del Sistema Sanitario Nazionale – dislocati lungo tutto il territorio nazionale italiano si contano:15
8.790 assistiti che presentavano almeno una patologia psichiatrica.
1.513 positivi al test per l’HIV (sindrome da immunodeficienza acquisita).
572 positivi al test per l’HBV (virus dell’epatite B).
10.505 positivi al test per l’HCV (virus dell’epatite C).
Il 4.3 per cento dei soggetti testati è risultato positivo a tutti e tre i test sopra elencati.
15.468 persone ricoverate in ospedale con diagnosi correlate all’uso di droghe, con ricoveri ordinari, e 6.233 accessi al Pronto Soccorso.
Le stime sono tendenzialmente al ribasso, in quanto bisogna considerare che si parla di coloro che sono già seguiti dai Ser.D. sul territorio. Andrebbero quindi aggiunti, o quantomeno tenuti in considerazione tutti gli altri, i consumatori più o meno abituali di droga che non si sono o non si sono ancora rivolti a detti servizi pubblici.
L’uso di sostanze tra gli adolescenti spazia dalla sperimentazione ai gravi disturbi da uso di sostanze. Tutti gli usi di sostanze, anche quelli sperimentali, mettono gli adolescenti a rischio di problemi a termine come incidenti, liti, rapporti sessuali non voluti, overdose. L’uso di sostanze interferisce anche con lo sviluppo cerebrale. Gli adolescenti sono vulnerabili agli effetti provocati dall’uso di sostanze e corrono un rischio più alto di sviluppare conseguenze a lungo termine come disturbi mentali e scarso rendimento intellettivo. Disturbi dovuti anche all’uso di alcol, cannabis e nicotina.16
31.914 le segnalazioni per violazione dell’Art. 75 del DPR n. 309/1990 (possesso ad uso personale di sostanze stupefacenti o psicotrope), riferite a 30.166 persone. Nel 2019 le segnalazioni erano nell’ordine di 53.016. La netta diminuzione è con molta probabilità riferibile alle restrizioni da COVID-19.
30.083 le persone segnalate per reati penali commessi droga-correlati, con un decremento del solo 5 per cento rispetto al 2020. La maggior parte delle denunce ha riguardato la detenzione di cocaina/crack, a seguire cannabis e derivati, eroina/altri oppiacei, sostanze sintetiche.
91.943 i procedimenti penali pendenti per reato di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope. 186.517 le persone coinvolte, con una media quindi di due ogni provvedimento. I minorenni costituiscono il 4 per cento del totale delle persone coinvolte. In termini assoluti, i valori più elevati si riscontrano in Lazio, Lombardia e Sicilia.
12.594 le persone condannate per reati droga-correlati.
Due dei punti cardine sull’andamento della “guerra alla droga” sono gli arresti e i sequestri. Il tempo però ha insegnato a tutti che l’arresto di piccoli, medi o grandi spacciatori come pure di cosiddetti capi significa solo, alla fin fine, più o meno tempo per la riorganizzazione della filiera di distribuzione e vendita. I sequestri poi, anche laddove riguardano quantità che possono sembrare enormi, vanno o andrebbero valutati nella giusta prospettiva.
Nel 2021 sono stati sequestrati 91.152,45 chilogrammi di droga in Italia.18 Passando dalle circa 59 tonnellate del 2020 alle oltre 91 del 2021 non si può non interrogarsi su cosa stia effettivamente accadendo.
Le forze di polizia potrebbero aver sviluppato tecniche più sofisticate per intercettare i carichi di droga in arrivo e in circolazione nel nostro Paese ma potrebbe anche esserci un costante aumento degli stessi. Oppure entrambe le cose insieme. La droga in arrivo aumenta e con essa aumentano anche le probabilità di essere intercettata.
Gli analisti dell’antimafia ipotizzano, in linea generale, che per ogni chilo sequestrato riesce a superare le ispezioni un quantitativo superiore di almeno tre volte. La parte che finisce sotto sequestro è un costo fisiologico messo in conto dalle mafie.19
E se i sequestri aumentano e la produzione e il consumo anche non si può non chiedersi se questa “guerra alla droga” la si sta davvero combattendo oppure si vuole solo dare l’impressione di farlo.
È opinione condivisa che in guerra la prima vittima è sempre la verità? Ciò vale anche per la guerra alla droga?
Nel post-Guerra fredda la guerra alla droga ha ormai definitivamente contribuito a spostare l’attenzione degli apparati di sicurezza statali dalle tradizionali minacce militari alle nuove “minacce transnazionali”. La convenzionale distinzione tra il combattere un conflitto bellico e la lotta al crimine si è dissolta sempre più, cambiando la natura stessa della guerra.
Una guerra contro la droga, anche quando non risulta particolarmente efficace nel reprimere gli stupefacenti, può diventare un mezzo utile per il perseguimento di altri obiettivi strategici, tra cui quello di attaccare e delegittimare i nemici. Ciò fu evidente, per esempio, nel corso della Guerra fredda, allorquando il governo americano accusò la Cina rossa e la Cuba castrista di inondare gli Stati Uniti di droga, mentre in realtà la Cina si era in gran parte ritirata dal narcotraffico internazionale e i cubani più coinvolti in affari erano anticomunisti esiliati a Miami o altrove. Quando la Guerra fredda si concluse e il Congresso e l’opinione pubblica statunitense non furono più disposti a sovvenzionare campagne controinsurrezionali anticomuniste, le agenzie antidroga offrirono agli strateghi di Washington un comodo canale alternativo per finanziare il supporto militare alla guerra del governo colombiano contro le insurrezioni di sinistra.20
Dalla Birmania al Messico, alla Colombia, i narcotrafficanti rafforzano la loro capacità militare per difendere o cercare di conquistare con la violenza i mercati della droga. Negli ultimi anni le dispute tra gruppi rivali che si contendono il territorio hanno imposto un tributo particolarmente pesante al Messico, dove il conto dei morti ha superato quello della maggior parte delle guerre civili.
Probabilmente le attuali battaglie tra gang della droga rivali possono essere viste come una forma criminale di guerra commerciale, resa possibile sia dalla proibizione delle droghe sia dalla facile disponibilità di arsenali militari e di soldati addestrati dall’esercito.
Bisogna sottolineare che la “guerra per la droga” può interagire strettamente con la “guerra contro la droga”, ed esserne alimentata. Quando un’organizzazione è smantellata o indebolita dalla “guerra contro la droga”, altri narcotrafficanti intraprendono una “guerra per la droga”: una violenta competizione per accaparrarsi i territori rimasti vacanti. Questi combattimenti rappresentano anche delle “guerre grazie alla droga”, nella misura in cui sono finanziati con i proventi dei traffici illeciti.21
Un ulteriore effetto interattivo è che i narcotrafficanti possono lanciare una “guerra per la droga” come reazione difensiva a una “guerra contro la droga”, assassinando giudici, poliziotti e politici. La prassi tipica della maggior parte dei narcotrafficanti è sfuggire allo stato, anziché scontrarvisi con la forza, ma in casi eccezionali si è arrivati anche a una dichiarazione di guerra totale contro lo stato.22
L’attuale guerra contro la droga può anche essere vista come una vicenda di affermazione dello stato. Spesso i leader di governo hanno giustificato le campagne antidroga come uno sforzo per proteggere i cittadini, pacificare gli attori violenti non statali, presidiare i confini e imporre l’ordine pubblico: prerogative dello stato per eccellenza.23
E anche se la guerra contro la droga ha fallito ripetutamente, a volte in maniera sensazionale, la connessa escalation delle attività militari ha ampliato e potenziato notevolmente gli apparati di sicurezza dello stato. Attraverso la guerra contro la droga i controlli di polizia si sono notevolmente estesi, e in alcuni luoghi ciò ha persino comportato la trasformazione dei soldati in poliziotti. Una delle conseguenze è stata quella di mettere in dubbio fin dalle basi la tradizionale distinzione fra combattere una guerra e combattere la criminalità.24
Non bisogna dimenticare poi che la guerra contro la droga ha permesso di riscuotere cospicue entrate grazie a leggi ad ampio raggio per la confisca dei beni, che hanno reso le attività di polizia altamente redditizie.25
E c’è stata una massiccia, anche se non registrata, riscossione informale di entrate nella forma di tangenti e bustarelle, che può essere concepita come un’imposta de facto sul traffico di droga.26
Con l’atto di criminalizzare la droga, lo stato crea la minaccia – gonfiando bruscamente i profitti ricavati dai narcotici e mettendo il business clandestino nelle mani di criminali pesantemente armati -, e ciò a sua volta offre allo stato una ragione per reagire con una guerra alla droga sempre più militarizzata. E poiché i trafficanti eliminati e la droga sequestrata che gli stati usano come misura del loro “successo” sono facilmente sostituibili, e politici e burocrati hanno forti incentivi a insistere e intensificare gli sforzi anziché a riconsiderarli, la guerra alla droga continua a trascinarsi.27
Viene allora da interrogarsi su dove ci porterà tutto questo. Si vincono le battaglie della guerra alla droga, ma la guerra non finisce. E la dinamica della guerra si autoperpetua in maniera perversa: le vittorie sul campo pongono involontariamente le condizioni per ampliare il conflitto; chiudere le vecchie rotte e togliere di mezzo i trafficanti fa semplicemente emergere nuove rotte e più trafficanti. Oltretutto, ne conseguono lotte per il territorio che possono alimentare ancor di più la violenza che l’invio di militari avrebbe dovuto sedare. E se il passato può in qualche modo guidarci al futuro, è lecito aspettarsi che le cose continuino così.28
Molti consumatori di eroina americani si sono votati alla droga solo dopo essere diventati dipendenti da antidolorifici oppiodi regolarmente prescritti. Quella contro la droga, tuttavia, è una guerra altamente selettiva, che evita in tutti i modi di prendere seriamente di mira le case farmaceutiche che hanno pubblicizzato con tanta aggressività prodotti che creano dipendenza.29
Ma cosa accadrebbe se la guerra alla droga dovesse in qualche modo finire? Finirebbe anche la violenza?
