Fenomeni meteorologici sempre più estremi e governi sempre più divisi e impotenti contro il pericolo che aleggia sul destino dell’umanità. Diluvio di Stephen Markley indaga a fondo la crisi ecologica che è già realtà.
Sulle montagne del Wyoming, Kate Morris, una giovane attivista, dà vita a un progetto che potrebbe cambiare il corso della storia mentre la politica rimane impantanata nei suoi riti stanchi. Intorno a lei, le vita, le speranze e l’impegno di un climatologo, un giovane sbandato e un gruppo di ecoterroristi.
L’approccio costruttivista ha enfatizzato i mutamenti culturali avvenuti nella percezione della sicurezza e del rischio o nella fiducia nel progresso tecnologico. Da una prospettiva realista-materialista, invece, l’accresciuta centralità dei disastri è stata connessa all’intensificarsi di processi economici i cui impatti ecologico-materiali hanno aumentato la vulnerabilità di intere popolazioni e territori. C’è un’accresciuta possibilità di eventi “improbabili” ma dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche (i cosiddetti “cigni neri”) o di raggiungere i tipping point – punti di svolta , ovvero punti di accelerazione repentina di catastrofi o emergenze “lente” (L. Pellizzoni (a cura di), Introduzione all’ecologia politica, Il Mulino, Bologna, 2023).
Negli ultimi cinquanta anni, l’impatto economico degli eventi estremi si è moltiplicato a causa di un aumento sostanziale nei danni causati da ciascuno di questi disastri: alluvioni, tempeste, uragani, ondate di calore estreme, incendi, frane. Si stima che rispetto all’anno precedente, il costo di ogni evento catastrofico tra il 5% dei più dannosi aumenti di circa 5 milioni di dollari (Sant’Anna Magazine, 2021).
Markley immagina un mondo nel quale uno sparuto gruppo di cittadini dimostra l’importanza della capacità di credere nella natura e nelle abilità dell’essere umano il quale, contrariamente a tutte le altre specie di animali, non ha un habitat proprio, tuttavia, pur privo di un suo habitat specifico, ha fatto di qualsiasi ambiente il suo ambiente (M.T. Pansera, Natura e Cultura in Arnold Gehlen, in Il Tema di B@bel, RomaTre Press, 2020). Ed è proprio in questa sua capacità di adattamento che, forse, l’uomo deve ricercare e ritrovare la capacità di sopravvivenza, di sé stesso e dell’ambiente scelto per vivere.
Se si accetta la tassonomia luhmanniana, attributiva e costruttivistica, allora è evidente come la nostra epoca si caratterizzi per due fenomeni: lo spostamento progressivo dal pericolo al rischio e l’aumento oggettivo delle situazioni di danno potenziale e di incertezza. Nella società attuale l’accrescimento delle capacità tecniche e scientifiche consente un incremento della possibilità di decisione e quindi innesca un progressivo passaggio da una società del pericolo a una società del rischio. Per cui assumono grande rilevanza le scelte con cui vengono ripartiti rischi e possibilità decisionali tra i diversi attori sociali (R. Sibilio, Alcuni aspetti sociologici dei rischi ambientali: il caso Vesuvio, in Quaderni di Sociologia, 2001).
Perché allora non vengono messe in campo tutte le risorse possibili e potenziali per preservare l’ambiente e i suoi abitanti?
Questo sembra essere il quesito alla base del libro di Markley, un’epopea distopica sul cambiamento climatico che abbraccia un lungo arco temporale che va dal 2013 al 2030. Il romanzo è ambientato in Wyoming, nella parte occidentale degli Stati Uniti, caratterizzato da vaste pianure, dalle Montagne Rocciose e dal famosissimo Parco nazionale di Yellowstone, conosciuto come il Cowboy State, dove si contano più cervi che abitanti. Ed è proprio in questo stato che, simbolicamente, l’autore sceglie di ambientare la sua storia tutta incentrata sul tema della natura, dell’ambiente, dell’uomo e dei disastri generati dall’incuria di quest’ultimi e dalla forza dirompente della prima. Pur narrando di argomenti di stretta attualità, il taglio dato al romanzo da Markley rende i protagonisti sempre un po’ borderline, ai margini di una società che sembra rigettarli forse proprio per la loro resilienza, costanza e tenacia nel portare avanti un progetto di vita “globale”.
La lotta per salvare e salvaguardare l’ambiente dalle minacce incombenti, dai cambiamenti estremi, dalle speculazioni e dall’inerzia, vera o presunta, della politica ha sempre ingenerato opinioni contrastanti tra chi ritiene i problemi e le minacce reali e chi invece le derubrica a mere contestazioni al sistema. Markley ha inserito nella sua storia anche una tra le figure più controverse in questo sistema: l’ecoterrorista.
La criminalizzazione delle proteste non violente per il clima e il “talismano” del terrorismo finiscono per diventare una profezia che si autoadempie perché serrano in una morsa il dissenso legittimo e pacifico favorendo il ricorso a metodi più aggressivi e financo violenti. Anche per gli ambientalisti/animalisti può verificarsi quel processo di radicalizzazione che poggia sulla constatazione del fallimento dei metodi non violenti per raggiungere gli scopi prefissi, e alcuni studiosi affermano che recenti riscontri hanno mostrato la propensione a intraprendere azioni sempre più aggressive. I movimenti ambientalisti sono stati paragonati alle angurie: verdi fuori e rossi dentro. Che alcuni gruppi ambientalisti siano in contatto, e pure in accordo, con formazioni che invocano una maggiore giustizia sociale è dovuto alla constatazione che i più danneggiati dal disastro ambientale sono i meno abbienti, anche nel senso che i peggiori cataclismi si sono verificati nei paesi del sud del mondo. L’ecoterrorismo può essere indicato come una “criminalità” di tipo ideologico, motivata da ideali politici e di cambiamento sociale, ma difficilmente identificabile come movimento terroristico in senso stretto (I. Merzagora, G. Traviani, P. Caruso, Ecoterrorismo tra conoscenza e percezione sociale, Rassegna Italiana di Criminologia, 2024).
Già sul finire dell’Ottocento, le testimonianze di letterati come Giocosa e Ojetti, oltre a confermare i progressi dell’America moderna, introducono anche una serie di giudizi ostili, determinando una costante compresenza di mito e antimito, di sentimenti contrastanti che rispecchiano la faticosa ricerca di identità della società italiana, che, proprio nell’altro, il diverso, esplicita le proprie paure e le proprie speranze. I narratori americani, portando sulla scena temi e problemi propri delle classi subalterne con un linguaggio fortemente radicato nella parlata comune, sembrano instaurare la democrazia nella letteratura (Beniscelli, Marini, Surdich (a cura di), La Letteratura degli Italiani. Rotte Confini Passaggi, Associazione degli Italianisti, Genova, 2010). L’opera di Stephen Markley sembra il continuum contemporaneo di questo filone letterario.
Il libro
Stephen Markley, Diluvio, Einaudi, Torino, 2024. Traduzione di Manuela Francescon e Cristiana Mennella. Titolo originale: The Deluge.
Articolo pubblicato sul numero di dicembre 2024 della rivista cartacea Leggere:Tutti
Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Einaudi per la disponibilità, il materiale e l’invio preprint.
Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com
Riflettere sulla vecchiaia è un resoconto di se stessi o dell’umanità? Per Domenico Starnone sembra ruotare tutto intorno alla fragilità umana.
Leggendo il titolo del romanzo di Starnone non si può non pensare all’opera quasi omonima di Ernest Hemingway (The old man and the sea – Il vecchio e il mare). Presumibilmente ci deve essere stato un rimando a quella letteratura, di cui Hemingway è stato un grande esponente, che molta importanza dava alle riflessioni, alle considerazioni, ai sentimenti e alle emozioni che sono tutti fattori importanti e determinanti dell’esistenza umana. Ne vanno a determinare, al contempo, la forza e la fragilità. Ed è proprio intorno a quest’ultima che l’autore sembra aver costruito il suo romanzo, il quale vede come protagonista uno scrittore ottuagenario alle prese con due tra i maggiori misteri dell’esistenza umana: la relazione con se stessi e quella con l’umanità.
A tormentare lo scrittore ottandaduenne Nicola c’è anche il suo rapporto con i propri scritti che vorrebbe potessero sparire, essere cancellati e dimenticati. Ha sempre annotato tutte le sue riflessioni su dei quaderni con la matita ma la certezza, tale fino a poco tempo prima, di poter cancellare le sue parole è ormai labile. L’ennesima illusione disattesa che genera in lui uno sconforto profondo.
Da giovane, il suo maggior desiderio, la sua più grande illusione era scrivere le pecche di questo mondo per riuscire a cambiarlo, a migliorarlo. Ora lui è invecchiato e il mondo non ha fatto che peggiorare, diventando sempre più imperfetto.
Imperfetto proprio come la spiaggia che fa da sfondo alla narrazione, vuota di turisti e di tutto il circo che ne deriva, appare a Nicola e al lettore luogo perfetto dove cercare e trovare i piccoli segni della vita nascosti tra i granelli di sabbia, sotto i sassi, tra le rocce o in mezzo al mare. Questo stesso mare che, nel libro di Starnone, appare al contempo come l’orizzonte verso cui tendere e l’immensa distesa d’acqua nella quale perdersi.
Il racconto che l’autore affida al suo anziano protagonista è confuso come lui, è spossato come il suo corpo, annebbiato come la sua mente. Oggetti che diventano simboli e simboli che diventano emozioni in questo solitario gioco che coinvolge Nicola e la sua mente, sia quando è sveglio sia quando è sopito. Il dualismo sembra essere stata una componente predominante nella scrittura di Nicola, nella quale egli sempre inseriva uno sguardo rivolto al passato e, contemporaneamente, al futuro. Il tempo della narrazione sembra però quello della resa dei conti. Di Nicola con la vita. Un processo descritto da Starnone con dovizia di particolari, senza veli e senza remore mettendo a nudo l’anima di questo anziano scrittore rassegnato e combattivo, che mantiene in ogni fibra del suo essere il dualismo che lo caratterizza e che ha segnato la sua scrittura. Il suo essere scrittore. Narratore della vita. Che ha cercato di rappresentare la grandezza dell’esistenza umana attraverso la banalità del viver quotidiano.
Il libro di Starnone si apre al lettore con il racconto di un accadimento che vede il protagonista rincorrere una carta dorata, una sorta di figurina. Prosegue con la narrazione di fatti e pensieri lungo una spiaggia fatta di nuvole, sabbia, spruzzi, schizzi, vento… Appare chiaro fin da subito che si tratta di simboli, utilizzati dall’autore per trasmettere al lettore il suo racconto. Il suo messaggio.
La corsa della figurina scintillante sulla rena asciutta ha determinato il destino, almeno quello nell’immediato lasso temporale, di Nicola. L’illusione di essere ancora agile e vigoroso lo ha riportato alla realtà, al suo essere annichilito.
