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Irma Loredana Galgano

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Grandi filosofi e fenomeni culturali di massa, la “pop filosofia” delle serie tv. Intervista a Tommaso Ariemma

02 mercoledì Ago 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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Aristotele, filosofia, intervista, Kant, Lafilosofiaspiegataconleserietv, Mondadori, Nietzsche, popfilosofia, serietv, Spinoza, TommasoAriemma

Grandi filosofi e fenomeni culturali di massa, la “pop filosofia” delle serie tv

La filosofia e i suoi grandi rappresentanti appartengono al passato o al futuro? Per Tommaso Ariemma, docente universitario ora dedito all’insegnamento liceale, la filosofia si studia con le serie televisive che tanto piacciono ai ragazzi proprio perché incentrate su aspetti determinanti del filosofare che attirano l’attenzione del pubblico, in questo caso degli studenti. Ed ecco che nasce la “pop filosofia” che attrae ragazzi e insegnanti ma anche qualche critica.

Ne abbiamo parlato in un’intervista con Tommaso Ariemma, autore de La filosofia spiegata con le serie tv edito da Mondadori.

Per “svecchiare”, mi consenta il termine, una materia dai più ormai considerata “antica” lei ha inventato un metodo alquanto singolare. Perché e da dove ha origine l’idea?

L’idea ha innanzitutto origine dalle mie ricerche filosofiche, maturate negli anni di insegnamento universitario presso le Accademie di Belle Arti di Perugia e di Lecce come titolare della cattedra di Estetica. Lì ho potuto studiare attentamente molti fenomeni della cultura di massa, come le nuove serie tv, pubblicando numerosi volumi in merito. Una volta entrato a scuola, ho pensato di applicare la mia “pop filosofia” ai programmi liceali, con risultati sorprendenti soprattutto in termini di attenzione e partecipazione dei ragazzi. Si è trattato di applicare le mie competenze filosofiche, ma anche di un felice incontro con la passione dei ragazzi per le nuove serie tv.

La Filosofia si sposa alle serie tv come si adatta a ogni aspetto della vita e della quotidianità?

Si può fare filosofia di qualsiasi cosa. Tuttavia, le nuove serie tv come Lost, Breaking Bad, True Detective sono singolari proprio per la filosofia (o le filosofie) che veicolano. La componente filosofica è determinante, al punto da attirare enormemente l’attenzione del pensiero (e il desiderio di seguire dello spettatore). C’è quindi oggi un’affinità elettiva tra filosofia e serie tv che va colta. Usata in classe, rivoluziona in modo inaspettato la didattica.

Grandi filosofi e fenomeni culturali di massa, la “pop filosofia” delle serie tv

Gli antichi ci insegnano che fare politica equivale a vivere perché ogni scelta che compiamo, dalla più banale alla più complessa, è una scelta politica, consapevole o inconsapevole. Filosofare è un po’ come fare politica secondo lei?

Non si può vivere senza una filosofia più o meno spontanea. Le nostre scelte, la nostra vita, sono orientate da pensieri. Lo studio della filosofia porta a perfezionare i pensieri che ci permettono di orientarci nel mondo. E quindi a renderci più vivi.

Come hanno accolto i suoi alunni l’innovativo quanto originale metodo di studiare i grandi filosofi?

All’inizio i ragazzi sono stati colti di sorpresa: non si aspettavano lezioni di filosofia così vicine al loro immaginario. In un secondo momento, non ne hanno più potuto fare a meno. Soprattutto non hanno potuto più fare a meno di intendere le ore di filosofia come un momento di produzione e trasformazione. L’insegnamento con le serie tv è infatti solo la punta dell’iceberg: studiando insieme i meccanismi alla base della nuova serialità (e uno fra tutti: la Poetica di Aristotele), i miei ragazzi sono invitati a produrre testi transmediali, ebook, video performance, ovvero a mettere in atto (davvero, questa volta) quella “scuola digitale” tanto promossa da governo, quanto poi inattuata per tutta una serie di motivi, come lo scollamento dalla concreta pratica didattica dei formatori. Io quest’anno ho tenuto delle prime lezioni di formazione sul mio metodo “pop filosofico” e ho riscontrato un grande entusiasmo.

