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Irma Loredana Galgano

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#25novembre: Il ‘ponte’ contro la violenza, attivismo no stop per tutte le donne

25 sabato Nov 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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femminismo, violenza

Insieme a tutte le altre iniziative previste, partirà nella giornata odierna dedicata alla violenza di genere, la campagna dell’ONU UNiTE centrata sul tema “Nessuno deve essere lasciato indietro: poniamo fine alla violenza contro le donne e le ragazze”. Un no stop di attivismo che durerà 16 giorni, ovvero fino al 10 dicembre, giornata dedicata ai diritti umani. Un ‘ponte’ voluto proprio perché aggredire, maltrattare, stuprare, uccidere un altro essere umano equivale a violare la sua persona e i suoi diritti.

Un ‘ponte’ che per il movimento One Billion Rising dell’attivista americana Eve Ensler arriverà fino al 14 febbraio 2018 con la campagna Solidarietà, voluta per fermare qualsiasi forma di abuso o violenza ai danni di donne e bambine. Mentre rappresenta un lungo cammino per le organizzatrici della manifestazione nazionale a Roma Non Una di Meno intenzionate ad andare avanti fino a quando non ci saremo davvero affrancati dalla violenza di genere in tutte le sue forme. Un percorso di libertà e liberazione che coinvolge migliaia di donne, trans e queer.

Il quarto rapporto di Eures sul femminicidio in Italia rivela che sono 114 le vittime nei primi dieci mesi del 2017. 114 donne che hanno perso la vita per morte violenta. E se l’omicidio non può mai avere una motivazione valida a giustificarlo, in questi casi davvero bisogna ammettere che la ricerca arcaica e superata di virile possesso e dominio sulla ‘propria’ donna è davvero una stupida rivendicazione che va estirpata alla radice con un accurato programma culturale che include anche trasmissioni e programmi televisivi, produzioni cinematografiche, pubblicazioni di libri e qualsiasi altro frutto della modernità che continui a inculcare, in maniera diretta o subliminale, il concetto e la divisione dei ruoli tra maschi e femmine.

È necessario agire d’impatto sulla violenza diretta, sulle aggressioni fisiche e verbali, sullo stalking, e su tutte le varie forme di violenza, a ogni livello, ma bisogna anche lavorare sulla violenza strutturale insita nella cultura dominante e trasmessa anche ai giovanissimi, spesso in maniera inconscia. Come ricorda Flavia Piccinni in Bellissime (Fandango, 2017), viviamo in una società che molto precocemente è in grado di inquadrare nei ruoli di genere l’essere umano. Ruoli che vengono inculcati e che spesso diventano una prigione, che non considera i nostri desideri e le nostre ambizioni, le nostre passioni e i nostri sogni, ma che ci proietta nel futuro esclusivamente attraverso le pressioni sociali e le aspettative degli altri.

Molto si è parlato nei giorni scorsi delle molestie poste in essere da noti esponenti dello show business e della politica e tante, purtroppo, sono state le critiche rivolte alle vittime invece che ai carnefici. Anche questo fa parte di un retaggio culturale frutto della violenza strutturale cui veniamo inconsciamente sottoposti, tutti. Una società che precocemente ipersessualizza giovani vite lasciando sottintendere che con la provocazione e la bellezza si possono raggiungere risultati altrimenti insperati è una società deviata che produce e produrrà sempre vittime e carnefici.

Basta fare un giro negli store di giocattoli per realizzare quanto, la cultura della parità di genere, sia ancora molto lontana da raggiungere. Prodotti per la pulizia della casa che riproducono fedelmente quelli da grandi, tutto il necessario per fare il bucato, la spesa e accudire bambolotti che sembrano dei bambini veri, bambole e fatine con corpi mozzafiato e accessioni glam da urlo… sono lo specchio incondizionato dei ruoli che si vorrebbe rivestissero le donne nel mondo reale: angelo del focolare o bomba sexi. Ce n’è di strada da percorrere per cambiare e sconfiggere questi stereotipi radicati da secoli di cultura sessista e maschilista.