La legalizzazione priverebbe l’enorme commercio illegale planetario dei suoi profitti gonfiati dal proibizionismo, che alimentano la violenza e finanziano terroristi e insorti. Probabilmente i narcotrafficanti diversificherebbero i loro affari e si rivolgerebbero ad altre attività illecite, come fecero i boss mafiosi statunitensi dopo la revoca del proibizionismo dell’alcol, ma il loro flusso di entrate più rilevante sarebbe prosciugato.
Non bisogna dimenticare che la proibizione della droga e gli elevati volumi del narcotraffico precedono di gran lunga, per esempio, le ondate di violenza in Messico. Non sono solo il proibizionismo e i flussi di droga in sé a innescare la violenza, ma le modalità specifiche con cui le leggi antidroga vengono applicate o disattese.30
Troppo spesso la politica impregnata di moralismo della guerra alla droga esclude approcci più pragmatici.31
Se da un lato gli eserciti contemporanei vengono schierati su un numero di fronti sempre maggiore per combattere la droga, dall’altro combattono sempre più “fatti” di droga. Molti di coloro ai quali è è affidato il compito di fare la guerra continueranno a cercare aiuto nelle droghe, che siano prescritte o auto-prescritte. Se è vero che il combattere da strafatti ha una lunga tradizione, oggi sono disponibili più droghe per un numero di soldati più alto che mai, e lo stato continua a essere uno dei principali spacciatori.32
Circa 270milioni di persone nel mondo fanno o hanno fatto uso di droga. È necessario quindi andare oltre l’immagine stereotipata del tossico eroinomane che giace inerme con una siringa infilata in un braccio. Bisogna andare oltre. Molto oltre.
Rientra nella più assoluta “normalità” l’identikit del cocainomane socialmente inserito emersa dall’attività del centro clinico cocainomani di Brescia: età compresa tra i 25 e 34 anni, con titoli di studio, lavoro e famiglia e con l’abitudine di fare una o più “piste” di cocaina al giorno.33
Nel 2006 il Garante della Privacy bloccò la messa in onda dell’inchiesta condotta dalla troupe della trasmissione televisivaLe Iene – un parlamentare su tre positivo ai test antidroga – perché lesiva dell’immagine e dell’onorabilità dell’istituzione. Dieci anni dopo, sempre i parlamentari italiani hanno bocciato l’ordine del giorno per introdurre cani e test antidroga anche in Parlamento. E allora si è provata la strada già percorsa dal «Sun» nel 2013 che diede origine a quello che fu definito lo “scandalo cocaina a Westminster”: utilizzare i kit pronti all’uso per testare le superfici dei bagni del Parlamento. Le tracce sono state trovate e i test hanno dato esiti positivi.34
Bisognerebbe poi riconoscere che la guerra stessa può essere pensata come una droga, la quale probabilmente durerà nel tempo, mentre la popolarità di altre sostanze stupefacenti va e viene.
L’unica cosa che si può prevedere con una qualche certezza è che la droga e la guerra proseguiranno nel loro abbraccio mortale: l’una farà e rifarà l’altra ancora negli anni e nei decenni a venire.35
E intanto possiamo sempre continuare o iniziare a guardarci intorno, anche su una qualsiasi strada, e chiederci quante auto, camion o altri veicoli imbottiti di droga ci sono intorno a noi. Domandarci quante sono le persone che fanno uso di droga e perché. Chiedere a noi stessi quante sono le persone che realmente combattono la guerra contro la droga e perché lo fanno.
Perché se non si conosce a fondo e per intero il problema globale della droga e della guerra alla droga si rischia di ridurlo a un mero problema esistenziale di persone con delle fragilità. Invece è un problema globale, di salute pubblica ma anche di geopolitica, di economia e malavita, di malapolitica e corruzione, di scelte e di opportunismo, di vittime e di carnefici. Di Stato e di Mafia.
1Il Fatto Quotidiano, edizione online 14 dicembre 2022: https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/12/14/ponte-morandi-anche-un-camion-con-900-chili-di-droga-coinvolto-nel-crollo-la-ndrangheta-tento-di-recuperare-il-carico/6905572/
2United Nation World Drug Report 2022: https://www.unodc.org/unodc/en/data-and-analysis/world-drug-report-2022.html
8Federal Documents Clearing House, FDCH Political Transcripts, U.S. Senator Orrin Hatch (R-UT) Holds Hearing on International Drug Trafficking and Terrorism, 20 maggio 2003.
9G. Thomson, Trafficking in Terror, in «New Yorker», il 14 dicembre 2015.
10D. Luhnow, Latin America Is the Murder Capital of the World, in «Wall Street Journal», 20 settembre 2018.
12«Il Fatto Quotidiano», 20 novembre 2021: https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/11/20/la-pandemia-silenziosa-degli-usa-oltre-100mila-morti-di-overdose-in-un-anno-guerra-che-uccide-piu-di-armi-e-incidenti-stradali-messi-insieme/6397531/
14EMCDDA Relazione europea sulla droga – Tendenze e Sviluppi – 2022: https://www.emcdda.europa.eu/system/files/publications/14644/20222419_TDAT22001ITN_PDF.pdf
15Rapporto Tossicodipendenze del Ministero della Salute 2022 (sui dati del 2021): https://www.salute.gov.it/portale/documentazione/p6_2_2_1.jsp?lingua=italiano&id=3272
16S. Levy, MD MPH Harvard Medical School, MSD Manual luglio 2022 Uso di sostanze negli adolescenti: https://www.msdmanuals.com/it-it/casa/problemi-di-salute-dei-bambini/problemi-negli-adolescenti/uso-e-abuso-di-sostanze-nell-adolescenza
17Presidenza del Consiglio dei Ministri, Relazione Annuale al Parlamento sul Fenomeno delle Tossicodipendenze in Italia, anno 2022: https://www.politicheantidroga.gov.it/it/notizie/notizie/relazione-annuale-al-parlamento-2022/
18Relazione della Direzione Centrale per i Servizi Antidroga (relativa al 2021): https://antidroga.interno.gov.it/wp-content/uploads/2022/06/Sintesi-2022.pdf
19I. Cimmarusti, Mafia Spa, l’import-expot di droga e rifiuti triplica nell’anno della pandemia, «Il Sole 24 Ore», 30 settembre 2021: https://www.ilsole24ore.com/art/mafia-spa-l-import-export-droga-e-rifiuti-triplica-nell-anno-pandemia-AEjf3Pk?refresh_ce=1
33S. Ghilardi, La cocaina «sfonda» tra i colletti bianchi, «Corriere della Sera» edizione Brescia, 8 ottobre 2014: https://brescia.corriere.it/notizie/cronaca/14_ottobre_08/cocaina-sfonda-colletti-bianchi-476c2ade-4ebe-11e4-b3e6-b91ef8141370.shtml
34T. Mackinson, La Camera se la tira, tracce di cocaina nel bagno dei deputati – L’inchiesta su FQ Millenium del 2017, «Il Fatto Quotidiano», 6 dicembre 2021: https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/12/06/la-camera-se-la-tira-tracce-di-cocaina-nel-bagno-dei-deputati-linchiesta-su-fq-millennium-del-2017/6417647/
È la massimizzazione dei profitti l’obiettivo cui dovrebbero tendere aziende e dirigenti per garantire la sopravvivenza della stessa azienda e servire il benessere non solo dei suoi azionisti ma anche, più in generale, degli stakeholders.
Quando un’impresa ottiene un profitto, di solito ne beneficiano i dipendenti, i partner dell’azienda lungo la catena del valore, le banche, il governo e in definitiva la società nel suo complesso.
Questa è, in sintesi, la tesi sostenuta con passione da Simon e Fiorese. Una determinazione che neanche l’avvento della digitalizzazione sembra poter mettere a rischio. Gli autori si mostrano infatti convinti che, al pari di quanto accaduto per la New Economy, anche la digitalizzazione prima o poi dovrà fare i conti con il profitto.
Circa due decenni dopo lo scoppio della bolla della New Economy, si assiste a una nuova era di euforia in cui l’84 per cento delle aziende che si quotano in borsa non ottengono profitti, ma in alcuni casi godono di valutazioni di mercato ridicolmente alte. Questi sono i reali rischi di sostenibilità temuti ed evidenziati da Simon e Fiorese, non il profitto in sé, se lecito ovviamente, perché esso rappresenta e deve rappresentare il naturale obiettivo di un’azienda sana e prosperosa.
Per le aziende private, non c’è alternativa all’orientamento al profitto. Dopo tutto, nessuna azienda è mai andata in bancarotta per aver guadagnato.
La massimizzazione del profitto – o forse peggio «la massimizzazione del valore per gli azionisti» – è considerata da molti osservatori come la radice di tutti i mali del nostro sistema economico.
Eppure, secondo Simon e Fiorese, nella sua essenza la massimizzazione del profitto è semplicemente l’antitesi dello spreco.
I critici sostengono che la massimizzazione del profitto e del valore per gli azionisti è responsabile dello sfruttamento delle risorse e dei lavoratori, delle disparità di reddito e di patrimonio, della delocalizzazione dei posti di lavoro in paesi a basso salario, del trasferimento delle sedi aziendali in paradisi fiscali e di molti altri abusi.
Ma queste critiche sono, per gli autori, in netto contrasto con le basi teoriche della microeconomia, fermo restando che l’etica è e dovrebbe rimanere la pietra angolare della leadership di lungo termine. Concetto sintetizzato dalle parole del secondo decano della Harvard Business School: «a decent profit decently» (un profitto soddisfacente in modo corretto).
Nella realtà però esistono le zone grigie e allora non ci si può non interrogare su cosa rientra effettivamente nella definizione di decently e cosa no.
Il profitto è la ricompensa che spetta a un’azienda per l’assunzione del rischio imprenditoriale. È ciò che rimane dopo che sono stati pagati gli stipendi, i dipendenti, i fornitori, le banche e altri creditori, oltre alle tasse dovute a governi statali e locali. Il profitto è quindi un residuo legittimo che appartiene solo ed esclusivamente ai proprietari dell’azienda.