Grandi filosofi e fenomeni culturali di massa, la “pop filosofia” delle serie tv

E i suoi colleghi invece come hanno reagito alle sue scelte didattiche?

Bene, in generale. Sono in tanti, da tutte le scuole italiane, a chiedermi suggerimenti e confronti su questa sperimentazione pop. C’è ancora però qualche diffidenza, ma solo da parte di colleghi che hanno, a mio parere, un’idea molto sterile (e in alcuni casi imbarazzante) dell’insegnamento della filosofia: irrigidito su contenuti arretrati, senza confronto con il testo del filosofo e senza una sua attualizzazione problematica. Per applicare il metodo pop c’è bisogno di fare ricerca, di sperimentazione e soprattutto del desiderio di far crescere tutta la classe, senza lasciare nessuno indietro. Alcuni docenti hanno ancora il mito del programma (che, tra le altre cose, con il metodo pop viene davvero svolto fino al contemporaneo), secondo cui bisogna andare “avanti”. Ma dove? Io voglio, invece, che i miei studenti siano “avanti”.

Tre nomi tra i più noti: Nietzsche, Kant e Spinoza. In quali serie televisive bisogna andarli a cercare e perché?

Non credo che si tratti semplicemente di “andarli a cercare”. Spesso sono loro stessi a manifestarsi: come Parmenide o Nietzsche in True Detective, o Spinoza in The Young Pope. I filosofi vengono esplicitamente citati. Ma si possono fare anche interessanti esperimenti mentali, come accade nel mio libro: immaginare, ad esempio, Kant sull’isola di Lost. In questo modo non rinunciamo alla complessità, anzi la moltiplichiamo. Con il risultato di rendere il tutto ancora più avvincente e interessante per i ragazzi.

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La Filosofia può aiutare ad affrontare il terrorismo? Intervista a Ermanno Bencivenga

15 lunedì Mag 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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ErmannoBencivenga, filosofia, Giunti, intervista, paura, Prendiamolaconfilosofia, saggio, terrore, Terrorismo

 

La filosofia può aiutare ad affrontare il terrorismo? Intervista a Ermanno Bencivenga

Un approccio filosofico può aiutare ciascuno di noi a capire quale sia l’atteggiamento giusto da tenere riguardo il fenomeno terroristico. Questa la base di partenza e il motivo ispiratore di Prendiamola con filosofia di Ermanno Bencivenga (edito da Giunti), un libro che tenta di dare risposta a tutte le domande che è necessario porsi per guadagnare una posizione responsabile in proposito a eventi di oggi o di ieri, questo poco importa, purché si comprenda quanto abbiano da insegnarci.

Paura, terrorismo e cambiamenti epocali inevitabili esaminati con la lente del ragionamento filosofico in un libro che è un’indagine su quanto le parole mettono in gioco nel tempo del terrore.

Ne abbiamo parlato con Ermanno Bencivenga nell’intervista che gentilmente ci ha concesso.

Che cosa può dire un approccio filosofico sul terrorismo rispetto agli altri approcci? In che cosa consiste l’originalità del discorso della filosofia e perché è utile affidarsi a quest’ultimo?

Un approccio storico può informarci sulle origini del fenomeno. Un approccio politico o economico può chiarire quali siano i fattori in gioco, in termini di potere o di finanza. Un approccio legale può illustrare i diritti e doveri che le leggi nazionali e internazionali riconoscono alle varie parti. Un approccio filosofico può aiutare ciascuno di noi a capire quale sia, per lui o per lei, l’atteggiamento giusto nei confronti del fenomeno, mostrandone tutti gli aspetti e tutte le domande cui bisogna dare risposta per raggiungere una posizione responsabile in proposito.

La filosofia può aiutare ad affrontare il terrorismo? Intervista a Ermanno Bencivenga

Libertà di espressione e rispetto per le fedi religiose. Mai come in questi anni tali principi, o meglio diritti, sono spesso al centro di dibattici pubblici e politici. Si sta veramente conducendo una “guerra” planetaria per tutelarli o rischiano di essere o diventare solo una copertura per interessi di altra natura?