“Quando le carte affiancate a caso mi davano una storia in cui riconoscevo un senso, mi mettevo a scriverla; accumulai così parecchio materiale. Bastava lasciare che prendessero forma altre storie che s’incrociavano tra loro e ottenni così una specie di cruciverba fatto di figure anziché di lettere, in cui per di più ogni sequenza si può leggere nei due sensi” (I. Calvino, Il castello dei destini incrociati).
Le numerose storie raccontate o ascoltate dal protagonista possono essere lette e interpretate in mille modi che vanno dalla disfatta alla contemplazione della bellezza assoluta della vita.
L’evocazione del mare costituisce, nella produzione letteraria italiana delle Origini, un elemento inserito in un insieme spesso metaforico o, per lo meno, in un insieme di tropi che puntualmente consentono all’autore di indicare uno spazio, un limite o un confine.
In numerose tradizioni religiose un’amorfa estensione d’acqua precede l’esistenza delle molteplici sostanze che riempiono l’universo, quasi che tutte le forme non siamo altro che la manifestazione di un liquido primordiale. L’acqua non è semplicemente il primo elemento: per il pensiero simbolico essa è una forza capace di sciogliere e unificare in sé ogni determinazione, come nei diari di viaggio le immagini della comunione dei beni non rivelano soltanto il desiderio del venir meno dell’ingiustizia, ma costituiscono anche lo schema dinamico in grado di fluidificare tutte le distinzioni, non solo nella società ma nell’intera materia del cosmo. Quando il tempo ha reso esauste le forze della natura, esse hanno bisogno di sciogliersi nel loro principio, per attingere di nuovo la potenza vitale dalla sostanza liquida di un sogno divino. Una pozza d’acqua è stata il primo specchio in cui l’uomo ha osservato tutto all’inverso. Il riflesso è un fattore di rovesciamento. Guardando il riverbero in superficie potremmo vedere il mondo come lo vede Dio e accorgerci che la più autentica ascesi è, in realtà, una discesa, forse una discesa nel profondo dell’acqua. A questo allude il simbolismo del battesimo. È l’acqua, infatti, a insegnare la reversibilità della morte. Nella fonte battesimale muore l’uomo vecchio e nasce l’uomo nuovo. Il simbolismo indica il dissolversi di un ente corrotto perché riemerga un essere incontaminato (G. Bossi, Il simbolismo dell’acqua tra immaginario di viaggio e dimensione del sacro, DIALEGESTHAI – Rivista di Filosofia, 25 aprile 2007).
Il protagonista del libro sembra un anziano-bambino che osserva il mondo per la prima volta, o quantomeno sembra essere la prima volta che riesce a guardarlo con occhi disincantati, liberi.
Il racconto di Starnone è un viaggio intimistico nell’anima, nei ricordi e nei desideri di Nicola ma anche un viaggio intenso nelle persone da lui ricordate, incontrate, forse immaginate. Un viaggio simbolico certo ma non per questo meno rischioso di quello intrapreso davvero per mare.
Secondo Auden, uno degli elementi che caratterizzano in modo più netto la cultura della modernità, e la differenziano rispetto a quelle dei secoli precedenti, è costituito dall’atteggiamento assunto nei confronti del viaggio per mare. Se fin dall’età classica, per arrivare ai secoli immediatamente precedenti la “rivoluzione romantica”, il viaggio per mare è considerato un male necessario, l’attraversamento di ciò che separa ed estrania, l’uomo moderno, al contrario, sa che il mare è il luogo in cui avvengono gli eventi decisivi, i momenti di eterna scelta, la tentazione, la caduta e la redenzione (V. Di Martino, Figure del moderno: il viaggio per mare. Da Baudelaire a Gozzano, XII Congresso nazionale dell’ADI – Associazione degli italianisti, Roma, 17-20 settembre 2008).
Il libro di Starnone sembra raccontare il viaggio di Nicola nel suo “mare” mentale, senza spostarsi per luoghi e limiti ma non per questo privo di ostacoli, insidie e pericoli.
Il libro
Domenico Starnone, Il vecchio al mare, Einaudi, Torino, 2024
Articolo pubblicato sul numero 179 – agosto/settembre 2024 della rivista cartacea Leggere:Tutti.
Disclosure: Per l’immagine in evidenza, credits www.pixabay.com
Da strumenti ideati per favorire le relazioni, i social negli anni sono diventati sempre più mezzi di informazione intrattenimento e crescita personale. Allo stesso tempo, con pari o maggiore intensità, li interpretiamo come zone franche, in cui allentare la morsa sociale per lasciarci andare al divertimento infantile, al narcisismo, all’esaltazione tribale o alla semplice apatia. Sono diventati oggi una vera e propria “industria delle relazioni” e tutti noi siamo dominati dal loro potere. Una condizione che, sottolinea Taddeo, ci appare ineluttabile e allo stesso tempo poco comprensibile.
Da più parti, sempre più spesso, si avverte la necessità di cambiare rotta, o almeno di opporre resistenza nei confronti della modellizzazione delle nostre relazioni e delle nostre vite, ma al netto di interessanti quanto rari fenomeni di social media quitting, una gran parte della popolazione mondiale oggi rimane sui social e lì si riconosce, si diverte, si odia e si ama.
Si possono definire social quelle piattaforme che hanno, come fattore distintivo, la presenza di una “socialità algoritmica” dinamica e generativa, alla base dei meccanismi di interazione. Nella sua analisi l’autrice sottolinea come essi si occupano di progettare non generiche relazioni tra utenti, ma specifici modelli di interazione, e che tali modelli relazionali non sono ancillari ad altri bensì al centro della produzione e del consumo che avvengono in questi contesti. Non c’è più una dinamica basata sulla valutazione dei contenuti, e nemmeno sull’importanza delle relazioni, piuttosto un’interazione fra vivente e algoritmo che lo porta a innescare un dialogo implicito ed esclusivo con esso, nel tentativo di migliorarlo e ottenere così una visione più precisa e soddisfacente dei propri bisogni, dei propri gusti e in ultima analisi di sé stessi.
Le tre tendenze che meglio identificano il modo culturale in cui ad oggi il futuro prende forma, come equilibrio sempre prevedibile fra società e tecnologia, sono:
Desocializzazione dei social.
Spinta de-estetizzante.
Sfida del social totale (Metaverso).
La desocializzazione dei social è riscontrabile in relazione alla crisi di Facebook e, in generale, del modello friend drivenlì promosso. I dati fanno emergere ormai che la popolazione media di Facebook è sempre più vecchia e non viene rinnovata dalle nuove generazioni. Questo social appare quindi sempre più destinato a persone di mezza età con una non forte consuetudine agli ambienti digitali e alle sue dinamiche relazionali. Viene sempre più vissuto come il luogo della rabbia e della polemica sterile. La difficile fase di Facebook è anche legata a una certa stanchezza degli utenti nel guardare contenuti di persone simili a loro impegnate in una estenuante rappresentazione scenica di vite ordinarie. Ricorda Taddeo che le nuove generazioni sono restie a condividere contenuti verso pubblici invisibili e preferiscono dedicare le loro pratiche creative e di condivisione a specifici target, spesso composti dai loro pari, protetti da sistemi di privacy e controllo. In questa chiave si può leggere lo spostamento degli utenti dai social ai sistemi di instant messaging.
La spinta de-estetizzante è un processo complessivo di adattamento delle logiche social all’esigenza culturale, da più parti espressa, di recuperare l’eccessivo scollamento tra realtà e mediatizzazione che i social stessi hanno costruito e promosso. Se la desocializzazione e la de-estetizzazione cercano di alleggerire e disinnescare le meccaniche sociali create dalle stesse piattaforme, il social totale va nella direzione opposta e propone l’evoluzione immersiva e totalizzante delle dinamiche social oggi sperimentate. Il social totale viene anche indicato come Metaverso.
Ma cos’è davvero il Metaverso? E, soprattutto, cosa diventerà?
Nel Metaverso sono oltre 40 i mondi virtuali abitati circa 350milioni di persone, o meglio di avatar. Si tratta perlopiù di piattaforme originariamente nate per il gioco – come Fortnite e Roblox – ma in continua evoluzione verso contesti virtuali sempre più concreti. Nella realtà virtuale è possibile fare qualsiasi cosa: organizzare eventi e assistere a concerti, finanche acquistare terreni e proprietà immobiliari. Ammonterebbe a circa 85milioni di dollari il budget speso per acquistare terreni e immobili su piattaforme quali Cryptovoxels, Decentraland, Sandbox e Somnium.
Entro il 2035 l’impatto economico del Metaverso sul Pil italiano sarà tra i 28 e i 52 miliardi di euro l’anno, secondo i dati forniti dalla Rome Business School. A livello globale, si calcola che entro il 2030 gli utenti attivi nel Metaverso supereranno i 700milioni, generando un giro di affari che potrebbe raggiungere quasi i 1000miliardi di dollari.
Esperienze sempre più immersive. Interazioni sensoriali sempre più simili alla realtà. Questi sembrano essere gli obiettivi dei recenti sviluppi del Metaverso, a cui le restrizioni dovute alla pandemia da Covid-19 hanno dato un grande slancio.
Nel 2020 il 62% degli italiani ha effettuato lunghe sessioni di gaming online, come riporta il report di McKinsey&Company.
La spesa dei consumatori per contenuti digitali è più che raddoppiata tra il 2018 e il 2021, passando da 1448miliardi a 2944miliardi. La parte del leone l’ha fatta sicuramente il gaming che ha raggiunto i 1725miliardi nel 2021 contro i 993 del 2018. Questi i dati diffusi dall’Osservatorio Digital Content del Politecnico di Milano.
Dopo il gaming sembra essere la musica il settore di maggiore interesse per gli sviluppi online. La spesa degli italiani per sottoscrivere abbonamenti o acquisti è in continua crescita e l’Osservatorio prospetta roseo il futuro del comparto. A spingere il business sono i diversi sviluppi del settore, che vanno dai video al live streaming, dai podcast – che rappresentano la maggiore entrata per i canali advertising come TikTok e Twitch – fino alla sincronizzazione sulle piattaforme di gaming.
«È evidente che nessuno di noi sappia di preciso cosa sarà il Metaverso, Ci sono suggestioni e possiamo cogliere sin d’ora varie parti, ma esistevano già prima che nascessero i social network. Per il resto stiamo assolutamente improvvisando, sperimentando supposizioni. Credo che il Metaverso potrà essere un social media 3D in tempo reale in cui non si scambiano messaggi in maniera sincrona, ma ci si ritrova in un mondo virtuale dove è possibile fare sostanzialmente qualsiasi cosa.» A dirlo è Tim Sweeney, CEO di Epic Games, come riporta tech4future.
Una visione condivisa vede il Metaverso come un mondo virtuale in 3D analogo o del tutto differente al mondo reale, dove è possibile immergersi grazie a un avatar digitale, avvalendosi di tecnologie immersive, quali la realtà virtuale e la realtà aumentata.
