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Irma Loredana Galgano

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Pietro Roberto Goisis, Noi imperfetti. Quando pensiamo di non farcela

03 martedì Set 2024

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EnricoDamianiEditore, NoiImperfetti, PietroRobertoGoisis, recensione, saggio

Tutto inizia nel momento esatto in cui veniamo al mondo. È come un big bang nel quale ci rendiamo conto che da soli non ce la faremo, che siamo in uno stato di bisogno assoluto. Scopriamo la dipendenza da nostra madre; poi da chiunque si prenda cura di noi.

Il modo in cui rispondiamo a questa esperienza originaria di attaccamento influenza relazioni e comportamenti. Qui spesso inizia la sfida tra la perfezione (ambita e impossibile) e tutte le umane fragilità. Pietro Roberto Goisis analizza le imperfezioni e le crepe nel fisiologico funzionamento della mente cercando di dare loro un senso. 

Di certo, per la crescita e lo sviluppo individuale e gruppale sono necessari errori e rotture, oltre che una spinta inesauribile verso il nuovo e il cambiamento.

L’imperfezione in natura nasce proprio dall’esigenza di trovare compromessi tra interessi diversi, tra spinte selettive antagoniste. E ancora, la selezione naturale non è un agente che perfeziona e ottimizza gli organismi in ogni loro parte. Non può farlo, perché lavora in circostanze contingenti, quindi è sempre relativa a un contesto cangiante, e soprattutto è condizionata dai vincoli storici, fisici, strutturali e di sviluppo.1 La consapevolezza delle nostre imperfezioni, ancor più la loro accettazione, si intreccia in maniera articolata con il tema della autenticità, che vuol dire essere davvero quelli che si è, e si realizza svelandosi. Goisis ricorda l’esistenza di un termine specifico per definire il sentimento di inadeguatezza che si associa frequentemente alla percezione delle nostre imperfezioni: atelofobia. Ovvero la paura di non essere perfetti o di non essere mai abbastanza. 

Quasi tutti ne soffriamo in maniera più o meno intensa e diversa a seconda dei periodi della vita. È frequente in adolescenza, nelle fasi di cambiamento, nel momento in cui subiamo perdite o delusioni. Quando prende una forma continuativa, associata a sintomi veri e propri (ansia, somatizzazioni varie, depressione, ideazione con inquietudine e così via) può interferire in maniera significativa con la qualità della nostra vita. 

Il bisogno è la tensione generata dalla mancanza di qualcosa di necessario per soddisfare esigenze fisiologiche, psicologiche o sociali. Il bisogno è anche in continua evoluzione attraverso le varie fasi del ciclo della vita, principalmente tra spinta allo sviluppo e necessità di stabilizzazione. La risposta positiva al bisogno produce un’esperienza concreta significativa sul piano emotivo e di sostegno e guida strutturale per la persona che la vive. Ecco perché il rapporto tra i nostri bisogni e il loro più o meno felice soddisfacimento diventa così importante nello sviluppo e nelle relazioni durante l’intera esistenza. La sintomatizzazione affettiva ci porta a comprendere e condividere il mondo. Se non è presente o è inefficace durante i primi anni di vita, può creare un senso di isolamento e la convinzione che in generale i nostri bisogni affettivi siano in qualche modo inaccettabili. Quello dei bisogni è un sistema complesso e articolato intorno al quale si organizza, cerca un senso e subisce frustrazioni gran parte della nostra esistenza e delle nostre esperienze relazioni. Sottolinea Goisis come il bisogno originario sia assoluto e attivi il sistema motivazionale dell’attaccamento. Da cui poi nasce il desiderio. Il bisogno non nasce solo come conseguenza di una mancanza ma può uscire dal suo ambito autoreferenziale e diventare uno dei motori relazionali. 

Inoltre l’autore analizza a fondo uno degli equivoci in cui in tanti incorrono, ovvero ritenere i bisogni dei diritti. Quest’ultimi sono gli aspetti basilari che regolano e governano le relazioni tra gli esseri umani. I bisogni nascono invece dalle nostre necessità, legittime quanto si vuole, ma soggettive e individuali. Se una persona confonde i due concetti, può succedere che esprima i propri bisogni come se fossero diritti e si senta vittima di ingiustizia se i primi non vengono soddisfatti. Oppure è possibile che, nella confusione delle lingue e dei concetti, i bisogni primari (fame, sete, sonno, accudimento, cura, salute, sicurezza – anche amore e riconoscimento) diventino in qualche modo i nostri diritti. E fin qui va bene. Il problema nasce quando non si considerano “solo” bisogni quelli secondari e quelli superiori (educazione, relazioni, stima, realizzazione, divertimento, svago, benessere economico), ma diventano a loro volta dei diritti. Avviene così una oscillazione tra bisogni che vengono occultati e negati (espressione della vergogna di aver bisogno) o dall’altro lato esibiti con tono pretenzioso (come se fossero un diritto appunto). Cosa che confonde sia chi li esprime, sia chi li potrebbe soddisfare. 

Goisis ritiene fondamentale accettare la propria vulnerabilità, considerandola condizione necessaria, altrimenti il rischio è cercare altre cose, sostanze, comportamenti, relazioni malate da cui dipendere, per mettere a tacere la nostra sensibilità. 

Il punto, o meglio il problema è che viviamo immersi in una cultura e una struttura sociale nella quale non è accettabile essere ordinari, normali. Bisogna essere speciali, perfetti, giusti. A risentirne sono maggiormente i giovani della cui condizione, secondo l’autore, non si parla mai abbastanza. 

Oggi, un ampio segmento dei giovani tra i diciotto e i trentaquattro anni si trova in condizioni di deprivazione, intesa come il mancato raggiungimento di una pluralità di fattori, individuali e di contesto, che agiscono nella determinazione del benessere. Sottolinea più volte Goisis quanto i millennial, cresciuti in un periodo di rapido cambiamento tecnologico e sociale, sono spesso associati a una crescente sensazione di impotenza e incertezza. Uno dei principali motivi di impotenza è la situazione finanziaria in cui si trovano. Un altro aspetto che contribuisce all’incertezza è proprio il mercato il lavoro. I millennial sono la prima generazione a essere cresciuta con l’ascesa della tecnologia digitale e l’esplosione di internet. Novità che, sebbene abbiano aperto nuove opportunità, hanno avuto un impatto significativo sulla loro vita. Sono anche la prima generazione a essere cresciuta con la consapevolezza diffusa della crisi climatica. Ma per l’autore c’è un altro aspetto che li caratterizza: avere relazioni sentimentali relativamente poco stabili. Le storie affettive sono spesso precarie, poco investite, raramente suggellate da matrimoni e figli. 