Viene da sé comunque che questi imperativi degli autori si riferiscono alle aziende che regolarmente pagano i dipendenti, onorano i propri debiti e versano le tasse e i contributi. Condizione estremamente differente dalle società fittizie che nascondono capitali all’estero, in aree off-shore appositamente per bypassare il fisco.
Vero è anche che una delle leggi fondamentali dell’economia ci dice che profitto e rischio hanno una correlazione positiva. In altre parole, le opportunità di un profitto più elevato comportano un maggior rischio. Si può usare questa legge in una semplice regola pratica per il processo decisionale: per un dato livello di profitto, si dovrebbe scegliere l’alternativa con il rischio più basso. Al contrario, si dovrebbe scegliere l’opzione con il più alto profitto potenziale se i rischi sono uguali. I mercati di capitali però valutano le opportunità di investimento a più alto rischio.
Tutti parlano di un sistema basato sulla meritocrazia ma in realtà vogliono intendere la capacità di fare soldi e di farli fare a loro volta. E chi è esterno a questo meccanismo perverso non può fare a meno di chiedersi se davvero conta solo questo e perché.
Non è solo una questione di soldi. È lo status che risucchia inesorabilmente molti nel «tunnel della dipendenza da lavoro», nel mondo dorato dei bonus milionari, dei viaggi in prima classe e delle vacanze in resort di lusso in località esotiche… un «sistema chiuso che ti allontana ancora di più dalla realtà» e per il quale «vendi l’anima al diavolo. Io l’ho venduta per le ricchezze terrene. In cambio il diavolo ha voluto il mio fallimento morale». Tanti banker nel momento in cui realizzano cosa stanno facendo hanno dei crolli emotivi che cercano di riempire con fiumi di alcol. Ragazzi per la gran parte sotto i trent’anni che non possono parlare tra di loro se non di lavoro, la concorrenza è troppa e la debolezza non è ben vista in quell’ambiente. Non possono parlare con famigliari amici affetti perché chi è estraneo a quel mondo stenta a comprendere e a condividerne le dinamiche. Si ritrovano a vivere le loro interminabili giornate di lavoro in un sistema chiuso dove «l’etica è questa: o sei con noi o contro di noi». Un ambiente “amorale” nel quale lo scopo diffuso è “ingannare” i clienti senza infrangere alcuna legge o norma. Uno dei motti più diffusi tra i banker è “it’s only Opm (Other People’s Money) – è solo denaro altrui”.1
I margini di profitto tendono a essere più bassi nei paesi grandi e viceversa ma, in generale, i margini di profitto netto nei paesi dell’Unione Europea tendono a essere più bassi. Le aliquote fiscali più alte aiutano a spiegare questo fenomeno.
Oltre che da paese a paese, i margini di profitto variano in maniera significativa anche tra i diversi settori industriali. Nelle industrie pro-cicliche – ossia molto legate all’andamento dell’economia in generale – come quella petrolifera e del gas, le fluttuazioni dei prezzi possono avere un forte effetto sui margini di profitto annuali. Al contrario, altri settori come quello farmaceutico, ovvero anti-ciclici, conservano margini elevati sostenuti.
L’industria farmaceutica è seconda, dopo software/entertainment, per margine di profitto.2
I profitti elevati sono moralmente discutibili? Per certo non si può negare che esistono casi delicati e complessi – da un punto di vista etico – soprattutto in settori particolari, tra i quali rientra a pieno titolo l’industria farmaceutica. Farmaci innovativi e salvavita dai costi esorbitanti pongono dure sfide etiche alle aziende e alla società intera.
«Siamo fermamente convinti che le terapie debbano essere pagate in base al loro valore. Siamo determinati a fissare i nostri prezzi secondo questo principio.»3
Si tratta di aziende private. È un loro diritto orientare la politica aziendale al profitto. Ma tutto questo non può non rispolverare l’annosa questione sul concetto di salute pubblica e accessibilità alle cure mediche.
Kymriah, una terapia genetica sviluppata da Novartis, può curare una certa forma di leucemia con una sola iniezione. Negli Stati Uniti, un’applicazione di quel farmaco costa fino a 475mila dollari. Il servizio sanitario britannico ne copre una parte del costo, in determinati casi. In Germania il prezzo è di 320mila euro. Ed è solo uno dei numerosi esempi che si possono riportare e che riguardano tutte le case farmaceutiche, non solo Novartis.
Ovvio che il costo di queste terapie non è dipendente solo dal profitto, in larga parte dal lavoro che ha portato alla sua creazione. Il punto è quanto sia etico che salute e guarigione siano affidate al settore pubblico lecitamente votato al profitto.
Singolare poi, per non dire paradossale, che le industrie farmaceutiche e quelle del tabacco siano così vicine nella classifica dei profitti.
Gli autori sottolineano come la critica all’orientamento al profitto provenga, in gran parte, dagli intellettuali e non solo quelli riconducibili ad ambiti politici di sinistra.
Questi generalmente pensano di essere più intelligenti degli uomini d’affari e, se si prende in considerazione il quoziente intellettivo, questa auto-percezione potrebbe effettivamente essere esatta. Ma guadagnano decisamente di meno e, siccome non imputeranno mai ciò a qualche loro carenza, additano il sistema come responsabile al pari e in correità al comportamento spregiudicato degli stessi uomini d’affari. E anche su questo versante esplorato dagli autori si apre un mondo di interminabili discussioni sul valore da attribuire alla cultura, alla formazione, alle competenze, alla meritocrazia.
«I ricchi sono bravi a guadagnare soldi ma di solito non sono persone decenti (rispettabili).»4
A onor del vero, va ricordato che lo scetticismo verso la filosofia del profitto alberga anche all’interno della stessa comunità degli economisti. Tuttavia gli autori rammentano al lettore che, nel mondo reale, è raro che qualcuno sappia in anticipo quale comportamento consentirà di raggiungere i più alti profitti possibili, o quanto effettivamente alti potrebbero essere i loro utili.
Bisogna infatti sempre tenere presente che un numero considerevole di aziende – presumibilmente più della metà – non genera alcun profitto economico e quindi non recupera i propri costi di capitale.
Nella personale esperienza di Simon e Fiorese, solo pochi imprenditori e manager danno la massima priorità al profitto. A dominare sono invece gli obiettivi di reddito, volume o quota di mercato. Ancora una volta a primeggiare, per orientamento al profitto, sono le aziende farmaceutiche e dell’healthcare in generale.
Sulla questione della discutibilità morale dei profitti gli autori sono perentori: dipende più da come vengono realizzati che dal loro ammontare. Il profitto è il prezzo della sopravvivenza. Se un’azienda non guadagna, prima o poi fallirà.
Simon e Fiorese sono dei tecnici del settori per cui il loro orientamento, anche di scrittura, è economico, non politico né sociale. Tuttavia hanno cercato di mantenere sempre una certa obiettività nell’esporre perlopiù fatti e dati piuttosto che opinioni personali. Molto utile, per i lettori generici, anche la parte iniziale del testo, dove vengono analizzati i vari aspetti della formazione del profitto aziendale e ne vengono indicati anche i copiosi fraintendimenti di senso che si diffondono lungo tutti i canali della comunicazione e dell’informazione.
Un libro la cui tesi si può anche tentare di confutare ma che rimane comunque molto interessante e veritiero.
Il libro
Hermann Simon, Francesco Fiorese, Profitto. Come massimizzarlo per un’impresa e una società davvero sostenibili, Guerini Next, Milano, 2022.
Gli autori
Hermann Simon: fondatori e Honorary Chairman di Simon-Kucher&Partners. Tra i maggiori management thinkers contemporanei, ha insegnato come accademico al MIT, Insead, Harvard, Stanford e London Business School.
Francesco Fiorese: partner dell’ufficio di Milano della Simon-Kucher&Partners. Autore di numerosi articoli e studi dedicati alla strategia e al marketing.
1Joris Luyendijk, Nuotare con gli squali. Il mio viaggio nel mondo dei banchieri, Einaudi, Torino, 2016
2New York University: http://pages.stern.nyu.edu/~adamodar/New_Home_Page/datafile/margin.html
3Jörg Renhardt, presidente del CdA di Novartis, Frankfuerten Allgemeine Zeitung, 17 ottobre 2018
4Rainer Zitelmann, The Rich in Public Opinion, Cato-Institute, Washington, 2020.
Bassi livelli di crescita, aumento della disuguaglianza, crescente insicurezza economica per vasti settori: sono solo alcune delle conseguenze dei problemi che non potranno mai essere risolti con piccoli cambiamenti politici. Per migliorare i risultati dell’economia e creare un benessere condiviso occorre riscrivere le regole dell’economia europea, intese nel senso più ampio, che comprende anche le politiche di fondo per il governo dell’Unione europea.
Dopo aver analizzato a fondo i problemi dell’economia statunitense, Joseph Stiglitz, in collaborazione con Carter Dougherty e la Foundation For European Progressive Studies, indirizza la sua ricerca verso l’economia europea e i suoi difetti sistemici, dovuti a errori strutturali ma anche al fatto che, ormai, la visione dei fondatori risale a oltre sessanta anni fa. Servono nuove istituzioni e nuove regole di governo dell’economia e della politica, che a loro volta devono basarsi su nuove idee.
Stiglitz, come anche gli altri economisti che hanno condotto l’indagine, si rivela fin da subito consapevole di quanto possa essere in realtà complesso apportare cambiamenti radicali al quadro economico di base, pertanto si è preferito concentrare l’attenzione su ciò che è realmente possibile fare pur mantenendo pressoché invariati i vincoli attuali imposti dall’Unione a se stessa come ai singoli paesi membri.
Un aspetto peculiare dell’economia europea è il modello sociale, il cosiddetto welfare state. Quest’ultimo ha pagato, nei vari paesi europei, un prezzo altissimo all’austerità, proprio in una fase in cui l’Europa avrebbe dovuto invece rinnovarlo e incrementarlo per renderlo adeguato alle realtà economiche del Ventunesimo secolo.