Nel Metaverso è possibile raggiungere mondi virtuali in 3D alternativi al mondo reale, all’interno dei quali è possibile costruire qualsiasi cosa, anche una propria casa, e vivere attraverso il proprio avatar all’interno di una community online. L’esempio più rappresentativo è stato Second Life, in commercio dal 2003, utilizzato da milioni di giocatori.
Centrati sulla creazione di una community all’interno della piattaforma sono i giochi multiplayer competitivi. Tra i più notori Fortnite, il battle royale di Epic Games. Di indole differente sono invece altri giochi multiplayer che consentono una libertà pressoché assoluta di creazione di contenuti e condivisione delle creazioni, come Minecraft e Roblox.
Con l’arrivo della pandemia da Covid-19 e delle sue restrizioni si sono moltiplicate le collaborazioni tra le piattaforme online e le industrie dell’entertainment. I concerti online hanno consentito la possibilità di esibirsi dinanzi a un pubblico fatto da milioni di spettatori. Una cosa impensabile altrimenti viste le condizioni e le restrizioni in atto.
Il concerto di Travis Scott su Fortnite, trasmesso in pieno lockdown, registrò 45.8milioni di visualizzazioni in cinque spettacoli. Un successo tale che la piattaforma gaming lanciò ufficialmente l’avatar del rapper in movimento tra glich ed effetti speciali. 33Milioni le visualizzazioni per lo show del trapper Lil Nas X trasmesso online su Roblox. Il concerto delRift Tour di Ariana Grande ha superato il milione di visualizzazioni sul profilo ufficiale di Fortnite. Per rendere ancora più unica l’esperienza, come accade anche per gli altri artisti, oltre alla skin basata sulla popstar, gli utenti di Fortnite hanno potuto ottenere oggetti di scena, nuove schermate di caricamento ed emoticon, il tutto ispirato all’artista. Un vero e proprio concerto realizzato all’interno della piattaforma è quello dei Twenty One Pilots su Roblox: uno spettacolo di circa 30 minuti tra scenari realizzati ad hoc che cambiavano con il brano musicale.
Listening Party è stata l’iniziativa, lanciata a partire dal 2021, con la quale Roblox ha permesso agli artisti di presentare in anteprima i loro progetti all’interno del Metaverso. Soundwave Series sembra essere stata la risposta-contrattacco di Fortnite. Un’iniziativa dedicata ai concerti di artisti provenienti da tutto il mondo. Ai concerti virtuali è stata poi affiancata una serie di operazioni per la commercializzazione del merchandise digitale. Un grande mutamento sembra essere in atto anche per Twitch, la piattaforma di Amazon nata nel 2011 che offre sempre più spazio alla trasmissione di eventi online legati a videogame. Lo stesso discorso vale per Tik Tok, un tempo dedicata a balletti e lip sync e oggi sempre più aperta a concerti ed eventi online. Come Underwater Live Session di Blanco. Un’esperienza immersiva e subacquea da centinaia di migliaia di visualizzazioni.
L’82% dei Millennial e l’83% dei Generazione Z italiani utilizzano piattaforme online per accompagnare momenti liberi, di studio, lavoro o per ascoltare musica. Le dimensioni del mercato sono più che raddoppiate negli ultimi 10 anni e il valore da poco oltre i 100milioni ha quasi raggiunto i 400milioni di euro. La Generazione Z si sta rivelando la categoria in più rapida crescita, con 560miliardi di canzoni ascoltate solo nella prima metà del 2023. I dati sono ancora dell’Osservatorio del Politecnico di Milano.
Gli MTV Video Music Award nel 2022 hanno aggiunto un premio per i concerti del Metaverso, introducendo la categoriaBest Metaverse Performance. Le nomination per il 2022 sono state: Twenty One Pilots in Roblox, Justin Bieber in Wave, Charli XCX in Roblox, Ariana Grande in Fortnite, BTS in Minecraft, e i trionfatori Blackpink in PUBG.
Comunque non è la prima volta che gli MTV Award si legano alle tendenze tecnologiche del momento: il premio Song of the Summer, istituito nel 2013, viene votato direttamente dai fan sui social media, al pari della categoria Group of the Yeardel 2022.
A partire da dicembre 2023 Fortnite si è arricchito di ben tre modalità inedite, che sembrano essere tre distinti nuovi giochi: Fortnite Rocket Racing che ricorda Mario Kart e Rocket League, Fortnite Festival che ha lo sguardo rivolto a Rock Band e Guitar Hero e LEGO Fortnite, frutto della collaborazione di Epic Games con l’azienda LEGO, un gioco a metà tra Minecraft e Fortnite Salva il Mondo. Un’iniziativa pensata forse per avvicinare alla piattaforma utenti più piccoli, ovvero il target maggiormente legato a Minecraft. Nei giorni immediatamente successivi al 7 dicembre, ovvero al lancio di LEGO Fortnite, la piattaforma ha registrato un considerevole aumento di accessi, raggiungendo il picco di oltre 11milioni di utenti e una media giornaliera compresa tra i 5 e i 6milioni di giocatori.
Numeri che sembrano alti ma non abbastanza se confrontati con quelli, per esempio, di Brawl Stars il quale ha generato durante il suo primo anno, il 2018, 442milioni di dollari. E che a dicembre 2019 registrava 141milioni di download unici a livello globale. Un gioco che resta comunque indietro nella classifica dei games della Supercell, nella quale svettano Clash of Clans e Clash Royale.
Clash of Clans, lanciato nel 2012, è un gioco di ruolo dove l’obiettivo è creare delle strategie ben mirate in modo da vivere al meglio la propria avventura, costruire un villaggio in cui addestrare il proprio esercito e, ovviamente, vincere le battaglie. Con Clash Royale la strategia riguarda l’abilità nel collezionare le carte che torneranno utili nei duelli online con gli altri giocatori. Mentre Brawl Stars è caratterizzato da sfide e combattimenti a tempo, online, che possono essere eseguite in varie modalità scegliendo anche tra numerosi personaggi e skin.
Anche la Supercell sembra aver capito il potenziale della trasformazione in atto del mondo digitale e dell’universo dei gamer. A partire da settembre 2023, ad esempio, è iniziata la collaborazione con Amazon per legare il videogioco Brawl Stars e la piattaforma Twitch. Collegando i due account e visionando le live in onda su Twitch, i giocatori possono ottenere ricompense da sfruttare per il game Brawl Stars.
Una interconnessione continua e reciproca sembra essere alla base delle scelte delle aziende e delle piattaforme virtuali, la medesima che ispira stati quali Giappone e Corea. Il primo ha prolungato la linea metropolitana di Tokyo con un fermata virtuale visitabile attraverso gli avatar. La Shin Akihabara Station della linea Yamanote – il servizio ferroviario metropolitano che viaggia intorno al centro della capitale giapponese – è la trentunesima fermata. I viaggiatori hanno la possibilità di visitare la riproduzione dei luoghi reali, interagire con altri avatar e fare acquisti nei negozi virtuali. La merce può essere poi ritirata negli armadietti posizionati nella reale stazione di Akihabara.
Mentre Seoul ha programmato da tempo la possibilità di consentire ai cittadini di interagire con gli uffici pubblici attraverso la realtà virtuale. Visitare virtualmente molte delle attrazioni di Seoul, accedere alla documentazione ufficiale, presentare reclami e chiedere informazioni su tasse e tributi: queste sono solo alcune delle attività che i cittadini possono svolgere in Metaverse Seoul. Attraverso l’uso di visori per la realtà aumentata, occhiali intelligenti o controller di nuova generazione, gli utenti possono incontrare virtualmente i funzionari pubblici, gli amministratori, completare varie procedure e assistere a eventi pubblici, come il rituale del suono della campana del Bosigak Belfry per festeggiare il Capodanno.
Forse l’idea del Metaverso è proprio questa: non cercare di rimpiazzare il mondo reale e neanche creare dei meri mondi alternativi virtuali, bensì unire reale e virtuale generando un nuovo mondo ibrido e un nuovo modo, anch’esso ibrido, di viverlo. In questo senso il Metaverso può essere indicato come un’espansione della realtà. Un ambiente virtuale tridimensionale che può essere abitato da un numero potenzialmente illimitato di utenti. L’interattività diventa immersività in maniera tale che ogni attività svolta in virtuale appare sempre più realistica e addirittura reale.
I social, per Taddeo, hanno coniugato le istanze umane di individuazione, quindi capacità e interesse a definirsi come soggetti unici, originali, con quelli di socializzazione, ovvero l’altrettanto fondamentale bisogno umano di sentirsi parte di qualcosa, come gli altri e insieme agli altri. L’obiettivo dei social però non è quello di offrire spazi solipsistici e autoreferenziali, bensì di promuovere la condivisione del sé, dei propri interessi individuali, delle proprie risorse, aspettative ed emozioni in modo che l’interiorità sia esteriorizzata, resa in tal modo visibile e in qualche modo “fruibile” dagli altri. Secondo le logiche social non esiste un io senza un noi che lo guardi, lo legittimi, lo valorizzi e in definitiva lo usi. Il design dei social si è occupato in maniera intensiva di rendere “visibile” l’io, ragionando sulla rappresentazione individuale come un’interfaccia che permetta agli altri utenti di navigare l’individualità di ciascuno e di “usarla” per diverse funzioni: aggiornarsi, ispirarsi, confrontarsi, relazionarsi, chiedere aiuto, competere.
Se la rappresentazione del sé è un fatto consolidato che si articola nel corso dei millenni, attraverso diversi media, i social network per primi hanno condotto alla possibilità di rendere l’autorappresentazione un gesto di massa, ordinario, quotidiano, continuativo, multimediale e soprattutto organico del vivere sociale. Sottolinea l’autrice quanto l’essere fuori dal circuito dell’autorappresentazione appare oggi addirittura un atto provocatorio, appannaggio di poche minoranze e segnato, in ogni caso, da una precisa connotazione comunicativa, quella del gesto di dissenso, dell’attivismo culturale e della protesta.
Almeno per la Cina, il presidente Donald Trump è un regalo che non smette di dare soddisfazioni. Sono queste le parole usate da Minxin Pei per introdurre la sua analisi sui rapporti Cina-Usa e sulle ripercussioni di scelte e azioni dei rispettivi governanti, riportata da Internazionale. Tutto il caos ingenerato dalle parole del presidente Trump e dagli scontri sull’esito delle elezioni sono infatti una vera e propria manna per la propaganda cinese.
Ciò, unitamente alle politiche ostili portate avanti in questi anni dal governo americano, non faranno altro che aumentare consenso e popolarità di quello cinese, servendo inoltre a smussare toni e azioni di tradizionali alleati i quali, al grido “prima gli Stati Uniti”, hanno trovato davvero difficile perseverare nella costruzione di un’ampia coalizione che potesse, in qualche modo, contrastare la Cina.
