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Irma Loredana Galgano

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“Io sono il potere. Confessioni di un capo di gabinetto” (Feltrinelli, 2020)

04 giovedì Giu 2020

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Feltrinelli, Iosonoilpotere, recensione, saggio, SalvatoreSalvaggiulo

Chi ha davvero in mano le redini del potere di uno Stato? Chi sono i burattinai che decidono la direzione da far prendere ai loro burattini?

Domande che ognuno si pone e le cui risposte sono tutt’altro che semplici o scontate.

Giuseppe Salvaggiulo, capo redazione politica de «La Stampa», ha raccolto le confessioni di un capo di gabinetto, il quale per ovvie ragioni ha preferito rimanere anonimo, e, nel libro che ne è risultato, ha trascritto qualcuna delle risposte alle domande sul potere e sui suoi burattinai.

Uscito per la Serie bianca di Feltrinelli Editore a marzo di quest’anno, Io sono il potere è scritto in prima persona, a parlare e raccontare la storia narrata è l’anonimo capo di gabinetto, il quale descrive con dovizia di particolari i momenti più importanti e gli accadimenti più salienti che ha ritenuto doveroso diffondere e rendere “pubblici”.

Un libro che, per fortuna, ha poco di scandalistico o sensazionalistico. L’intenzione dell’autore e del curatore è con ogni evidenza scevra da volontà complottiste. La situazione che si intravede leggendo il libro, leggendone altri che affrontano il medesimo tema, studiando gli accadimenti geopolitici e le varie azioni di governo, non necessariamente riferite a quello attuale ma anche pregresse, rende evidente che focalizzarsi su un unico accadimento, un solo personaggio o un determinato periodo storico si rivela essere alla fin fine troppo fuorviante, in quanto rischia di far passare il messaggio che il concetto sia circoscritto a un solo accadimento, a un unico personaggio, a un determinato periodo storico.

È il sistema nel suo complesso che merita di essere ben compreso, con i suoi ingranaggi, i suoi burattinai e anche i suoi burattini.

D’altronde, sarebbe molto ingenuo continuare a ritenere che il vero potere di un’intero Stato sia dato o lasciato nelle mani di persone che, alla fin fine, sono di passaggio. I ministri, i sottosegretari, gli stessi parlamentati sono vincolati al mandato elettorale e quand’anche permangano per lungo tempo alla Camera o al Senato, per certo sosteranno per periodi più brevi nei palazzi ministeriali.

L’anonimo autore del libro lo dice apertamente che il vero potere lo detengono loro, quelli come lui, che vivono nell’ombra, sono essi stessi delle ombre. Nessuno o pochi conoscono il loro nome e ancora meno il loro volto, eppure sono proprio loro a decidere, lasciando credere agli eletti di passaggio che, insieme allo scranno hanno conquistato anche lo scettro.

Negare l’esistenza di questo potere “occulto” , che poi in realtà tanto occulto non è, equivarrebbe un po’ a negare l’esistenza del potere altrettanto ritenuto occulto dei servizi, o delle associazioni di fratellanza quali la massoneria. Si parla ovviamente della loro parte legale. Altro discorso poi va fatto per quella loro parte, deviata, che purtroppo pure esiste.

Un potere che si potrebbe anche sintetizzare con due sostantivi: relazioni e tecnica. Relazioni intessute negli anni che vanno a comporre il know how dell’esperienza e la tecnica, frutto di abilità e competenze, anch’esse consolidate dall’esperienza. Una lunga esperienza che rende questo potere molto resiliente, ai cambiamenti ma, soprattutto, ai nuovi arrivati, illusi o speranzosi di cambiare tutto, far saltare il banco e compiere la rivoluzione. Tutti però sono costretti a fare i conti con il potere impalpabile ma affilatissimo di questi burattinai i quali, pur vivendo e restando nell’ombra, sono o dicono di essere i reali fari che orientano la rotta delle navi-stato.

L’anonimo capo di gabinetto che lascia la sua confessione a Salvaggiulo neanche per una volta, in tutto il libro, mette in dubbio la forza e l’efficacia del suo potere e ciò fa sembrare ancora più stridente il contrasto tra il suo modo di esercitare un potere, reale e concreto, e quello eccessivamente mediatico dei politici di ogni schieramento ormai.

“Non esterno su Twitter, non pontifico sui giornali, non battibecco nei talk show” eppure viene ricevuto privatamente, ogni volta che lo si ritiene necessario, dal presidente della Repubblica. Un clero formato da una cinquantina di persone che “tengono in piedi l’Italia”.

L’autore afferma che il lavoro svolto da un capo di gabinetto non si può insegnare come fosse una qualsiasi dottrina, si tratta per la gran parte di prassi. Come fosse un flusso di sapere e potere invisibile a occhio nudo eppure molto potente, metaforicamente simile a un gigantesco acceleratore di particelle.

Cosa sarebbe accaduto se la Scienza e gli scienziati avessero ignorato o rigettato tutto ciò che non era tangibile e visibile a occhio nudo? Cosa accade o può accader a una società i cui esponenti a tutti i livelli ignorano, negano o rinnegano l’esistenza di questo potere occulto?


Articolo originale qui


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Che futuro ha una società che non investe sulle nuove generazioni? “La parola ai giovani” di Umberto Galimberti (Feltrinelli Editore, 2018)

06 domenica Mag 2018

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Feltrinelli, Laparolaaigiovani, recensione, RinnovamentoCulturaleItaliano, saggio, UmbertoGalimberti

“Bond of union” – Maurits Cornelis Escher 

I giovani di età compresa tra i quindici e i trenta anni sono al massimo della potenza biologica, sessuale e ideativa eppure la società «se non ne fa proprio a meno, certamente non impiega opportunamente e utilmente quella generazione». E allora non si può non domandarsi quale futuro avrà, se ce l’avrà, questa società. Se lo è chiesto anche Umberto Galimberti il quale ha preferito far rispondere direttamente a loro, ai giovani che lo incarnano in toto il futuro di cui tanto si parla.

Esce in prima edizione a gennaio 2018 nella Serie Bianca di Feltrinelli Editore La parola ai giovani. Dialogo con la generazione del nichilismo attivo, un saggio sul “disagio giovanile” che è in realtà una “crisi culturale”, una «condizione culturale depressiva in cui l’individuo è vittima di una diffusa mancanza di prospettive e di progetti». Ma quali ne sono le cause? E quali le responsabilità?

