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Irma Loredana Galgano

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“Sbirri e culicaldi” di Stefano Talone (Ensemble, 2020)

10 mercoledì Feb 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Ensemble, recensione, romanzo, Sbirrieculicaldi, StefanoTalone, thriller

Ambientazione, personaggi, suspence, stile narrativo e, soprattutto, trama sono gli elementi che in un buon libro giallo non devono mancare o altalenare. Nel suo poliziesco d’esordio, Stefano Talone ce l’ha messa tutta affinché il testo presentato ai lettori non mostrasse carenza alcuna. E, in effetti, Sbirri e culicaldi si fa leggere con piacere. Unica pecca è il ritmo iniziale un po’ lento, rispetto anche al resto del libro che, al contrario, mostra una narrazione più serrata, sorretta da un ritmo molto più incalzante, perfetto per libri di questo genere.

Come scrivevo, gli elementi topici ci sono tutti e si presentano bene. L’ambientazione è suggestiva e perfetta per un romanzo che vede scendere in campo polizia, agenti segreti e minacciosi terroristi. Londra, forse anche a seguito della fortunata produzione letteraria di Ian Fleming e sicuramente ancor di più per le versioni cinematografiche con protagonista lo 007 con licenza di uccidere, è diventata, nell’immaginario collettivo, simbolo delle spy stories.

Nel libro di Talone lo spionaggio veste i panni dell’attualità aprendo le indagini alla minaccia incombente di attacchi terroristici che, tristemente, anche di recente hanno campeggiato sui titoli dei giornali europei per settimane. Ed è proprio grazie a questo tema di stretta attualità che l’autore riesce bene a raccontare anche della società che si è costruita tutta intorno a queste minacce e, al contempo, alla medesima società che ha originato i malesseri che questo terrorismo hannogenerato.

Il fenomeno dell’immigrazione, con i problemi a esso connessi e mai risolti. Le mille difficoltà di uno stato sociale assente, latitante o carente. Gli strati di culture e sub-culture che si intrecciano e si incontrano almeno quanto si scontrano e che generano sempre e inevitabilmente dei vuoti e delle lacune difficili da colmare.

Sbirri e culicaldi è anche un viaggio nelle periferie, nei sobborghi multietnici della capitale inglese, una sorta di cammino per incontrare, forse anche per conoscere, i vari e variegati personaggi che sembrano essere tenuti uniti, legati da una solo in apparenza inspiegabile voglia di fede e di martirio. Il racconto che Talone fa della sua Londra contemporanea lascia trasparire le mille difficoltà e i tanti ostacoli che ancora persistono e impediscono una effettiva e totale integrazione, anche dei cosiddetti immigrati di seconda o, addirittura, terza generazione. Le mille sfaccettature, per nulla rosee, di una società che si sponsorizza come multietnica ma lo fa nascondendo forse anche a se stessa i tanti risvolti negativi e nodi ancora da sciogliere.

«Non è facile fare parte di una cultura fuori dal paese che ha dato la vita ai tuoi genitori… Vanno in giro senza essere niente. Né pakistani, né britannici. Sanno solo di essere vivi e di volere cambiare il mondo.»

Il romanzo è scritto molto bene. Talone più volte si sofferma nella descrizione dettagliata e minuziosa, anche di tecniche specifiche di indagine, ma senza appesantire troppo la narrazione e riesce a portare avanti la storia sciogliendo tutti i nodi, i vari intrecci che rendono ancora più interessante la lettura e sorprendente il finale.

Sarà la ricerca di due ragazzi culicaldi, ovvero sospettati di essere potenziali attentatori, che farà incontrare e a volte scontrare i detective di Scotland Yard con gli agenti dell’Antiterrorismo, che dà la possibilità all’autore di mostrare al lettore le diverse fasi e le differenti procedure di indagine, nonché le difficoltà che incontrano gli investigatori allorquando si scontrano con la farraginosa macchina burocratica la quale, impegnata e vincolata com’è al rispetto di tempi e regole ferree, appare troppo lontana da una realtà in continuo divenire e ostacolo, essa stessa, alla giustizia.

Victor Gell e Oliver Outeberry, veri protagonisti del libro, sono entrambi, anche se ognuno a modo proprio, detective che credono in quello che fanno. La loro abnegazione li ha portati a compiere scelte anche difficili, a fare rinunce, a scontrarsi con superiori e amministrazione… ciò a cui proprio non riescono e non vogliono rinunciare è loro stessi, quello che sono o che sono diventati. Traspare, da questo atteggiamento, molto ben analizzato da Talone, il volto umano dei corpi di polizia, dei servizi, degli apparati investigativi.

Un libro, Sbirri e culicaldi di Stefano Talone, nel complesso molto ben strutturato. Una piacevole e interessante lettura.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Derive del terrorismo e dell’antiterrorismo in “Non c’è sicurezza senza libertà” di Mauro Barberis (ilMulino, 2018) 

“Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione” di Stefano Allievi e Gianpiero Dalla Zuanna (Editori Laterza, 2016) 


© 2021, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Storie di ordinaria integrazione: “Mare Fermo” di Guy Chiappaventi (Ensemble, 2019)

04 martedì Feb 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Ensemble, GuyChiappaventi, MareFermo, recensione, romanzo

La squadra si chiama Save the Youths, “Salvate i giovani”. Gioca in Terza categoria, a Fermo, nelle Marche, provincia felix prima della crisi del distretto calzaturiero più famoso del mondo, trentacinquemila abitanti e centoquaranta richiedenti asilo. Nel 2016 un delitto terribile e razzista, quello di Emmanuel, un profugo nigeriano e cattolico, ucciso con un pugno da un italiano.