Gli interessi di altra natura ci sono, naturalmente. Ma bisogna evitare ogni forma di riduzionismo, economicista per esempio. Ricordiamo il fallimento, intellettuale prima ancora che politico, del riduzionismo di stampo marxiano. Gli esseri umani sono animali razionali, quindi, oltre che da emozioni e interessi, sono mossi dalla ragione. E capire chi abbia ragione, in questi casi, è molto difficile. La difficoltà va affrontata, non evitata con il ricorso a facili slogan che mortificano e avviliscono la nostra natura di esseri pensanti. Una mortificazione che finiremo per pagare: con la frustrazione, con la depressione, con la rabbia.

Nel testo si legge: «che un evento si sia verificato ieri o duemila anni fa non conta», importa solo «quanto abbia da insegnarci». Che cosa abbiamo imparato o che cosa avremmo potuto e dovuto imparare dagli eventi storici passati?

Nel mio libro faccio riferimento, per esempio, al comportamento di Socrate durante il suo processo e la sua esecuzione, nel 399 a. C. Sono eventi sui quali continuiamo a interrogarci e dai quali continuiamo a imparare. È giusto scendere a compromessi per salvarsi la vita? È giusto fare un’eccezione per sé stessi quando si pensa che ci sia stato fatto un torto? È giusto rispondere al male con il male? Socrate ci fornisce le sue risposte e il suo esempio; sta a noi prenderli in esame e decidere da che parte stiamo.

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Tornando ai fatti recenti invece, quanto incidono le emozioni “a pelle” provate per gli attentati alle Torri Gemelle e a «Charlie Hebdo», per citare qualche esempio, su quelle che dovrebbero essere analisi più ragionate e obiettive della situazione contemporanea globale?

Le emozioni sono parte integrante della nostra umanità e bisogna accettarle ed esprimerle. Indipendentemente da tutte le analisi che ne ho fatto, io il giorno dell’attentato alle Torri Gemelle ho pianto in pubblico, e credo fosse una reazione perfettamente umana a quel che era successo. Poi, però, è anche giusto porsi delle domande e cercare delle risposte, anche per evitare che tragedie del genere si ripetano.

La filosofia può aiutare ad affrontare il terrorismo? Intervista a Ermanno Bencivenga

La sensazione è di assistere a un cambiamento epocale che coinvolge e coinvolgerà gli abitanti dell’intero pianeta e che originerà un “mondo diverso”. I paletti che vari stati tentano di mettere per arginare detto cambiamento basteranno a tenerli separati dal resto del mondo oppure, dopo inutili quanto sanguinosi conflitti, cadranno inesorabilmente?

Non c’è alternativa a un mondo planetario. Rinchiudersi in un proprio spazio protetto è una scelta infantile e perdente. Bisogna accettare la sfida, che è culturale prima che politica o economica: inventare insieme una nuova forma di convivenza, trasformare l’attuale situazione di crisi in un’opportunità di crescita comune.

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In questo tempo del terrore, qual è la vera posta in gioco?

Di poste in gioco ce ne sono tante. Come sarà chiaro da tutto quel che ho detto finora, per me la più importante è riuscire a mantenere la nostra umanità e il nostro senso di giustizia sociale, che in questo momento stanno correndo un gravissimo rischio di essere annientati dalla paura, dall’ansia e dall’odio.

http://www.sulromanzo.it/blog/la-filosofia-puo-aiutare-ad-affrontare-il-terrorismo-intervista-a-ermanno-bencivenga

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L’importanza di indagare sul senso della vita ne “Il segreto del coltivatore di rose” di Antonino La Piana (Falco Editore, 2016)

26 mercoledì Apr 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Africa, AntoninoLaPiana, FalcoEditore, filosofia, Ilsegretodelcoltivatoredirose, recensione, romanzo