Dal groviglio inestricabile di opinioni, riflessioni, pareri, statistiche e ammonimenti vari che si leggono e si ascoltano su media, social, incontri, convegni e via discorrendo non si riesce a cavare un ragno dal buco e il «deserto di senso» delle discussioni non fa che lievitare al punto che Galimberti ha ritenuto doveroso ridare, o dare finalmente, la parola ai diretti interessati, ai giovani appunto. E dalle loro parole emerge un quadro dai tratti e dalle tinte molto diverso da quello che ci viene continuamente descritto.

La verità è che, per certi versi, la ‘vecchia’ società, ancorata a quelli che ritiene baluardi e principi inderogabili, sembra quasi aver paura di questa ‘massa giovane’ di nichilisti attivi che appaiono come i soli ad aver compreso che «l’amore è l’unico antidoto al valore del denaro», che non hanno timore di cambiare, stravolgere l’ordine dato, evolversi in altro, evolvere la società in altro. Così la paura arriva a essere camuffata in necessità di inquadrare questi corpi e queste giovani menti negli schemi dati e certi «dell’efficienza e della produttività», nonostante il fatto che «a differenza dei loro padri, i giovani d’oggi non hanno fatto del denaro lo scopo della loro vita».

È davvero possibile pensare che questa società abbia un futuro? Galimberti è giunto alla conclusione che uno spiraglio c’è, ma «unicamente a opera dei ‘nichilisti attivi’» i quali però, sono una minoranza e «spesso trovano solo all’estero le condizioni per potersi esprimere».

Il saggio si apre al lettore con una introduzione dello stesso autore che sembra una contraddizione, un invito a non leggere il testo allorquando Galimberti invita ad ascoltare i giovani, a parlare con loro invece di continuare a impantanarsi nelle innumerevoli considerazioni di psicologi, sociologi, insegnanti, educatori che parlano di loro. Il perché di queste affermazioni lo si comprende proseguendo la lettura che si rivelerà invece davvero utile e necessaria.

Dopo la prima breve parte introduttiva il saggio si compone quasi interamente delle lettere che i giovani hanno inviato a Galimberti per la rubrica che egli tiene settimanalmente per D di Repubblica, intervallate da chiose e cappelli dell’autore stesso. I temi trattati spaziano dalla sessualità alla crescita, dalla formazione al lavoro, dalla spiritualità ai desideri e sono affrontati tutti in maniera originale, unica. Il solo filo conduttore comune è la singolarità dei punti di vista mai falsati da luoghi comuni, pregiudizi di genere, razzismo, omofobia…

Si parla di una parte di giovani, quella che ha scelto di rivolgersi all’autore per la sua rubrica. Non si tratta quindi della totalità dei giovani bensì di un campione più o meno corposo e rappresentativo. Tuttavia in esso si ritrova più equilibro, giudizio e metodo che non in tanta informazione “matura” o in una scuola strutturata sempre più «sull’oggettività di insegnamenti e verifiche, nella quale la soggettività di ogni studente tende sempre più a venire schiacciata, compressa, arginata, limitata». Un sistema educativo che dovrebbe invece avere come obiettivi: «la formazione, il senso critico e la capacità di ricerca». Una scuola, ma si potrebbe tranquillamente parlare di una società tutta, che «si esonera dall’educazione emotiva dei giovani», concentrandosi sulla sola istruzione, ovvero sulla «semplice trasmissione di informazioni da testa a testa».

Occorrerebbero, ed è esattamente quello che i giovani chiedono a gran voce, «insegnanti motivati e carismatici» perché, inutile negarlo, il miglior metodo per apprendere qualcosa o appassionarvisi è la fascinazione, come accade sempre o quasi per ogni cosa nella vita.

“Cubic space division” – Maurits Cornelis Escher

Forse siamo oggi in presenza di un’alienazione ben più radicale di quella denunciata da Marx, ipotizza Galimberti, vittime tutti di una società nella quale «l’uomo non è più il soggetto del suo operare, ma il semplice esecutore di azioni descritte e prescritte dall’apparato tecnico», sempre in nome di quegli imperativi categorici che neanche si vuol più sapere con esattezza dove condurranno il mondo intero (efficienza, produttività, lavoro, guadagno, crescita, consumo…).

Un saggio fuor di dubbio interessante La parola ai giovani di Umberto Galimberti. Un libro che obbliga chi legge a interrogarsi, insieme all’autore, insieme ai giovani e per loro sul senso di tanti atteggiamenti dati troppo per scontati. Come il fatto che se la felicità consiste nella realizzazione di sé, «che senso ha una vita dove si ha l’impressione che altro non resti se non eseguire azioni descritte e prescritte dagli apparati di appartenenza»? Un libro necessario, assolutamente da leggere.


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Feltrinelli Editore per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte trama e biografia dell’autore www.feltrinellieditore.it



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“Gli impostori. Inchiesta sul potere” di Emiliano Fittipaldi (Feltrinelli, 2017)

25 mercoledì Ott 2017

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EmilianoFittipaldi, Feltrinelli, GliImpostori, recensione, RinnovamentoCulturaleItaliano, saggio

Che fine ha fatto Emanuela Orlandi dopo la sua scomparsa il 22 giugno 1983? Chi comanda davvero al Comune di Roma? Qual è la vera storia del “Giglio magico” di Matteo Renzi?

Tre quesiti semplici, chiari, necessari. È da questi che parte l’idea del nuovo saggio di Emiliano Fittipaldi, Gli impostori. Inchiesta sul potere, uscito in prima edizione con Feltrinelli a settembre 2017. Ed è sempre da queste domande che sono partite le inchieste portate avanti dall’autore, descritte passo passo nel testo.

Ma chi sono gli impostori di cui si parla nel libro? Sono coloro che «attraverso menzogne, occultamenti e propaganda sfacciata si presentano alla gente diversamente da come sono in realtà». Impostori sono i preti pedofili. Impostori sono quei politici che «dicono di aiutare gli ultimi e poi fanno il contrario, tagliando le tasse ai ricchi». Compito dei giornalisti è raccontare la verità smontando menzogne occultamenti e propaganda.