Ci sono state epoche e generazioni negli anni e nei secoli che hanno voluto, saputo o dovuto trovare una risposta alle difficoltà che stavano vivendo. È possibile quindi, per Goisis, che la condizione di impotenza e di incertezza che questa generazione sta vivendo possa prefigurare un nuovo cambiamento culturale ed epocale. Certamente, rispetto al passato, si sta declinando molto più sul piano individuale che su quello collettivo, ma sembra comunque essere in atto. 

Il ’68 sancisce l’ingresso sulla scena pubblica di una nuova identità collettiva: le/i giovani. È una questione, quella della gioventù, marcatamente simbolica, più che materiale. Certo, la rivolta segue una linea di frattura generazionale, ma non mancano le figure adulte nel ’68 e il dato poi non vale per il movimento operaio. È soprattutto sui repertori simbolico-estetici che si gioca l’associazione ’68/gioventù. La teatralità della protesta, l’irrisione, l’irriverenza, quel po’ di narcisismo indispensabile per volere tutto e subito, l’urgenza di essere sempre e comunque dentro le cose, le giornate senza sonno e le vite nomadi: è il puer aeternus, il fanciullo mitico-magico che abita i singoli movimenti e che si è conservato un angoletto nella testa di molti ex. Forse nessuna epoca è stata più propizia al puer. Nella cultura del XX secolo la giovinezza è un valore che si ama, si odia, si invidia, si imita, si vende sul mercato degli oggetti e delle idee. L’età simbolica del ’68 è senza dubbio quella viscerale, idealista, traboccante di eros e thanatos dell’adolescenza. È una condizione giovanile che trascende ogni età anagrafica e che risiede in una viscerale domanda di senso e di un’altra vita, individuale e collettiva, così come nel terrore di ogni finitudine.2

È l’Italia dell’americanizzazione di costumi e consumi, della pubblicità, del cinema e della televisione, ma anche delle “mani sulla città” delle speculazioni urbane e suburbane. Tra le/i giovani, oggetto del crescente interesse del mercato, serpeggiano malessere e insoddisfazione, una implicita critica ai sogni di vita piccolo-borghese e consumista. Un malessere che non si traduce però in azione politica organizzata, ma più spesso in forme di ribellione erratiche verso la società dei padri e le sue regole. La rivolta dello stato delle cose inizia dentro le case, e con il nodo politico della famiglia faranno i conti, seppur diversamente, tanto il ’68 quanto il femminismo. Un rito di passaggio quasi archetipo nelle biografie giovanili del periodo è la fuga da casa, atto di ribellione e strappo per eccellenza specie per chi, dal profondo di una provincia apparentemente immobile, riesce a presentire il palpitare delle trasformazioni e desidera esserne parte. L’enfasi sul gesto teatrale, sulla protesta come rottura simbolica, sulla politica come vita e comportamento, centrale per gli sviluppi del ’68 deve molto agli stimoli portati da nuovi media, cultura e subcultura nei due decenni precedenti. Una funzione primaria della “società dello spettacolo” che il situazionismo, con la nota capacità di guardare lontano, individua come dimensione non solo dello spirito di rivolta, ma anche della sua sussunzione nel sistema capitalistico. Questa graduale incorporazione prende dal ’68 i processi di soggettivazione e di espressione di sé e li trasforma in dispositivi di disciplinamento, annullandone la spinta critica ed eversiva. Si pensi, a titoli d’esempio di più ampi processi, al narcisismo solipsistico alimentato dai social media, iperfetazione impolitica dell’espressione di sé. O, ancora, all’enorme sviluppo del settore pubblicitario (in cui tanti ex sessantottini si impiegheranno), che oggi varca una nuova frontiera, in cui la distanza fra prodotto e persona che lo pubblicizza si annulla nell’ambigua e affascinante figura dell’influencer.3

La teoria della rivoluzione silenziosa di Inglehart individua una stretta correlazione tra benessere economico, consolidamento della democrazia e mutamento valoriale. Alti livelli di sicurezza economica, fisica ed esistenziale sono positivamente legati a un mutamento culturale che porta dai valori materialisti – che enfatizzano sicurezza fisica ed economica e la conformità alle norme del gruppo – ai valori postmaterialisti. Questi enfatizzano la libertà individuale di scegliere i propri modi di vita, la libertà di espressione, l’uguaglianza e la partecipazione ai processi decisionali nella vita economica e politica. La teoria inglehartiana sul mutamento dei valori si fonda su due ipotesi chiare: scarsità e socializzazione. La prima ci dice che gli individui tendono a dare più valore ai bisogni ritenuti più rilevanti, una volta garantiti la loro utilità marginale è decrescente e si presta più valore agli altri. La seconda afferma che la struttura valoriale degli individui si forma nelle prime fasi di socializzazione (adolescenza e giovinezza), dopo di che sono difficilmente modificabili. 

Per cui la generazione dei padri, socializzata in un periodo di profonda insicurezza esistenziale, aveva posto al vertice del proprio sistema valoriale valori prettamente materialistici, al cui centro c’erano le cosiddette “tre emme”: mestiere, marito/moglie, macchina. I loro figli, i sessantottini, hanno vissuto una dinamica di mobilità ascendente, sul piano economico, sociale e culturale. In questo contesto maturano una insoddisfazione nei confronti di un modello sociale che garantisce sicurezza, ma che è ancora profondamente intriso di autoritarismo e paternalismo, che si appoggia su istituzioni gerarchiche, burocratiche e verticistiche, che limitano l’autonomia e le libertà individuali.4

Per decenni, seppur con l’alternarsi di crisi e momenti di incertezza, è stata predominante la convinzione che i figli avrebbero goduto di livelli di benessere almeno pari a quelli dei genitori. Il venir meno di questa certezza sta contribuendo a modificare gli orientamenti valoriali. Il diffuso senso di insicurezza esistenziale conduce a un “riflesso autoritario” che porta a ridurre l’enfasi sui valori postmaterialisti e riportare al centro i valori materialisti. La crisi economica e sociale alimenta il supporto per i leader forti, molta solidarietà interna al gruppo, un rigido conformismo alle norme del gruppo stesso e un rifiuto degli estranei o stranieri. 