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Esce con Falco Editore a maggio 2016 il romanzo di formazione di Antonino La Piana, Il segreto del coltivatore di rose. Un libro di poco oltre duecento pagine nel quale l’autore mette nero su bianco tutti i pensieri, le riflessioni, le argomentazioni e gli interrogativi che lo hanno accompagnato dalla giovinezza, trascorsa tra le aule della Facoltà di Filosofia all’età adulta, vissuta in vari paesi soprattutto dell’Africa. E ritornando in maniera fors’anche più acuta nel momento del suo rientro in Italia.
Il segreto del coltivatore di rose pur trattando di temi esistenziali, di religione e filosofia sembra ruotare interamente intorno alla figura del protagonista, che altri non è che lo stesso autore, e spesso la narrazione si perde nel dettagliato racconto di episodi ordinari e quotidiani che non riscontrano molto interesse in chi li legge. Come la rocambolesca rincorsa per non perdere la corsa del tram o l’iter della rottura del fidanzamento, o meglio di quando il protagonista è stato lasciato dalla fidanzata. Il lettore non riesce a ben comprendere il fine ultimo di queste prolungate narrazioni che a volte addirittura interrompono il racconto di altre vicende, in considerazione anche del fatto che esulano dal ragionamento che l’autore porta avanti nel suo libro e che trova la sua conclusione nell’ultimo capitolo.

Tutto questo va un po’ a inficiare il tono e il senso del libro, che a tratti risulta confusionario. Scritto come fosse la trascrizione simultanea dei pensieri e delle riflessioni dell’autore che spaziano e saltellano tra i vari argomenti. Maggiore ordine avrebbe potuto coincidere con un più alto gradimento e interesse in chi legge e, al contempo, avrebbe garantito più spazio alle valide conoscenze ed esperienze che La Piana dimostra di avere e aver fatto.
Interessante risulta il racconto dell’incontro-scontro tra le varie culture, lo stridente contrasto tra le futilità del vivere occidentale e il forte legame con la Terra che ancora conservano le etnie “primitive” che l’autore ha avuto modo di conoscere nei lunghi soggiorni nel continente africano. Traspare dagli aneddoti trascritti ne Il segreto del coltivatore di rose quella corrente che trascina tutti, chi più chi meno, nel vortice dei legami morbosi con gli oggetti solo in apparenza utili e necessari, nell’inutilità del pensiero rivolto solo alla materialità del ‘possedere’ senza la benché minima cura del proprio essere e del proprio pensiero. Un vortice che non lascia indenne neanche lo stesso autore. Accusa La Piana tutti coloro che scelgono di vivere «senza comprendere la ragione ultima per la quale si vive», che sono in buona sostanza il suo esatto contrario, tormentato invece dagli interrogativi esistenziali fin da giovanissimo. «Porsi delle domande, porsi le domande giuste e nel modo giusto, per tentare di cominciare a svelare, almeno in parte, il mistero nel quale siamo immersi», sembra essere il suo mantra.
Un libro particolare, Il segreto del coltivatore del rose di Antonino La Piana, che si ‘insinua’ nella mente di chi legge, nonostante i suoi limiti, e lo accompagna in riflessioni sul senso della vita e sulla vita stessa. Un libro con un finale dichiarato sensazionale dallo stesso protagonista. Il lettore potrebbe non concordare con le conclusioni cui giunge l’autore ma ne apprezza di certo l’entusiasmo. Un libro che nonostante tutto ha il suo perché. E questo, in un ragionamento sugli interrogativi esistenziali, potrebbe anche bastare.

Antonino La Piana: nato a Messina, ha vissuto molto all’estero, soprattutto in Africa. Ha sempre continuato a coltivare la sua passione per la Filosofia. La professione di Funzionario Diplomatico gli ha permesso di entrare in contatto con diverse culture, stimolando ulteriormente la curiosità sui grandi perché della vita.

Source: pdf inviato dall’autore. Ringraziamo l’Ufficio Stampa “Falco editore”.

Articolo originale qui

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Quanto ha inciso l’essere ‘imbecille’ nell’evoluzione umana? “L’imbecillità è una cosa seria” di Maurizio Ferraris (Il Mulino, 2016)

18 martedì Apr 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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filosofia, IlMulino, Limbecillitaeunacosaseria, MaurizioFerraris, recensione, saggio

Ancor più della follia ogni essere umano cerca di tenere lontano da sé l’imbecillità, additandola come appartenente all’altro, al diverso da lui che imbecille non è. O meglio, che tale non si ritiene. Qual è invece la reale situazione osservata con un occhio più critico e obiettivo?