Oggi i cittadini europei hanno, rispetto a prima della crisi del 2008, meno possibilità di lavorare, istruirsi, curarsi e andare in pensione, e in alcuni paesi queste possibilità sono scese a livelli decisamente inaccettabili.
Gli autori affermano che la gran parte dei risultati deludenti dell’Unione europea sia riconducibile al quadro di politica macroeconomica. E i risultati, particolarmente deludenti, dell’Eurozona dipendono in parte proprio dalla sua struttura.
L‘euro ha eliminato i principali meccanismi correttivi, amplificando così le conseguenze di eventi come la crisi finanziaria del 2008 e provocando la successiva crisi del debito sovrano.
L’economia europea ha evidenziato anche un altro problema, ancor più preoccupante: i benefici di quel poco di crescita che c’è stato sono andati in gran parte a chi stava già meglio di tutti gli altri.
Le regole e le regolamentazioni economiche europee risalgono agli anni Novanta, che era decisamente un momento di trionfalismo capitalista. Però sostenere che a far crollare i regimi autoritari, da Varsavia a Bucarest fino a Mosca, sia stata l’economia di mercato significa travisare la storia: quel crollo fu il risultato del fallimento di un sistema comunista profondamente sbagliato, spinto sull’orlo del precipizio dalla determinazione americana nella corsa al riarmo tecnologico e dall’anelito umano alla libertà.
Se l’Eurozona fosse stata creata pochi anni dopo, allorquando le economie dell’est asiatico furono investite da una serie di shock economici, i rischi di quella formula, per Stiglitz e colleghi, sarebbero stati molto più evidenti.
Quei paesi non erano riusciti a evitare una crisi grave pur avendo rispettato alla lettera le stesse ricette macroeconomiche di contenimento del disavanzo, del debito e dell’inflazione confluite nei vincoli dell’Unione europea. Ma anche i precedenti successi di quei paesi per gli autori vanno interpretati come una smentita del credo ultracapitalista. Per anni, infatti, i loro altissimi tassi di crescita erano stati favoriti da un interventismo pubblico ben più sistematico di quello consentito dalle regole europee.
Molti europei guardavano con ammirazione all’aumento del Pil americano, ma trascuravano il ristagno, anzi il calo in termini reali, del reddito di larghe fette della popolazione statunitense, e ignoravano sia la precarietà dei redditi, sia la mediocrità dei servizi sanitari, che si rifletteva in un’aspettativa di vita inferiore a quella di tutti gli altri paesi sviluppati.
Con ogni probabilità, se le regole fossero state scritte dopo la crisi e la recessione, i loro estensori sarebbero stati ben più scettici sulla capacità dei mercati – soprattutto finanziari – di funzionare da soli.
Tutte le crisi prima o poi passano, ma, nel valutare un sistema economico, ciò che conta non è che la crisi sia finita o semplicemente superata, bensì il tempo impiegato per arrivare a una completa ripresa, le sofferenze inflitte ai cittadini, e la durata delle stesse, e la vulnerabilità del sistema a un’altra crisi.
In Europa le conseguenze della crisi finanziaria e della recessione sono state inutilmente gravi, lunghe e dolorose. Il divario tra la condizione attuale dell’economia e quella in cui si sarebbe trovata in assenza di crisi si misura ormai in trilioni di euro. E ancora oggi, oltre un decennio dopo lo scoppio della crisi, la crescita rimane incerta.
I problemi di fondo della struttura economica e del quadro delle politiche europee sono ancora gli stessi che hanno condotto alla crisi, e ciò rende l’Europa vulnerabile a una nuova crisi.
Le sfide da affrontare sono, in sintesi:
Scelte di politica economica (politica macroeconomica, politica monetaria, investimenti pubblici).
Regolamentazione dei mercati (riforme della corporate governance, dei mercati finanziari, della proprietà intellettuale, della concorrenza e del fisco).
Creazione di uno Stato sociale all’altezza del Ventunesimo secolo.
Definizione concordata di nuove regole globali che gestiscano meglio la globalizzazione, in modo da non aggravare i problemi di disuguaglianza.
L’Europa ha la tendenza a orientarsi verso i paesi maggiori eppure per Stiglitz, a volte, sono i paesi minori a creare modelli esportabili. Per esempio, il Portogallo ha dimostrato che la strada giusta è la crescita non l’austerità.
All’epoca in cui fu sottoscritto il Patto di Stabilità e Crescita, il mondo era appena uscito da una fase di inflazione galoppante. Ma oggi il problema non è più l’inflazione ma la disoccupazione. Per offrire lavoro a tutti occorre abbandonare l’austerità, correggere il disallineamento dei tassi di cambio in modo da renderli più equi ed efficienti e investire di più e con intelligenza.
Si può fare di meglio anche restando nell’ambito del Patto di Stabilità e crescita. Un paese può ad esempio rispettare il quadro di bilancio in pareggio (o il deficit entro il tre per cento) e contemporaneamente aumentare sia le tasse che le spese, in modo da stimolare l’economia. Ovvero impiegare il cosiddetto moltiplicatore di bilancio in pareggio. Va da sé però che bisogna scegliere con oculatezza le voci giuste, sia per le entrate che per le uscite.
Attualmente una delle economie ritenute più forti e stabili, all’intero dell’Unione, è quella tedesca. Tuttavia, ricordano gli autori, anche la Germania ha interesse ad abbandonare il proprio modello economico fondato sulle esportazioni se si guarda al medio periodo.
Man mano che le imprese cinesi impareranno a fabbricare, e non più acquistare, beni strumentali (soprattutto macchine industriali), questa vorace domanda si trasformerà in concorrenza per l’industria tedesca. Per cui, un maggior dinamismo della domanda interna e un’economia europea in buona salute possono aiutare la Germania ad attutire lo shock inevitabile che l’attende.
La politica monetaria è un altro grande strumento da cui partire per riscrivere l’economia europea.
L’Unione ha concepito la Bce per affrontare un problema del passato (l’inflazione) senza darle flessibilità sufficiente per affrontare i problemi del Ventunesimo secolo (occupazione e stagnazione).
La principale riforma della Bce dovrebbe prevedere l’estensione del suo mandato a un obiettivo di occupazione, basandosi su idee che potrebbero dare alla stessa e alle politiche monetarie europee quella flessibilità di cui c’è estremo bisogno:
Usare i margini di discrezionalità consentiti da Maastrich.
Fare riferimento all’inflazione di fondo.
Spostare l’attenzione sui rischi di inflazione troppo bassa e di deflazione.
Riorganizzare il programma di ricerca della Bce.
Definire obiettivi d’inflazione simmetrici, o addirittura sbilanciati verso la prevenzione della deflazione, poiché le fasi di alta disoccupazione sono associate a pressioni deflazionistiche.
Utilizzare vigilanza e regolamentazione bancaria per promuovere crescita e stabilità, incentivando gli investimenti produttivi e scoraggiando i rischi speculativi.
Gestire la vigilanza in modo da non accentuare la contrazione dell’economia.
Favorire il credito alle piccole imprese.
Accrescere il controllo del Parlamento europeo.
Accrescere l’efficacia di vigilanza del Consiglio europeo.
Accrescere la trasparenza.
(l’elenco è solo a titolo esemplificativo e non riporta in maniera esaustiva tutte le proposte discusse nel testo)
Il Mes (Meccanismo europeo di stabilità) del 2012 è apparso come il primo approccio verso un cambio di rotta delle direttive economiche europee. Attualmente ritenuto in grado di gestire la crisi di un paese minore ma molto al di sotto di ciò che sarebbe necessario per affrontare una crisi bancaria in un paese maggiore. Oggi, chiedere assistenza sul Mes significa sottoporsi formalmente alla supervisione della troika per tutta la durata della crisi. Per ricevere assistenza i paesi devono accettare specifiche regole di bilancio e diverse modifiche alle proprie politiche.
Durante una videoconferemza organizzata dal think tank europeo Feps, Joseph Stiglitz ha parlato della necessità di prestiti e sovvenzioni da parte dell’Europa ai paesi membri, degli eurobond nel breve periodo, in quanto molti paesi hanno un livello di debito troppo alto per riuscire a reperire autonomamente le risorse necessarie, mentre per il lungo periodo auspica una maggiore tassazione comune dell’Unione europea (web tax, carbon tax, corporate tax).
E, all’interno del Feps Covid Response Papers nuomero dieci di ottobre 2020, Stiglitz parla in dettaglio della situazione attuale con commenti ai provvedimenti presi e quelli calendarizzati nonché dei vari scenari possibili.
Bibliografia di riferimento
Joseph E. Stiglitz, Riscrivere l’economia europea. Le regole del futuro dell’Unione, con Carter Dougherty e Foundation For European Progressive Studies, ilSaggiatore, Milano, 2020.
Titolo originale: Rewriting the rules of european economy.
Traduzione di Marco Cupellaro.
Joseph E. Stiglitz: capo economista e senior fellow del Roosevelt Institute, Premio Nobel per l’Economia 2001.
La modernità del mondo occidentale è davvero così inscindibile dal sistema capitalistico oppure esistono, o dovrebbero esistere, forme e processi economici differenti, paralleli o alternativi?
Il dibattito è aperto e animato, richiede inoltre uno sguardo a quei paesi e alle rispettive economie che sono emergenti e, a tratti, emulative dei processi economici occidentali senza dimenticare le idee di coloro i quali, al contrario, vedono nelle dinamiche del mondo occidentale l’imitazione di sistemi e strutture pregressi, avanzando il bisogno di allungare indietro lo sguardo fino ai tempi del colonialismo.
CAPITALISMO E CAPITALE
Il capitalismo ha presentato, fin dalle origini, un accentuato dualismo simbolico e concreto. Da un lato è visto come il metodo migliore per lo sviluppo economico di un paese essendo basato su una economia di libero mercato, su una divisione netta tra proprietà privata e pubblica. Un metodo di sviluppo quindi con un potenziale altissimo che ha consentito a paesi, come gli Stati Uniti d’America, di diventare potenze economiche di livello mondiale. D’altro canto però è stato sempre criticato e per le medesime ragioni, generando un sistema nel quale il lavoro diventa lavoro salariato, sfruttato al fine ultimo di ottenere il massimo profitto, utile all’illimitato bisogno di accumulo di capitale.
A partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo, allorquando ha iniziato a diffondersi, il capitalismo si è sviluppato in maniera non univoca nei diversi paesi del blocco occidentale, garantendo comunque alti livelli di crescita economica e generando, per restare negli Usa, quello che Elizabeth Warren ha definito “il più grande ceto medio che il mondo abbia mai conosciuto”. Una classe sociale nata e sviluppatasi proprio grazie al lavoro e al profitto generatosi da esso.
Uno sviluppo e una crescita enormi che hanno ingenerato però una grande quantità di problemi dovuti, in larga parte, proprio alle difficoltà inerenti l’impossibilità o quasi di sostenere gli stessi ritmi e i medesimi consumi.
CAPITALISMO, MA A QUALE PREZZO?
È la domanda che si è posta Michel Martone analizzando la situazione economica dell’Italia all’indomani della grande crisi economica che, inevitabilmente, ha riportato l’attenzione sulle dinamiche di un sistema economico, che da tempo ormai strizza l’occhio alle grandi economie libere dei paesi capitalisti per tradizione, ritenuto da molti il principale responsabile.
Oggi, nel mercato globale, per soddisfare le richieste sempre più esigenti, sia sotto il profilo della qualità che sotto quello del costo dei prodotti, si finisce per sacrificare le retribuzioni e la stabilità degli stessi lavoratori.
Ragionamento eguale a quello portato avanti dalla Warren nella sua analisi al sistema americano dove il ceto medio, una volta grande, è ormai ridotto allo stremo. Il passaggio dal capitalismo economico a quello finanziario ha lasciato indietro tanti lavoratori, un’intera classe di lavoratori, il ceto medio appunto, trasformando quelli che erano i punti cardine dello sviluppo economico (risorse e manodopera) in aspetti secondari di un sistema che è tutt’ora in continua espansione e crescita.
L'AFROMODERNITÀ COME CONDIZIONE GLOBALE?
Diversi fenomeni osservabili in Africa hanno indotto Jean e John Comaroff a considerarli prodromi e non imitazioni di quanto sta accadendo in Europa e Nordamerica.
Un’economia emergente, quella africana, tutt’altro che priva di contraddizioni, basata sul desiderio degli stati post-coloniali e dei loro governanti di guadagnare entrate spendibili nelle forme più flessibili e deregolate, a scapito della protezione dei lavoratori, dei controlli ambientali, delle imposizioni fiscali.
Così lo sviluppo economico si è spesso manifestato in forme rapinose, che massimizzano il profitto al minimo costo realizzando pochi investimenti strutturali. Soluzioni ispirate a dottrine neoliberiste ma realizzate con formulazioni estreme e incontrollabili, con il conseguente aumento di fenomeni come conflittualità, xenofobia, criminalità, esclusione sociale, corruzione.
Una violenza strutturale sembra dunque accompagnare i più recenti sviluppi di un’economia deregolamentata che inizia a diffondersi a livello globale.
La modernità è sempre stata indissociabile dal capitalismo, dalle sue determinazioni e dalle sue logiche sociali, come ricordava già Amin nel 1989, per quanto ovviamente fascismo e socialismo abbiano provato a costruire delle loro versioni.
Così, la modernità capitalista, si è realizzata, per quanto in maniera molto ineguale, nelle grandi aspirazioni del liberalismo, tra cui l’edificio politico-giuridico della democrazia, il libero mercato, i diritti e la società civile, lo stato di diritto, la separazione tra pubblico e privato, sacro e laico. Ma, per i Comaroff, ha anche privato diverse popolazioni di queste cose, in primis quelle dislocate nei vari teatri coloniali. E, per Elizabeth Warren, il contemporaneo capitalismo finanziario sta privando gli stessi americani e occidentali in generale di queste medesime cose.
IL CAPITALISMO DELLA SORVEGLIANZA
Il capitalismo sembra evolversi in risposta ai bisogni delle persone in un tempo e in un luogo determinati. È in questo modo che si sarebbe giunti, nella visione di Shoshana Zuboff, alla attuale forma di capitalismo della sorveglianza. Una logica che permea la tecnologia e la trasforma in azione. Una forma di mercato inimmaginabile fuori dal contesto digitale ma non coincidente con esso. Si appropria dell’esperienza umana usandola come materia prima da trasformare in dati sui comportamenti.
I capitalisti della sorveglianza hanno scoperto che i dati più predittivi si ottengono intervenendo attivamente sui comportamenti delle persone, consigliandole o persuadendole ad assumere quelli che generano maggiore profitto. Come il capitalismo industriale era spinto dalla continua crescita dei mezzi di produzione, così il capitalismo della sorveglianza e i suoi operatori di mercato sono costretti ad accrescere continuamente i mezzi per la modifica dei comportamenti e il potere strumentalizzante.
Karl Marx paragonava il capitalismo a un vampiro che si ciba di lavoro, nell’accezione attuale il nutrimento non è il lavoro bensì ogni aspetto della vita umana.
Come le civiltà industriali hanno potuto prosperare a discapito della natura e delle sue risorse, così una civiltà dell’informazione segnata dal capitalismo della sorveglianza prospererà, per Zuboff, a discapito della natura umana.
In questa nuova forma di capitalismo per certo ci sarà un drastico calo nello sfruttamento delle risorse della natura e questo, per Andrew McAfee, è indubbiamente un aspetto positivo.
IL NUOVO MOTTO SARÀ: DI PIÙ CON MENO?
Per quasi tutta la storia del genere umano la prosperità è stata strettamente connessa alla capacità di attingere risorse dalla Terra, ma adesso le cose sono cambiate. Negli ultimi anni abbiamo visto emergere un modello diverso: il modello del di più con meno.
Le forze gemelle del progresso tecnologico e del capitalismo scatenate durante l’Era industriale sembravano spingere verso una direzione ben precisa: la crescita della popolazione umana e dei consumi, e il concomitante degrado del pianeta.
Se il capitalismo ha proseguito per la sua strada diffondendosi sempre più, il progresso tecnologico ha permesso di consumare sempre più attingendo sempre meno dal pianeta.
I dati forniti dall’agenzia Eurostat, oggetto di attenzione da parte della Commissione Europea, mostrano come, negli ultimi anni, paesi come Germania, Francia e Italia, hanno visto generalmente stabile, se non addirittura in calo, il loro consumo totale di metalli, prodotti chimici e fertilizzanti.
I paesi in via di sviluppo, in particolare quelli con la crescita più rapida, come India e Cina, probabilmente non hanno ancora raggiunto la fase di dematerializzazione.
Attraversiamo una fase nella quale il capitalismo non è molto ben visto da tanti, eppure Andrew McAfee è di tutt’altro parere, convinto che sia stata proprio la combinazione tra innovazione incessante e mercati contendibili, in cui un gran numero di competitor cerca di ridurre le spese per i materiali, a traghettare le economie occidentali nell’era post-picco di consumo delle risorse.
OCCIDENTE O ORIENTE: CHI PERDE E CHI VINCE NELLA GRANDE
SFIDA DELLA CRESCITA ECONOMICA?
La quota occidentale dell’economia globale continua a ridursi. Il processo sembra inevitabile e inarrestabile poiché altre realtà hanno imparato a emulare le best practices dell’Occidente.
Fino a tempi anche molto recenti, gran parte della crescita globale è venuta dalle economie del G7, non da quelle degli E7. Negli ultimi decenni la situazione si è nettamente rovesciata. Nel 2015, ad esempio, le economie del G7 hanno contribuito alla crescita globale per il 31.5 per cento, gli E7 per il 36.3 per cento.
Nell’analisi di Kishore Mahbubani, la fine della Guerra Fredda non ha significato la definitiva vittoria del mondo occidentale, bensì il suo lento e progressivo declino. La convinzione di essere insuperabile lo ha spinto a sottovalutare, tra l’altro, il risveglio dei due grandi giganti asiatici – Cina e India -, e l’ingresso della Cina nel 2001 nella World Trade Organization.
L’ingresso di quasi un miliardo di lavoratori nel sistema mondiale degli scambi avrebbe avuto per forza come risultato una massiccia “distruzione creativa” e la perdita di molti posti di lavoro in Occidente.
Nell’agosto 2017, una relazione della Banca dei Regolamenti Internazionali confermava che l’ingresso di nuovi lavoratori provenienti dalla Cina e dall’Europa Orientale nel mercato del lavoro era la causa di salari in declino e della contrazione della quota del lavoro nel reddito nazionale. Tutto ciò, ovviamente, avrebbe significato, per le economie occidentali, un aumento della diseguaglianza.
L’Unione Sovietica vedeva l’America come un avversario sul piano militare. In realtà, l’America era il suo avversario economico, ed è stato il collasso dell’economia sovietica a decretare la vittoria degli Stati Uniti.
Allo stesso modo, per l’America la Cina è un avversario economico, non militare. Più l’America accresce le sue spese militari, meno capace sarà nel lungo andare nel gestire i rapporti con un’economia cinese più forte e più grande.
La sfida che attende gli Stati Uniti tuttavia non è la stessa dell’Europa. Per i primi la sfida è la Cina. Per la seconda è “il mondo islamico sulla porta di casa”.
Finché nel Nord Africa e nel Medio Oriente saranno presenti stati in gravi difficoltà, ci saranno dei migranti che cercano di arrivare in Europa, infiammando i partiti populisti. Una possibile soluzione potrebbe essere lavorare con la Cina e non contro di essa per la crescita e lo sviluppo dell’Africa settentrionale.
PER UN MODELLO DI SVILUPPO ALTERNATIVO
Dunque, ciò che necessita ai paesi economicamente avanzati così come a quelli emergenti sono delle politiche di mutuo soccorso, per così dire. Connettere prospettive differenti con l’obiettivo precipuo di individuare una crescita equilibrata. Individuare un nuovo modello di sviluppo globale, alternativo a quello esistente, capace di coniugare le esigenze dei paesi industrializzati, quelle dei paesi in via di sviluppo nonché di quelli poveri, anche di materie prime.