Il corpo delle donne non è un oggetto votato alla riproduzione o al soddisfacimento dei piaceri sessuali di uomini che ne hanno il pieno controllo e per abbattere queste “certezze” radicate non basta mostrare il volto tumefatto delle donne vittime di violenza, non basta fare la conta dei morti e dei feriti, bisogna reagire e per farlo è necessario mostrare a tutti la forza della conoscenza. Portare avanti campagne di informazione, istruzione e cultura che formino le menti dei giovani, maschi o donne che siano, e mostrino loro un differente modo di emergere nella società e nel lavoro. Un metodo che non preveda provocazione o abuso ma basato sulle doti, le qualità, la conoscenza e la preparazione che ognuno deve avere e sul rispetto verso se stessi e verso gli altri.

Uno stupratore o un omicida non avrà mai paura di agire guardando l’immagine di una vittima di abusi, potrebbe addirittura essere invogliato all’emulazione. Ma avrà di certo paura di pene severe, di una società che non starà ferma ad aspettare che sia troppo tardi ma risponderà repentinamente a ogni violazione dei diritti dei suoi membri, compreso quello di non diventare vittima di un’assurda violenza motivata dalla frustrazione, dall’incapacità, dall’ignoranza che, come si è visto, coinvolge tutti i livelli economici e sociali.

Ammonta a 10 milioni di euro il finanziamento stanziato per i progetti per la prevenzione e il contrasto della violenza di genere, il cui bando è consultabile sul sito governativo del Dipartimento per le pari opportunità. Supportare attività di sensibilizzazione rispetto a sei aree d’intervento, questo lo scopo dichiarato dell’iniziativa: donne migranti e rifugiate, inserimento lavorativo delle vittime di violenza, supporto alle donne detenute che hanno subito violenza, programmi di trattamento di uomini maltrattati, supporto e protezione delle donne sottoposte anche a violenza “economica” e progetti di sensibilizzazione, prevenzione ed educazione. Vengono elencati per ultimi ma in realtà i progetti di sensibilizzazione, prevenzione ed educazione devono precedere e magari prevenire la violenze e quindi i progetti conseguenti.

Il Dipartimento governativo per le pari opportunità afferma di avere una attenzione particolare verso quei progetti volti a sostenere campagne di comunicazione culturale contro la violenza di genere che include, si immagina, anche la violenza domestica. Dovrebbe includere anche la violenza strutturale. Doveroso a questo punto ricordare che è sempre frutto di un’attività governativa la scandalosa campagna di comunicazione pro fertilità, prontamente ritirata, che ha giustamente scatenato le ire di molti cittadini e cittadine, associazioni, movimenti e attivisti e che rientra a pieno titolo nell’imprigionamento in ruoli che certo non aiuta nel progresso culturale per cui si sta lottando. Errori che sarebbe preferibile non ripetere più, soprattutto nelle istituzioni pubbliche.

Enti pubblici e governativi, istituti scolastici e accademici, organizzazioni e movimenti, associazioni e attivisti anche quando agiscono privatamente hanno il dovere morale di mostrare e dimostrare la parità e l’uguaglianza tra le persone, di evitare ogni forma di violenza, anche come forma di reazione e monitorare il progresso culturale della società.

Personalmente sono stata accusata di lasciarmi fuorviare da idiosincrasie relativamente al giudizio negativo espresso in una recensione, o meglio una stroncatura. Un testo di narrativa, un romanzo indicato come adatto a tutti, venduto in tutte le librerie fisiche e digitali, pubblicato con un grande editore italiano e proposto per un concorso letterario la cui giuria popolare si compone di studenti delle superiori è stato da me additato come misogino per tanti passaggi ed espressioni presenti nel testo, ma soprattutto perché in esso l’apparato genitale maschile veniva indicato come “arma”. Quindi dovremmo tacere dinanzi al fatto che l’organo riproduttivo maschile venga indicato come arma e così proposto agli adolescenti italiani o di qualsiasi altro paese? In virtù del numero di aggressioni e violenze a scopo sessuale che ogni giorno martorizzano il nostro paese e non solo lo trovo assurdo, inutile e pericoloso. Non è la sottoscritta a peccare di idiosincrasia bensì chi ritiene gli organi riproduttivi maschili più “potenti” di quelli delle donne, di chi ritiene il corpo femminile utile solo a divenire vittima della “arma” in possesso dei maschi, di coloro che, in buone sostanza, restano ancorati a un retaggio culturale obsoleto che non può e non deve più essere trasmesso alle nuove generazioni.