Ciò significa che se per la generazione del Sessantotto non una condizione di insicurezza e di deprivazione, ma proprio il suo superamento ha gettato le basi della contestazione, le generazioni che si sono succedute a partire dagli anni Ottanta non hanno instaurato particolari rapporti di conflitto con le generazioni precedenti che condividevano con loro, nei tratti essenziali, una costellazione valoriale postmaterialista. Tradottasi in rapporti orizzontali in ambito familiare, in una propensione al dialogo e al confronto, in rapporti fondati sul riconoscimento e la reciprocità, più che su ruoli e strutture verticali di comando. La percezione di un peggioramento radicale nelle prospettive di vita si è riflessa in un prepotente ritorno dei valori materialisti, che ha trovato espressione nell’ascesa del populismo.5

Rispetto al passato, quindi, i giovani affrontano numerose difficoltà per rendersi economicamente indipendenti, raggiungere la piena maturità sociale e condizioni di vita soddisfacenti. Ma cosa vogliono i loro genitori? Si chiede Pietro Roberto Goisis.

HPI – Haut Potentiel Intellectuel (Alto potenziale intellettivo) è un fenomeno analizzato in Francia e descrivibile come la tendenza a considerare i propri figli come tali al primo buon voto e la smania di poterli classificare con quell’acronimo che conta ormai come un diploma. 

Il meglio, si pensa, è destinato ai più dotati, ai più intelligenti, ai migliori. E se i figli non lo sono? Si chiede ancora Goisis. 

Ecco l’inghippo: HPI non solo narcisismo, ma strumento di una competizione sempre più dura e precoce. Infatti le persone con un QI oltre 130 sono il 2.3% del totale, quindi pochissimi. 

Quello degli “iperdotati” è un tema estremamente delicato e problematico. Anche in Italia è stato piuttosto di moda alla fine del Novecento. Ora sta tornando di attualità, un po’ per necessità narcisistiche, un po’ per le difficoltà a riconoscere le fatiche degli adolescenti post Covid. Con la nefasta conseguenza di non riuscire a capire le reali problematiche di un ragazzo o ragazza e la necessità di aiuti specialistici e necessari.

Si chiede l’autore se, in questo continuo guardare fuori alla ricerca del meglio, non vadano perduti elementi ben più importanti: la relazione affettiva e la capacità di riconoscere davvero chi è la persona che si ha di fronte. 

Relazionarsi in maniera corretta in famiglia è certamente un modo per imparare a farlo anche fuori da essa. Pensiero diffuso è che, per impararlo a fare bene, bisogna innanzitutto riuscire a stare bene con se stessi, ritagliandosi magari degli spazi in solitudine. Ma Goisis ricorda che vi è una sostanziale differenza che separa i “momenti di solitudine” trascorsi con sé stessi e la vera solitudine.

Ci sono infinite situazioni a causa delle quali si vive e si sperimenta la solitudine. Secondo un’indagine condotta da Ipsos in ventinove Paesi, il 39% degli adulti prova sentimenti di solitudine e l’Italia è al quinto posto con un dato del 41%. Questi numeri sono sicuramente peggiorati dopo la pandemia, ma già nel 2015 uno studio condotto da Eurostat evidenziava che un italiano su otto si sentiva solo. Percentuali che salgono vertiginosamente con l’abbassarsi dell’età degli intervistati. Il 93% del campione compreso tra i tredici e i ventitré anni ha dichiarato di sentirsi solo, il 48% di aver sperimentato la solitudine molto spesso. 

La solitudine è una condizione psichica e sociale. Non è una malattia in senso letterale, ma può generare malessere. Non è soltanto la questione di essere fisicamente da soli, piuttosto un senso di mancanza di connessione emotiva o sociale con gli altri. Può essere sperimentata sia in situazioni di isolamento fisico sia in contesti sociali affollati. 

Ungaretti definitiva “solitudine senza scampo” lo stato emotivo di Leopardi6 che egli stesso aveva indicato come una condizione esistenziale con effetti particolarmente nefasti sulla sua salute mentale e fisica, che favorisce l’isolamento e l’incessante attività cerebrale, snervante e debilitante.7 La solitudine di Giacomo Leopardi è un’esperienza personale e intensa di isolamento e di estraniazione vissuti in modo drammatico come progressiva separazione dal mondo e dal contesto sociale e come un lento e ineluttabile sprofondamento nelle sabbie mobili dell’esclusione, nel deserto delle emozioni e nella malinconia più nera e rovinosa. Nell’isolamento si diventa estranei agli altri ma anche a sé stessi.8

Norbert Elias riflette su come le emozioni e le loro manifestazioni siano strettamente correlate agli ambiti sociali in cui nascono. In tale senso società diverse generano culture emozionali differenti e ogni società è animata dalle sue regole emozionali. Nella società contemporanea, la cultura emozionale di riferimento è quella dei media digitali che rappresentano delle vere e proprie dimensioni sociali in cui è possibile conoscere qualcuno, divulgare notizie o informazioni, commentare in totale libertà, condividere, vivere emozioni e sentimenti. Negli spazi sociali contemporanei sono cambiati i sistemi di comunicazione perché la persona non è più destinataria del messaggio ma è anche divulgatrice del proprio pensiero. La cultura emozionale nella quale giovani e adulti vivono, dunque, complica l’approccio emotivo che guida le pratiche quotidiane, anche perché la conoscenza che si acquisisce in Rete è una sorta di continua frammentazione del sapere legittimata da un insieme di opinioni emotive che finiscono con il disorientare la persona. L’avvento della cultura digitale ha modificato in termini di spazio, tempo e memoria il bagaglio formativo dei giovani e degli adulti, che si trovano così a vivere e a consumare esperienze di vita in un ambiente emotivo che sembra aver logorato il concetto di verità. L’individuo contemporaneo è come se fosse incapace di affrontare il proprio mondo emozionale e quello dell’altro, un mondo non più guidato dalla relazione interpersonale, ma mediato da dispositivi tecnologici. La persona, in altri termini, è come se fosse inadeguata nel riuscire a nominare le emozioni che prova, trovandosi impreparata a gestire sia ciò che prova sia ciò che l’altro sente. Ne consegue un analfabetismo affettivo che sempre più spesso determina la rottura delle relazioni tanto desiderate quanto consumate e deturpate.