E così, ancora una volta, potrebbero essere stati gli stessi americani, questa volta per tramite del loro presidente, la causa dell’insorgere di incomprensioni, risentimenti e atteggiamenti ostili a livello internazionale. Sono in tanti a guardare e sperare che l’elezione del democratico Biden possa servire anche a scongiurare e mitigare accadimenti di questo tipo.
Sulla scia degli attacchi che Al Qaeda sferrò agli Stati Uniti l’11 settembre 2001, gli esperti di marketing promisero di rivedere la cattiva immagine dell’Impero del Mercato. Gli strateghi della comunicazione si misero al lavoro: il terrorismo islamico era forse la conseguenza di qualche incomprensione di base degli argomenti americani? Forse la “macchina del marketing globale” che aveva pubblicizzato le abitudini e i prodotti tipici dello stile di vita americano aveva in qualche modo alimentato un profondo fraintendimento dei valori positivi inerenti alla cultura materiale occidentale?
Una politica all’insegna del “Prima l’America” in effetti era dagli anni di inizio Millennio che non si sentiva, allorquando la Guerra Globale al Terrore scatenata dagli americani si sarebbe trasformata in una di quelle guerre infinite che hanno luogo nel momento in cui i grandi imperi combattono contro il proprio declino, provocando il caos.
E questo, nell’analisi di Victoria De Grazia, è segno inequivocabile della caduta del “grande impero del mercato”, ovvero dell’America che, con la sua democrazia degli affari, ha assunto per decenni la guida della lotta per la conquista del mondo con mezzi pacifici.
«Fate in modo che le vostre idee e la vostra fantasia si diffondano per il mondo intero e, forti della convinzione che gli Americani siano chiamati a portare libertà, giustizia e umanità ovunque vadano, andate all’estero a vendere beni che giovino alla comodità e alla felicità degli altri popoli, convertendoli ai principi sui quali si fonda l’America»
(presidente Thomas Woodrow Wilson, Detroit 10 luglio 1916)
Come sottolinea più volte nel testo De Grazia, nel suo discorso pubblico, il presidente Wilson pose l’accento su quegli scaltri accorgimenti, su quella comunicazione seduttiva, su quella empatia calcolata che solitamente si identificano con la società dei consumi. Facendo in questo modo propria una nozione squisitamente statunitense della democrazia, quella che si potrebbe definire “democrazia del riconoscimento”, bassata su un minimo di elementi comuni, come indossare la stessa maglietta o le stesse scarpe da ginnastica, oppure ancora le stesse marche.
Un’immagine da esportare calcolata fin nei minimi dettagli. E, quando questa immagine vacilla o risulta essere distorta rispetto alle intenzioni, prontamente si cerca di correre ai ripari.
Il 2 ottobre del 2001, l’amministrazione Bush assegnò a Charlotte Beers, celebrata nel mondo delle relazioni pubbliche come la regina del branding, una nuova carica all’interno del dipartimento di Stato, nominandola sottosegretario per la Diplomazia pubblica e le Relazioni pubbliche. Nel marzo 2003, quando l’amministrazione Bush mosse guerra all’Iraq, Beers rassegnò le dimissioni per motivi di salute. Testimoniando davanti alla Commissione relazioni estere del Senato una settimana prima di dimettersi, concluse: Il divario tra ciò che siamo, ciò che vorremmo apparire e ciò che gli altri vedono in noi è spaventosamente grande.
Fino agli anni Novanta, il progresso della cultura americana del consumo, nel bene e nel male, è sembrato davvero il filo conduttore del progresso globale. Era una forza rivoluzionaria, dotata di invenzioni sociali e di un messaggio sul diritto al benessere efficaci quanto una rivoluzione politica nello scegliere i vecchi legami. Tuttavia, una rivoluzione non è permanente per natura, cambia rotta, si esaurisce. Oppure i principi e le istituzioni che difende si diffondono tanto da non essere più identificati con i promotori originali. Entrano in gioco nuove forze. Accade che le soluzioni del passato si trasformano in problemi del presente.
Anche se forse gli Stati Uniti sono ancora la forza più dinamica che sospinge l’attuale cultura del consumo globale, per certo non esercitano più un’influenza tecnologica tale da monopolizzare le innovazioni né nella produzione né nel consumo. E questo giustifica molte delle preoccupazioni commerciali del presidente Trump. E urlare il primato americano a gran voce non poteva di certo bastare a celare il bluff, esattamente come, agli inizi del nuovo millennio, le iniziative intraprese dal governo per assumere la gestione delle vendite avevano finito per rivelare che l’arte di vendere era diventata non uno strumento dell’arte di governare, bensì un suo surrogato e l’inquietante vetrina dove era esposta la politica dell’Impero, con la sua bellicosità globale.
Allora, tra le incertezze dell’opinione pubblica globale, le aziende statunitensi non sapevano più se fosse proficuo o meno associare la vendita dei propri prodotti alla vendita dell’immagine della nazione americana. E, ora che le multinazionali si sono globalizzate, nulla impedisce ai pionieri del multinazionalismo di cadere vittime dei predatori globali.
Potrà Biden rappresentare una efficace rete di sicurezza per l’immagine, prima ancora dell’operatività, del vecchio irresistibile Impero americano del Mercato?
Bibliografia di riferimento
Victoria De Grazia, L’impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo, Giulio Einaudi Editore, Torino 2006 e 2020.
Titolo originale: Irresistible empire. America’s advance through twentieth-century europe.
Edizione italiana tradotta da Andrea Mazza e Luca Lamberti.
Victoria De Grazia insegna Storia europea alla Columbia University di New York. Sull’Italia del Novecento ha pubblicato Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista (1981) e Le donne nel regime fascista (1993). Con Sergio Luzzato ha curato il Dizionario del fascismo (2002).
«È triste, in un terzo millennio già avanzato, doversi ancora occupare di razzismo.»
È con questa significativa frase che si apre al lettore il saggio di Marco Aime. Un libro che approccia il problema da differenti angolazioni, non da ultimo quella storica. È importante comprendere e analizzare, almeno cercare di farlo, perché in epoche diverse e in luoghi differenti sorgano sentimenti di repulsione verso certi gruppi e, soprattutto, come mai tali pulsioni possano trasformarsi in eventi tragici di esclusione, reclusione e anche di morte.
Aime ricorda che, escludendo la sua variante istituzionale – basata su leggi esplicitamente discriminatorie ̶ , e gli eccidi commessi in suo nome, molto spesso il razzismo si presenta come un atteggiamento strisciante, fatto di piccoli gesti, troppo spesso sottovalutati, e di sentimenti diffusi che finiscono talvolta per gettare le basi di un vero e proprio sistema.
Oggi sembra muoversi lungo il labile confine che lo separa dall’etnocentrismo, malattia diffusa che colpisce ogni gruppo umano, facendolo sentire superiore agli altri.
Riporta l’autore la definizione datane da William Graham Summer nel 1906: Etnocentrismo è il termine tecnico che designa una concezione per la quale il proprio gruppo è considerato il centro di ogni cosa, e tutti gli altri sono classificati e valutati in rapporto a esso.
Il razzismo infatti, per Aime, nasce dalla non volontà di conoscere e dall’ansia di classificare, di incasellare, ma di farlo nel modo più semplice e rassicurante, così come classifichiamo piante, animale, rocce. Un apartheid preventivo insomma, che ci allontana senza conoscerci e allo stesso tempo ci fa sentire vicini e simili, altrettanto senza conoscerci.
Oggi ci ritroviamo a dover fare i conti con alcune delle mille sfaccettature del razzismo, declinato in chiave identitaria. Sembrava impossibile che si potesse ritornare a quei deliri eppure sono bastati pochi decenni per assistere a un rifiorire di idee di stampo razzista, espresse in forme diverse ma sempre basate sullo stesso principio: la difesa ossessiva di una presunta purezza del Noi.
Un pregiudizio snobistico e autoreferenziale che sembra davvero essere una debolezza umana universale, evidenziata anche da Claude Lévi-Strauss.
«L’umanità cessa alla frontiera della tribù, del gruppo linguistico, talvolta persino del villaggio, a tal punto che molte popolazioni cosiddette primitive si autodesignano con un nome che significa gli “uomini” (o talvolta – con maggiore discrezione, diremmo – “i buoni”, “gli eccellenti”, “i completi”), sottintendendo così che le altre tribù, gli altri gruppi o villaggi, non partecipino delle virtù – o magari della natura – umane, ma siano tutt’al più composti di “cattivi”, di “malvagi”, di “scimmie terrestri” o di “pidocchi”.»
Le narrazioni sulla razza tentano di radicare la cultura nella natura e di equiparare i gruppi sociali con le unità biologiche. Essenzializzando sul piano somatico-biologico il diverso, l’Altro, ricorda Aime, si giunge a definire i puri (ovvero Noi) e gli impuri (Loro). Ed è nel momento stesso in cui differenze che potevano essere considerate culturali, religiose, etniche vengono percepite come innate e immutabili che inizia il razzismo vero e proprio.
Riprendendo i concetti espressi da Bruce Baum, Aime sottolinea come l’idea stessa di razza contenga già i germi del razzismo. Infatti la classificazione su base razziale, per esempio, non è che un’applicazione sistematica dell’etnocentrismo a tutta la specie umana. E, citando Karen e Barbara Fields, evidenzia come quella della razza sia a tutti gli effetti un’ideologia la quale, al pari di ogni altri ideologia, non ha vita propria. Se la razza sopravvive ancor oggi non è perché ci è stata tramandata o perché l’abbiamo ereditata, bensì perché continuiamo a crearla. E il tutto continua a essere coltivato anche sulla base di contraddizioni e ipocrisie, proprio come accaduto in passato.
Interessante ed emblematico l’esempio, riportato nel testo dall’autore, inerente la Dichiarazione d’Indipendenza americana nella quale si legge: We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal (Noi riteniamo per certo che queste verità siano di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali). Bellissime parole. Scritte e sottoscritte da persone che, con ogni probabilità, possedevano schiavi neri.
Oggi però il razzismo non si presenta sotto la forma di un’ideologia esplicita e definita, espressa in tesi facilmente condannabili. Il nuovo razzismo si è riformulato sul piano della differenza culturale e, aggirando così il vecchio biologismo, opera con o senza riferimento alla razza nel senso stretto del termine. Aime descrive nel dettaglio come esso, pur non basandosi più sulla razza, in realtà utilizza lo stesso atteggiamento rispetto alle differenze, mirato a svalorizzare l’altro. Questo neorazzismo fonda le proprie spiegazioni nella storia e nella cultura invece che nella biologia e, a volte, si maschera da nazionalismo o da sovranismo.
La nostra infatti è un’epoca postrazziale (ma non postrazzista), caratterizzata da nuove dinamiche di inclusione e di esclusione che si reggono non solo sui segni tangibili e visibili, come il colore della pelle, ma anche e soprattutto sulla cultura e sulla provenienza.