Idee già espresse nel North-South, a Program for Survival, noto come Rapporto Brandt, redatto nel 1980 e basato sostanzialmente su una coppia concettuale ben definita: interdipendenza e interesse comune. Per molti, ancora oggi il Rapporto Brandt rappresenta l’unica vera alternativa sistemica alla globalizzazione neoliberista.
Per Brandt e gli altri commissari si trattava di lavorare per far sì che nel medio termine alcuni interessi, a nord come a sud, si inter-connettessero, secondo la tesi per cui un più rapido sviluppo a sud sarebbe stato vantaggioso anche per la gente del nord. Il pre-requisito di questo tentativo non poteva che essere un maggior aiuto degli Stati industrialmente avanzati a quelli più deboli, sia attraverso forme di finanziamento dirette sia mettendo in campo dei programmi di prestiti a lunga scadenza.
Sulla scia delle idee di Kenneth Arrow, Stglitz e Greenwald invitano a riflettere sui modi possibili di intervento governativo sul mercato per migliorare l’efficienza e il benessere collettivo, tenendo sempre a mente che buona parte degli innalzamenti degli standard di vita sono associati al progresso tecnologico e all’apprendimento.
Nei quattro decenni trascorsi dalla fine degli anni Quaranta alla fine degli anni Ottanta, le economie socialiste si concentrarono con decisione sulle ricette di solito associate alla crescita, ossia l’accumulazione di capitale e l’istruzione. Presentavano tassi di risparmio e investimento elevati – in molti casi molto più elevati di quelli presenti in Occidente – e investirono seriamente nell’istruzione. Tuttavia, alla fine di questo periodo, presentavano risultati economici inferiori, spesso di molto.
Le economie non centralizzate si erano sviluppate migliorando costantemente la performance economica.
La situazione oggi si sta invertendo. Mahbubani afferma che il dono più grande che l’Occidente ha fatto al Resto del Mondo è stato la potenza del ragionamento logico. Filtrando nelle società asiatiche, lo spirito di razionalità e, potremmo aggiungere, conoscenza occidentale ha portato a un crescendo di ambizione, che a sua volta ha generato i molti miracoli asiatici che stanno sviluppandosi.
ALL'ALBA DI UN NUOVO MONDO
La cupa profezia sull’incipiente tramonto dell’Occidente sembra trovare sempre maggiore consenso e certezze ma, per Angelo Panebianco, è fin troppo scontato affermare che la società aperta occidentale con i suoi gioielli (rule of law, governo limitato, diritti individuali di libertà, democrazia, mercato, scienza) sia oggi a rischio. Un fenomeno caratterizzato dall’indebolimento degli intermediari politici che, secondo Bernard Manin, ha accompagnato il passaggio dalle vecchie democrazie di partito alle nuove democrazie di pubblico.
Crisi demografica e difficoltà di fronteggiare le conseguenze sociali, economiche e politiche dell’immigrazione extraeuropea – in Europa -, o latinoamericana – negli Stati Uniti – segnalano quella che viene indicata come una crisi morale che sta minando la fiducia in sé stesse delle società occidentali.
L’idea più diffusa è che siamo entrati in una nuova fase nella quale si assisterà al passaggio dalla breve stagione dell’unipolarismo americano a un nuovo multipolarismo, nel quale Stati Uniti e Cina, pur essendo le potenze più forti, dovranno comunque fare i conti con altre potenze, quali Russia, India e fors’anche Brasile, Indonesia e Sud Africa.
Bibliografia di riferimento
Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019. Traduzione di Paolo Bassotti.
Michel Martone, A che prezzo. L’emergenza retributiva tra riforma della contrattazione collettiva e salario minimo legale, Luiss University Press, Roma, 2019.
Jean Comaroff, John L. Comaroff, Teoria dal Sud del mondo. Ovvero, come l’Euro-America sta evolvendo verso l’Africa, Rosenberg&Sellier, Torino, 2019. Traduzione di Mario Capello.
Andrew McAfee, Di più con meno. La sorprendente storia di come abbiamo imparato a prosperare usando meno risorse, Egea UniBocconi, Milano, 2020. Traduzione di Giuseppe Maugeri.
Jacopo Perazzoli (a cura di), Per un modello di sviluppo alternativo. A quarant’anni dal Rapporto Brandt, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano, 2019.
Kishore Mahbubani, Occidente e Oriente chi vince e chi perde, Bocconi Editore, Milano, 2019. Traduzione di Giuseppe Barile.
Angelo Panebianco, Sergio Belardinelli, All’alba di un nuovo mondo, Società Editrice il Mulino, Bologna, 2019.
Elizabeth Warren, Questa lotta è la nostra lotta, Garzanti, Milano, 2020. Traduzione di Paolo Lucca.
Joseph E. Stiglitz, Bruce C. Greenwald, Creare una società dell’apprendimento. Un nuovo approccio alla crescita, allo sviluppo e al progresso sociale, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2018. Traduzione di Maria Lorenza Chiesara.
Un’analisi storica, prima ancora che economica, quella portata avanti da Stephen Mitford Goodson in Storia delle banche centrali e dell’asservimento del genere umano, uscito in Italia con Gingko Edizioni a ottobre 2018, nella versione tradotta da Isabella Pellegrini del titolo originale A History of Central Banking and the Enslavement of Mankind (Black House Publishing Ltd, London). Un libro che vuole dimostrare l’assunto che i problemi legati all’usura abbiano ostacolato l’essere umano, riducendolo in schiavitù, fin dall’inizio della civilizzazione.
Storia delle banche centrali di Stephen Mitford Goodson, almeno nella parte iniziale, sembra un’enciclopedia storica “parallela” al resoconto storiografico fedele al mainstream. È un racconto dettagliato, pieno di riferimenti bibliografici e fonti documentali. Una versione e una visione che si è per certo liberi di non condividere ma che potrebbe aiutare a meglio comprendere tanti punti e nodi focali della storia occidentale.
Soprattutto nella prima parte, il libro di Goodson è ricco di citazioni e riferimenti a fonti bibliografiche e documentali e risulta molto interessante per il lettore. Nella seconda invece il livello generale dell’opera risente, in particolare, di alcune affermazioni proprie dell’autore che lasciano trasparire una certa ingenuità o, peggio ancora, un pregiudizio.
Il testo di Goodson parla molto delle attività legate a famiglie di ebrei come anche delle idee economiche e finanziarie di Gottfried Feder, economista noto soprattutto per essere il mentore di Adolf Hitler e questi sono temi sempre delicati, basta un attimo per essere tacciati di antisemitismo o filonazismo. Goodson lo scorre lento il filo del rasoio e racconta nel dettaglio, con tanto di riferimenti bibliografici e documentali, tutto quanto è riuscito a scoprire. Ma non è in questo che pecca di ingenuità o pregiudizio. Il suo resoconto abbraccia l’intera storia globale occidentale di cui le azioni degli usurai e banchieri ebrei ne costituirebbero solo una parte.
«A partire dalla Seconda Guerra Mondiale, nel mondo occidentale un numero sempre maggiore di donne sposate, fuorviate dalla malevola propaganda femminista e da quella per la parità dei sessi, è stato costretto ad adoperarsi per la ricerca di un impiego affinché la propria famiglia riuscisse a far fronte al pagamento di interessi in continua crescita».
«Il risultato diretto di questo sistema finanziario iniquo è stata la compromissione di una vita familiare normale».
Ecco due esempi di cosa il lettore non avrebbe mai voluto leggere in un testo, a suo modo rivoluzionario, come quello di Goodson. D’altronde egli stesso inizia il suo resoconto sui danni inferti all’umanità dal sistema usuraio e bancario riconducendoli addirittura al periodo del crollo dell’impero romano d’occidente, allorquando di “malevola propaganda femminista” e “parità dei sessi” proprio non si può parlare.
Che necessiti un cambiamento radicale della società, un ridimensionamento dei poteri della finanza internazionale, delle banche e un approccio diverso verso moneta e denaro è fuor di dubbio vero ma, forse, l’approccio più ottimale è quello avanzato da Joseph Stiglitz e Bruce Greenwald in Creare una società dell’apprendimento (Einaudi, 2018). Focalizzarsi su apprendimento e conoscenza per ottenere un nuovo approccio alla crescita, allo sviluppo e al progresso sociale. Gli autori lo riferiscono alla potenziale crescita dei paesi in via di sviluppo e a un riequilibrio rispetto a quelli sviluppati, ma la loro teoria ben si adatta a essere estesa a tutte le economie.
Nelle stesse parole di Goodson, d’altronde, si legge un certo rammarico per quei paesi, compreso il suo, che hanno scelto di seguire semplicemente il metodo più diffuso e quotato, senza neanche provare a interrogarsi su possibili ed eventuali alternative. E questo può o potrà avvenire solo attraverso una profonda conoscenza di storia, geopolitica, economia e via discorrendo.
Le analisi storiche delle crisi del passato suggeriscono che queste siano state, alla fin fine, «un’opportunità di cambiamento e di reinvenzione o rigenerazione della democrazia». Cosa è accaduto e sta accadendo come conseguenza della crisi economica iniziata nel 2007 e che gli autori definiscono Grande Recessione? L’indagine svolta da Leonardo Morlino e Francesco Raniolo, che poi è diventata il libro Come la crisi economica cambia la democrazia edito da ilMulino, è volta principalmente a studiare la «crisi nella democrazia», nelle sue procedure e risultati, così come nei suoi contenuti, ovvero «nel mix di libertà ed eguaglianza che riesce a garantire».
Oggetto di studio sono stati i paesi del Sud Europa, quelli che con accezione negativa venivano indicati con l’acronimo Piigs, oggi diventato GIIPS: Portogallo, Spagna, Italia e Grecia. I medesimi ad aver risentito maggiormente degli effetti negativi della stessa crisi, come delle misure preposte per superarla, anche rispetto i paesi dell’Est, come per esempio Polonia e Repubblica Ceca, che hanno subito minori contraccolpi. Di sicuro, nella gestione della crisi «l’Unione Europea ha agito da concausa nell’accentuazione dei suoi effetti e nella sua durata». Una costellazione di situazioni che «ha messo in tensione il sistema di governance (dell’UE)», ma anche la coesione tra gli stati membri e, in un certo senso, «la stessa autocoscienza europea». In sintesi, l’Unione Europea ha rischiato «e rischia tutto’ora una vera e propria implosione».