Esce a dicembre 2016 con la Società editrice Il Mulino di Bologna il rapsodico libretto, come lo definisce lo stesso autore, L’imbecillità è una cosa seria di Maurizio Ferraris. Un saggio che, seppur breve e di formato tascabile, stimola nel lettore lo spirito critico, invitandolo alla riflessione, alla discussione, magari anche solo con se stesso, e questo va sempre considerato in maniera positiva essendo il contrario dell’appiattimento, dell’omologazione, della presunzione… oppure, riassumendo in una sola parola, dell’imbecillità. Un libro che non manca comunque di strappare qualche sorriso e diverse smorfie d’ilarità in chi lo legge.

L’autore invita il suo lettore a riflettere sul fatto che «non c’è grandezza umana che non sia travagliata dalla imbecillità» in quanto «le più grandi illuminazioni vengono proprio da lì», essendo l’uomo «la via di mezzo tra un imbecille e il suo contrario». Dove questo contrario, si badi bene, «non è ancora comparso sulla scena del mondo».

L’imbecille è «incapace di incarnare l’uomo al naturale» ovvero privo di «ausili tecnici, giuridici o sociali», siano questi «foglie di fico o loden, clave, ruote, accendini o telefonini». Ciò rende manifesta la duplice inadeguatezza degli imbecilli:

  • Insufficienza Naturale (che impone lo sviluppo della tecnica e della società).

  • Insufficienza Culturale (inadeguatezza dell’umanità rispetto alle sue creazioni, particolarmente evidente nel web).

Leggi anche – Neuromarketing e potere subipnotico dell’era digitale. “Il cervello aumentato l’uomo diminuito” di Miguel Benasayag (Erickson, 2016)

Ferraris più volte sottolinea come progresso tecnico e modernità non ci rendono affatto più imbecilli, semplicemente potenziano «vertiginosamente le occasioni in cui possiamo farci conoscere per quello che siamo». Nell’era di internet la gente si documenta sempre più, un fenomeno questo che può essere considerato «frutto dell’illuminismo, della capacità delle persone di pensare con la loro testa». Che poi questo pensare autonomo possa «non piacere, magari risultando arrogante, aggressivo o semplicemente imbecille è un fatto». L’imbecillità iper-documentata, come la definisce l’autore, rende impossibile continuare a farsi delle illusioni sul genere umano, «illusioni che sono alla base di programmi di palingenesi sociale miseramente falliti, perché muovevano dall’assunto che l’umanità fosse meglio di quella che è».

Per l’autore «dalla follia si può cavare qualcosa, ma dall’imbecillità non pare si possa cavar niente, se non l’umiliazione dell’umana vanagloria». Una gloria-vana che non risparmia alcuno. Élite e massa, antichi e contemporanei ne sono egualmente coinvolti al punto che è proprio il tentativo di fuggire all’imbecillità «l’origine, sia pure fallibile e rischiosa, della intelligenza, della civiltà, di tutto ciò che di buono può aver fatto l’animo umano». Tra imbecillità e genio corre infatti solo una sottile linea rossa, «una linea che però, nella nostra coscienza infelice così come nella nostra ilare incoscienza, non è mai oltrepassata al momento giusto».

Nel saggio L’imbecillità è una cosa seria Maurizio Ferraris ha adoperato le sue conoscenze filosofiche e storiche nonché il suo occhio critico sulla contemporaneità per avvalorare l’assunto del discorso portato avanti con autorevole semplicità e chiarezza, perché non si dovrebbe mai dimenticare che «l’imbecillità infatti è una cosa seria, e non è una cosa per pochi né, soprattutto, per altri» e non «appena ce ne accorgiamo i conti tornano, nell’economia, nella società e nella filosofia della storia».

Maurizio Ferraris: insegna Filosofia teoretica all’Università di Torino, dove dirige il LabOnt (Laboratorio di ontologia). Ha scritto oltre cinquanta libri.