Ecco allora che un termine è rapidamente diventato leit motiv ed espressione chiave delle retoriche politiche postmoderne: identità.
A contribuire alla fortuna delle proposte identitarie sono concorsi diversi fattori tra cui il progressivo decentramento delle produzioni industriali, il passaggio da un modello capitalistico fondato sul lavoro a un’economia sempre più incentrata sulla finanza, la precarizzazione del lavoro, l’erosione progressiva dei servizi e del welfare… in breve, tutto quello che ha contribuito alla nascita di quella che Zygmunt Bauman ha definito società liquida e gravida di incertezze.
Fattori tutti che hanno ingenerato ansia e paure, portando a vedere minacce derivanti da una globalizzazione che vorrebbe omologare tutti attaccando cultura e identità locali.
La crisi economica e la sempre più snervante competizione sul mercato del lavoro offrono un terreno quanto mai fertile ai populisti, che tentano di incanalare rabbie, angosce, frustrazioni lungo la strada della xenofobia e dell’esclusione.
Atteggiamenti e prese di posizione che a volte, purtroppo, vengono sfruttate anche dagli stessi Stati i quali, depauperati della loro tradizionale sovranità, temono di dover prima o poi ammettere debolezze e limitazioni e, motivati dalla volontà di celare l’inganno e proseguire nella finzione, assumono atteggiamenti repressivi nei confronti di coloro che intaccano potenzialmente ma inevitabilmente questa finzione: gli stranieri, gli esclusi.
Aime ricorda al lettore come il pensiero di Stato abbia talmente condizionati i cittadini al punto da far ritenere davvero “loro” il territorio nazionale. Le nuove circolazioni internazionali stanno invece mettendo in crisi tale pensiero, togliendo il velo di ipocrisia che esista un territorio abitato da gente identica. La verità è che oggi, come in passato, il pianeta è costellato da diversi insiemi di quelli che Mbembe definisce territorio mosaico e l’appartenenza a una nazione non è più solo una questione di origine, ma anche di scelta.
Una cosa che accomuna oggi gran parte degli elettori è la rabbia e il risentimento contro chi governa o ha governato fino a ieri. Un qualcosa che a Marco Aime ricorda i rituali di ribellione, ovvero le manifestazioni collettive in cui i rappresentanti dell’autorità e del potere possono essere oggetto di schermo e di irriverenza, ma solo nei termini e nel contesto specifico del rituale. Una sorta di ribellione ritualizzata, come l’ha descritta, dopo averla studiata in Africa meridionale, Max Gluckman.
Il cittadino postmoderno è sempre più solo e solitario e pervaso da un senso di rabbia crescente e indistinta, che non riesce più a tradursi in proposta politica. Allora si limita a chiedere ciò a cui pensa di avere diritto in un modo sempre più incontrollabile, e il colpevole di ogni perdita diventa chi tale mondo ha governato fino al giorno prima: l’élite, la casta o la politica in generale. I populisti non hanno un vero progetto per risolvere i problemi, ma sono in grado di intercettare e fare proprio quell’immaginario rancoroso, che cerca una sorta di vendetta.
Il sentimento politico si trasforma in rancore e il voto diventa il rifugio del disagio e delle pretese privatistiche. In buona sostanza, uno sfogo più che una scelta.
Senza una progettualità vera e propria la politica si ribella a se stessa ma lo fa con un cambiamento apparente. Ecco allora che Aime vede il nesso con i rituali di ribellione. Il sentimento è diventato risentimento. Ciascuno esprime la propria scelta, spesso rabbiosa, senza però inquadrarla in un qualsivoglia orizzonte futuro.
Queste paure, queste solitudini, questo risentimento, avverte l’autore, sono il brodo di coltura di cui si nutrono i diversi movimenti xenofobi che stanno raccogliendo più consensi in tutto il mondo occidentale, presentandosi come l’antipolitica nel momento in cui occupano tutti gli spazi della politica.
E, ancora una volta, lo si fa sulla base di un grande paradosso: inemici, causa di tutti i mali, sono l’Europa, intesa come Unione Europea e, al contempo, coloro che ne sono chiamati fuori, gli extracomunitari, ovvero i non europei.
C’è senz’altro del vero nelle parole di George David Aiken: se dovessimo svegliarci una mattina e scoprire che tutti sono della stessa razza, credo e colore, troveremo qualche altra causa di pregiudizio entro mezzogiorno. Perché, come sottolineava Umberto Eco, avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro.
Quando consideriamo diverso l’Altro è perché lo misuriamo sul nostro metro ed è qui che nascono i problemi. Abbiamo tutti bisogno, sottolinea Aime, di uno specchio che non rifletta l’immagine di noi stessi, ma quella di colui o coloro da cui vogliamo distinguerci.
I giovani identitari si ritagliano addosso un abito da guerriero Come i loro padri cinquant’anni prima, mettono in discussione chi li ha preceduti ma non per chiedere pace, libertà, uguaglianza e diritti per tutti, al contrario, per limitarli a loro stessi, esponenti bianchi nati in Europa.
Il mito dell’identità ha il vantaggio di presentarsi come nuovo, senza il peso della storia e senza il carico negativo che il razzismo si porta dietro. Ma è ben noto dove porta l’anelito alla “purezza” della razza o, in questo caso, della cultura. Eppure, sottolinea con rammarico Aime, oggi sembra che i termini “fascista” o “razzista” stiano perdendo sempre più la loro carica di stigmatizzazione e quasi non ci si vergogna di proclamarsi, anche pubblicamente, tale. Nella quasi totale indifferenza o rassegnazione.
«Non temo le urla dei violenti, ma il silenzio degli onesti.»
Martin Luther King
A margine dell’analisi di questo straordinario saggio mi sia consentita una breve nota. Nei ringraziamenti Marco Aime elenca tra i suoi “maestri” Vanessa Maher. Nel leggerlo tanti sentimenti sono riemersi, all’improvviso. Mia docente per la seconda annualità del corso di antropologia culturale e relativo esame ho avuto modo di vedere, e ricordare, la preparazione, la dedizione, la serietà… l’incarnazione della grandezza e della potenza della Cultura, quella vera che non ha bisogno e non cerca nemici, che vuole abbatterli i muri invece di costruirli, che vuole capire e non giudicare. La Cultura vera che si basa sulla Conoscenza e non il suo falso alter ego basato su pregiudizio, ignoranza e arroganza.
Bibliografia di riferimento
Marco Aime, Classificare, separare, escludere. Razzismi e identità, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2020
Quando si trova in presenza di altri, l’individuo è guidato da un sistema particolare di regole definite da Goffman proprietà situazionali. Queste regole controllano la “distribuzione del coinvolgimento dell’individuo nella situazione”, coinvolgimento espresso mediante un idioma convenzionale di segnali comportamentali.
Spesso l’individuo si adegua a queste regole senza riflettere, pagando ciò che ritiene essere “solo un piccolo tributo alle convenzioni”. In realtà, sottolinea Goffman, la pena finale per chi rompe la regola è dura.
L’analisi condotta dal sociologo canadese riguarda la società occidentale, in special modo nordamericana della metà del secolo scorso. Una società che potrebbe sembrare molto lontana da quella attuale, dove si riempivano le prigioni con coloro che trasgredivano l’ordine legale e, parzialmente, i manicomi con quelli che agivano in maniera inappropriata.
I manicomi oggi non esistono più, o meglio le strutture che ancora esistono hanno cambiato nome. Le regole di comportamento in pubblico sembrano essere notevolmente cambiate. Ma ne siamo davvero certi? E se la risposta è si, siamo sicuri che ciò sia davvero un bene?
Le regole di condotta servono a definire quello che è e deve essere il comportamento in pubblico di ogni individuo. In passato ci si aspettava anche che da queste emergesse per facile e immediata deduzione l’appartenenza all’una o all’altra classe sociale. In caso contrario, persi i dovuti punti di riferimento, l’individuo veniva visto e percepito come estraneo, al raggruppamento, ovvero straniero.
Al giorno d’oggi ognuno sembra comportarsi in pubblico come meglio crede. Sembra non esistano più rigide regole di comportamento. Di sicuro il comportamento in pubblico non necessariamente agevola l’identificazione alla “classe” di appartenenza e i trasgressori dell’etichetta non vengono più, meramente per ciò, internati nei manicomi. Non con la frequenza di un tempo almeno.
Eppure, a ben guardare, coloro che si allontanano, per i più svariati motivi, da quelle che sono le regole, non scritte, del comportamento in pubblico anche oggi come in passato sono immediatamente individuati e percepiti come estranei, stranieri, diversi.
E anche oggi, esattamente come nel passato non così lontano indagato da Goffman, rompere la regola porta o può portare conseguenze dure.
Per esemplificare il concetto basta osservare le reazioni in pubblico alla presenza di un individuo estraneo al raggruppamento. Uno “straniero” per dirla in maniera semplice. Quest’ultimo veste in modo diverso, parla un’altra lingua, è avvezzo a muoversi diversamente… E, quand’anche si parli tanto di accoglienza e integrazione, la percezione della presenza estranea è tutt’ora avvertita, spesso osteggiata. Espressione palese del fatto che questo individuo non viene percepito come afferente al raggruppamento, che unisce gli individui non per sesso, età, legami di sangue o altro bensì per la condivisione delle medesime regole di comportamento in pubblico.
Si pensi ancora all’omofobia dilagante, al bullismo e cyberbullismo… ovvero a tutti quegli atteggiamenti di rifiuto e condanna verso gli individui che sono estranei e percepiti come diversi.
Le parole non cambiano la realtà, e la realtà è che oggi, proprio come in passato, c’è la tendenza ad addossare responsabilità e colpe di problemi di varia natura legati alla società su coloro che non la rappresentano, agli occhi di chi invece se ne ritiene pienamente rappresentante.
I vinti di oggi, per usare l’espressione di Giovanni Verga, che affollano prigioni e centri e strutture di “accoglienza” di vario genere, sono l’equivalente dei vinti su cui ha indagato Erving Goffman che affollavano prigioni e manicomi.
Eppure oggi, esattamente come allora, il Male vero non deve per forza risiedere in questi individui ma può benissimo annidarsi in coloro che indossano alla perfezione la maschera dell’inclusione e conoscono e rispettano tutte le regole del raggruppamento, in pubblico. Già in pubblico. Perché anche Goffman, come già fece Pirandello, sottolinea la linea, a volta profondissima, che separa il comportamento in pubblico da quello non in pubblico, ma non la esplora limitando l’analisi alla condotta degli individui in presenza di altri.