È necessario e doveroso affrancare soprattutto i giovani dalla prigionia della divisione rigida dei ruoli, dai pregiudizi e dai retaggi culturali obsoleti e deleteri, e far comprendere loro la reale portata della parità e del rispetto che non si misura nella libertà di denudarsi, di essere provocanti o opportunisti, di usare la violenza o la forza… no, si tratta di avere piena coscienza dei propri diritti e fare di tutto per vederli riconosciuti.


Articolo originale qui

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© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Opporsi con fermezza alla biologia come destino. “L’età ingrata” di Francesca Segal (Bollati Boringheri, 2017)

02 giovedì Nov 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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BollatiBoringheri, femminismo, FrancescaSegal, Letaingrata, recensione, romanzo

Opporsi con fermezza alla biologia come destino. “L'età ingrata” di Francesca Segal

Esce in prima edizione ad agosto 2017 per Bollati Boringheri L’età ingrata di Francesca Segal, nella versione tradotta dall’inglese da Manuela Faimali. Titolo originale The Awkward Age. E sembra proprio ruotare intorno al concetto di età il libro della Segal. L’età biologica e quella che si vorrebbe avere. Il sentirsi troppo “vecchi” o troppo “immaturi”. Il non essere mai troppo “grandi” per ricominciare e il non sentirsi più “piccoli” anche quando lo si è ancora.

Una famiglia allargata quella che cercano di costruire Julia e James, molto allargata, forse troppo. Con rispettivi figli e compagni, suoceri e consuoceri, ex-mogli, amici, conviventi… che generano un tale caos nella statica vita della donna al punto da farle perdere di vista i suoi reali bisogni. Con un deciso colpo di spugna sembrerà decisa a resettare il tutto e ristabilire la pace con sua figlia Gwen. Ma davvero si può cancellare quello che è stato, ciò che si è vissuto in prima persona e fingere che non sia mai accaduto? Ovvio che la risposta è no ma Julia ha imparato dai propri errori e capito che necessitava prestare «più attenzione. La prossima volta sarebbe stata pronta ad afferrare Gwen prima che cadesse». Perché per lei l’errore più grande commesso, durante la relazione con James, era l’aver anteposto il suo essere persona all’essere genitore, una madre per la cui figlia era il «centro del suo mondo». Se Gwen «prima dava l’impressione di essere forte era perché c’era Julia a sorreggerla».

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Un libro, L’età ingrata, che costringe il lettore a un’attenta riflessione sui sentimenti, sui cambiamenti, sull’essere genitore come sull’essere figli. Interessante inoltre il modo in cui l’autrice usa le parole, il registro narrativo e le ambientazioni per riprodurre discorsi, dialoghi e pensieri carpiti nelle loro diverse angolazioni, ovvero dai vari punti di vista, sottolineandone le differenti interpretazioni, conseguenza anche della volontà, manifesta o recondita, di chi ascolta e di chi parla o pensa.

Opporsi con fermezza alla biologia come destino. “L'età ingrata” di Francesca Segal

Julia sceglie la strada del nuovo amore di James per “ritornare” alla vita. Come può quindi criticare sua figlia Gwen per aver scelto la stessa strada per ribellarsi alla non-vita? Si sa che gli adolescenti non riescono a controllare gli istinti e quindi ora tutti gli adulti si sentono in obbligo di salvare Gwen e Nathan da se stessi fingendo di non capire che in realtà a dover essere “salvati” sono proprio loro che hanno permesso alla burrascosa storia d’amore tra due teenager di «trascinare a bordo l’intera famiglia».

Una famiglia non è un qualcosa che si può definire a tavolino. Non nasce spontaneamente per volontà di due persone che all’improvviso si scoprono innamorate. Gli “avanzi” delle famiglie “rotte” in precedenza non si incastrano con altrettanta facilità come il loro desiderio di stare insieme, sotto lo stesso tetto. Perché i figli degli altri non diventano i propri da un giorno all’altro e così Julia e James si convincono «che il figlio dell’altro avesse danneggiato il proprio» e si schierano «automaticamente con la squadra avversaria», finendo per odiarsi pur amandosi ancora.