I calciatori africani della Save the Youths hanno attraversato il deserto, sono passati dalle prigioni della Libia e poi hanno fatto la traversata in mare con il barcone. Come Alhagie Fofana detto “Barbadillo”, gambiano, muratore, che ha dovuto fare due volte il viaggio nel canale di Sicilia. Ha visto morire nella stiva quarantasette persone. Questa è la storia di una squadra precaria per definizione – tre di loro sono partiti per l’estero a metà stagione dopo le restrizioni nella concessione della protezione umanitaria – che è anche un racconto della provincia italiana nell’epoca dei porti chiusi e del rancore verso gli immigrati.

In un’epoca che sembra vorticosamente avvilupparsi su se stessa e, a volte, anche strangolarsi con le medesime catene create e generate dagli interminabili discorsi che riguardano le migrazioni, le immigrazioni, addirittura le invasioni di migranti, ebbene proprio in questo momento Guy Chiappaventi scrive e pubblica un libro, Mare Fermo, che sembra rappresentare proprio un fermo immagine. Non una richiesta di aiuto o quant’altro, piuttosto la trasposizione scritta di quella che è, contrariamente alla narrazione diffusa, la quotidianità di chi vive in Italia, di chi vive l’Italia. Quella vera, quotidiana, dei piccoli o piccolissimi centri urbani sparsi su tutto il territorio nazionale. Storie di ordinaria integrazione.

Esiste per certo, purtroppo, il razzismo e la discriminazione, inutile negarlo. Ma esiste anche altro, tanto altro che va oltre la retorica che di recente sembra farla da padrona. Ed è proprio di questo che Chiappaventi ha voluto narrare in questo suo libro che si presenta al lettore con una dedica molto significativa. A due generazioni di persone differenti, che hanno vissuto un Paese completamente diverso, opposto per certi versi. Eppure traspare, dalle parole dell’autore, la naturalezza di certi comportamenti e sentimenti, maggiormente laddove permangono scevri da pregiudizi o storture varie.

Se Mare Fermo di Guy Chiappaventi fosse una favola, la sua morale potrebbe per certo essere individuata nel bisogno di non stigmatizzare mai luoghi o individui, né strumentalizzarli per fini politici.

La piccola città marchigiana di Fermo tempo fa è balzata alla cronaca per tristissimi episodi di delinquenza, violenza e razzismo. Ma Chiappaventi ha dimostrato che in quella città e, soprattutto, tra i suoi abitanti c’è molto altro.

Non tutti gli italiani sono razzisti, o delinquenti, o mafiosi, o imbroglioni… e questo assunto vale per ogni etnia, razza, nazionalità o cittadinanza. Punto. Ovviamente è vero anche il contrario, altrimenti è alto il rischio di cadere nella trappola dell’esaltazione infondata di un nazionalismo dal sapore troppo estremista oppure nel tristemente noto ad etnologi ed antropologi “mito del buon selvaggio”.

Mare Fermo di Guy Chiappaventi, attraverso parole e immagini, racconta storie di un presente troppo spesso distorto, di bisogni strumentalizzati, di valori confusi. Semplicemente storie di umana resilienza.

Guy Chiappaventi: Giornalista e inviato del TgLa7. Ha vinto il premio Ilaria Alpi nel 1998. È autore di numerosi documentari tra cui: L’uomo nero. Storia di Massimo Carminati (premio Parise 2017); La caduta, su Siena e David Rossi; Il sindaco, il vescovo e il boss, sulla città di Gela; Le lenzuola della mafia, sull’omosessualità nella camorra e nella mafia. Ha pubblicato diversi libri di successo tra cui: Pistole e palloni (uscito in sette edizioni), Aveva un volto bianco e tirato. Il caso Re Cecconi (segnalazione al Premio FIGC Ghirelli nel 2017) e La valigia del centravanti. Nove storie di numeri


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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa delle Edizioni Ensemble per la disponibilità e il materiale


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La questione migranti non può risolversi in mare, lì bisogna solo salvare vite. “Immigrazione. Cambiare tutto” di Stefano Allievi (Editori Laterza, 2018) 

“Ancora dodici chilometri. Migranti in fuga sulla rotta alpina” di Maurizio Pagliassotti (Bollati Borignhieri, 2019) 


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“Have a nice day” di Serenella Baldesi (Ensemble, 2018)

27 venerdì Dic 2019

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Ensemble, Haveaniceday, recensione, romanzo, SerenellaBaldesi

Può la routine quotidiana essere completamente stravolta da un incontro pressoché casuale? Può la vita di una donna essere posta in discussione per intero solo a causa del fato o del destino? Può davvero il caso scegliere il destino di una persona oppure ciò che accade alla fin fine è sempre frutto di una scelta?
Le risposte a questi quesiti, tutt’altro che banali, sembrano essere l’impalcatura su cui Serenella Baldesi ha deciso di far poggiare l’intero impianto costruttivo del suo libro, Have a nice day, edito da Ensemble in prima edizione a ottobre 2018.