Un’azione può essere ritenuta corretta o scorretta soltanto in rapporto al giudizio che ne dà un particolare gruppo sociale, mai in assoluto. Eccezion fatta ovviamente per i comportamenti criminali. E anche fra i gruppi più piccoli e più saldamente uniti è probabile esistano al riguardo dissensi e incertezze. Uno tra i migliori esempi forniti da Goffman è il comportamento, solo in apparenza diverso, di vari gruppi religiosi nei luoghi di culto. Alcuni infatti entrandovi mantengono le scarpe e tolgono il copricapo, altri fanno esattamente l’opposto, togliendo le scarpe e mantenendo il capo coperto. Gesti che solo in apparenza possono sembrare differenti ma che nascondono in realtà una somiglianza di fondo riscontrabile nella ragione che li ha originati, ovvero il senso di profondo rispetto nutrito verso quei luoghi per loro sacri.
Goffman analizza a fondo i modelli di comportamento che di certo non sono un qualcosa di statico. E Adriano Zamperini nel saggio introduttivo al testo sottolinea come, soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento, si è avuta un’involuzione del sistema ottocentesco delle buone maniere, “tale da corrompere l’etichetta con un vuoto formalismo”, trasformando l’interazione umana in “una commedia delle apparenze”, dove il fine non è certo rispettare l’altro ma piuttosto “farsi spazio, sedurre, promuovere se stessi come un brand”, in sostanza avere successo. È innegabile che il cosiddetto buon comportamento non sia più – anche se in effetti non lo è mai stato compiutamente – un orizzonte collettivamente condiviso.
In passato coloro che non rispettavano l’etichetta, le buone maniere e mostravano di non sapersi comportare in pubblico erano identificati spesso come dei criminali. Oggi, paradossalmente, siamo costretti a vedere persone che si ritengono esono ritenute rispettabili che assumono movenze e linguaggi riconducibili ad ambienti criminali e giustificarsi adducendo la blanda motivazione dell’ilarità o dello scherno. Basti pensare al seguito non solo mediatico che hanno avuto produzioni cinematografiche come Il padrino o Gomorra. All’emulazione che ne è seguita in vari ambiti del vivere sociale: dagli slang alle movenze, dalle riproposizioni in chiave parodistica alle riproduzioni in maschera. In genere travisando quello che è, o dovrebbe essere, lo scopo divulgativo-educativo legato alla diffusione di informazioni sullo stile di vita e sui comportamenti tenuti dalla criminalità, organizzata o meno che sia.
Senza contare poi la confusione ingenerata, soprattutto negli individui in età adolescenziale, riguardo ciò che è giusto e ciò che non lo è. Tra i comportamenti corretti e quelli che lo sono meno. E questo non per ritornare a vecchi sistemi o ordini ormai desueti bensì per regolare la vita sociale e il rispetto degli individui che si incontrano in luoghi di interazione pubblici. Linee guida venute meno anche a causa dell’eccessiva urbanizzazione cui è andata incontro la società occidentale. Ricorda infatti Zamperini il concetto di overload, che sta a indicare il sovraccarico di stimoli cui è sottoposto quotidianamente l’abitante di un grande nucleo urbano.
Il sistema cognitivo individuale è incapace di elaborare gli innumerevoli input provenienti dall’ambiente urbano. Troppi e troppo incessanti per essere adeguatamente processati dalla mente umana. Per reggere questa moltitudine di sollecitazioni, il cittadino farebbe ricorso a tre modalità comportamentali: fissa ciò che ritiene prioritario, tendendo così a eludere il resto; alza barriere psicologiche protettive – come l’ampio ricorso agli smartphone per ascoltare musica con gli auricolari per isolarsi dal frastuono tipico dei luoghi pubblici; crea proprie regole e istituzioni.
In buona sostanza, il cittadino all’interno di metropoli dove può potenzialmente trovare di tutto ha la tendenza a smarrire se stesso.
Goffman con il saggio Il comportamento in pubblico ha cercato di dimostrare che la sintomatologia dei malati mentali può a volte avere a che fare più con la struttura dell’ordine pubblico che non con la natura del disordine mentale.
Oggi assistiamo a una profonda crisi che implica anche il comportamento in pubblico degli individui costretti a modificare ogni loro abitudine a causa del SARS-CoV-2 portatore della malattia Covid-19 e una delle frasi che si legge o si ascolta con maggiore frequenza è: quanto torneremo alla normalità?
E se fosse proprio questa normalità come noi la conosciamo a essere il vero problema di fondo?
Non sarebbe forse più opportuno cogliere l’occasione per ripensare le regole di condotta del nostro nuovo comportamento in pubblico?
Bibliografia di riferimento
Erving Goffman, Il comportamento in pubblico. L’interazione sociale nei luoghi di riunione, Einaudi, Torino, 2019.
Traduzione di Franca e Enrico Basaglia dal titolo originale Behavior in public places. Notes on the social organization of gatherings, The Free Press, a division of Simon&Schuster Inc., New York, 1963.
Versione con un saggio introduttivo di Adriano Zamperini
Creare una società dell’apprendimento. Un nuovo approccio alla crescita, allo sviluppo e al progresso sociale è un testo che guarda all’economia globale in modo differente rispetto al neoclassicismo imperante. Che focalizza il ragionamento sul concetto di apprendimento come elemento cruciale per la crescita dell’economia di un paese e per superare il divario tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo. Joseph Stiglitz e Bruce Greenwald decidono di rendere omaggio a Kenneth Arrow e alle sue teorie economiche organizzando una serie di conferenze annuali negli Stati Uniti e di trasformare le relazioni in un libro, tecnico, che impiega la matematica per spiegare il rigore scientifico delle tesi avanzate. In seguito viene pubblicata una versione meno impegnativa del titolo, dal quale vengono estrapolate le formule matematiche. Un’edizione divulgativa che viene tradotta in Italia da Maria Lorenza Chiesara per la casa editrice Einaudi.
Per Stiglitz e Greenwald nessuno come Arrow, a livello individuale, ha fatto tanto per cambiare il nostro modo di guardare all’economia e alla società al di là dell’economia, negli ultimi sessant’anni. Creare una società dell’apprendimento è necessario per promuovere gli standard di vita anche nelle economie ben al di qua della frontiera, che non si trovano all’avanguardia del progresso scientifico e tecnologico. I governi dovrebbero concentrarsi su cosa crei una società dell’apprendimento. Mentre alcune delle politiche che gli economisti hanno sostenuto in passato l’hanno di fatto ostacolata.
Negli ultimi decenni è diventato usuale descrivere l’economia verso cui ci stiamo dirigendo come una “economia della conoscenza e dell’innovazione”. Minore attenzione viene invece data a cosa ciò significhi per l’organizzazione dell’economia e della società.
Gli autori citano Solow allorquando affermano che la maggior parte dei miglioramenti relativi agli standard di vita sono il risultato di incrementi di produttività, ossia l’aver imparato a fare le cose meglio. Se è vero quindi che la produttività è frutto di apprendimento e che gli aumenti di produttività, ovvero l’apprendimento, sono endogeni, allora uno dei punti focali della politica dovrebbe essere quello di incrementare l’apprendimento all’interno dell’economia. Incrementare la capacità di imparare e gli incentivi a farlo. Imparare a imparare. Dunque, colmare i divari di conoscenze che separano le imprese più produttive dalle altre.
Creare una società dell’apprendimento dovrebbe quindi essere uno degli obiettivi principali della politica economica. Se si crea una società dell’apprendimento ne risultano un’economia più produttiva e uno standard di vita migliore. Nel testo, Stiglitz e Greenwald mostrano come molte delle politiche concentrate sull’efficienza statica – allocativa – possano invece ostacolare l’apprendimento e come di fatto politiche alternative possano portare a superiori standard di vita, visti nel lungo periodo.
Seguendo le teorizzazioni di Arrow, Stiglitz e Greenwald avanzano l’ipotesi del maggiore innalzamento degli standard di vita che potrebbe indurre una società dell’apprendimento rispetto a quanto riescano invece a farlo piccoli e isolati miglioramenti di efficienza economica o il sacrificio dei consumi correnti per intensificare il capitale, soprattutto per i paesi in via di sviluppo. Buona parte della differenza tra i redditi pro capite di questi paesi e quelli dei paesi più avanzati è attribuibile a un gap di conoscenze. Adottare politiche in grado di trasformare le loro economie e le loro società in “società dell’apprendimento” li renderebbe in grado di colmare questo divario e ottenere una crescita dei redditi significativa.
La trasformazione in società dell’apprendimento che si è verificata durante il XIX secolo nelle economie occidentali, e più di recente in quelle asiatiche, infatti sembra aver avuto un impatto maggiore sul benessere degli esseri umani di quello esercitato dai miglioramenti di efficienza allocativa o dall’accumulazione di risorse.
Al centro dell’indagine condotta dagli autori vi sono due interrogativi fondamentali:
– I mercati, di per sé, portano a un livello e a un modello di apprendimento e innovazione efficienti?
– E se no, quali sono gli interventi governativi desiderabili?
Per Stiglitz e Greenwald non esiste alcuna presunzione di efficienza dei mercati rispetto alla produzione e alla disseminazione di conoscenze e apprendimento. Piuttosto il contrario. I mercati sono “efficienti in senso paretiano”, ovvero non possono migliorare ulteriormente le condizioni di qualcuno senza che quelle di un altro peggiorino. Arrow aveva già riconosciuto la pervasività dei fallimenti del mercato nella produzione e disseminazione di conoscenze, sia come risultato dell’allocazione di risorse alle attività di ricerca e sviluppo sia come effetto dell’apprendimento.
Nel testo si insiste molto sul ruolo decisivo che ha il governo nel proporre e mettere in atto decisioni che diano l’indirizzo corretto al potenziamento dell’apprendimento nell’economia come in tutta la società.
I governi svolgono un ruolo centrale nell’ambito di istruzione, salute, infrastrutture e tecnologia; e le politiche per ciascuna di queste aree, così come le spese e il loro equilibrio, contribuiscono senz’altro a plasmare l’economia. Le politiche di aggiustamento strutturale hanno finito per soffocare la crescita dei paesi, soprattutto di quelli con un’economia emergente.
Invece di promuovere i settori di apprendimento, le politiche imposte ai paesi in via di sviluppo dalle istituzioni economiche internazionali (Fondo monetario internazionale e Banca mondiale) hanno scoraggiato il comparto industriale di molti di essi, soprattutto in Africa. Il risultato è che, negli ultimi trent’anni, l’Africa ha sofferto di un processo di deindustrializzazione. Focalizzando l’attenzione sull’efficienza statica, queste istituzioni internazionali trascurano del tutto l’apprendimento e le dinamiche a esso associate. Spesso – o anche tipicamente – la creazione di posti di lavoro non ha tenuto il passo con la loro distruzione, cosicché i lavoratori si sono spostati da settori protetti a bassa produttività a condizioni di disoccupazione, dichiarata o nascosta, a produttività ancora più bassa. Una delle critiche che si possono rivolgere al Washington Consensus (ovvero al blocco di politiche di aggiustamento strutturale condotte in Africa) è di aver tentato di imporre politiche corrispondenti alla convinzione che un’unica cosa vada bene per tutti. Ovvio che così non è, come non lo è il credere possa essere di aiuto osservare quanto fatto in passato da paesi con livelli di reddito pro-capite similari o leggermente superiori. Oggi il mondo è diverso da quello di un tempo sia in termini di geoeconomia e geopolitica globale sia di tecnologia.Le differenze tra i paesi aiutano a spiegare anche perché in alcune economie le imprese pubbliche funzionino bene mentre in altri no.