La crisi ma, soprattutto, le misure imposte per superarla hanno agevolato la formazione e il successo elettorale di «nuovi imprenditori politici e formazioni», nonché il discredito di quelli al governo. La crisi economica, sottolineano Morlino e Raniolo, ha ingigantito tendenze latenti che erano già presenti nei sistemi partitici e nei modelli di relazione tra cittadini e istituzioni. Il declino dei partiti può anche essere letto come «declino della legittimità dello stesso canale di rappresentanza elettorale-territoriale», con la conseguenza che cittadini ed élite «cercano altre strade per trasmettere le loro domande».
La maggiore partecipazione sviluppatasi negli anni successivi alla crisi è venuta caratterizzandosi per il maggior peso delle posizioni politiche anti-establishment, dell’opposizione alle politiche anti-austerità e per atteggiamenti contrari all’Unione Europea. In poche parole, la partecipazione «è diventata sempre più radicale e di protesta».
Nuovi «attori partitici rilevanti» che hanno minacciato in tre casi su quattro direttamente il controllo del governo e, in un caso, conquistandolo effettivamente.
I partiti e movimenti indicati come di protesta oggetto dell’indagine sono: Syriza: coalizione della Sinistra Radicale in Grecia. Movimento Cinque Stelle in Italia. Podemos in Spagna. Livre, Partido da Terra e Partido Democrático Republicano in Portogallo. Chrysi Avgi (Alba Dorata) in Grecia. Lega in Italia. Ciudadanos in Spagna.
Il caso particolare del Portogallo dimostra come gli elettori avrebbero anche potuto scegliere di adottare «atteggiamenti di alienazione o semplicemente indifferenza e apatia».
Questi partiti si definiscono e sono percepiti dall’opinione pubblica come partiti di protesta. Tutti, tranne uno, hanno avuto successo di recente, ma solo alcuni sono partiti genuinamente nuovi. Tutti, infine, vengono considerati populisti o neo-populisti. Nel complesso «è come se gli elettori del Sud Europa fossero diventati più sensibili alla delusione». Nelle quattro democrazie analizzate, «ma in realtà non solo in queste», si è assistito alla crescita inusitata di un’offerta politica capace di canalizzare la protesta e il risentimento degli elettori. «Tali trasformazioni non necessariamente devono essere considerate come un rischio per la democrazia», anzi potrebbero essere considerati segnali del fatto che «i regimi democratici hanno un’elevata flessibilità e resilienza alle sfide esterne».
Non tutti i partiti nuovi sono genuinamente tali, quelli che lo sono rappresentano degli «outsider che non sono il prodotto delle tattiche e delle dinamiche parlamentari» e perciò «costituiscono una minaccia per i partiti tradizionali». Seguendo questa logica si può facilmente comprendere come un elemento chiave di questi nuovi partiti sia «di presentarsi quali partiti anti-establishment» e, in un certo senso, come «partiti anti-partito». Da questo punto di vista «il modello paradigmatico di un partito genuinamente nuovo è probabilmente rappresentato dal M5S in Italia e da Podemos in Spagna».
Per quanto riguarda la rappresentatività sociologica, la classe politica del M5S è caratterizzata dalla giovane età. I giovani deputati (uomini e donne), compresi quelli di Podemos, sono «altamente istruiti».
Quello che traspare da questi dati è l’attivazione di «un cleavage generazionale prima latente nella politica delle democrazie europee» e che sta alla base della «rivolta degli elettori che ormai sembra caratterizzare le elezioni delle democrazie occidentali». Tale linea di divisione si sovrappone e si intreccia «con il cleavage esclusi-garantiti o vincitori-perdenti della globalizzazione».
La politica di protesta «è strutturalmente esposta alla delusione degli elettori» e ciò spiega la volatilità delle fortune elettorali e «la necessità del radicalismo come strategia competitiva e comunicativa». Non si tratta solo di «ipocrisia politica» o di cinismo dei leader. Innanzi tutto, «l’istituzionalizzazione organizzativa introduce nuovi vincoli interni ed esterni ai quali il partito deve adattare anche i propri obiettivi».
Come aveva già opportunamente evidenziato Stein Rokkan, all’interno di ogni democrazia operano due canali di influenza: «il canale elettorale-territoriale e il canale corporativo-funzionale». Il primo è caratteristico della «politica partigiana», nel secondo invece prevalgono «i gruppi di interesse e gli attori economici». Le quattro democrazie oggetto dell’indagine di Morlino e Raniolo si sono generalmente caratterizzate per «una ipertrofia del canale elettorale-territoriale», aspetto questo centrale «specialmente nel caso italiano», e mostrano una relativa debolezza del canale funzionale. Tale asimmetria tra i due canali è stata «favorita dall’assenza di un ruolo regolativo dello Stato e dalla sua permeabilità agli interessi settoriali». Non a caso si è parlato, proprio in relazione all’Europa del Sud, di Stato informale (Sotiropolus 2004), di deriva distributiva (Ferrera 2012), di neo-caciquismo (Sapelli 1996) e, in termini più neutri, di gatekeeping partitico (Morlino 1998).
Gli autori sottolineano come vada sempre ricordato che «la democrazia non è solo la forma di governo di uno Stato, ma anche un meccanismo di regolazione o di governance di una certa struttura socio-economica che in Occidente è una qualche variante dell’economia di mercato o del sistema capitalistico». La questione diventa «il ruolo che in tali sistemi economici e sociali hanno avuto e hanno lo Stato e le istituzioni della rappresentanza politica». La varietà di relazioni Stato/economia che contraddistingue i casi analizzati funge da «variabile interveniente», nel senso che «definisce un set di condizioni (per lo più istituzionali) che rende i paesi del Sud Europa più vulnerabili agli shock esterni», aggravando al contempo gli effetti della recessione e rendendo «meno efficace il management della crisi». Il tutto con le dovute variabili e differenze tra i vari Paesi.
Nei movimenti di protesta temi materialisti (sicurezza economica, inflazione, disoccupazione) e post-materialisti (partecipazione, democrazia diretta, auto-realizzazione, beni comuni) hanno finito per sovrapporsi e mescolarsi. Tale ibridazione potrebbe costituire, nell’opinione degli autori, il punto di contatto tra diversi movimenti che nell’ultimo decennio hanno fatto parlare di un grande «ciclo di protesta transnazionale» che ha investito l’Europa, gli Stati Uniti, il Cile e il Brasile, il Nord Africa e anche Hong Kong. Una sorta di «crisi di legittimità delle democrazie avanzate».
Nel caso dei paesi oggetto d’indagine molto hanno inciso le politiche governative come anche e soprattutto quelle del governo centrale. Il processo di europeizzazione ha determinato «due effetti perversivi».
Ha alimentato un nuovo conflitto che ha inciso sulle relazioni tra i paesi appartenenti all’area euro e al di fuori di essa, tra paesi forti e paesi deboli all’interno dell’area euro, tra paesi forti nella medesima area. Quando si prendono in considerazione le politiche di austerità, «la realtà è stata quella di democrazie senza scelta», con le principali riforme fiscali, di bilancio, della pubblica amministrazione e del lavoro decise da attori esterni e implementate da attori interni.
«Il vero meccanismo innescato dalla crisi è la catalizzazione», mentre la componente di «agenzia della democrazia» si è adattata alla nuova situazione di delegittimazione, con tutto il carico di azioni, trasformazioni e conseguenze che ne sono derivate.
La ricerca sul campo condotta da Leonardo Morlino e Francesco Raniolo nei quattro paesi oggetto d’indagine (Italia, Grecia, Spagna e Portogallo) è stata finanziata dal Ministero dell’Università e della Ricerca scientifica (Protocollo n° 2010 WKTTJP).
Bibliografia di riferimento
Leonardo Morlino, Francesco Raniolo, Come la crisi economica cambia la democrazia. Tra insoddisfazione e protesta, ilMulino, 2018. Traduzione di Valeria Tarditi dall’edizione inglese originale The Impact of the Economic Crisis on South European Democracies, edito in Gran Bretagna da Palgrave Macmillan e in Svizzera da Springer International Publishing AG.
Biografia degli autori
Leonardo Morlino è professore ordinario di Scienza politica e direttore del Centro di Studi sulle Democrazie e Democratizzazioni alla LUISS di Roma.
Francesco Raniolo è professore ordinario di Scienza politica e direttore del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università della Calabria.
Creare una società dell’apprendimento. Un nuovo approccio alla crescita, allo sviluppo e al progresso sociale è un testo che guarda all’economia globale in modo differente rispetto al neoclassicismo imperante. Che focalizza il ragionamento sul concetto di apprendimento come elemento cruciale per la crescita dell’economia di un paese e per superare il divario tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo. Joseph Stiglitz e Bruce Greenwald decidono di rendere omaggio a Kenneth Arrow e alle sue teorie economiche organizzando una serie di conferenze annuali negli Stati Uniti e di trasformare le relazioni in un libro, tecnico, che impiega la matematica per spiegare il rigore scientifico delle tesi avanzate. In seguito viene pubblicata una versione meno impegnativa del titolo, dal quale vengono estrapolate le formule matematiche. Un’edizione divulgativa che viene tradotta in Italia da Maria Lorenza Chiesara per la casa editrice Einaudi.
Per Stiglitz e Greenwald nessuno come Arrow, a livello individuale, ha fatto tanto per cambiare il nostro modo di guardare all’economia e alla società al di là dell’economia, negli ultimi sessant’anni. Creare una società dell’apprendimento è necessario per promuovere gli standard di vita anche nelle economie ben al di qua della frontiera, che non si trovano all’avanguardia del progresso scientifico e tecnologico. I governi dovrebbero concentrarsi su cosa crei una società dell’apprendimento. Mentre alcune delle politiche che gli economisti hanno sostenuto in passato l’hanno di fatto ostacolata.