Gli adulti inoltre oggi vivono in uno stato di “adultescenza”nell’ambito del quale rimangono eternamente giovani, continuando a ignorare le responsabilità, prima fra tutte quella di crescere e acquisire una forma che sia unica e irripetibile.9

Secondo Aristotele, la condizione della vita solitaria non è naturale nell’uomo, che è zoon politikon, cioè animale sociale, o per meglio dire socievole, in virtù proprio dell’essenza della sua anima razionale.10 E l’uomo sociale ha delle responsabilità. Responsabilità che derivano anche dalle relazioni interpersonali, utili e necessarie per gli individui. 

Molti adulti, spesso genitori, sono incapaci di assumersi le proprie sacrosante responsabilità di fronte ai figli. Lasciandole a loro. 

Il permanere di atteggiamenti infantili in età adulta sembra essere diventato quasi uno stile di vita associato alla leggerezza, al divertimento e alla rinuncia degli obblighi sociali. Se, come spesso accade, i modelli di riferimento adulti si vestono delle caratteristiche del “bonsai”, cioè di una sorta di genitori in miniatura, diventa difficile, per questi adulti bonsai, indirizzare i giovani nel diventare a loro volta adulti.11

Il rapporto fra adulti e giovani evidenzia oggi una deconflittualizzazione delle relazioni. Il conflitto nel recente passato ha costituito la modalità più frequente con cui le generazioni più giovani si contrapponevano a quelle adulte per affermare la propria indipendenza e la propria identità. Se, fino agli anni Ottanta, i conflitti intergenerazionali di natura culturale caratterizzavano i rapporti genitori-figli e insegnanti-alunni, i decenni successivi hanno evidenziato una progressiva e generale deconflittualizzazione che, tuttavia, non si è accompagnata a una maggiore coesione sociale. Gli adulti di riferimento, tradizionalmente individuabili nelle figure parentali e in quelle dei docenti, sembrano essere venuti a far parte, nella percezione generalizzata dei giovani, di una massa quasi indistinta di soggetti poco significativi e con quasi nessuna capacità di influenzare, di orientare, tanto meno di incidere stabilmente attraverso i meccanismi di socializzazione secondaria sulle loro esistenze.

Un effetto della erosione delle certezze e degli orizzonti di senso collettivi è il diffondersi della violenza reiteratamente agita nei gruppi – reali o virtuali – dei pari. Si evidenzia inoltre una qualche sommaria accettazione acritica della violenza nel suo espressivizzarsi routinario contro coetanei più facilmente stigmatizzabili – stranieri, omosessuali, diversamente abili ecc. – da parte delle giovani generazioni, che sfocia in una banalizzazione delle condotte violente nel mondo quotidiano dei più giovani. La soglia di accettazione della violenza, nel suo plurimo riprodursi (materiale e immateriale, agito o esperito), va però messa in relazione con la scarsa, quando non addirittura inesistente, consapevolezza della natura effettivamente violenta di quell’azione. Ecco allora che in questo Zeitgeist caratterizzato da una generale incertezza sul presente e sul futuro, la violenza di gruppo diviene una modalità sostitutiva del conflitto, proprio perché è il micro-rituale violento a definire ruoli e funzioni altrimenti inaccessibili a un numero sempre più grande di adolescenti.12


Il libro

Pietro Roberto Goisis, Noi imperfetti. Quando pensiamo di non farcela, Enrico Damiani Editore, Brescia, 2024.


1T. Pievani, Imperfezione: una storia naturale, Raffaello Cortina, Milano, 2019.

2E. Bellè, L’altra rivoluzione, Rosenberg&Sellier, Torino, 2021.

3E. Bellè, op.cit.

4L. Raffini, Le nuove generazioni e il Sessantotto. Tra mito e contro-mito, SocietàMutamentoPolitica, gennaio 2018, Vol. 9 (18), Firenze University press, Firenze, 2018.

5L. Raffini, op.cit.

6G. Ungaretti, Viaggi e lezioni, Mondadori, Milano, 2000.

7G. Leopardi, Lettere (a cura di R. Damiani), Mondadori, Milano, 2006.

8R. Arqués, Dialogo di Leopardi e la Solitudine, Quaderns d’Italià 22, Barcellona, 2017

9S. Perfetti, Adulti e giovani allo specchio tra crisi emozionale e cultura digitale. L’educazione affettiva come scommessa formativa, Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education, Vol. 27 n° 63, Bologna, 2023.

10R. Arquès, op.cit.

11S. Perfetti, op.cit.

12I. Batholini, L’opacizzarsi del conflitto tra giovani e adulti e l’affermarsi della violenza tra pari, Studi di Sociologia, Anno 51, Fasc. ¾ (Luglio – Dicembre 2013), V&P – Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 2013.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Enrico Damiani Editore per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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“Rituali si resistenza. Teds, Mods, Skinheads e Rastafariani. Subculture giovanili nella Gran Bretagna del dopoguerra” di Stuart Hall e Tony Jefferson, curatore Luca Benvenga (Novalogos, 2017)

“Crescere uomini. Le parole dei ragazzi su sessualità, pornografia, sessismo” di Monica Lanfranco (Erickson, 2019)


© 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Francesco Erbani, Roma adagio

03 sabato Feb 2024

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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EnricoDamianiEditore, FrancescoErbani, recensione, Romaadagio, saggio

Di cosa parliamo quando parliamo di Roma? È questo l’interrogativo intorno al quale Francesco Erbani ha costruito il libro. 

Roma è grande: 1.287 chilometri quadrati. Una città che sembra una matrioska. La parte all’interno della cinta muraria dell’età imperiale, sopravvissuta o meno che sia, racchiude la Roma antica, quella d’età repubblicana e imperiale, quel poco di Roma medievale e la spettacolare Roma del periodo che va dal Quattrocento all’Ottocento. Appena oltre la cinta muraria c’è la Roma dell’Unità d’Italia. La Roma che diventa capitale e, dunque, la Roma umbertina e poi Liberty. 

Tra il 753 a.C. e il 1950 Roma si estende su circa dodicimila ettari. Poi, in poco più di settant’anni, il territorio costruito arriva a superare i cinquantamila ettari. 