Fittipaldi si sofferma spesso nella descrizione dell’iter seguito nella fase investigativa delle sue inchieste e sembra farlo non tanto per dare fondatezza alle stesse, basata piuttosto sui dati e sui risultati, quanto per dimostrare che chiunque (giornalisti, investigatori, cittadini…) in realtà, volendo, lo potrebbe fare, almeno nella parte di ricerca da fonti pubbliche. In teoria quindi se tanti cronisti non fossero così “pigri” avremo migliaia di inchieste come quelle portate avanti dall’autore e dai pochi “investigatori” come lui. Non è impossibile e neanche tanto complicato ma ci vuole determinazione correttezza coraggio. Qualità che, purtroppo, sembrano scarseggiare nel mainstream della comunicazione e non solo.

Un altro punto su cui l’autore ritorna spesso è lo scarso clamore mediatico e il freddo interesse del pubblico alle sue rivelazioni e scoperte. E lo fa non perché sia in cerca di gloria ma per tentare di capirne le motivazioni. Che ci sia tra il pubblico italiano una preoccupante assuefazione allo scandalo e alla corruzione? Che queste notizie in qualche modo “disturbino” non solo i diretti interessati ma anche il pubblico che, quasi quasi, ne farebbe volentieri a meno per meglio concentrarsi su partite di calcio, trash tv e gossip vario?

Ma il compito del giornalista va ben oltre quello delle pubbliche relazioni, come ricordano anche le citazioni con le quali Gli impostori si apre al lettore e che rendono molto bene l’idea di cosa ci si deve o ci si debba aspettare leggendo testi che raccolgono il frutto di inchieste giornalistiche. Saggi che, come dimostrano le parole stesse di Fittipaldi, non servono solo come fonte di informazione fungendo anche da archivio di dati e fatti che possono tornare utili nel tempo.

Gli impostori è strutturato in tre distinte parti: Emanuela, Raggirati, Il Giglio nero. Tutte centrate sullo scopo prefissosi da Fittipaldi, ovvero «alzare i tappeti in cerca di polvere e notizie insabbiate» per riuscire così a misurare «la distanza tra quanto promesso dai poteri di turno e quanto poi realizzato». Ovvero, in altre parole, «misurare lo spread tra la propaganda delle parole e la durezza dei fatti». Nel caso dell’analisi della scomparsa di Emanuela Orlandi si va oltre con il tentativo non solo di capire chi e perché c’è dietro questa vicenda ma anche la volontà di scoprire cosa effettivamente sia accaduto e a quale destino sia poi andata incontro questa giovane ragazza.

Più volte si è cercato di ostacolare o di fermare il lavoro di Emiliano Fittipaldi, anche per via giudiziaria. Leggendo i suoi reportage se ne evince con chiarezza il perché. Fittipaldi non sembra lasciarsi influenzare dalla cultura dominante o dai luoghi comuni, né condizionare dal flusso di notizie e/o opinioni in merito all’argomento trattato… egli basa le sue elaborazioni sui fatti, sui dati e sulle fonti certe. Una vera seccatura insomma per chi vorrebbe che quelle informazioni non venissero mai diffuse.

Gli impostori. Inchiesta sul potere di Emiliano Fittipaldi conta oltre duecento pagine ma si legge quasi tutto d’un fiato, con bramosia, con “famelica” sete di conoscenza. Determinato corretto coraggioso. Insomma un libro necessario.

Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Feltrinelli Editore per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Fonte tema libro e biografia autore www.feltrinellieditore.it

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“Avarizia” di Emiliano Fittipaldi (Feltrinelli, 2015)

18 mercoledì Nov 2015

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Avarizia, EmilianoFittipaldi, Feltrinelli, intervista, saggio, Vatileaks

Quando la Chiesa diventa una holding finanziaria. “Avarizia” di Emiliano Fittipaldi

Il 4 novembre è uscito nella collana Serie Bianca di Feltrinelli il libro del giornalista Emiliano Fittipaldi, Avarizia. Le carte che svelano ricchezza, scandali e segreti della chiesa di Francesco, che ha accettato di rispondere a qualche nostra domanda

Base di partenza dell’inchiesta condotta dall’autore sono i documenti a lui consegnati da un monsignore per «Francesco. Che deve sapere» che:

  • Lo Ior ha quattro fondi di beneficenza avari come Arpagone.
  • La Santa Sede per guadagnare più soldi ha distribuito tesserini speciali a mezza Roma.
  • Non è solo Bertone che vive in trecento metri quadri.
  • Il Vaticano ha investito pure in azioni della Exxson e della Dow Chemical, multinazionali che inquinano e avvelenano.

Il monsignore chiede a Fittipaldi di scrivere un libro perché Bergoglio deve sapere che lo Ior nonostante utili per decine di milioni, con «il fondo per opere missionarie ha regalato quest’anno la miseria di 17 mila euro. Per tutto il mondo».

Emiliano Fittipaldi, giornalista de «L’Espresso», accoglie la richiesta e inizia a studiare tutti i dossier le cui pagine più rappresentative sono riportate inAvarizia.

Il monsignore voleva fare in modo che papa Francesco sapesse anche che «i salesiani investono in società in Lussemburgo, i francescani in Svizzera, che diocesi all’estero hanno comprato società proprietarie di televisioni porno», noi, desiderosi di conoscere molto altro ancora e concordi con l’autore il quale sostiene che «se il denaro è lo sterco del diavolo, in Vaticano sembra valere il detto pecunia non olet», gli abbiamo rivolto delle domande sul libro e in generale sullo scandalo definito da alcuni Vatileaks 2.

 Avarizia è un titolo molto forte, che colpisce direttamente al cuore dei lettori. Quanto è pericolosa una Chiesa avara verso gli indigenti?

Non credo che tutta la Chiesa sia avara. Credo, come dimostro nella mia inchiesta, che in Vaticano ci sia ancora un rapporto distorto con il denaro. Se Papa Francesco auspica una «Chiesa povera per i poveri» e poi si scopre che i soldi della Fondazione del Bambin Gesù vengono usati per ristrutturare la casa del cardinale Tarcisio Bertone o che la beneficenza dei fedeli dell’Obolo di San Pietro finisce «per esborsi di curia e dicasteri», come sottolinea un rapporto di MoneyVal, è chiaro che siamo ancora molto lontani dalprogetto pauperistico di Bergoglio.