Aiutano anche a spiegare i limiti della globalizzazione: le imprese locali hanno un vantaggio competitivo sul piano della conoscenza delle situazioni locali. Buona parte delle informazioni di natura finanziaria è reperibile principalmente a livello locale. Un impiego efficace del capitale richiede il ricorso a istituzioni finanziare del posto. Purtroppo, le politiche del Washington Consensus, che spingevano per la liberalizzazione del mercato finanziario e del capitale, non considerarono l’importanza di questa concorrenza locale.
Le banche straniere riuscivano a sottrarre correntisti alle banche locali perché venivano percepite come più sicure, ma si trovavano in svantaggio informativo rispetto alle banche locali riguardo alle aziende locali piccole e mediopiccole. E fu quindi naturale che i prestiti venissero dirottati verso il governo, i consumatori e le grandi aziende nazionali, compresi i monopoli e oligopoli locali: in tal modo l’apprendimento e l’imprenditorialità locali potrebbero esserne stati danneggiati e la crescita esserne uscita indebolita.
Le politiche industriali devono seguire una strategia che tenga conto non soltanto delle circostanze presenti in un paese, ma anche della sua probabile situazione futura. Sia nei paesi sviluppati sia in quelli in via di sviluppo i governi devono plasmare la direzione dell’innovazione e dell’apprendimento. Buona parte dell’innovazione nelle economie industriali avanzate è stata diretta a risparmiare lavoro; ma in molti paesi in via di sviluppo esiste un’eccedenza di lavoro, e il problema è la disoccupazione. Le innovazioni che risparmiano lavoro esasperano questa sfida sociale cruciale. E anche quando le innovazioni che consentono di risparmiare lavoro non portano disoccupazione, hanno comunque conseguenze negative dal punto di vista della ricchezza, perché abbassano i salari.
Le regole e le regolamentazioni adottate nel processo di “liberalizzazione e deregolamentazione dei mercati finanziari” negli Stati Uniti e nel Regno Unito hanno portato, secondo l’analisi di Stiglitz e Greenwald, a istituzioni finanziarie arroganti, sostenute dalle implicite garanzie delle autorità monetarie e in ultima istanza dal contribuente. Molti governi non hanno fatto buon uso della politica di regolamentazione monetaria e finanziaria, e in alcuni casi questo cattivo uso può essere ricondotto a un problema di governance. Ma questo non è un valido motivo perché i governi rifuggano dall’impiego di una politica di regolamentazione monetaria e finanziaria. Il capitale e i servizi finanziari interni a un paese possono sostenere l’apprendimento; al contrario, i servizi finanziari forniti da soggetti stranieri possono far sì che gli investimenti e l’apprendimento vengano ridiretti all’esterno del paese, ostacolando in tal modo di fatto la creazione di una società dell’apprendimento. I governi occidentali (in modo diretto e attraverso le istituzioni finanziarie internazionali) hanno esercitato forti pressioni sui paesi in via di sviluppo affinché deregolamentassero e liberalizzassero i rispettivi mercati finanziari. Tali raccomandazioni non tenevano in considerazione i fallimenti del mercato finanziario che avevano condotto proprio alla realizzazione della necessità di una regolamentazione del settore finanziario, sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo. Guidando la finanza verso i settori di apprendimento si può potenziare la crescita totale.
In via conclusiva, Stiglitz e Greenwald sottolineano la necessità non solo di identificare le politiche che potrebbero portare alla creazione di una società dell’apprendimento ma, soprattutto, che queste politiche vengano applicate. Il modello neoclassico ignora questo fattore, perché non soltanto non presta attenzione all’importanza di allocare risorse ad apprendimento, ricerca e sviluppo, ma anche perché presuppone che tutte le imprese seguano le pratiche migliori e dunque non abbiano niente da imparare.
Molte delle politiche discusse nel testo comportano o comporterebbero una perdita nel breve periodo ma un guadagno a lungo termine. Si parla molto oggi di economia dell’innovazione o di economia della conoscenza, e molti progressi sono stati registrati, ma le piene implicazioni del loro lavoro per il modello neoclassico, cruciale per esempio nell’analisi di Solow, non hanno ancora trovato il posto che meritano. Le innovazioni sociali sono egualmente importanti rispetto alle innovazioni tecnologiche, sulle quali gli economisti si concentrano di solito: il progresso della società umana dipende da tali innovazioni così come dipende dai miglioramenti della tecnologia.
Bibliografia di riferimento
Joseph E. Stiglitz, Bruce C. Greenwald, Creare una società dell’apprendimento, Giulio Einaudi Editore, 2018 (traduzione di Maria Lorenza Chiesara dal titolo originale Creating a learning society: A new approach to growth, development, and social progress. Reader’s edition, Columbia University Press, 2014 e 2015)
Come si è potuto credere che dopo la firma degli accordi che decretavano la fine dei conflitti l’unica cosa che rimaneva da fare era la ricostruzione post-bellica dei territori devastati? Come si può pensare che la devastazione della guerra non abbia modificato e compromesso per sempre coloro che l’hanno vissuta in prima persona, maggiormente se bambini e bambine? Come ci si può illudere che una guerra non porti dei ‘cambiamenti’ a livelli globale? Intere etnie sterminate, popoli distrutti, traumatizzati, sfollati, costretti a spostarsi, a migrare… E soprattutto come è potuto accadere che tutto questo sia sempre rimasto fuori dai libri di storia?
Basterebbe solo un’attenta riflessione sulle risposte a questi interrogativi per comprendere l’importanza e la portata di un lavoro di ricerca e studio come quello condotto da Bruno Maida ne L’infanzia nelle guerre del Novecento, edito quest’anno dalla Einaudi. Ma c’è molto altro nel testo. C’è quello che, purtroppo, spesso non si ritrova nei libri di storia. Una ricerca documentaria dettagliata, uno studio accurato delle fonti, prontamente citate, una descrizione lucida e imparziale di fatti e conseguenze, uno sguardo all’intero pianeta e a quello che vi accade, scartando la visione e la descrizione troppo occidentale che spesso condiziona anche saggistica e storiografia.
Un libro imponente il testo di Maida sui disastri causati dalle guerre del secolo scorso e di quello appena iniziato. Una grandezza che non si misura con il numero delle pagine. Un resoconto importante che ‘costringe’ il lettore a considerazioni sul fatto che vedere «un bambino con un fucile in mano è un’immagine che non possiamo interrogare senza mettere in discussione noi stessi e le nostre responsabilità». Si chiede Maida se rendere visibile anche il più piccolo e feroce segno della guerra non sia «l’ultimo spazio possibile di narrazione per suscitare un sussulto etico» da parte di chi in Occidente è «ormai ‘dimitrizzato’ da ogni immagine di violenza» e si preoccupa invece «per gli spostamenti di popolazione che quelle guerre possono procurare».
I bambini che hanno combattuto, che hanno conosciuto solo la guerra come condizione di vita, «spesso non vogliono la pace» e non perché abbiano qualcosa in contrario, «è che proprio non la conoscono, in fondo la temono anche un po’». La ‘temono’ come qualsiasi altra cosa sconosciuta. Vivono in un vero e proprio «deserto esistenziale» fatto di mancanze. Privi di famiglia, genitori, affetti e affetto, senza scuola né istruzione… privati di tutto hanno imparato a conoscere e riconoscersi solo nella guerra, nella violenza e nelle armi. Per loro spesso «tornare a essere bambini», semplicemente non è possibile.
L‘umanità non è l’alternativa alla guerra, ma «la condizione imprescindibile con la quale dobbiamo misurarci», il confine insuperabile che dovrebbe «definire il nostro rapporto con la polarità pace-guerra». E se la guerra rimane «il gioco più pericolosamente seduttivo», il ‘tirocinio’ che «ogni società in ogni epoca si è preoccupata di realizzare», alla pace anche se non si può giocare la si può sempre «insegnare». Ed è ciò che andrebbe sempre fatto.
Il testo di Bruno Maida L’infanzia nelle guerre del Novecento è quasi rivoluzionario nel genere perché non rappresenta un libro sulla memoria bensì un saggio storico sull’azione e sulla reazione alle «fratture profonde» che ogni guerra lascia in chiunque ne faccia esperienza e lo fa in riferimento a un periodo storico particolare, nel quale «all’affermarsi e al diffondersi di un sistema di protezione nazionale e internazionale per i civili nei contesti bellici» è corrisposto un progressivo e crescente «coinvolgimento diretto e indiretto dell’infanzia».
L‘infanzia nelle guerre del Novecento è un libro di storia chiaro, imparziale, descrittivo e analitico, basato su fonti e documenti certi. Un libro assolutamente da leggere.
Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Giulio Einaudi Editore per la disponibilità e il materiale
Disclosure: Fonte biografia autore e trama libro quarta di copertina
Il rosso è il colore del sangue vivo, della porpora, del rubino, simbolo della passione, della carnalità, dell’amore… elementi tutti che si ritrovano nelle pagine di Rosso Parigi di Maureen Gibbon, edito in Italia da Einaudi nella versione tradotta da Giulia Boringhieri.
Un libro intenso anche se dal ritmo lento, caratterizzato da una narrazione avvolgente e travolgente che accoglie il lettore e lo “rapisce” esattamente come fa un dipinto di Edouard Manet che ha ispirato il protagonista maschile, indicato nel testo semplicemente come E. Rosso Parigi vuole raccontare la storia della diciassettenne Victorine diventata, quasi per caso, la musa ispiratrice del maestro. Una ragazza la cui vita viene stravolta e trasformata dall’incontro con quest’uomo che lei inizialmente chiama “lo sconosciuto”. Un adulto che la trascina in un vortice di passione e sensualità, facendole provare emozioni sempre nuove, sempre diverse. Sentimenti contrastanti che colpiscono come i colori accesi di una tavolozza.
Leggendo le pagine di Rosso Parigi emerge chiaramente lo sforzo portato avanti dall’autrice nel tentativo di dare maggiore risalto a quella che lei voleva restasse la protagonista, Victorine, e che l’esuberanza di E. non ne oscurasse i tratti. Gibbon è riuscita nel suo intento ma chi legge il libro inevitabilmente pensa a Manet e alle sue tele, a Colazione sull’erba e Olympia, ai colori, alle sfumature, alle impressioni che si delineano come tratti di una tela in lavorazione e fanno in modo che la storia narrata da Maureen Gibbon ne fuoriesca come l’immagine di Victorine Meurent dai dipinti e prenda forma dinanzi agli occhi del lettore.