Ecco allora che giunge il consiglio dell’autore per chiunque si accinga a visitare Roma o, pur conoscendola, intenda viverla in maniera diversa: andare adagio. Ciò può significare percepire e assaporare la città nel suo complesso. 

L’idea è quella di suddividere la città in zone simili a dei cerchi concentrici, un po’ come gli anelli che vanno a comporre la città di Mosca in Russia. La prima macrozona è il centro storico, poi la periferia, anch’essa storica, arroccata lungo le vie consolari. La città residenziale è la terza macrozona, abitata da impiegati e professionisti e da molti considerata frutto esemplare della speculazione edilizia. L’ultima è quella che si sviluppa a partire dalla fine degli anni ottanta del Novecento, la cosiddetta città anulare, a ridosso del Gra – Grande raccordo anulare. Quello che avrebbe dovuto rappresentare il limite della città e che invece è diventato «il focolaio di un vasto e incontrollato incendio edilizio».

E poi c’è la parte quasi impercettibile che all’autore sta più cara: la campagna romana. Settantacinquemila ettari non edificati, se non sparutamente. Un patrimonio storico e archeologico forse un po’ bistrattato ma per certo dal valore inestimabile. 

L’intento di Erbani sembra essere quello di raccontare gli angoli più suggestivi di una Roma lontana dai riflettori di turismo e spettacolo, non per questo meno bella, anzi proprio per questo più interessante e scriverlo in un libro che fosse quanto più distante possibile da una guida di viaggio perché egli non parla di itinerari, no lancia solo dei piccoli input, sarà poi il lettore stesso, laddove decida di trasformarsi in viaggiatore, a tracciare i propri, a visitare i luoghi da lui scelti, la Roma da lui selezionata. Lo scopo di Roma adagio sembra essere proprio quello di far luce dove ora è buio, ovvero illuminare l’anima stessa della Capitale, con la sua storia millenaria, i suoi spazi vuoti, o meglio liberi, i suoi angoli dimenticati, i reperti archeologici trascurati, le strette vie trasandate. Tutto quello che insieme ai famosi monumenti, le vie consolari, i palazzi e i musei contribuisce a renderla eterna.

A tratti sembra quasi che l’idea di Erbani sia la medesima e spontanea abbracciata a Napoli dove i vicoli del centro storico insieme ad altri quartieri prima bistrattati e mal visti sono diventati meta di un vero e proprio pellegrinaggio. Nulla è stato fatto per modificarne l’aspetto, sono rimasti pressoché invariati eppure i visitatori hanno imparato a guardarli con occhi diversi. Hanno cercato oltre il primo impatto o l’immagine stereotipata e hanno incontrato la loro essenza, ne hanno riconosciuto la storia e ne hanno fatto l’anima di un turismo completamente nuovo il quale, per induzione, ha portato gli stessi cittadini a viverli in una maniera tutta nuova.

La Roma raccontata da Erbani è quella delle piccole realtà quotidiane, di oggi come di ieri, di scorci di un paesaggio che viene da lontano e guarda al futuro. Ma è anche la città caotica e problematica che tutti conosciamo. Una città difficile, complessa, a tratti disperata, come sospesa tra l’eterno e il viver quotidiano. 

La Roma che Erbani invita a visitare e conoscere è una città a spicchi, ognuno dei quali può condurre dal centro alla periferia e viceversa. E in ogni spicchio si possono ritrovare alcuni o tutti i temi con cui l’autore ha strutturato e suddiviso il libro: l’acqua, il verde, i palazzi, le chiese, le piazze, l’antico, i musei. Percorsi segnati dal tempo ma, a volte, fuori da esso che vivono ed esistono, come il resto della città, ancorati a un’esistenza che sembra priva di regole e disciplina, un passato nella modernità che vuol risucchiare quest’ultima secondo una logica anacronistica che, se da un lato, genera fascino, dall’altro produce scompenso. Caos. 

Ma Erbani cerca di non far perdere il lettore in questi tormenti e insiste sull’adagio come vero e proprio stile di vita. Un esercizio per il corpo e per la mente, un percorso interiore da compiere insieme a quello esteriore, paesaggistico e architettonico, per scoprire la città certo ma anche per ritrovare se stessi, come abitanti o come visitatori.

Il libro

Francesco Erbani, Roma adagio. La città eterna, la città quotidiana, Enrico Damiani Editore, Brescia, 2023

Articolo pubblicato su LuciaLibri.it


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Enrico Damiani Editore per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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La psicoanalisi nel Terzo Millennio: “Freud e il mondo che cambia” di Bolognini e Nicoli

15 giovedì Giu 2023

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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EnricoDamianiEditore, Freudeilmondochecambia, LucaNicoli, recensione, saggio, StefanoBolognini

La psicoanalisi ha compiuto centoventi anni. Per certi versi è molto cambiata, per altri conserva stretti legami con le sue origini. Qual è la sua eredità più preziosa?

Ne parlano, in una sorta di dialogo scritto, Bolognini – tra i più noti psicoanalisti italiani – e Nicoli – notevole analista e divulgatore. 

Filo conduttore del loro dialogo è il rapporto tra la psicoanalisi contemporanea, più attenta di un tempo alla relazione emotiva che si instaura nella coppia analitica, e i disagi di oggi, incentrati sulle fragilità narcisistiche e sulla diffidenza nel rapporto con l’altro. 

Gli autori riflettono sulla genesi della sofferenza mentale, e sui modi in cui la psicoterapia analitica si offre come chiave di lettura e insieme come cura. Allargano lo sguardo anche a temi di triste attualità, come la guerra, i totalitarismi e la sostenibilità ecologica della civiltà umana. 

Centrale nel libro è l’attenzione al nucleo costitutivo dell’esperienza analitica: lo sviluppo, nella relazione terapeutica, di una particolare intimità, funzionale alla cura, tra un essere umano che diventa “paziente”, con la sua sofferenza e la sua richiesta di aiuto, e un altro essere umano, l’analista, dotato di una competenza professionale coniugata alla sua più autentica presenza personale. 

La psicoanalisi ha ancora molto da offrire, nell’interpretazione degli autori, e la sua sfida è quella di intercettare nuovi bisogni e nuove forme di sofferenza, e di proporre modalità di intervento meglio percorribili dalle soggettività contemporanee. 