Olivia è una donna, cinquantenne, sposata, senza figli, sportiva, che svolge la professione di architetto e di amministratore dell’impresa di famiglia. Lavoro, matrimonio e vita le sembrano ormai solo una cupa routine da continuare a praticare per inerzia. Priva di stimoli e sensazioni forti lascia che il tempo scorra lungo le anse di questo tran tran quotidiano. Non si aspetta di certo che, da un momento all’altro, la signora che era sposata, etero, architetto e imprenditrice compia una rivoluzione tale da spingerla verso “l’amore femminile” e a spostarsi a vivere all’estero.

Molte sono le prove che Oli è chiamata ad affrontare nella sua personale rinascita, la second life che la vita, il destino oppure lei stessa hanno scelto di offrirle. Altrettante le delusioni che, esattamente come nella prima vita, la protagonista del libro di Baldesi, cerca di imputare a svariati colpevoli. Solo quando realizza e comprende di essere e dover essere il solo “burattinaio” di se stessa pare ritrovare quell’equilibrio che sembrava smarrito.

Uno stile narrativo, quello impiegato da Serenella Baldesi, che sembra creato su misura per la storia narrata. Un fraseggio chiaro ma al contempo carico di parole ed espressioni vorticose, che sembrano aver origine dalla stessa protagonista, girarle intorno, risucchiare il lettore e prendere forma poi nelle varie vicissitudini che coinvolgono cuore e mente di Oli. Il personaggio principale, la protagonista, è ben delineato e caratterizzato. Un po’ meno gli altri protagonisti. Ma questa, forse, è una scelta voluta, proprio per lasciarli in quella sorta di nebbia che avvolge l’intera esistenza di Olivia, e fare in modo che sia solo lei ad emergere dal grigiore dei suoi tormenti.

Un romanzo, Have a nice day di Serenella Baldesi, senza risposte ma con tante domande. Un libro che non vuole insegnare bensì raccontare. Con una protagonista che vuole imparare a conoscere se stessa e un lettore che segue e insegue il suo percorso riflettendo sui tanti misteri e segreti che solo la vita può farti incontrare.


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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa delle Ensemble Edizioni per la disponibilità e il materiale


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“L’eroe negato. Omosessualità e letteratura nel Novecento italiano” di Francesco Gnerre (Rogas Edizioni, 2018) 

Rolandina, la transgender condannata al rogo. Intervista a Marco Salvador 

“Splendore” di Margaret Mazzantini (Mondadori, 2013) 

Tanta spiritualità nascosta dietro una pungente ironia: “Cammino doppio” di Serenella Baldesi (AUGH! Edizioni, 2017) 


 

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Recensione a “Blu Stanzessere” di Roberta Zanzonico (Ensemble, 2019)

25 mercoledì Set 2019

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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BluStanzessere, Ensemble, recensione, RobertaZanzonico, romanzo

A costo di cadere in un luogo comune, si potrebbe affermare che solo uno psichiatra può esplorare la mente umana al punto da raccontarla in un libro in maniera talmente originale da far sembrare la narrazione vera, tangibile, fruibile anche al lettore. Sarebbe un possibile luogo comune e allora lo evitiamo. Anche perché, leggendo il libro di Roberta Zanzonico, si ha la percezione, la sensazione o l’intuizione che la storia che ella ha voluto raccontare al lettore non derivi, non del tutto almeno, dal suo lavoro, dalla sua professione, bensì da esperienze dirette, quelle che solo il vissuto può donarti.

Un libro, Blu Stanzessere, con un intreccio molto originale, particolare, che prospetta il serio rischio di spaccare il bacino dei lettori. O ne comprendi le potenzialità fin da subito e ti lasci trascinare nella mente e nella psiche del protagonista e delle stanzessere, o ne resti fuori e difficilmente ne comprenderai appieno il potenziale.

L’esperienza onirica/extracorporale che vive il protagonista, accompagnato dal suo fedele Guardiano, è un qualcosa che chiunque, tutti e ognuno, può o vorrebbe compiere. Quasi una sorta di catarsi per liberarsi da quelle catene che ogni giorno imprigionano la mente e il corpo, quelle che abbiamo ma pensiamo di non avere. Il tempo per esempio. La fretta generata dalla mancanza di tempo. L’ansia per il poco tempo. Lo stress per la perdita di questo tempo che riesce a scandire la vita perché gli viene permesso di farlo.
Ma quando il protagonista si sveglia realizza che “non c’era più il tempo e non c’era più nulla da collocare al suo interno”. E sarà proprio questo vuoto a dargli il primo sollievo dopo lo smarrimento iniziale. Una lavagna bianca, un’agenda tutta nuova da poter riempiere seguendo i ritmi che sarà lui a scegliere. Un nuovo inizio. Lo pensa, non è detto che sia così.

Le riflessioni sul concetto di Tempo non sono le uniche parti del libro della Zanzonico che rimandano a un’altra opera letteraria cui l’autrice sembra rifarsi direttamente allorquando cita il bianconiglio, ovvero Alice nel Paese delle meraviglie di Lewis Carroll (BUR, 2015).
L’autrice con ogni probabilità lo fa per rendere più facilmente percepibile al lettore la sensazione di smarrimento del protagonista, soprattutto nella parte iniziale del testo, la medesima provata e descritta da Carroll per Alice. In realtà, questo ripetuto accostamento potrebbe anche risultare controproducente, proprio a causa della maggiore notorietà dell’opera letteraria di Carroll. Il lettore di Blu Stanzessere potrebbe addirittura risultarne distratto e stranamente attratto, volenteroso nel cercare, nel testo di Zanzonico, altri elementi in comune con il romanzo di Carroll, dimenticando o quasi che il punto focale del libro che sta leggendo sono le stanzessere e non la tana del bianconiglio.
Questo però accade solo nella prima parte del libro, poi la Zanzonico imprime con maggiore forza la propria personalità al narrato. E questo è certamente un bene.