Ma l’avarizia è solo una faccia della medaglia, l’altra sembra essere rappresentata dall’ingordigia e dalla vanagloria. La Chiesa di Papa Francesco sarà ricordata per quest’ambiguità oppure per aver fatto chiarezza?

Prima dell’uscita del mio libro tutta la stampa mondiale, grazie alla propaganda vaticana, aveva deciso che Francesco era riuscito a risolvere scandali e imbarazzi in due anni di pontificato. Ora qualcuno, dopo la mia inchiesta, parla già di fallimento. Io propenderei per giudizi meno affrettati: la volontà riformatrice del Papa non è in discussione, ma le resistenze interne sono molto più forti di quanto pensassimo. Di certo nessuno deve avere paura della trasparenza: solo così, a mio parere, la trasformazione della Chiesa in senso evangelico potrà proseguire la sua strada.

Quando la Chiesa diventa una holding finanziaria. “Avarizia” di Emiliano Fittipaldi

«Devi scrivere un libro. Devi scriverlo anche per Francesco. Che deve sapere». Sono le parole pronunciate dal monsignore prima di consegnarle i documenti alla base del libro, che sembra essere nato, o almeno essere stato ispirato, proprio da quest’urgenza. Secondo lei, perché la necessità di informare il Papa dall’esterno?

Perché alcuni, in Vaticano e fuori, consideravano fondamentale che il Papa conoscesse ogni dettaglio dei risultati di alcune commissioni d’inchiesta che lui stesso aveva voluto. Perché non l’hanno fatto usando canali interni e riservati? Forse perché le loro indicazioni non sono state ascoltate, o la loro voce non è arrivata al soglio pontificio. O forse perché, a torto o a ragione, speravano che scoperchiare il vaso di Pandora potesse accelerare l’attività riformatrice. Ma non sta a me dare un risposta: io sono un giornalista che ha il dovere di verificare le notizie e, se vere e di interesse pubblico, di pubblicarle.

La gran parte dei documenti in suo possesso è il frutto del lavoro svolto da Cosea, la Commissione voluta da papa Francesco per far luce sulle finanze della Chiesa. Perché secondo lei Cosea è stata sciolta? Ha portato a compimento i suoi obiettivi?

Solo una parte dei documenti viene da Cosea. Altre informazioni sono frutto del mio personale lavoro d’inchiesta. Cosea è stata sciolta dopo che il suo lavoro di raccolta dati è terminato. La commissione ha anche scritto delle raccomandazioni sulle riforme economiche da effettuare per eliminare gestioni improvvide, scandali e sprechi, ma solo in parte sono state finora seguite.

Nonostante la «leggenda anticlericale che vuole la Chiesa cattolica proprietaria del 20% dell’intero patrimonio immobiliare italiano», si fa un gran parlare in questi giorni di appartamenti e attici lussuosi. In Avarizia, però, si leggono passaggi anche più interessanti, come il fatto che «Apsa e Ior conservano lingotti d’oro per svariati milioni di euro presso la Federal Reserve, il caveau sotto il torrione e qualcuno sospetta che altra parte delle riserve sia conservata nei forzieri svizzeri». Non è che concentrandosi sul “mattone” si alzi solo un gran polverone che potrebbe far dimenticare o passare inosservato tutto il resto?

Il patrimonio immobiliare del Vaticano vale 4 miliardi di euro. Una stima enorme, a cui vanno sommati gli investimenti finanziari dell’Apsa e dello Ior. Nel mio libro però parlo di tutto: gli investimenti all’estero in Lussemburgo e Svizzera, le società immobiliari a Parigi e Londra, il business degli ospedali, gli sprechi di denaro della curia, anche di uomini scelti dal Papa come il cardinale George Pell. I conti segreti dello Ior, che dicevano essere stati eliminati, i trucchi per vendere benzina e tabacchi e fregare il fisco italiano.

Quando la Chiesa diventa una holding finanziaria. “Avarizia” di Emiliano Fittipaldi

«La promessa informale di girare all’Italia la lista di tutti i clienti sospetti nascosti allo Ior non è stata mantenuta». Ma anche se si riuscisse a ottenerla non si corre il rischio che diventi un’informazione ormai vana visto il tempo intercorso?

No, sarebbe importantissimo che l’Aif, l’autorità finanziaria vaticana, girasse ai nostri investigatori la lista dei presunti evasori. Indicando la cifra detenuta un tempo alla Banca Vaticana e, ovviamente, il Paese e l’istituto su cui è stata bonificata. Con queste informazioni Bankitalia e procure avrebbero la possibilità di riportare qualche bue nella stalla. Non tutti, ma qualcuno si.

Lei scrive di una «partita anti-italiana». Si riferisce solo all’estromissione di tutti i cinque membri italiani dal direttivo Aif o anche ad altro?

Non solo. Se i membri del direttivo Aif sono stati cacciati dopo aver scritto una dura lettera di contestazione contro il presidente dell’Aif, lo svizzero René Brülhart, tutti i cardinali italiani (a parte Calcagno, a capo dell’Apsa) sono stati allontanati dal governo vaticano. Rei, secondo Francesco e i suoi grandi elettori, di aver provocato gli scandali finanziari e mediatici che portarono alle dimissioni di Benedetto XVI. Il fatto è chi li ha sostituito la vecchia guardia non sembra molto diverso.

Quando la Chiesa diventa una holding finanziaria. “Avarizia” di Emiliano Fittipaldi

È del giornale per cui lavora, «L’Espresso», la denuncia delle frasi choc del direttore di Radio Maria, don Livio Fanzaga, presumibilmente rivolte a lei e a Gianluigi Nuzzi. Don Fanzaga, però, ritorna sulle parole di Bergoglio e chiosa: «Ma siccome il Papa ieri ha parlato di perdono, per carità perdoniamoli». Lei ritiene di avere qualcosa da farsi perdonare?