Opporsi con fermezza alla biologia come destino. “L'età ingrata” di Francesca Segal

Julia deve guidare la giovane Gwen lungo i sentieri intricati dell’adolescenza e verso l’età adulta, matura, lei che viene da tutti considerata fragile e indifesa, incapace di mostrare «alcuna ambizione per il futuro» di sua figlia «oltre a una non meglio specificata “felicità”». E proprio mentre Julia gongola al pensiero di essere riuscita a non insegnare a Gwen che «il valore di una persona si misura dai voti scolastici», come invece aveva fatto James con suo figlio, la nonna di sua figlia sperava invece che si decidesse una volta per tutte a educarla a opporsi alla cultura della «biologia come destino». Adesso le donne possono scegliere il proprio futuro. Adesso le donne, di ogni età, devono scegliere il proprio destino.

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L’età ingrata di Francesca Segal si dimostra una lettura senz’altro interessante con la scrittura a prisma, con tanti angoli e altrettante sfaccettature che corrispondono ai punti di vista dei protagonisti e coinvolgono il lettore in riflessioni e lo spingono a interrogarsi sui temi dell’amore, della felicità, dell’educazione e del rispetto reciproco, delle relazioni e delle convivenze, delle storie finite e di quelle appena cominciate, della vita e delle scelte compiute… a qualunque età.


Per la prima foto, copyright: Priscilla Du Preez.

Articolo originale qui

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Rivoluzioni storiche delle donne, repressione e conservazione al maschile in “Socialfemminismo” di Stefano Santachiara (Digitalpress, 2017)

26 domenica Feb 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Comunicazione, Digitalpress, femminismo, istruzione, paura, politica, recensione, saggio, Socialfemminismo, StefanoSantachiara, violenza

È da poco uscito il nuovo saggio del giornalista investigativo Stefano Santachiara, Socialfemminismo edito dalla Digitalpress. Già oggetto di critiche e tenzone, il libro di Santachiara non poteva non far parlare di sé. Una vera sfida, ecco cos’è. Contro il pregiudizio, i preconcetti, le disparità e le ingiustizie. Scritto con una intrigante verve da cronista che ha investigato a lungo prima di procedere alla narrazione di un articolato percorso informativo volto a dimostrare che la violenza da combattere non è solo quella dell’uomo che aggredisce una donna. Questo rappresenta il braccio. Bisogna conoscere e lavorare sulla mente che quel braccio arma ogni giorno.

La violenza di genere di cui è piena la cronaca nera non rappresenta che la punta dell’immenso iceberg della violenza strutturale di cui non solo la nostra società è pregna ma su cui proprio sembra essere fondata.

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Santachiara si chiede quali siano i reali motivi per cui «le analisi femministe subiscono la marginalizzazione dei mass media» a tal punto da sembrare che debbano «restare nella nicchia e privarsi della dialettica». Tutti dovrebbero interrogarsi sul perché. La realtà è che viviamo in una società basata sulla competizione tra «dipendenti, disoccupati, schiavi nel terzo mondo e nel sottoproletariato occidentale; giovani e anziani, stranieri e autoctoni, uomini e donne». È necessario quindi «portare alla luce il gap tra la parità formale e le discriminazioni reali». Lo scopo di Socialfemminismo sembra essere proprio questo.

Nel testo Santachiara scrive ciò che nessuno sembra voler leggere o ascoltare, perché in tal caso si sarebbe costretti ad ammettere che rei della violenza di genere non sono solo gli uomini che manualmente la praticano bensì l’intero sistema che, più o meno consapevolmente, non li condanna. A cominciare dal mainstream mediatico che «riproduce la logica sessista dell’onore cavalleresco», ancora più opinabile quando lo fa in riferimento a «vili lanciatori di bombe, missili, armi batteriologiche» che hanno effetti e conseguenze devastanti per la popolazione civile.

Non di rado la stampa, con titoli e articoli a effetto, contribuisce a fomentare l’odio non solo verso il presunto aggressore o femminicida ma lo fa «dissennatamente verso interi gruppi sociali» o etnici. Tranne i casi in cui si parla di «occidentali di buona famiglia».

«L’Occidente si erge a giudice di altre culture per farne il capro espiatorio, sbatte in prima pagina il “mostro” straniero e la vittima “ingenua” fomentando la xenofobia e i peggiori stereotipi. Ma non può lavare la coscienza di uomini americani ed europei che vessano, stuprano e uccidono le donne.»