Freud e il mondo che cambia è strutturato in diversi capitoli, ognuno dei quali focalizza su un tema particolare, introdotto dalla domanda che Nicoli di volta in volta porge a Bolognini. Interrogativi molto argomentati che fungono da input per l’elaborazioni delle idee e delle tesi che poi Bolognini analizza a fondo. Gli argomenti trattati spaziano dal rapporto con la tecnologia ai cambiamenti sul luogo di lavoro, dal rapporto con se stessi alle relazioni con gli altri e l’ambiente. 

La struttura che gli autori hanno scelto di dare al libro tutto sommato funziona, perché la domanda iniziale serve da apripista, da introduzione dell’argomento che verrà trattato in modo molto articolato. La presenza di numerosi termini tecnici potrebbe risultare un po’ ostico per un lettore non esperto in materia, il glossario messo alla fine del libro però aiuta a meglio comprendere anche quelle espressioni che altrimenti sarebbero risultate poco comprensibili. 

Leggendo il libro di Bolognini e Nicoli si comprende appieno l’importanza della psicoanalisi, oggi come ieri, nonché l’ampio raggio di azione e interessi che ad essa afferiscono. Ma ciò che meglio si comprende è la relazione tra il paziente e il suo analista il quale, durante tutto il percorso della terapia rimane, sempre e comunque, un essere umano, una persona, con le sue emozioni, i sentimenti, le idee, i tormenti e le paure. Ed è proprio l’intreccio con quelli del pazienti che rappresenta una finestra d’indagine che intriga moltissimo il lettore e lo invoglia ad approfondire la conoscenza in merito.

Un libro, quindi, davvero utile e interessante. 


Il libro

Stefano Bolognini e Luca Nicoli, Freud e il mondo che cambia. Psicoanalisi del presente e dei suoi guai, Enrico Damiani Editore, Brescia, 2022.

Prefazione di Stefano Tugnoli.

Gli autori

Stefano Bolognini: membro ordinario con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana. È stato presidente della Società Psicoanalitica Italiana e della International Psychoanalytical Association. Autore di numerose pubblicazioni.

Luca Nicoli: membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana. Autore di saggi e romanzi. 


Articolo pubblicato su OublietteMagazine


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Enrico Damiani Editore per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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© 2023, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Sars-Cov-2: la mutazione genetica della vita

13 giovedì Ott 2022

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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AngeloAntonioMoroni, EnricoDamianiEditore, Lock-mind, PietroRobertoGoisis, recensione, romanzo

Ci sono eventi o accadimenti che d’istinto si è portati a indicare come spartiacque o pietre miliari nella lunga storia dell’umanità. In epoca recente non si può non indicare il 31 dicembre 2019, ovvero il giorno della prima segnalazione attribuibile al nuovo virus Sars.

Di questi eventi, come ovvio pensare, esiste un prima e un dopo. Ma va ricordato e pensato anche tutto ciò che vi è dentro, all’interno e che si trascina per molto tempo. L’anima devastata di coloro che questi eventi li hanno visti, vissuti, subiti.

Gli esempi da addurre ovviamente potrebbero essere tantissimi, la particolarità di questa pandemia sono le sue immediate ricadute a livello planetario.

Il libro di Goisis e Moroni è interamente centrato sull’evento pandemico legato al Sars-Cov-19, ma raccontato dal suo interno, dal punto di vista di uno, o meglio di due piccoli tasselli che vanno a comporre l’enorme mosaico.

Al 10 ottobre 2022 i casi accertati totali nel mondo di contagio da Sars-Cov-19 sono 621.547.372. I decessi sono 6.557.778. 

In Italia i casi totali accertati sono 22.815.736, i decessi 177.519.1

I numeri totali sono per certo impattanti, ma mai bisogna dimenticare che questi sono il risultato della somma di singoli numeri, presi uno alla volta.

Ed è esattamente di ciò che raccontano Goisis e Moroni, in maniera estremamente personale.

Il libro Lock-mind si compone di due parti distinte, i due diari appunto che afferiscono ai rispettivi autori. Il primo, di Angelo Antonio Moroni, è strutturato proprio come il più classico dei diari, con data iniziale e numerazione progressiva. È la narrazione di quanto accaduto nella vita e nella mente dell’autore, dei suoi famigliari e dei suoi pazienti. È il racconto di quanto accaduto, nonché del percorso fisico e mentale che ha condotto tutti attraverso questa fase epocale, mediante la quale l’umanità intera si è trovata ad affrontare la pandemia, l’isolamento, la paura, la solitudine, la malattia. Costretta ad adattarsi, giorno dopo giorno, a un mondo diverso che, forse, tale resterà.

Sono accadute delle cose, durante il lockdown da pandemia, prima inimmaginabili. Di esempi ce ne sono tanti. Moroni pensa, per esempio, al fatto che le sedute virtuali con i suoi giovani pazienti gli hanno consentito di entrare, sempre attraverso lo strumento tecnologico, nel loro mondo, la loro stanza, la cameretta. Accadimenti mai verificatisi prima di allora. Come se l’isolamento da lockdown avesse dato l’opportunità allo psicoterapeuta, tramite l’occhio digitale, di guardare il paziente nel suo ambiente mentre fino ad allora la terapia si svolgeva sempre e solo nello studio medico. Sono situazioni solo in apparenza insignificanti.

La seconda parte del libro invece è il diario di Roberto Goisis, uno scritto che per molti versi chiarisce anche il senso di una sua precedente pubblicazione. Goisis si è ammalato e ha vissuto la Covid da paziente, incredulo della situazione.

In effetti è questo un sentire comune. La Covid ha dei sintomi influenzali, è un virus, eppure ha scatenato una pandemia globale. Non è certo l’unica malattia esistente né la più pericolosa o grave ma è insidiosa, molto. Ha aggredito e si è estesa in una maniera talmente inaspettata da trovare tutti, o quasi, impreparati, increduli, dubbiosi, scettici. In tanti poi sono stati costretti a ricredersi. 

I due diari sono molto diversi tra loro, per forma e contenuti, ma hanno in comune la narrazione di un accadimento che ha cambiato tutti, entrando nelle nostre vite per tramite di un virus il quale, seppur invisibile ad occhio nudo, ha permesso a tanti di vedere un mondo totalmente differente. 

Lock-mind non è un libro sulla pandemia da Sars-Cov-19, è un libro sugli effetti della pandemia sulle persone, su come un virus possa cambiare la vita, il corpo, la mente e il modo di guardare oltre. 