 Non ho niente da farmi perdonare. Ho fatto solo il mio lavoro.

http://www.sulromanzo.it/blog/quando-la-chiesa-diventa-una-holding-finanziaria-avarizia-di-emiliano-fittipaldi

© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Venezia e le grandi navi, l’inesorabile distruzione di una città. Intervista a Roberto Ferrucci

11 mercoledì Nov 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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Feltrinelli, intervista, Italia, italiani, racconto, RobertoFerrucci, Venezia, Veneziaelaguna

Venezia e le grandi navi, l’inesorabile distruzione di una città

La laguna non è mare. È questo il grido, uno dei tanti, che Roberto Ferrucci rivolge al mondo intero, ma ai veneziani in particolare, affinché venga arginato e pian piano scongiurato il rischio di compiere uno scempio irreparabile alla città di Venezia e alla sua laguna.

«Nel 2015 Venezia, città d’arte mondiale, patrimonio dell’Unesco, non ha un assessore alla Cultura».

Ferrucci, nell’introduzione di Venezia è laguna, non manca di ricordare quanto la cultura «per certi politici, per certi uomini di potere, è un nemico assoluto, in grado di marcarli stretti, di ostacolarli, di smentirli e, alla fine, di smascherarli» e che Venezia non è solo «città della cultura, Venezia è cultura». Il rischio, che egli sottolinea, è che «forse oggi Venezia è in mano a qualcuno che la vuole trasformare in un grande contenitore commerciale, di consumo».

Ciò che Ferrucci teme, quasi quanto il passaggio delle grandi navi lungo i canali della laguna veneziana, è l’apatia dei suoi abitanti. Nutre forte il timore che i veneziani si abbandonino agli accadimenti, smettano di combattere o peggio si lascino abbindolare dalla politica dei posti di lavoro.

«Solo se si ritornerà a pensarla e a rispettarla come città di laguna, accettando la sua preziosa e unica fragilità, Venezia potrà continuare a essere la città più bella e amata al mondo».

È da pochi giorni disponibile in ebook Venezia è laguna (Zoom Feltrinelli, 2015). Un racconto breve che riesce a rendere comunque un’idea precisa di cosa significhi per la città, per il paesaggio, per l’arte e per i residenti il transito delle grandi navi lungo i canali.

Abbiamo rivolto all’autore, Roberto Ferrucci, alcune domande su Venezia è laguna ma anche sui recenti accadimenti che hanno visto incontrarsi e scontrarsi «potere e indignazione, politica e rassegnazione».

Il passaggio delle grandi navi per i canali di Venezia diventa un racconto che lascia al lettore una profonda amarezza. Tra le righe del testo invece si percepisce una grande rabbia propositiva. Cosa pensa accadrà alla Serenissima se non si ferma tutto ciò?

Mi sono accorto che nessuno si era mai avventurato a raccontarla da dentro, la violazione delle grandi navi dentro la laguna di Venezia. Lo avevo già fatto nel romanzo Sentimenti sovversivi (Isbn, 2011) e in Venezia è laguna ho approfondito il percorso narrativo di allora, cercando di raccontare attraverso dei personaggi veneziani che cosa provoca quella violenza non solo alle fragili acque e alle delicate pietre di Venezia, ma anche nell’intimo più profondo di quei cittadini che – come il resto del mondo intero – credono che la scelta di perseverare con questa violenza sia una scelta criminale. I “truffatori del buon senso” e i “sabotatori del paesaggio”, come definisco nel libro le lobby che lucrano su queste crociere, provocano sconquassi non soltanto ambientali, ma anche intimi, sentimentali. Solo la poesia, la narrativa, possono provare a raccontare queste emozioni tanto profonde, invisibili ma dolorose.

Non so se dal libro traspaia una rabbia propositiva. Se è così ne sono soddisfatto, perché in realtà la mia visione è del tutto pessimista. La città è in mano ad affaristi senza scrupoli, alcuni dei quali già protagonisti dello scandalo del Mose (che tratterò in un nuovo libro). Ma ai veneziani non è bastata quella pagina orrenda e vergognosa, e pochi mesi fa hanno votato per un imprenditore. Sia chiaro, lui non c’entra nulla con quello scandalo. Ma ho sempre pensato e scritto, fin dal 1994, che gli imprenditori in politica siano una sciagura. Una sciagura tutta italiana, perché altrove, giustamente, è impedito loro di far politica per via degli inevitabili conflitti di interesse che la storia recente ci ha già detto dove possono portare.

Il nuovo sindaco non ha alcuna intenzione di opporsi o quanto meno di arginare l’ingresso di questi mostri in laguna, al contrario, il suo obiettivo è di aumentarne le entrate, in piena contraddizione con l’altra sua “visione”, cioè quella di limitare, giustamente e ovviamente, il turismo di massa. Idee poche e confuse, direbbe qualcuno. E se nel racconto di Venezia è laguna lascio aperte delle speranze di ravvedimento, se in quelle pagine si respira qua e là un sano ottimismo, io, cittadino e non scrittore, sono del tutto pessimista. Lo dico senza giri di parole: la fine di Venezia è già incominciata, ed è sotto gli occhi di tutti.

Venezia e le grandi navi, l’inesorabile distruzione di una città

In Venezia è laguna lei compie una sorta di parallelismo/gemellaggio tra la città lagunare e Saint-Nazaire con il suo estuario e il suo cantiere navale. Vuol rappresentare una sorta di destini incrociati o più un sentiero circolare che viene chiuso?

Volevo semplicemente sottolineare un’assurdità assoluta. Le grandi navi, i paquebot, come le chiamano i francesi, di una compagnia italiana sono costruite a Saint-Nazaire, dove, di fronte al porto, c’è una residenza per scrittori dove anni fa sono stato invitato. È stata un’esperienza davvero istruttiva ed emozionante visitare quei cantieri, parlare con alcuni ingegneri e operai che ci lavorano. E, soprattutto, con i nazairien, che vivono collettivamente la costruzione dei paquebot, ne seguono le tappe passo passo e ne celebrano il risultato finale. Un rituale meraviglioso, condiviso da tutti, in particolare il giorno del varo finale, durante il quale tutta la città saluta il prodotto di anni di lavoro, e lo guarda dalle rive avviarsi in direzione dell’oceano. L’oceano, il mare, non la laguna.

La saggezza e l’amore dei nazairien si trasforma nella scelleratezza e nel cinismo di alcuni veneziani privi di scrupoli, che ci abbindolano con la demagogia dei posti di lavoro. Che non subirebbero alcun ritocco quando e se un giorno si decidesse di fare entrare in laguna solo navi da crociera dalle dimensioni ridotte. I francesi – ma non soltanto loro – non si sognerebbero mai di far entrare quei mostri dentro una delle loro lagune.