Negli ultimi decenni è diventato usuale descrivere l’economia verso cui ci stiamo dirigendo come una “economia della conoscenza e dell’innovazione”. Minore attenzione viene invece data a cosa ciò significhi per l’organizzazione dell’economia e della società.
Gli autori citano Solow allorquando affermano che la maggior parte dei miglioramenti relativi agli standard di vita sono il risultato di incrementi di produttività, ossia l’aver imparato a fare le cose meglio. Se è vero quindi che la produttività è frutto di apprendimento e che gli aumenti di produttività, ovvero l’apprendimento, sono endogeni, allora uno dei punti focali della politica dovrebbe essere quello di incrementare l’apprendimento all’interno dell’economia. Incrementare la capacità di imparare e gli incentivi a farlo. Imparare a imparare. Dunque, colmare i divari di conoscenze che separano le imprese più produttive dalle altre.
Creare una società dell’apprendimento dovrebbe quindi essere uno degli obiettivi principali della politica economica. Se si crea una società dell’apprendimento ne risultano un’economia più produttiva e uno standard di vita migliore. Nel testo, Stiglitz e Greenwald mostrano come molte delle politiche concentrate sull’efficienza statica – allocativa – possano invece ostacolare l’apprendimento e come di fatto politiche alternative possano portare a superiori standard di vita, visti nel lungo periodo.
Seguendo le teorizzazioni di Arrow, Stiglitz e Greenwald avanzano l’ipotesi del maggiore innalzamento degli standard di vita che potrebbe indurre una società dell’apprendimento rispetto a quanto riescano invece a farlo piccoli e isolati miglioramenti di efficienza economica o il sacrificio dei consumi correnti per intensificare il capitale, soprattutto per i paesi in via di sviluppo. Buona parte della differenza tra i redditi pro capite di questi paesi e quelli dei paesi più avanzati è attribuibile a un gap di conoscenze. Adottare politiche in grado di trasformare le loro economie e le loro società in “società dell’apprendimento” li renderebbe in grado di colmare questo divario e ottenere una crescita dei redditi significativa.
La trasformazione in società dell’apprendimento che si è verificata durante il XIX secolo nelle economie occidentali, e più di recente in quelle asiatiche, infatti sembra aver avuto un impatto maggiore sul benessere degli esseri umani di quello esercitato dai miglioramenti di efficienza allocativa o dall’accumulazione di risorse.
Al centro dell’indagine condotta dagli autori vi sono due interrogativi fondamentali:
– I mercati, di per sé, portano a un livello e a un modello di apprendimento e innovazione efficienti?
– E se no, quali sono gli interventi governativi desiderabili?
Per Stiglitz e Greenwald non esiste alcuna presunzione di efficienza dei mercati rispetto alla produzione e alla disseminazione di conoscenze e apprendimento. Piuttosto il contrario. I mercati sono “efficienti in senso paretiano”, ovvero non possono migliorare ulteriormente le condizioni di qualcuno senza che quelle di un altro peggiorino. Arrow aveva già riconosciuto la pervasività dei fallimenti del mercato nella produzione e disseminazione di conoscenze, sia come risultato dell’allocazione di risorse alle attività di ricerca e sviluppo sia come effetto dell’apprendimento.
Nel testo si insiste molto sul ruolo decisivo che ha il governo nel proporre e mettere in atto decisioni che diano l’indirizzo corretto al potenziamento dell’apprendimento nell’economia come in tutta la società.
I governi svolgono un ruolo centrale nell’ambito di istruzione, salute, infrastrutture e tecnologia; e le politiche per ciascuna di queste aree, così come le spese e il loro equilibrio, contribuiscono senz’altro a plasmare l’economia. Le politiche di aggiustamento strutturale hanno finito per soffocare la crescita dei paesi, soprattutto di quelli con un’economia emergente.
Invece di promuovere i settori di apprendimento, le politiche imposte ai paesi in via di sviluppo dalle istituzioni economiche internazionali (Fondo monetario internazionale e Banca mondiale) hanno scoraggiato il comparto industriale di molti di essi, soprattutto in Africa. Il risultato è che, negli ultimi trent’anni, l’Africa ha sofferto di un processo di deindustrializzazione. Focalizzando l’attenzione sull’efficienza statica, queste istituzioni internazionali trascurano del tutto l’apprendimento e le dinamiche a esso associate. Spesso – o anche tipicamente – la creazione di posti di lavoro non ha tenuto il passo con la loro distruzione, cosicché i lavoratori si sono spostati da settori protetti a bassa produttività a condizioni di disoccupazione, dichiarata o nascosta, a produttività ancora più bassa. Una delle critiche che si possono rivolgere al Washington Consensus (ovvero al blocco di politiche di aggiustamento strutturale condotte in Africa) è di aver tentato di imporre politiche corrispondenti alla convinzione che un’unica cosa vada bene per tutti. Ovvio che così non è, come non lo è il credere possa essere di aiuto osservare quanto fatto in passato da paesi con livelli di reddito pro-capite similari o leggermente superiori. Oggi il mondo è diverso da quello di un tempo sia in termini di geoeconomia e geopolitica globale sia di tecnologia.Le differenze tra i paesi aiutano a spiegare anche perché in alcune economie le imprese pubbliche funzionino bene mentre in altri no.
Aiutano anche a spiegare i limiti della globalizzazione: le imprese locali hanno un vantaggio competitivo sul piano della conoscenza delle situazioni locali. Buona parte delle informazioni di natura finanziaria è reperibile principalmente a livello locale. Un impiego efficace del capitale richiede il ricorso a istituzioni finanziare del posto. Purtroppo, le politiche del Washington Consensus, che spingevano per la liberalizzazione del mercato finanziario e del capitale, non considerarono l’importanza di questa concorrenza locale.
Le banche straniere riuscivano a sottrarre correntisti alle banche locali perché venivano percepite come più sicure, ma si trovavano in svantaggio informativo rispetto alle banche locali riguardo alle aziende locali piccole e mediopiccole. E fu quindi naturale che i prestiti venissero dirottati verso il governo, i consumatori e le grandi aziende nazionali, compresi i monopoli e oligopoli locali: in tal modo l’apprendimento e l’imprenditorialità locali potrebbero esserne stati danneggiati e la crescita esserne uscita indebolita.
Le politiche industriali devono seguire una strategia che tenga conto non soltanto delle circostanze presenti in un paese, ma anche della sua probabile situazione futura. Sia nei paesi sviluppati sia in quelli in via di sviluppo i governi devono plasmare la direzione dell’innovazione e dell’apprendimento. Buona parte dell’innovazione nelle economie industriali avanzate è stata diretta a risparmiare lavoro; ma in molti paesi in via di sviluppo esiste un’eccedenza di lavoro, e il problema è la disoccupazione. Le innovazioni che risparmiano lavoro esasperano questa sfida sociale cruciale. E anche quando le innovazioni che consentono di risparmiare lavoro non portano disoccupazione, hanno comunque conseguenze negative dal punto di vista della ricchezza, perché abbassano i salari.
Le regole e le regolamentazioni adottate nel processo di “liberalizzazione e deregolamentazione dei mercati finanziari” negli Stati Uniti e nel Regno Unito hanno portato, secondo l’analisi di Stiglitz e Greenwald, a istituzioni finanziarie arroganti, sostenute dalle implicite garanzie delle autorità monetarie e in ultima istanza dal contribuente. Molti governi non hanno fatto buon uso della politica di regolamentazione monetaria e finanziaria, e in alcuni casi questo cattivo uso può essere ricondotto a un problema di governance. Ma questo non è un valido motivo perché i governi rifuggano dall’impiego di una politica di regolamentazione monetaria e finanziaria. Il capitale e i servizi finanziari interni a un paese possono sostenere l’apprendimento; al contrario, i servizi finanziari forniti da soggetti stranieri possono far sì che gli investimenti e l’apprendimento vengano ridiretti all’esterno del paese, ostacolando in tal modo di fatto la creazione di una società dell’apprendimento. I governi occidentali (in modo diretto e attraverso le istituzioni finanziarie internazionali) hanno esercitato forti pressioni sui paesi in via di sviluppo affinché deregolamentassero e liberalizzassero i rispettivi mercati finanziari. Tali raccomandazioni non tenevano in considerazione i fallimenti del mercato finanziario che avevano condotto proprio alla realizzazione della necessità di una regolamentazione del settore finanziario, sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo. Guidando la finanza verso i settori di apprendimento si può potenziare la crescita totale.
In via conclusiva, Stiglitz e Greenwald sottolineano la necessità non solo di identificare le politiche che potrebbero portare alla creazione di una società dell’apprendimento ma, soprattutto, che queste politiche vengano applicate. Il modello neoclassico ignora questo fattore, perché non soltanto non presta attenzione all’importanza di allocare risorse ad apprendimento, ricerca e sviluppo, ma anche perché presuppone che tutte le imprese seguano le pratiche migliori e dunque non abbiano niente da imparare.
Molte delle politiche discusse nel testo comportano o comporterebbero una perdita nel breve periodo ma un guadagno a lungo termine. Si parla molto oggi di economia dell’innovazione o di economia della conoscenza, e molti progressi sono stati registrati, ma le piene implicazioni del loro lavoro per il modello neoclassico, cruciale per esempio nell’analisi di Solow, non hanno ancora trovato il posto che meritano. Le innovazioni sociali sono egualmente importanti rispetto alle innovazioni tecnologiche, sulle quali gli economisti si concentrano di solito: il progresso della società umana dipende da tali innovazioni così come dipende dai miglioramenti della tecnologia.
Bibliografia di riferimento
Joseph E. Stiglitz, Bruce C. Greenwald, Creare una società dell’apprendimento, Giulio Einaudi Editore, 2018 (traduzione di Maria Lorenza Chiesara dal titolo originale Creating a learning society: A new approach to growth, development, and social progress. Reader’s edition, Columbia University Press, 2014 e 2015)