Una scrittura, quella della Gibbon, che regala a chi la legge quasi sensazioni tridimensionali. Si ha come l’impressione di muoversi insieme ai protagonisti nella Parigi di fine Ottocento, di sentirne i profumi, di “assaporare” la vita dell’epoca. Un libro che da romanzo erotico e di amore sembra acquistare pagina dopo pagina la valenza di un grande romanzo storico.
Maureen Gibbon: vive in Minnesota. Ha pubblicato Swimming Sweet Arrow, Thief e Paris Red.
Per descrivere le sensazioni provate durante e dopo l’indagine condotta tra i banker della City londinese, Joris Luyendijk in Nuotare con gli squali. Il mio viaggio nel mondo dei banchieri, edito in Italia da Giulio Einaudi Editore, utilizza un’immagine di forte impatto emotivo: invoglia il lettore a immedesimarsi in un viaggiatore nel momento esatto in cui scopre che nella cabina di pilotaggio dell’aereo sul quale si trova non ci sono piloti. Vuota. E allora si chiede: chi sta ‘governando’ l’aereo?
Per comprendere a fondo quanto l’autore scrive nella prima parte del testo bisogna attendere di averlo letto per intero. Solo a quel punto infatti il lettore avrà un quadro completo dell’idea e del progetto portato avanti da Luyendijk nonché degli sconvolgenti risultati della ricerca condotta per circa due anni intervistando più o meno duecento banchieri.
Lo studio di Joris Luyendijk è una ricerca antropologica sul campo condotta in maniera indiretta. Gli è mancato ‘il campo’ di indagine. Ha potuto parlare e intervistare, anche più volte, numerosi banchieri che operano a vario titolo nella City ma nessuno di loro ha acconsentito ad aprirgli le porte del proprio ‘regno’. L’autore non è mai stato sul luogo di lavoro degli intervistati, non li ha visti agire e relazionarsi con i propri ‘simili’. Ciò pone dei limiti alla ricerca di cui Luyendijk è consapevole. In più punti del testo ha ammesso di aver cercato il riscontro ad alcune affermazioni, impossibili da verificare di persona, nel confronto tra le varie dichiarazioni degli intervistati.
Joris Luyendijk è un giornalista che ha messo a punto negli anni un proprio metodo per portare avanti le sue inchieste. Lui lo definisce curva di apprendimento. In sostanza egli parte dal presupposto che i lettori e lui stesso, non essendo esperti dell’argomento trattato, devono stimolare il proprio interesse mediante appunto l’apprendimento graduale di informazioni che li rendano sempre più curiosi e bramosi di conoscenza. Ha deciso di applicare questo metodo anche alla finanza in quanto trova assurdo che «tanta gente mostra così scarso interesse a proposito di tematiche direttamente connesse ai loro interessi», ipotizzando tra le possibili motivazioni «indifferenza, o apatia, o forse per l’eccessiva complessità di molti argomenti, ormai comprensibili solo agli addetti ai lavori».
«Se dite a qualcuno che i suoi soldi non sono al sicuro avrete tutta la sua attenzione; pronunciate il termine “riforme finanziarie” e la gente si disconnette.»
Nuotare con gli squali. Il mio viaggio nel mondo dei banchieri, uscito in Italia nella versione tradotta da Emilia Benghi, sembra avere come parola chiave: semplificazione. L’intricato e misterioso universo della finanza internazionale viene presentato al lettore nella maniera più lineare immaginabile, per renderlo accessibile a quante più persone possibile. Lo scopo dichiarato da Luyendijk era proprio questo.
Una tra le domande più ricorrenti che l’autore porge agli intervistati riguarda la consapevolezza della crisi del 2008 e lo turba non poco il fatto che la quasi totalità dei banker con cui interagisce afferma di non averne avuto coscienza fino alla sua esplosione. Ma pressoché all’unisono ammettono che poteva degenerare in un disastro economico di dimensioni superiori e che potrebbe verificarsi di nuovo e anche in forma più grave. «L’elenco delle misure intraprese è lungo, ma lo schema di base resta identico: la risposta normativa al crac del 2008 ne ha combattuto i sintomi, non le cause».
Le banche, soprattutto quelle grandi, investono molto tempo e denaro nel tentativo di apparire quanto più sicure e organizzate possibile ma in realtà «molti bancari non hanno competenze richieste in altri settori economici». Alcuni hanno ammesso che «magari ti serve un po’ di formazione su qualche argomento tecnico, ma quando ho fatto il primo colloquio io non sapevo nemmeno la differenza tra equity e bond. La cosa indispensabile è credere in se stessi.» La loro ‘preparazione imperfetta‘ la vivono con molto distacco e disinteresse, in fondo, dicono, «non siamo scienziati nucleari.»
Ma i problemi non riguardano solo il singolo operatore, «i suoi lettori resterebbero sconvolti dalle lacune che esistono nei sistemi informatici di molte banche, società e ministeri». L’esperto informatico sembra nutrire «la preoccupazione concreta che un giorno una megabanca non sia più in grado di accedere ai suoi dati». Cosa accadrebbe allora?
Le banche, grandi o piccole che siano, sono strutturate in compartimenti stagni e sono apertamente scoraggiati i confronti tra vari settori che non siano quelli verticali e istituzionali. Sono il regno e l’emblema della precarietà. Puoi ritrovarti senza lavoro e alla porta nel tempo di un trillo di cellulare. Sono vietati i contatti non autorizzati con la stampa, che nel caso si verifichino vengono puniti con provvedimenti disciplinari. Tutti parlano di un sistema basato sulla meritocrazia ma in realtà vogliono intendere la capacità di far fare soldi e di farli a loro volta. E chi è esterno a questo meccanismo perverso non può fare a meno di chiedersi se davvero conta solo questo e perché.
Non è solo una questione di soldi. È lo status che risucchia inesorabilmente molti nel «tunnel della dipendenza da lavoro», nel mondo dorato dei bonus milionari, dei viaggi in prima classe e delle vacanze in resort di lusso in località esotiche… un «sistema chiuso che ti allontana ancora di più dalla realtà» e per il quale «vendi l’anima al diavolo. Io l’ho venduta per le ricchezze terrene. In cambio il diavolo ha voluto il mio fallimento morale». Tanti banker nel momento in cui realizzano cosa stanno facendo hanno dei crolli emotivi che cercano di riempire con fiumi di alcol. Ragazzi per la gran parte sotto i trent’anni che non possono parlare tra di loro se non di lavoro, la concorrenza è troppa e la debolezza non è ben vista in quell’ambiente. Non possono parlare con famigliari amici affetti perché chi è estraneo a quel mondo stenta a comprendere e a condividerne le dinamiche. Si ritrovano a vivere le loro interminabili giornate di lavoro in un sistema chiuso dove «l’etica è questa: o sei con noi o contro di noi». Un ambiente “amorale” nel quale lo scopo diffuso è “ingannare” i clienti senza infrangere alcuna legge o norma.
Status privilegi contatti sembra non abbiano risparmiato anche molta della classe e dei partiti politici tra le cui fila «ci devono essere un sacco di personaggi della stessa genia dei “padroni dell’universo” (gli amministratori delegati delle banche, ndr), per i quali la politica è comunque solo un gioco». Gli esempi addotti da Luyendijk sono davvero numerosi, purtroppo.
«L’ex premier labourista Tony Blair guadagna come minimo due milioni e mezzo di sterline l’anno come consulente della Jp Morgan.»
«In America, Francia e Regno Unito le leggi consentono alle banche e ai banker di comprare il potere politico – con l’ennesimo inghippo verbale le chiamano “donazioni per la campagna elettorale”, invece che “corruzione”.»
«Dopo l’incarico, rispettivamente di ministro delle Finanze e di ministro degli Esteri, Timothy Geithner e Hillary Clinton hanno tenuto un certo numero di conferenze per Goldman Sachs dietro un compenso di 200 000 dollari. A discorso.»
Joris Luyendijk esterna l’amara considerazione che lo induce al sospetto che «la democrazia non sia altro che il sistema con cui l’elettorato sceglie quale politico realizzerà i diktat dei mercati», e se si considera che uno dei motti più diffusi tra i banker è “it’s only Opm (Other People’s Money)” – “è solo denaro altrui” non si può non convenire con l’autore quando, giustamente, si indigna e ammette di aver paura perché «le istituzioni finanziarie sono in grado di mettere Paesi e blocchi di Paesi gli uni contro gli altri e lo fanno spudoratamente» operando con “la cabina di pilotaggio vuota”.
La finanza opera a livello globale mentre la politica governativa ha valore a livello nazionale. «Chi governa allora le istituzioni finanziarie che operano a livello globale con dimensioni e poteri giganteschi rispetto alle amministrazioni nazionali? Nessuno può farlo». Ecco le cabine di pilotaggio vuote che hanno permesso, tra l’altro, ai «governi italiano e greco, al fondo sanitario sovrano libico, allo stato dell’Alabama e infinite altre istituzioni e fondazioni» di trovare, negli anni scorsi, «cibo per cani nelle scatole di tonno prodotte dalla Goldman Sachs».
L’autore si dichiara basito per il fatto che il sistema, nonostante la crisi del 2008, ne sia uscito ben poco sconvolto. E non si può neanche continuare nell’illusione del controllo delle agenzie di rating che «sono pagate dalle stesse banche di cui dovrebbero valutare in modo indipendente i prodotti finanziari complessi». Per rendere ancora più chiara l’idea, Luyendijk invita il lettore a immaginare che «gli ispettori della guida Michelin siano pagati dallo chef di cui sono andati ad assaggiare i piatti. Quante stelle prenderà il ristorante?»
I Cdo (prestiti obbligazionari collateralizzati), gli strumenti di debito che hanno fatto esplodere la crisi del 2008 avevano ottenuto la Tripla A di Moody’s, ovvero il punteggio di “estrema qualità” attribuito ai titoli che dovrebbero essere “solo minimamente sensibili alle circostanze avverse”.
Joris Luyendijk ci tiene a sottolineare come, dal suo punto di vista, lo scopo del giornalismo debba essere quello di diffondere le informazioni relative agli argomenti di pubblico interesse su cui il giornalista si è documentato, e di farlo nella maniera più comprensibile possibile. Purtroppo lavori di ricerca come il suo nell’ambito del giornalismo contemporaneo internazionale se ne trovano ben pochi. In genere viene spacciato per giornalismo la riscrittura di comunicati o le notazioni a margine delle conferenze stampa. Quelle che Luyendijk considera delle “messe in scena” dove viene detto ciò che si desidera venga diffuso a mezzo stampa. L’informazione è un’altra cosa.
Il libro Nuotare con gli squali. Il mio viaggio nel mondo dei banchieri unitamente al blog da cui è stato generato sono un ottimo modo per informare i lettori su molti aspetti della finanza e della politica internazionali.