L’autore affronta il tema del misoginismo spaziando attraverso i vari campi del sapere e narrando di esempi o riportando riflessioni circa avvenimenti accaduti in ogni angolo del pianeta, a riprova dell’idea che i diritti umani non hanno muri o barriere che reggano. Bisogna prendere atto del «nesso tra maschilismo e violenza», consapevolezza che il problema riguarda tutti e la comunità nel suo complesso, ragione del fatto che una società per essere realmente “civile” deve combattere seriamente le molestie e le violenze, «mettendo in circolo tutti gli impulsi culturali volti a prevenirle». Impulsi culturali che, come sottolinea lo stesso Santachiara, non riguardano la «sola educazione al rispetto e ai sentimenti nella scuola ma di ridefinire il quadro per intiero».

Che senso e quali risultati concreti potranno mai dare le campagne contro la violenza se ai violentatori si continuano a infliggere pene irrisorie? Che senso e quali risultati concreti potranno mai dare le campagne di informazione scolastica se governanti e media continuano a utilizzare un linguaggio e un comportamento sessista? Santachiara sembra proprio centrare il nocciolo quando afferma che «vi è un problema più profondo di abitudine alla disumanità».

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Osservando con più attenzione il messaggio profuso dall’apparato mediatico e informativo, come l’autore ha fatto, si riesce a scorgere la volontà di «impedire la presa di coscienza», tinteggiando di «rosa il genere femminile mediante la produzione positiva delle consuetudini». Ed è così che le massaie vengono rappresentate «splendide al rientro del marito, impegnate con biberon e pignatte», mentre le lavoratrici che lottano contro l’ingiustizia «non di rado, appaiono astiose e frustrate».

Se «una italiana su tre subisce violenza» e «le sentenze della magistratura raccontano storie di mobbing, demansionamenti, licenziamenti ingiustificati, mancati pagamenti di contributi e stipendi» bisogna prendere atto e ammettere che stiamo parlando di una conseguenza, non di una causa.

Molti uomini e purtroppo anche alcune donne non riescono a elaborare «il semplice concetto per cui la differenza sessuale attiene al portato anatomico, biologico, genetico, cromosomico mentre le scelte – culturali e intime – sono strettamente personali», per cui ne deriva la difficoltà a superare il luogo comune della “naturale” predisposizione femminile a svolgere le incombenze domestiche e alla cura dei famigliari. Non vi è alcuna predisposizione naturale o biologica, «a costringerla, difatti, è l’ideologia predominante». Ideologia rafforzata anche da governanti e amministratori. Fa bene Santachiara a ricordare l’inqualificabile campagna pro-fertilità lanciata solo pochi mesi fa dal ministero e dal ministro della salute.

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Socialfemminismo va letto senza pregiudizi, cercando di non lasciarsi offuscare dagli stereotipi imperanti nella ideologia dominante, secondo cui le democrazie occidentali sarebbero il non plus ultra del vivere civile, bensì aprirsi all’idea che spesso, troppo spesso ciò che viene fatto passare per “naturale” e quindi “giusto” non lo è affatto. Colpisce, a tal proposito, la citazione di Grazia Francescato, riportata nel testo.

«Bisogna smettere di pensare che l’uomo è buono per natura, che il popolo è buono per definizione, bisogna partire dall’uomo com’è realmente e non dall’Uomo come vorremmo che fosse».

Non si può, a questo punto, non concordare con la posizione di Judith Butler analizzata da Santachiara in Socialfemminismo. Sulle nostre vite pendono «le norme eterosessuali», trasmesse «quotidianamente dai media, dai film, così come dai nostri genitori». Norme che poi noi stessi perpetriamo «nelle nostre fantasie e nelle nostre scelte di vita». In buona sostanza sono queste norme che «prescrivono ciò che dobbiamo fare per essere un uomo o una donna». E anche se, come ricorda la scrittrice norvegese Toril Moi, «il femminile è il dato biologico, la femminilità il costrutto culturale e il femminismo una posizione politica», per Santachiara quest’ultimo non potrà «mai perdersi finché ci saranno sfruttamento e ingiustizia». E questo, sicuramente, non rappresenta solo una mera posizione politica dell’autore, bensì una speranza e una dichiarazione di fiducia, nonostante tutto, nel genere… umano.

Source: Si ringrazia Stefano Santachiara per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte biografia autore stefanosantachiara2.wordpress.com

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