Lo stile di scrittura scelto da Roberta Zanzonico per Blu Stanzessere è molto contemporaneo, con un fraseggio breve, diretto e poco arzigogolato. Ricorrente l’impiego di espressioni gergali o “di vulgata”. Si tratta per certo di una scelta giusta, che ha contribuito ad ancorare la narrazione a un presente necessario al lettore, da lui riconoscibile e accessibile, specie se contrapposto alla evanescenza delle stanzessere.
Nel testo si alternano con una certa regolarità narrazioni in prima persona, nelle quali il protagonista descrive l’ambiente, introduce la scena e avanza ipotesi e riflessioni, a parti in forma dialogica, quasi esclusivamente tra il protagonista e il Guardiano. Un posto a sé occupano i “cori” delle stanzessere, ovvero i racconti con i quali le donne ivi “rinchiuse”, ma per scelta, interagiscono con il protagonista. Pezzi di un puzzle che si ricompone solo alla fine del libro, quando il protagonista riempie di nuovo il vuoto iniziale, anche se sembra non avvertire più i fardelli che aveva. Sembra. Perché alla fine la storia raccontata da Zanzonico ruota intorno a concetti fondamentali come essenza e vuoto, unione e solitudine, certezza e incertezza, legami e abbandoni, ricordo e oblio… Una lettura, Blu Stanzessere di Roberta Zanzonico, che si rivela essere proprio come un viaggio per mare, pieno di insidie e avventure ma comunque spettacolare.


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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Ensemble Editori per la disponibilità e il materiale


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Il racconto delle occasioni di vita perdute in “Manuale di fisica e buone maniere” di Daniele Germani (D&M, 2016)  

La quotidianità sconfigge i demoni in “Fato e Furia” di Lauren Groff (Bompiani, 2016) 

Hikikomori: il fenomeno dei ‘ragazzi ritirati’ in “Due fiocchi di neve uguali” di Laura Calosso (SEM, 2018)  

Recensione a “Cellophane” di Cinzia Leone (Bompiani, 2013) 


 

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Il ‘maledettismo’ letterario tra ottocento e novecento in “Una tranquilla repubblica libresca” di Dario Pontuale (Edizioni Ensemble, 2017)

21 giovedì Dic 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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DarioPontuale, Ensemble, recensione, saggio, scrittori, Unatranquillarepubblicalibresca

Cosa accomuna autori apparentemente lontani tra loro? Qual è il filo invisibile che lega le opere e la ‘ribellione’ degli autori ‘maledetti’?

Domande queste che, forse, hanno incuriosito più di uno studioso del prolifico periodo letterario a cavallo tra ottocento e novecento, ricco di cambiamenti e contraddizioni che rispecchiavano i sussulti storici e sociali a cui assistevano, operosi o inermi, letterati e illetterati. Si potrebbe partire proprio da questo per analizzare e comprendere la reale portata del cambiamento in atto in quel periodo, che ha determinato tutte le susseguenti innovazioni. La letteratura perde il suo carattere aulico e diventa, come l’istruzione e la cultura in generale, produzione di massa e mezzo di conoscenza e diffusione dei malesseri e delle ribellioni di intere generazioni di artisti ‘maledetti’ perché in contrasto e in opposizione al sistema precostituito, nella società come nell’arte. E questo sembra essere stato il percorso seguito da Dario Pontuale nella sua ricerca tra le opere e il pensiero degli autori che maggiormente, a suo discernimento, hanno incarnato il malessere dell’epoca.

 

Uscito in prima edizione a giugno 2017 con le Edizioni Ensemble, Una tranquilla repubblica libresca. Incroci letterari tra ottocento e novecento si presenta al lettore come un dettagliato resoconto delle scoperte letterarie frutto delle assidue ricerche bio-bibliografiche di Dario Pontuale su autori, artisti e musicisti anche lontani tra loro, in apparenza. Arrigo Boito, Emilio Salgari, Italo Svevo, Fernando Pessoa, Renato Serra, Italo Calvino, Dino Buzzati, Leonardo Sciascia… tutti studiati nell’ottica del «deflagrante pensiero del maledettismo», un universo rinsaldato da «una comune insofferenza per gli ipocriti costumi borghesi». Un’aspra lotta tra artisti e società, «un conflitto inedito fino ad allora nel panorama nostrano». Una ‘ribellione’ che ha come obiettivo la «autonomia dell’arte», una delle «virtù principali» che, unitamente a bellezza e natura, sembravano già allora irrimediabilmente compromesse dalla «industrializzazione imperante».

È trascorso oltre un secolo dalle lotte degli artisti della Bohème e della Scapigliatura, tante cose sono cambiate, il mondo stesso lo è, eppure i problemi che devono affrontare quotidianamente le persone e i malesseri raccontati dagli artisti nelle proprie opere sembrano essere immutati, o solo peggiorati.