Source: Si ringrazia Ida Meneghello dell’Ufficio Stampa Il Mulino Bologna per la disponibilità e il materiale

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Neuromarketing e potere subipnotico dell’era digitale. “Il cervello aumentato l’uomo diminuito” di Miguel Benasayag (Erickson, 2016)

23 lunedì Gen 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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CentroStudiErickson, Comunicazione, filosofia, Ilcervelloaumentatoluomodiminuito, MiguelBenasayag, neuromarketing, recensione, saggio

Siamo certi che l’unica via possibile per una coabitazione e una coevoluzione fra la vita, la cultura e la tecnica sarebbe questa vera e propria «artefattualizzazione del mondo»? Miguel Benasayag dichiara un suo convinto no e afferma di aver scritto Il cervello aumentato l’uomo diminuito proprio per dare il suo “piccolo” contributo alla famosa questione del senso, che «non è niente di più e niente di meno che il mondo della vita e della cultura», allo scopo di non farla annientare dalla «fascinazione infantile e spesso nichilista dei tecnofili irriflessivi».

El cerebro aumentato, el hombre disminuido uscito nel 2015 con Paidós in Argentina, arriva in Italia nel 2016 edito dal Centro Studi Erickson nella versione tradotta da Riccardo Mazzeo che ne ha curato anche la prefazione. Un libro, Il cervello aumentato l’uomo diminuito, che si rivela fin da subito molto interessante, per l’argomento trattato come per le considerazioni personali dell’autore che possono anche non essere condivise dal lettore ma che egualmente lo invogliano a una utile riflessione sull’evoluzione del mondo e dell’uomo contemporaneo. Benasayag comunque cerca di rimanere quanto più neutrale gli riesce e di affidare a studi scientifici i dati su cui riflettere, con riferimenti a conoscenze mediche, chimiche, fisiche, psicologiche, filosofiche e tecnologiche.

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Per Benasayag lo sviluppo tecnologico sovverte la struttura della nostra società con una forza comparabile soltanto «all’emergenza storica del Rinascimento», con tutto il carico di speranze e di paure che ne deriva. Quella attuale è la prima cultura a essere letteralmente «posseduta dalla tecnologia» che ha generato l’idea di vivere un’epoca dove tutto è possibile, e dove ciò che appare impossibile in realtà viene interpretato come non ancora possibile. Questa «tentazione di una potenza illimitata», che si affianca sempre più spesso alla «promessa di una deregolazione totale», si pone in netta antitesi alla «essenza stessa della vita in tutte le sue dimensioni: la fragilità». Che non va intesa come debolezza, bensì come “caducità della vita” di ungarettiana memoria.

 

L’autore non è contrario alla tecnologia e al suo sviluppo, solamente si sofferma su alcuni aspetti “deviati” del suo utilizzo. Tutto ciò che la tecnologia rende possibile si trasforma, nelle nostre società e nelle nostre vite, «rapidamente in qualcosa di obbligatorio» e non perché ci sia una costrizione fisica ma in quanto questi «possibili» che in «linea di principio ci facilitano la vita, scolpiscono il mondo secondo modi e caratteristiche propri». Inoltre va sottolineato che è in atto una vera e propria «rivoluzione della misura» che «punta a migliorare (aumentare?) le capacità del cervello umano a vantaggio della efficacia economica». Le conoscenze e i risultati degli studi sul cervello vengono usati sempre più spesso come «neuromarketing». Dove condurrà tutto questo? L’intento di Benasayag non è giudicare ma conoscere, capire e, potendolo fare, scegliere se proseguire lungo questa che viene indicata come l’unica via percorribile oppure provare almeno a trovarne delle altre.

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Il cervello umano viene di continuo equiparato a una «Macchina di Turing», capace di elaborare una quantità enorme di dati e di “trarre conclusioni” a partire dall’utilizzazione degli algoritmi e del programma incorporato, ovvero il software. Ma il cervello umano è altro. Innanzitutto questo è legato e strutturato al corpo che lo contiene e la «deterritorializzazione imposta dalla digitalizzazione sta creando una vera e propria distanza fra l’uomo e il mondo, e fra l’uomo e se stesso». Una “deterritorializzazione” che si declina in una «alterazione del cervello e del biologico organico in generale».

L’eccesso di informazione codificata priva di esperienza diretta trasforma gradualmente il cervello in una «lastra di gestione di informazioni» ma si tratta di informazioni che non «modellano il cervello perché non passano per il corpo». Tra gli esempi più efficaci addotti dall’autore spiccano quelli relativi alla formazione e alle “conoscenze” dei bambini.