Raccontando dei piccoli gesti quotidiani del protagonista e di Teresa sembra voler rendere partecipe il lettore del profondo cambiamento che comporta per Venezia anche se appare impercettibile, al pari dell’acqua smossa dalle balene bianche di acciaio. I veneziani sono consapevoli di ciò che sta accadendo?

Attraverso i personaggi del mio racconto ho voluto far passare l’indignazione, il dolore, la rabbia, l’incredulità e – ahimè – la rassegnazione dei veneziani di fronte a questo scempio. La maggior parte dei veneziani non ha idea di quel che sta accadendo o, peggio, lo sa ma se ne infischia, perché troppi dei veneziani rimasti sono connessi in un modo o nell’altro nel grande business delle crociere e del turismo in generale. E porta schei, e con questo mettono quel che resta del loro animo in pace.

Nell’introduzione cerca di focalizzare l’attenzione del lettore sulle decisioni politiche prese dal sindaco e sulle scelte che lei indica motivate «dagli schei, dai soldi». C’è realmente il rischio di vedere Venezia «trasformarsi come l’interno di una nave da crociera»?

Venezia è già e da tempo una slot machine diffusa. I veneziani proprietari di appartamenti preferiscono affittare per brevi periodi ai turisti, e a prezzi folli, anziché a qualche famiglia. Anche per questo lo spopolamento è incessante, e i politici non fanno che assecondare questa attitudine suicida e moralmente sudicia. Bar e ristoranti spesso si guardano bene dal rilasciare scontrini e ricevute, oltre a proporre due listini prezzi: uno per i turisti e uno per i veneziani. Una discriminazione in atto da molto tempo. Da troppo tempo è presente un commercio incontrollato e quasi selvaggio, che viene edulcorato ultimamente attraverso la repressione degli ambulanti nordafricani e indiani, facendo credere all’opinione pubblica che quello e solo quello sia il male.

Venezia e le grandi navi, l’inesorabile distruzione di una città

Per chi non è veneziano, resta l’immagine stridente di un mostro enorme di ferro che si staglia contro la delicatezza della città. Ma, per un veneziano come lei, cosa rappresenta tutto questo?

Rappresenta l’idiozia umana. Presente in ciascuno di noi. La mia mi sforzo di incanalarla in direzioni più innocue, che danneggino il meno possibile gli altri, come le mie risposte a questa intervista, magari. Loro la utilizzano contro un tesoro inestimabile dell’umanità e della storia passata presente e futura. Senza scrupoli. Per far schei.

Nel suo intervento agli Stati generali del turismo sostenibile, il ministro Franceschini ha detto: «Il turismo delle grandi navi è benvenuto ma va governato». Mentre per il governatore Zaia questa è una decisione «parente della politica e non del buon senso e dell’economia. Migliaia di posti di lavoro e il 20% del Pil della città di Venezia ringraziano il Partito democratico per questa scelta che uccide un pezzo di economia sana». Ma se c’è il rischio che il passaggio delle grandi navi a Venezia arrechi anche un danno economico alla città lagunare perché, secondo lei, si insiste in questa direzione?

Perché è un arricchimento di pochi, pochissimi, e però potenti, potentissimi. Inoltre vorrei fosse chiara una cosa provata scientificamente: non c’è il rischio che il passaggio provochi danni alla città e alla laguna e ai suoi cittadini. No, c’è la certezza assoluta.

Franceschini, nel già citato intervento, ipotizzava un possibile dirottamento delle grandi navi al porto di Trieste. Potrebbe essere una valida alternativa a parer suo?

È la sola alternativa saggia, intelligente e da praticare al più presto prima che sia troppo tardi. Prima che magari si inizi a scavare un nuovo canale, che comprometterebbe definitivamente il fragilissimo equilibrio delle acque lagunari. Il governo si dia una mossa e prenda una decisione radicale e coraggiosa.

Venezia e le grandi navi, l’inesorabile distruzione di una città

Due anni fa Gabriele Muccino con una lettera indirizzata a Matteo Renzi lanciava una petizione online per fermare il transito delle grandi navi a Venezia. Iniziativa sostenuta da oltre 110.000 firme e chiusa al grido di “Vittoria!”. Il 1 novembre 2014 fu approvato dal governo un piano che stabiliva tra l’altro «precluso il transito delle navi crocieristiche superiori a 96.000 tonnellate di stazza lorda e una riduzione del 20% del numero di navi da crociera di stazza superiore alle 40.000 tonnellate abilitate a transitare per il canale della Giudecca». Cosa è successo in quest’anno?

Ovviamente non è successo nulla. Quelle firme sono state del tutto ignorate. Ma Gabriele Muccino è anche quello che in questi giorni ha avuto la bella pensata di dire che i film di Pier Paolo Pasolini hanno impoverito la sua epoca, che ha girato dei film inutili. E lo dice lui, Muccino, che ha diretto pellicole “memorabili” di bacetti e altri sentimentalismi al rosolio. Lo lascerei perdere, sinceramente. Non saranno certo i Muccino o i Celentano a salvare Venezia. Solo noi veneziani abbiamo la possibilità di farlo, ma tutti i segnali vanno in senso contrario, com’è sotto gli occhi di tutti. Allora, toccherà alle istituzioni internazionali, l’Unione Europea, l’Unesco, che è già molto attenta e dura nei confronti della gestione della città più bella e amata del mondo. E la meno rispettata da noi stessi.

In Venezia è laguna esordisce parlando delle azioni intraprese dal «nuovo sindaco che, appena insediato, ha censurato la mostra fotografica Mostri a Venezia di Gianni Berengo Gardin» motivando la decisione come un tentativo di evitare «una brutta immagine della città». La mostra fotografica di Berengo Gardin a suo parere danneggiava l’immagine di Venezia?

Certo che la danneggia. Ma non nel senso banale e assurdo cui faceva riferimento il sindaco. La danneggia perché mostra lo scempio in atto a Venezia, condiviso anche dal nuovo sindaco. Quella di Berengo Gardin è una visione impietosa e vera, che quotidianamente è sotto gli occhi di tutti quelli che la vogliano vedere anziché fingere per difendere gli interessi di cui ho già parlato. È lo sguardo di un grande maestro che soffre nell’assistere impotente a uno degli atti più distruttivi in atto a Venezia.