 

Un lavoro, quello portato avanti da Pontuale, che può essere definito di investigazione letteraria. Come un autentico segugio infatti l’autore studia testi di letteratura e critica e ne assimila a fondo i contenuti, ricollocandoli poi nella composizione della sua opera, incastrandoli alla perfezione come tessere di un puzzle. Un modo nuovo di ‘raccontare’ la letteratura. Dal suo interno. L’autore infatti sembra mescolarsi al gruppo degli scapigliati milanesi, per fare un esempio di quanto trovato nel testo, sembra vedere ciò che essi hanno visto, sentire ciò che essi hanno sentito, raccontare poi ciò che immagina abbiano voluto raccontare, urlare, tramandare.

Si percepisce, lungo tutta l’opera di Pontuale, una ricerca non solo delle ragioni e delle responsabilità del «decadimento culturale italiano di inizi novecento», ma anche la volontà di citare tutti gli autori “disordinati e maledetti” i quali, attraverso il loro comportamento e le proprie opere, hanno denunciato il malessere, interpretandolo a volte come personale altre come cosmico.

Ciò invita il lettore a riflessioni sul senso della letteratura. Che sia solo intrattenimento ed evasione o denuncia ed educazione?

Colpisce, durante la lettura di Una tranquilla repubblica libresca, la capacità dell’autore di evitare giudizi e riflessioni troppo personali essendo egualmente egli riuscito a descrivere il volto umano, oltre quello letterario e artistico, dei personaggi trattati, i risvolti spesso nascosti o ignorati del periodo storico e di essere riuscito a mostrare al lettore le differenze e le similitudini con quello attuale senza mai sottolinearle apertamente.

Una critica impersonale che riesce comunque a trasmettere in chi legge tutta l’umanità presente negli artisti di cui si racconta come nello stesso autore. Una grande passione per la letteratura e il mondo delle arti e una notevole sensibilità per i temi della cultura intesa anche come mezzo di espressione e analisi dei malesseri e delle problematiche sociali.

Una lotta perenne contro ingiustizie e mali sociali che a volte assume i contorni della mobilitazione mentre più spesso si manifesta attraverso l’assordante silenzio dell’alienazione volontaria dal mondo e dalla stessa vita. Il grande merito che va riconosciuto a questi autori è l’aver portato «nella letteratura la vita vera» perché non può esserci «ordine nella scrittura se non c’è ordine nel mondo».

Ricordando gli insegnamenti di Sciascia, Pontuale sottolinea come «ogni cittadinanza esige responsabilità». Lui sembra essersi volontariamente assunto quella di non lasciare cadere nell’oblio questi autori ‘maledetti’ troppo spesso dalla critica di allora come da quella odierna perché eccessivi, trasbordanti le righe di un sistema che quando non riesce agevolmente a inquadrare preferisce cancellare.

Una tranquilla repubblica libresca di Dario Pontuale è un testo ben scritto, ordinato e corretto e si rivela, al contempo, una piacevole e amena lettura per chi è in cerca magari solo di curiosità e originalità e un interessante spunto per riflessioni più articolate sul panorama artistico e culturale del periodo storico interessato come di quello attuale.

Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Ensemble Edizioni per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte della trama e della biografia dell’autore quarta di copertina

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© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“I piani inferiori della luna” di Michele Manna (Ensemble, 2017)

05 domenica Nov 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Ensemble, Ipianiinferioridellaluna, MicheleManna, racconti, recensione, romanzo

 

Esce in prima edizione a giugno 2017 con le Edizioni Ensemble la raccolta di racconti brevi di Michele Manna. I piani inferiori della luna racchiude in sé una scrittura che è vera poesia, armoniosa e avvolgente. Prosa in versi al punto che l’autore più volte ricorre all’uso delle figure retoriche maggiormente impiegate nella narrazione poetica. Come, ad esempio, il ricorso ricorrente alla sinestesia (paura solida, domato presente, …).

I personaggi di Manna, i protagonisti come le comparse dei suoi racconti, non hanno un nome, vengono indicati semplicemente con i pronomi personali che aiutano chi legge a meglio definirli nel loro genere, maschile o femminile. Eppure sono talmente ben caratterizzati da apparire, fin dalle prime battute, concreti e reali. La “evanescenza” generata dalla mancanza di nomi propri viene in effetti subito compensata dal poterli, in questo modo, individuare o reincontrare in chiunque e in ognuno.

I temi trattati ne I piani inferiori della luna sono molti e spaziano dall’amore, in tutte le sue forme, ai vari sentimenti ed emozioni scaturiti dalle esperienze e dalle prove che la vita ci pone davanti. Una visione molto radicata della vita, quella mostrata da Manna nel testo. Una vita che scorre inesorabile verso il suo tramonto, verso quel tempo che è di bilanci e fors’anche di rimpianti. Uno sguardo sovente rivolto al passato, anche per la presenza ripetuta di miti e personaggi della mitologia classica. In linea comunque con la filosofia che sembra essere alla base delle composizioni e che si può sintetizzare nelle parole del protagonista del racconto Qualcosa d’altro: «siamo fatti anche di tutto ciò che abbiamo perduto».

Sembra quasi incredibile che I piani inferiori della luna sia l’opera di esordio di Michele Manna. Uno stile talmente particolare e deciso, dal taglio decisamente originale, che lascia comunque intendere un lungo e articolato percorso creativo dietro l’opera così presentata ai lettori. Un libro che si apprezza sia per l’originalità della forma che per i contenuti.