Gli schermi di TV, giochi, tablet, computer dinanzi ai quali grandi e piccoli umani trascorrono sempre più tempo non solo non «aggregano le dimensioni» ma addirittura le annientano, creando una «forza irresistibile che ci affascina» e ci pone in uno «stato subipnotico, né gradevole né spiacevole: assente».

I bambini hanno perso o stanno perdendo il loro diritto ad annoiarsi, non tollerano la «frustrazione ingenerata dall’interruzione della cascata di stimoli» cui sono quotidianamente sottoposti durante i giorni «regolarmente strutturati da un diluvio di immagini». In questi momenti i bambini si sentono come di fronte a «un vuoto angoscioso». Ciò rappresenta un problema reale in quanto «la noia è fondamentale per lo sviluppo delle zone cerebrali associate all’immaginazione e alla creatività».

 

Scrivere a mano vuol dire «impegnarsi in una pratica che territorializza quel che stiamo pensando» mettendo in movimento reti neuronali e modificando la quantità di neuroni, la loro dimensione, le sinapsi e via discorrendo. La digitalizzazione del mondo, «la sostituzione di qualunque riferimento al mondo, per passare a funzionare con modellazioni di esso» implica un importante mutamento qualitativo. Il ruolo degli umani diventa secondario anche «nella circolazione ultrafluida dell’informazione». L’umano non è che un segmento di tale circolazione, «un segmento ogni volta sempre più destrutturato e fluido».

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Jean-Jacques Rousseau sosteneva che «il problema, con il progresso, è che vediamo quel che guadagniamo ma ignoriamo quello che perdiamo». Tanto più ci avvaliamo di informazioni custodite nella macchina e da questa elaborate, tanto meno il cervello potrà «scolpirsi, svilupparsi». La quantità di «vita intensiva» è differente per ogni cervello e dipende da quel che ciascun cervello «sperimenta». La domanda giusta da porsi è se davvero si vuole “delegare” alle macchine e alla digitalizzazione una quantità via via maggiore di funzionalità che caratterizzano il cervello nella consapevolezza che quello che di questo organo non viene utilizzato o stimolato o sfruttato in breve diventa “perduto”.

 

Nell’interscambio macchina-uomo avviene «un processo in una sorta di playback di trasformazione del cervello in “applicazioni” pratiche». In altre parole: l’interscambio con le macchine “macchinizza” l’uomo. Benasayag evidenzia la necessità di riuscire a «individuare dove si sia posizionata la singolarità in un mondo e in un paesaggio che cambiano giorno dopo giorno». Un mondo dove la tecnologia sembra abbia «colonizzato la cultura e la vita» e dove si può ancora cercare una modalità di «ibridazione umano-biologica-artefatto» che favorisca la «colonizzazione della tecnologia da parte della vita e della cultura».

Un ottimo saggio, Il cervello aumentato l’uomo diminuito di Miguel Benasayag, in grado di accompagnare il lettore in un viaggio nella “fragilità” degli umani in un mondo, quello attuale, in cui tutto sembra orientato verso «l’ideale di emanciparsi dalla natura». L’uomo moderno è colui che «pretende di autocostruirsi», ambisce a essere «il creatore e la creatura» e per raggiungere il suo obiettivo vorrebbe che «nulla di ciò che è innato venga a disturbarlo», incluso il suo corpo. L’uomo moderno però sembra dimenticare o non conoscere che corpo e cervello sono strutturati insieme, che la “potenza tecnologica” in realtà è molto meno complessa del biologico organico, che un “cervello aumentato” non corrisponde necessariamente a conoscenze di “spessore” maggiore… e Benasayag ha fatto benissimo a ricordarlo.

Miguel Benasayag: Filosofo e psicoanalista di origine argentina che vive ed esercita la professione di psicoterapeuta a Parigi. Partecipò alla guerrilla guevarista nel suo Paese dove restò in carcere per anni. È autore anche di L’epoca delle passioni tristi e C’è una vita prima della morte?

Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa del Centro Studi Erickson per la disponibilità e il materiale.

 

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