Cosa che del resto il sindaco ha implicitamente ammesso quando ha proposto che le navi paghino per entrare in laguna. Vuol dire che anche lui prende atto dei danni che provoca il loro ingresso. Solo che al contempo dice al mondo che Venezia è in vendita. Fatene quel che vi pare, dice, basta che paghiate. Come si fa in certe pratiche che vi lascio immaginare. Questa è Venezia, oggi. E viene da piangere, perché Venezia è laguna, fragile e meravigliosa.

http://www.sulromanzo.it/blog/venezia-e-le-grandi-navi-l-inesorabile-distruzione-di-una-citta

 

© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Intervista a Giuseppe Catozzella per “Non dirmi che hai paura” (Feltrinelli, 2014)

30 lunedì Giu 2014

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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Feltrinelli, flussimigratori, GiuseppeCatozzella, immigrazione, migranti, Nondirmichehaipaura, romanzo

Premio Strega 2014 – Intervista a Giuseppe Catozzella

Premio Strega 2014

Leggendo Non dirmi che hai paura (edito da Feltrinelli) erano tante le domande che mi balenavano in mente, ma appena ho terminato il libro, ho deciso che la prima cosa che le avrei chiesto era di parlarmi dei sentimenti e delle emozioni provate nel periodo di ricerca sul campo, di indagine e soprattutto di ascolto che sono state presumibilmente le fasi preliminari, propedeutiche e fondamentali della stesura del testo. Con le lacrime agli occhi e un nodo in gola le chiedo quindi di raccontarmi le sensazioni, le emozioni di quei giorni…

È stato un percorso molto profondo, molto coinvolgente che mi ha cambiato intimamente. Sia come autore sia proprio come essere umano, come uomo. È stato un processo lungo in quanto era necessario entrare in contatto con i familiari di Samia, con qualcuno che mi potesse affidare la storia, potente e al contempo delicata, di questa ragazza. Ci sono voluti tanti mesi, circa sette, per entrare in contatto con quella che poi è diventata la fonte principale, sua sorella Hodan, e l’aiuto di una mediatrice culturale, bravissima, che si chiama Zahra Omar, senza la quale non avrei potuto fare niente perché non parlo il somalo. L’incontro principale è stato proprio quello con Hodan ed è stato davvero molto intenso. All’inizio lei non aveva accettato di incontrarmi anche se io volevo raggiungerla a Helsinki, dove lei vive. Poi mi ha concesso una settimana di tempo, ma una volta arrivati ho capito che in realtà non aveva ancora deciso di affidarmi la storia perché quando abbiamo cominciato a parlare lei non riusciva a farlo… piangeva e la voce era continuamente rotta dai singhiozzi. In quel momento ho pensato di aver sbagliato tutto e che non fosse possibile raccontare la storia di Samia. Ho temuto che nessuno sarebbe mai riuscito a farlo. Perché loro, la famiglia, pur volendo gridarla al mondo non avevano i mezzi per poterlo fare e affidarla a qualcuno sembrava impossibile perché generava troppo dolore in chi le era stato vicino. Ho detto a Hodan che ce ne saremmo andati ma prima di farlo ho deciso di confidarle quale era il motivo per cui volevo raccontare la storia di sua sorella. Le ho detto di averlo deciso nel momento stesso in cui ne sono venuto a conoscenza, mentre mi trovavo in Africa, lungo il confine somalo, e subito mi sono sentito responsabile, da italiano, per la morte di questa giovane ragazza. Questa cosa ha fatto cambiare del tutto prospettiva a Hodan. Da quel momento in poi è cominciato tutto il percorso di affidamento di questa storia.

Samia Yusuf Omar. Se fosse stata di nazionalità italiana probabilmente qualcuno già si sarebbe adoperato per far intestare a suo nome una via, una piazza, una rotonda… cosicché il suo ricordo sarebbe rimasto per sempre anche se poi tutto ciò che ne sarebbe rimasto, abbiamo avuto modo di constatarlo innumerevoli volte, è un’iniziale puntata seguita da un cognome. Samia invece meritava e merita ben altro e come lei tutti i bambini a cui vengono strappati i sogni in nome di leggi, regole e regolamenti che nulla hanno a che vedere con il bene dei popoli. «L’importanza della libertà è il potere dei sogni». Tanto più vero e bello quando questi sogni non includono il successo o il denaro. Che idea si è fatto dei danni prodotti dalle guerre ai sogni?

Le guerre causano infiniti danni, infiniti problemi. Sono le principali responsabili della perdita del sogno. Tutti noi in verità viviamo “una guerra personale” da quando siamo nati. La questione del sogno personale sta propri lì: nel riuscire a vincere o meno la propria guerra personale. Le guerre che vorrebbero che la paura avesse il sopravvento, che ci spingono a seguire delle strade conosciute, che ci vorrebbero costringere a non seguire la nostra via, il nostro sogno, la nostra indole personale. È chiaro che per chi nasce in un Paese in guerra, con la guerra vera, è tutto molto più complicato. Dopo l’uscita e la diffusione del libro stanno succedendo dei piccoli miracoli: il Comune di Milano ha deciso di intitolare una pista di atletica a Samia Yusuf Omar e abbiamo fatto una cerimonia di inaugurazione con 650 ragazzi che gareggiavano in varie discipline in ricordo di Samia. Un comune in Provincia di Messina ha deciso di intitolare un intero centro sportivo a Samia Yusuf Omar… qualcosa si sta muovendo anche a quel livello lì. Ma la cosa più bella di tutte… qualche giorno fa mi ha contattato l’ONU di stanza in Somalia perché hanno letto il libro, conosciuto la storia di Samia, e hanno deciso che tutti gli anni il 19 di agosto, che è una ricorrenza per i rifugiati, a partire da quest’anno, indiranno una gara di 5 km all’interno del recinto dell’aeroporto dell’ONU a Mogadiscio, non possono fuori perché c’è la guerra, perché c’è Al-Shabaab, tutto in onore di Samia Yusuf Omar. In qualche modo il libro è riuscito a riportare Samia da vincitrice a casa sua. Quest’anno ci saremo io, che volerò con l’aereo dell’ONU, che sarò ospite dell’ONU, e Hodan, la sorella di Samia, con i figli. Partiremo insieme e tra l’altro sarà la prima volta che Hodan potrà riabbracciare la madre e ritornare in Somalia dopo il viaggio. È una cosa incredibile… eccezionale.