Michele Manna: Nasce a Roma, dove vive e lavora. I piani inferiori della luna è il suo esordio letterario.

Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa delle Edizioni Ensemble per la disponibilità e il materiale.

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Prigioni mentali e dittature politiche in “193 gabbie” di Rezart Palluqi (Ensemble, 2016)

22 mercoledì Mar 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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193gabbie, Albania, Ensemble, EstEuropa, Europa, recensione, RezartPalluqi, romanzo

La casa editrice Ensemble pubblica, in prima edizione a dicembre 2016, la versione tradotta in italiano da Iris Hajdari di 193 gabbie (titolo originale 193 kafazet) dello scrittore albanese Rezart Palluqi. Un libro interessante che sembra essere stato scritto per raccontare al mondo intero le emozioni, i sentimenti e i tormenti più intimi e nascosti del protagonista che realmente potrebbe essere chiunque, ovunque.

193 gabbie narra le vicende e le vicissitudini di un ragazzino, Ylli, e della sua famiglia. Presi di mira dal regime dittatoriale di Enver Hoxha assistono impotenti alla cattura del padre e, trattati da pària da vicini e conoscenti, si vedono costretti alla fuga oltre confine. Neanche da adulto e in un paese democratico e libero come l’Olanda Ylli riesce e superare i traumi del passato che ancora lo tormentano da sveglio, come disturbi psichici, e da dormiente, sotto forma di incubi. Depresso e inconsolabile Ylli finisce nel tunnel vorticoso di inganno e mistero ordito da chi promettendogli giustizia tesse la sua vendetta ai danni, ancora una volta, dell’anello più debole. Così Ylli, cercando di ritrovare e onorare i resti del padre, finisce con l’assistere, inerme, alla fine della propria esistenza.

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In realtà leggendo 193 gabbie si comprende fin da subito che non è Ylli il reale protagonista della vicenda bensì la sua mente, che potrebbe appartenere a chiunque. Qualunque persona sia stata costretta a subire le difficoltà e le privazioni che una dittatura, di qualsiasi colore sia la bandiera che l’ha originata, impone a coloro che non intendono piegarsi alle imposizioni di regime. Il lettore infatti inizialmente incontra qualche difficoltà a ben comprendere la struttura del registro narrativo scelto da Palluqi. Alcune elucubrazioni del protagonista appaiono banali e dispersive e chi legge si sente quasi “ingannato” dai ripetuti tentativi di distrarlo dalla vicenda principale del libro. Solo proseguendo con la lettura si riesce a entrare nell’ottica voluta dall’autore e al contempo si capisce che necessita anche allontanarsene perché quanto accaduto a Ylli non è poi così distante o diverso dal dolore di coloro che in tanti ogni giorno sono costretti a lasciare la propria terra per sfuggire alla guerra, alla dittatura, alla miseria…

Nonostante l’impostazione molto “intima” della scrittura Palluqi non dimentica di raccontare quanto accaduto nel suo Paese di origine durante gli anni della dittatura di Enver Hoxha, leader del partito comunista. Liste di proscrizione, arresti, esecuzioni e fosse comuni hanno segnato duramente un popolo e una parte della sua Storia quasi completamente ignorato dal resto del mondo. «I tedeschi hanno dato il grande esempio facendo i conti con i boia della Seconda Guerra Mondiale, mentre noi no» e quando si propaganda la necessità di «aprire i dossier» e fare i conti col passato, «provo un certo disgusto. È come se l’assassino facesse l’autopsia della propria vittima».

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Risultano interessanti le considerazioni sull’attualità e la religione che l’autore affida al protagonista del libro, le quali bene si fondono alle parti di inclinazione più contemplativa e poetica. Un po’ forzati risultano invece a volte i dialoghi, con intercalari poco spontanee e lontane dal linguaggio comune, eccessivamente rimarcate nelle frasi che introducono i vari passaggi. In buona sostanza, pagina dopo pagina, il lettore rimane sempre più affascinato invece dalle parti raccontate in prima persona che rimandano ai pensieri di Ylli.

Nel complesso comunque 193 gabbie di Rezart Palluqi risulta essere un buon libro e una lettura interessante.

Rezart Palluqi: Nato a Elbasan, in Albania, interrompe presto gli studi per migrare in Grecia. Qui inizia a scrivere e pubblicare opere in albanese. Dopo il trasferimento nei Paesi Bassi inizia a scrivere anche in olandese. È autore di tre romanzi, numerosi racconti, saggi e testi poetici pubblicati in diverse lingue.

Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa delle edizioni Ensemble per la disponibilità e il materiale

© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Dimmi che c’entra la felicità” di De Filpo e Corraro (Edizioni Ensemble, 2016)

10 martedì Gen 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Dimmichecentralafelicita, Ensemble, MargideFilpo, racconto, recensione, VincenzoCorraro

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Dimmi che c’entra la felicità di Margi de Filpo e Vincenzo Corraro è una silloge di 18 racconti, alternati per autore, che in punta di piedi e con un linguaggio pacato e misurato accompagnano il lettore nei mille mondi descritti. Piccoli universi di storie di vita ordinaria. Infiniti microcosmi di una quotidianità a volte struggente altre accompagnata da una profonda leggerezza che comunica, in ogni caso, una vocazione alla parola come narrazione di fatti sentimenti riflessioni e denuncia.
Il libro si apre al lettore con un testo di Corraro. La collina davanti al mare racconta la parabola di un uomo del Sud che le ha provate tutte, compresa l’emigrazione, prima di gettare la spugna e arrendersi. Una resa che nel protagonista equivale a una rinascita, una voglia di riscatto che si concretizza nel desiderio di azzerare tutto e ripartire, cercando di non sprecare di nuovo ciò che la vita offre o che a questa si riesce a strappare.
Una riflessione amara, quella condotta da Corraro, sulle psicosi e nevrosi della vita moderna. Sul desiderio sfrenato di “possedere”: una casa, una famiglia, dei figli, del denaro, una posizione sociale… Sul ruolo che in questa vorticosa giostra viene dato agli affetti e all’amore. Sulla vita che può essere un rettilineo oppure una curva mal progettata dove basta un attimo, un granello di brecciola, un rivolo d’acqua o una piccola distrazione per farti precipitare nel vuoto.
Se Corraro descrive la “periferia” dello Stato nella sua marginalità di luoghi dimenticati, per certi versi, dal progresso e dalla modernità, la De Filpo racconta invece quella di una grande metropoli come Roma dove “combattono” per sopravvivere giovani e meno giovani formatisi in tutti i gradi (lauree, dottorati, master…) e che lottano per un misero posto in qualche anonimo call center sempre in bilico tra il rinnovo del contratto e il licenziamento, spesso dovuto alla “necessità” di una delocalizzazione dell’azienda per ridurre i costi e poter restare sul mercato. Assurdità e contraddizioni di luoghi dove invece il progresso e la modernità sono entrati a gamba tesa e hanno manifestato il loro lato più nero. Questo raccontano i protagonisti di L’ultima chiamata al call center.
Diego de Silva ha sapientemente sintetizzato in poche battute ciò che il lettore trova in Dimmi che c’entra la felicità quando ha descritto gli autori «pazienti e sapientemente incostanti» in grado di comprendere da soli quando è il momento giusto per “affacciarsi” al pubblico, ovvero quando il loro lavoro è abbastanza maturo.
Non si trova alcunché di “acerbo” nei racconti di De Filpo e Corraro. Anzi la narrazione scorre fluida, i personaggi sono ben caratterizzati al punto che nei racconti successivi più volte chi legge spera di rincontrarli.
Il tema centrale del libro è naturalmente la felicità. Questa chimera che ognuno rincorre a proprio modo e che in pochi riescono a intuire che «non è un accidente come la tragedia, che quando la eviti arriva da un’altra parte». La felicità si nasconde «lungo la strada, dietro l’ultima curva prima del mare».

Margi de Filpo: Di origini lucane, vive a Roma. Ha pubblicato i romanzi Nero di lacrime e luoghi comuni e Liza, oltre alla short story Sensation.

Vincenzo Corraro: È nato e vive a Viggianello, in Basilicata. Ha scritto i romanzi Isabella e Sahara. Vincitore del premio “Nati 2 volte” per l’opera prima, i suoi racconti sono apparsi anche in varie antologie e su testate giornalistiche.

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Cosa accade quando i diversi siamo noi? Intervista a Riccardo de Torrebruna per “Mardjan” (Edizioni Ensemble, 2016)

20 martedì Dic 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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Africa, Ensemble, Europa, intervista, Mardjan, RiccardodeTorrebruna, romanzo

riccardo-de-torrebrunaCosa accade se si immagina, anche solo per un istante, di vivere in un mondo dove le parti sono invertite? Dove i diversi siamo noi occidentali che ancora ci sentiamo padroni dell’universo?
Riccardo de Torrebruna lo ha fatto in Mardjan, un libro intenso profondo che raccontando una storia ne scopre un’altra al lettore. Una “Storia” che deve essere scritta e narrata per non essere dimenticata.
Ne abbiamo parlato durante l’intervista che gentilmente ha accettato di fare.

Mardjan accompagna il lettore in un intenso viaggio alla scoperta dell’Africa vera nascosta ignorata… Perché ha scelto di portare la scena nel Continente Nero?

Credo che l’Africa sia un luogo dello spirito, oltre che un continente e m’interessava raccontare una qualità specifica di quello spirito, qualcosa che in Europa è andato perduto. Inoltre, volevo raccontare dei personaggi africani che hanno tutta l’intenzione di restare nel loro paese e magari migliorarlo.
Sembra che oggi parlare di Africa significhi necessariamente fare un riferimento al tema dell’immigrazione. Siamo sovrastati mediaticamente da questa immagine, un’Africa che vuole invaderci. Nei miei sopralluoghi a Zanzibar e in Tanzania ho incontrato molte persone e la maggior parte di loro voleva restare, malgrado le condizioni siano difficili per tante ragioni.
L’Europa ha prima colonizzato e poi sfruttato in maniera subdola le risorse minerali ed energetiche dell’Africa. Ma questi atti hanno un prezzo, determinano delle conseguenze. In Mardjan, i personaggi di una troupe cinematografica entrano in rapporto con il magma di contraddizioni che la colonizzazione (anche quella musulmana e indù, oltre a quella europea) ha lasciato. Lo fanno in maniera inconsapevole, con la rapacità tipica dei predatori. Da quel momento in poi, il film che sono venuti a girare li condanna a un cambiamento ineluttabile. Le loro vite non riusciranno più a liberarsi da questa esperienza, dalle ramificazioni del corallo (mardjan significa, appunto, “corallo” in arabo), e saranno costretti a fare i conti con l’incertezza della loro identità.
È la sensazione tipica che si prova, come bianchi, a camminare in un bazar africano, dove i diversi siamo noi. Veniamo scossi dalla relatività del colore della pelle, dall’inappropriata accuratezza di ciò che indossiamo, tutto sembra stridere con la realtà che ci troviamo di fronte. Siamo sconcertati dalla potenza della natura, degli odori, dalla vitalità e dalla pazienza degli africani che sciamano lungo le strade. Ecco, m’interessava raccontare cosa succede dopo, al rientro nella comodità e nel confortante progresso di cui ci sentiamo protagonisti. La storia tormentata di questo film, Mardjan, è un pretesto per raccontare anche questo.