Il Sars-Cov-19 sembra caratterizzarsi per la sua estrema capacità di mutare. E la mutazione, il cambiamento sembra essere anche la caratteristica di questa come di ogni altra epoca, maggiormente laddove un evento straordinario ha mutato drasticamente il suo essere nel profondo. Una vera e propria mutazione genetica della vita.


Il libro

Pietro Roberto Goisis, Angelo Antonio Moroni, Lock-mind. Due diari della pandemia, Enrico Damiani Editore, Brescia, 2022.

Gli autori

Pietro Roberto Goisis: medico, psichiatra, psicoanalista, membro ordinario SPI e IPA, svolge attività clinica e formativa in Enti pubblici e privati.

Angelo Antonio Moroni: psicologo, psicoterapeuta, psicoanalista, membro ordinario SPI e IPA, è socio fondatore del Centro Psicoanalitico di Pavia (SPI), e collabora come supervisore di Comunità psichiatriche italiane e Servizi Neuropsichiatrici del Canton Ticino. 


1Johns Hopkins University&Medicine, https://coronavirus.jhu.edu/map.html


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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“Nella stanza dei sogni. Un analista e i suoi pazienti” di Pietro Roberto Goisis

Recensione a “Blu Stanzessere” di Roberta Zanzonico (Ensemble, 2019)


© 2022, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Nella stanza dei sogni. Un analista e i suoi pazienti” di Pietro Roberto Goisis

06 mercoledì Ott 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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EnricoDamianiEditore, Nellastanzadeisogni, PietroRobertoGoisis, recensione, saggio

L’autore racconta aneddoti, descrive situazioni, analizza accadimenti, sviscerandone i contenuti più profondi, intimi e simbolici. Percorre e ripercorre, insieme al lettore, un lungo percorso che lo ha visto prima figlio e poi padre, studente, tirocinante e terapeuta, medico e paziente egli stesso. 

Racconta molto di se stesso, del suo percorso professionale ma anche della sua vita privata. Come se il libro, in realtà, avesse o dovesse avere, per lui, un effetto “terapeutico”, catartico. 

Tutto sembra avere origine dal luogo in cui si svolgono i colloqui clinici tra lo psicoanalista e il paziente: la stanza. Per Goisis, se non ci fosse non esisterebbe alcun terapeuta e nessun paziente. Al punto che egli ritiene possa essere addirittura magica, «che riesca a tirare fuori il meglio di me, qualcosa che neppure so di possedere, che altrove non saprei trovare, che mi sorprende» (pag. 9). 

La stanza è il luogo fisico e simbolico dove le persone diventano pazienti e chi le ascolta diventa il loro psicoanalista, il medico che deve ascoltare e guarire le fragilità, le paure, i traumi, le incertezze e le insicurezze. E deve farlo secondo una metodologia che, fino a pochi anni fa, era molto rigida, con severe regole di condotta dentro la stanza, dove aveva luogo la terapia, e fuori da essa, dove andava mantenuto il massimo riserbo.

Sono stati gli insegnamenti di Tommaso Senise a far maturare la consapevolezza in Goisis che «nella terapia si può fare tutto, purché si sappia perché lo si fa» (pag. 27). La stanza di Goisis è pet friendly. Gli animali rappresentano anche aspetti interni delle persone che li portano. Risultano quindi funzionali alla terapia. 

È alquanto singolare che nelle scienze che si occupano del comportamento umano si ha la tendenza a isolare l’individuo considerandolo separatamente dalle variabili esterne. Cosa che non accade, per esempio, in etologia, dove lo studio delle relazioni tra animale e ambiente vengono da tempo prese in esame come fattori determinanti. Negli studi sul comportamento patologico, le conseguenze di questo atteggiamento portano a occuparsi principalmente della mente umana come se fosse un’entità indipendente.1 E, nella psicoanalisi, questa entità indipendente viene indagata all’interno della stanza, che diviene la bolla dentro la quale si sviluppa per intero la terapia.

Goisis ha mostrato sempre molta cura e attenzione nel comporre l’universo-stanza dentro cui accoglie i suoi pazienti. Considerando la presenza, in un angolo, di una pianta verde il suo legame con la natura dentro la stanza. Sono stati gli insegnamenti di Nina Coltart a far volgere lo sguardo dei terapisti oltre il perimetro delle mura, allungandolo fino alla natura. Sosteneva ella, infatti, che ogni terapeuta dovrebbe possedere e coltivare un giardino. 

Il lavoro svolto dentro la stanza può essere pensato come il lavoro della capacità di amare, volto a far sentire il paziente importante, compreso e accolto. Un amore che è trascendentale, l’unico contenitore affidabile entro cui potremmo sentire odio, rabbia, disprezzo per periodi di tempo variabili.2

Grande cura bisogna riporre in ogni dettaglio della stanza, perché i dettagli sono il modo di accogliere il paziente ed è proprio dal setting che inizia la cura stessa. Dalla stanza. All’interno della quale il tempo acquista una dimensione nuova, propria. «A volte sembra rallentare o dilatarsi come se assecondasse silenziosamente lo stato d’animo dei miei pazienti, il fluire ora torrenziale ora reticente delle loro parole. È una sensazione piacevole, anche se a volte gestire lo scorrere dei minuti, riportarli all’ordine e chiudere una seduta non è semplice. Del resto, il mio compito è anche questo: tenere la rotta, guidare il flusso dei pensieri, dosare le paure, tenendo però la mano leggera» (pp. 29-30).

Il concetto di tempo è strettamente connesso con la psicoanalisi. Il rapporto tra uomo e tempo è sempre stato difficile e problematico. Sul fronte della clinica, l’analista che segue il metodo indicato da Wilfred R. Bion «senza desiderio e senza memoria» configura il setting come un’isola del tempo. Ma anche il soggetto, all’inizio del trattamento, dovrà rinunciare al controllo del tempo, sia del passato che del futuro. Si può considerare il tempo come una tela su cui ricamiamo le nostre esperienze di vita. Una tela che ci avvolge e ci copre, ma che a volte ci soffoca anche.3

Goisis si dichiara controllore del tempo della seduta di psicoanalisi che si svolge nella sua stanza, ma egli, in realtà, è anche il decisore del tempo verso cui la terapia tende e tenderà.