È presunzione e opinione diffusa nella cultura occidentale la superiorità e la supremazia delle nostre conoscenze. Leggendo il suo libro però si ha ancora una volta conferma del fatto che molti di noi occidentali dovrebbero recarsi in Africa come anche in altri posti dove sono sopravvissuti i popoli autoctoni non per insegnare qualcosa bensì per imparare, per apprendere il potere reale dei doni che la vita ci offre e che non hanno nulla a che vedere con il potere o con il denaro. Samia insieme ai suoi genitori ci regala una grande lezione di vita e di coraggio…

È verissimo. A me piace molto viaggiare e dai viaggi cerco una sola cosa: un arricchimento personale, cercare di scoprire delle cose di me che non conoscevo attraverso la conoscenza di altre popolazioni. E l’Africa non è terra da conquista, non è terra per prenderci il petrolio, per prenderci i diamanti o il coltan, l’Africa per me è essenzialmente una terra in cui imparo chi sono. Sarebbe meraviglioso se questa fosse l’impostazione generale, purtroppo il mondo ha scordato molto tempo fa l’idea assestandosi su standard molto più materialistici che portano l’uomo a compiere azioni malvagissime, con il rischio di una fine tragica dell’umanità.

Giuseppe Catozzella

«La gara era un evento, a me sembrava che fosse un giorno addirittura più importante del primo luglio, la data della liberazione dai coloni italiani, la nostra festa nazionale». Noi italiani siamo sbarcati da conquistatori in Somalia. È storia. E quant’anche lo si voglia circoscrivere come un fatto accaduto in passato è successo, eppure i Somali, tranne forse rare eccezioni, non provano rancore e come i loro fratelli africani vedono il nostro Paese e l’Europa intera con un luogo dove poter coltivare i loro sogni, che nella gran parte dei casi coincidono con il donare ai propri figli un futuro dignitoso, un’istruzione adeguata e la possibilità di vivere senza respirare l’aria delle granate. Se avessero la possibilità di fare tutto ciò nel loro Paese non si sognerebbero minimamente di partire e lasciarlo. Come trova l’atteggiamento dei governi e della popolazione in merito agli sbarchi dei clandestini di cui invece tanto si parla?

Li trovo assolutamente inadeguati e poco lungimiranti, poco comprensivi rispetto a quello che accade e che è accaduto in passato nel mondo. Noi esseri umani siamo sempre migrati, ci siamo sempre spostati. È la natura stessa che ci ha sempre spinto verso una condizione migliore, altrimenti non ci saremmo mai evoluti. È un fenomeno quello degli spostamenti che non si può fermare. Alzare barriere, alzare muri non serve a niente. Un uomo troverà sempre il modo per forare un muro o per scavalcarlo. Quello che bisognerebbe fare, a mio avviso, è intraprendere delle serie e responsabili decisioni politiche di “accoglimento” di questi ragazzi e queste ragazze che sono costretti a scappare dai loro Paesi… proprio mentre parliamo, proprio in questo momento, alla stazione Termini, sono passati davanti ai miei occhi due ragazzi presumibilmente del centro-africa. È assurdo tanto più perché questa cosa è unidirezionale. Chi viene dalla parte ricca del mondo ha piena facoltà di spostarsi mentre a chi appartiene alla povera gli viene impedito di farlo. Lo trovo di un’ingiustizia talmente evidente…

«A nessuno al mondo, per la breve durata di una vita, doveva essere consentito passare per quell’inferno». Eppure Samia cede e alla fine lascia che si formi una crepa nella corazza della determinazione che l’aveva portata fino a Pechino. Pensava di riuscire a resistere a tutto ma non è riuscita a superare il tradimento di Alì.

Sì, è stato proprio questo che l’ha fatta vacillare. Un colpo inferto in maniera troppo intima. Un colpo troppo profondo che ha bucato ogni tipo di resistenza, ha aperto una voragine… in quel momento della sua vita Samia ha capito, ha ammesso per la prima volta che il suo Paese le aveva tolto più di quanto le avesse dato. Ha deciso di chiudere i conti col suo Paese.

Il suo libro ha un compito importantissimo che non è solo quello di far conoscere la storia di Samia e della sua famiglia ma anche quello di portare avanti il sogno di suo padre di vederla guidare «la liberazione delle donne somale dalla schiavitù in cui gli uomini le hanno poste».

Samia sarebbe stata completamente differente se suo padre fosse stato diverso. Samia e Hodan devono tantissimo al fatto che Yusuf fosse un “rivoluzionario”, non nel senso che è andato a ingrossare le fila dei miliziani, ma rivoluzionario nel senso che ha deciso di insegnare ai figli l’importanza della libertà intellettuale. È stato fondamentale suo padre nel suo sviluppo. Anche la madre ma lei, come spesso accade nelle culture e nelle tradizioni di stampo più arcaico, ha giocato un ruolo più passivo ma egualmente determinante. Mentre gli uomini prendono le decisioni in maniera attiva, o almeno così pare, poi in realtà alle spalle di tutto ci sono sempre le donne. Anche la madre di Samia ha giocato il suo ruolo determinante con il suo silenzio, con il suo appoggio, e dopo la morte del padre il suo ruolo diviene fondamentale. È la guida della famiglia, il suo punto fermo.

Come si sta preparando per la serata finale del Premio Strega 2014?

Sono tranquillo. Nel senso che sono davvero felicissimo di avere vinto il Premio Strega Giovani, il premio più importante d’Italia ma conferito da una Giuria Popolare e forse dalla più bella delle giurie perché composta dai giovani, 40 scuole in tutta Italia, dal Trentino Alto Adige alla Sicilia. Hanno scelto Non dirmi che hai paura a grandissima maggioranza. Sono felicissimo di questo. È chiaro che sarei felice di vincerlo, vorrebbe dire una cosa importante… un libro di letteratura civile che vince il Premio più importante in Italia… vorrebbe dire tanto, sarebbe bellissimo… però, insomma cerco di viverla in maniera tranquilla.

http://www.sulromanzo.it/blog/premio-strega-2014-intervista-a-giuseppe-catozzella

 

© 2014 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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