Un legame sottile ma resistente e persistente unisce i fatti dell’11 settembre alle vicende del libro. Gli attacchi terroristici del nuovo millennio hanno cambiato la Storia oppure hanno contribuito a svelarne aspetti reconditi?

Mardjan è ambientato all’indomani dell’11 settembre in un’isola, Zanzibar, che ha forti radici e una maggioranza di religione musulmana. I francesi della troupe non sono ben visti in un momento del genere, non si va per il sottile, ci sono forti pulsioni antioccidentali. Questo acuisce la tensione e descrive i germi di ciò che 15 anni più tardi è diventato un repertorio di violenza inaudita.
La collisione imminente si percepisce nell’aria, anche se non è ancora strutturata nelle forme che i media ci descrivono oggi. Una cosa è certa, l’indole africana sarebbe estranea al fanatismo terrorista. Solo la deriva dei campi profughi delle guerre interne veicolate dall’Occidente per interessi economici e oggi anche dalla Cina, i giovani ridotti a larve senza futuro, hanno poi dato vita (strano parlare di vita in questo caso) al fenomeno, hanno permesso che attecchisse anche in Africa.
È un ulteriore scempio che si è prodotto. Con questo non voglio dire che l’indole africana sia immune dal seme della violenza, ci sono esempi eclatanti in proposito, ma dal terrorismo e dal fanatismo di matrice islamista, sì, lo sarebbe stata senza l’avvento di certe condizioni.

Dominic e Milton, i protagonisti del libro, si sentono inversamente attratti rispettivamente dall’Africa e dalla Francia. In entrambi i casi il loro si rivelerà un viaggio di ritorno. Cosa voleva comunicare al lettore raccontando così in dettaglio gli stati emozionali dei due?

Dominic è un attore che vive nella precarietà, un idealista a cui è sempre mancata la giusta dose di cinismo per avere il successo a cui segretamente ambisce. Milton è un ispettore di polizia africano, un outsider che non ha amici tra i quadri corrotti del sistema, non è un eroe, ma non ha simpatia per gli africani che s’ingrassano con la corruzione, è uno che cerca di non sporcarsi, di mantenere una sua integrità. La lavorazione del film determina l’incontro delle loro vite. Uno è bianco, uno è nero. Dominic inizia un lavoro che solo Milton proverà a portare a termine, anche se non del tutto. Mi sono chiesto spesso: e se ognuno di noi, da qualche parte nel mondo, avesse un doppio, uno che non gli somiglia affatto, un “altro” che senza neanche saperlo è destinato a raccogliere il testimone di ciò che avremmo voluto realizzare, chi potrebbe essere?

Nella sua carriera ha avuto modo di confrontarsi con diversi mezzi comunicativi ma sembra che preferisca di gran lunga la parola scritta, perché?

Ho finanziato il privilegio di scrivere con vari mestieri. Il lavoro di attore in cinema è stato quello più redditizio; ma non sempre, anzi, quasi mai, si riesce a interpretare i ruoli che si vorrebbero. In teatro è diverso, ma si guadagna molto meno. In ogni caso, l’attore è esposto, non ha protezione, è sempre nudo in scena, se vuole fare sul serio. La scrittura è altrettanto rivelatoria, ma permette di non essere fisicamente davanti al lettore, gli si lascia il libro e ci si mimetizza. Ci si può permettere più tempo per elaborare la materia della scrittura. La vanità dell’attore si spegne appena le luci si spengono, quella dello scrittore dura finché qualcuno ha il tuo libro tra le mani e ci si può illudere che questo duri a lungo. Mettiamola così, anche se si potrebbe ribaltare l’intera faccenda.

Riccardo de Torrebruna: È nato a Roma, dove attualmente vive. Ha lavorato come attore di cinema e teatro in Italia e all’estero per poi dedicarsi alla scrittura (romanziere, drammaturgo, sceneggiatore) e alla regia.
Vincitore dei premi Enrico Maria Salerno e Oltreparola per la drammaturgia.
Esordisce come autore nel 2000 con Tocco Magico Tango (Minimum Fax). Pubblica poi Storie di Ordinario Amore (Fandango, 2003), con Luigi Turinese Hahnermann. Vita del padre dell’omeopatia (E/O, 2007), Blood&Breakfast (Ensemble, 2014), Hahnermann. Diario di un guaritore (Mincione, 2015) da poco tradotto in Messico.

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