Fino a non molto tempo fa, lo sguardo del terapeuta era diretto sostanzialmente verso il passato, come causa e antecedente del presente. Di recente, invece, lo sguardo del paziente e dell’analista è rivolto al futuro e le aspettative sono viste come un fattore significativo rispetto a ciò che sta accadendo. Non è l’après-coup o il Nachträglichkeit ciò che improvvisamente conferisce un nuovo significato al passato rendendolo traumatico, ma è quello che non è ancora accaduto, ma è desiderato o temuto, a determinare in parte ciò che sperimentiamo nell’oggi.4

Il passato, il presente, il futuro, le aspettative, le emozioni, le paure, le fobie, i traumi, le speranze: chi si affida al lavoro di uno psicoanalista mette tutto questo e anche oltre sul tavolo, ma, spesso, a farlo è anche lo stesso medico. «Lo psicoanalista non è un muro, non è neppure un orecchio neutro. È una persona che vive di incontri, che deve curare altre persone, ma anche curare se stesso» (pag. 31). 

La regola tradizionale richiede al terapeuta neutralità, astinenza e anonimato. Ma il fenomeno dell’autorivelazione (self-disclosure), ovvero uno svelamento cosciente e voluto, da parte dell’analista, di qualche aspetto di sé al paziente, è entrato sempre più a far parte del linguaggio psicoanalitico. Lo schieramento di studiosi favorevoli o contrari alla self-disclosure è nettamente contrapposto. I primi ne vedono le potenzialità proprio nell’abbandono di un eccesso di neutralità che può addirittura inibire il processo terapeutico e bloccare le libere associazioni del paziente. Per i secondi, invece, l’autorivelazione potrebbe rappresentare una difficoltà controtransferale dell’analista arrivando addirittura, in casi estremi, ad essere espressione di una sua necessità narcisistica di rivelarsi. 

Il transfert riguarda quei sentimenti o pulsioni, positive o negative, che il paziente sviluppa nei confronti del suo analista durante un percorso di psicoanalisi. Inconsciamente, il paziente trasferisce i sentimenti che ha provato o prova per un’altra persona verso il suo analista. Oltre a dover gestire i transfert del paziente, è compito dell’analista anche il non lasciarsi andare al controtransfert. In questo caso è l’analista a proiettare le proprie esperienze sul paziente. 

L’autorivelazione dell’analista può avvenire in vari modi: 

  • Risposte a domande dirette.
  • Comunicazioni spontanee del vissuto controtransferale.
  • Ammissione di propri errori.
  • Narrazione di esperienze personali.

È per certo auspicabile che l’autorivelazione dell’analista sia, in ogni caso, sempre funzionale al paziente e alla terapia. In base anche al principio di Senise, ripreso dallo stesso Goisis, secondo cui l’analista deve ritenersi libero di agire purché sappia sempre ciò che sta facendo. 

Ciò che non andrebbe mai dimenticato è che, alla fin fine, gli psicoanalisti non sono altro che esseri umani, semplicemente. Non custodiscono verità assolute e combattono loro stessi, quotidianamente, con una moltitudine di emozioni al pari dei loro pazienti. Può essere necessario, anche per imparare a essere dei bravi analisti, sottoporsi in prima persona a un percorso di terapia.

Ed è qui che entra in gioco un altro aspetto fondamentale: qual è lo scopo ultimo di una terapia psicoanalitica?

Per Goisis il mero ascolto non può essere indicato come scopo ultimo di una terapia. I pazienti, dal canto loro, si aspettano una soluzione tangibile e concreta ai loro problemi. Lo scopo ultimo di una psicoterapia sembra essere il cambiamento che porta, per il paziente, una maggiore consapevolezza di sé, del proprio essere e dei propri bisogni, nonché del modo di guardare gli altri e il mondo. Lo si potrebbe anche interpretare come una sorta di liberazione da un’oppressione latente o evidente. Un’angoscia che limita e devia il comportamento ordinario e quotidiano.

Il finale del libro spiazza un po’ il lettore. Per la fermezza e l’espressività anche troppo colorita. Discordante per certo dallo stile utilizzato fino a quel punto dall’autore. È un finale anomalo, inaspettato, ma certo non privo di significati e significanti. Rappresenta, in un certo qual modo, la conferma della funzione catartica assunta dalla scrittura, dal libro stesso, per Goisis. Quasi una sorta di psicopterapia della narrazione. Di cui il finale ne rappresenta e al contempo ne descrive e racchiude lo scopo. Il cambiamento, la liberazione dello stesso autore ,per tramite della sua esternazione, dalla sofferenza e dal dolore causati dalla perdita e dalla mancanza di un affetto cui non era pronto a rinunciare. Ecco quindi perché il libro appare, a tutti gli effetti, un percorso di terapia. Un cambiamento. Una catarsi. 

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Bibliografia di riferimento

Pietro Roberto Goisis, Nella stanza dei sogni. Un analista e i suoi pazienti, Enrico Damiani Editore, Brescia, 2020.

L’autore

Pietro Roberto Goisis: medico, psichiatra, psicoanalista. Docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, oltre che in Scuole di Specializzazione, Enti pubblici e privati. 

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1Franco Baldoni, Bruno Baldaro, Carlo Ravasini, Il colloquio clinico, in Trombini G. (a cura di), Introduzione alla clinica psicologica, Zanichelli, Bologna, pp. 103-126, 1994.

2Nina Coltart, Pensare l’impensabile e altre esplorazioni psicoanalitiche, Cortina Raffaello, Milano, 2017.

3Miguel Angel Gonzales Torres, Tempo e Psicoanalisi. La dimensione temporale e la sua relazione con il processo psicoanalitico, Rivista Psicoanalitica, 2007, Anno XVIII, n 2, pp. 229-245. Traduzione dallo spagnolo di Daniela De Robertis. 

4Miguel Angel Gonzales Torres, ibidem.

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Articolo disponibile anche qui

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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Enrico Damiani Editore per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com

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“Blu Stanzessere” di Roberta Zanzonico (Ensemble, 2019)

Melancholica deliria multiformia: “L’anatomia della malinconia” di Robert Burton (Bompiani, 2020)

Il racconto delle occasioni di vita perdute in “Manuale di fisica e buone maniere” di Daniele Germani (D&M, 2016)

Le regole di condotta: il comportamento in pubblico tra impegno e partecipazione. “Il comportamento in pubblico” di Erving Goffman (Einaudi, 2019)

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© 2021, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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