Una grande città vuota. Così si presenta agli occhi del protagonista una Pietroburgo lasciata sola dalla gran parte dei suoi abitanti, andati via per le vacanze. E così un profondo senso di solitudine assale il protagonista che è anche la voce narrante di un racconto struggente, per l’intensità e il carico di emozioni, sentimenti e speranze. Vissuti o immaginati.
Pensieri cupi e tristi invadono la mente del protagonista, ormai buia come tutto intorno a lui. Eppure è sufficiente un inaspettato incontro con una giovane donna affinché il suo cuore rinvigorisca.
La solitudine è dolore, mancanza di stimoli, di gratificazione e di ricompensa. È una condizione emotiva che va a incidere anche sul corpo nonché, naturalmente, sulla socialità. Tuttavia la solitudine non è essere soli bensì sentirsi tale.
Come si fa a sconfiggere la malinconia? Essere melanconici equivale a essere folli? Bisogna guarire il corpo o la mente? O entrambi?
Una via da seguire può essere quella di curare gli altri per curare se stessi.1
Dostoevskij sceglie di dare al protagonista de Le notti bianche l’illusione che la sua ancora di salvezza sia questa giovane donna, sofferente e misteriosa. Aiutando lei spera di salvare anche se stesso. E di trovare l’amore.
Il mondo raccontato dall’autore è diverso da quello odierno, la sua stessa vita lo è stata. Cresciuto in una famiglia numerosa con un padre rigido, in un ambiente difficile e in una realtà complessa, non poteva non volgere la sua attenzione alle complicanze dell’esistenza umana, alle turbolenze esistenziali. E la sua analisi raggiunge talmente le profondità dell’animo umano che nulla potrà mai toglierlo dall’Olimpo degli scrittori.
Un grande sognatore, il protagonista del racconto, intento nelle sue interminabili passeggiate per le vie della città, privo di una vera vita sociale, realizza, dall’incontro con la ragazza, di aver così ottenuto un autentico momento di vita da ricordare. Ma anche di essere diventato, nel tempo, strano agli occhi degli altri, diverso, assente e di essersene reso conto solo dopo l’impatto con questa ragazza, ovvero lo scontro con la vita reale.
La narrazione è fatta di lunghe attese, momenti fugaci che restano impressi nella mente e che diventano ricordi indelebili a cui cuore e mente si aggrappano per sopravvivere a delusioni e dolori. Racconto di un mondo, in questo, completamente diverso da quello di oggi nel quale, invece, tutto ciò che sembra avere importanza è il qui e adesso. L’istante, la velocità e il cambiamento sembrano essere gli unici valori esistenziali rimasti.
Questo è stato definito «il secolo della solitudine» ma è un sentimento diverso rispetto al passato, abbraccia e viene abbracciata da altri e differenti aspetti della società che ha originato una sorta di economia della solitudine, nata per sostenere e sfruttare chi si sente solo. Un ulteriore tema collegato con il diffuso senso di solitudine attuale è il progressivo isolamento dal mondo reale per rifugiarsi nella realtà virtuale della Rete e dei social. Le vite condivise online sono un’accurata serie di momenti felici e ideali, feste e celebrazioni, spiagge di sabbia bianca e foto di piatti da acquolina in bocca. Il problema però è che queste versioni ritoccate e filtrate di noi stessi sono troppo spesso estremamente lontane dalla vita reale.2
Esattamente come accade al protagonista del racconto di Dostoevskij, il quale si rifugia in un mondo tutto suo, fatto di passeggiate e pensieri, di idee e sentimenti non reali, non condivisi non concludenti.
A volte sembra quasi che la Rete e social siano diventati il luogo immaginario – virtuale – nel quale si riversano tutte quelle fantasie che prima, come ai tempi dell’autore, albergavano solo nella mente della persona che li generava.
Il libro
Fëdor Michajlovič Dostoevskij, Le notti bianche, Garzanti, 2014.
Nella Parigi della Belle Époque, Georges Duroy detto Bel-Ami sogna l’ascesa sociale. Disposto a tutto pur di abbandonare la sua mansarda affacciata sulla ferrovia ed entrare trionfalmente nei salotti della buona società, sfrutta senza ritegno il suo charme e moltiplica le proprie conquiste, facendo così carriera nel giornale in cui lavora e meritandosi la fama di colto viveur. Seduttore senza scrupoli, Georges sa anteporre a ogni valore la propria ambizione, sfrenata e insaziabile, e costruire su di essa una fortuna che sembra non conoscere ombre.
Capolavoro assoluto di Maupassant, Bel-Ami – scritto nel 1885 – offre al lettore moderno un ritratto dellasocietà parigina del XIX secolo, in cui si mescolano giornalismo, politica e gli spiriti animali del nascente capitalismo.
Innumerevoli sono gli spunti di riflessione che il lettore può trarre dalla lettura del libro di Maupassant, sulla società parigina dell’epoca certo, ma anche su quella attuale, in cui tutti gli embrionali spiriti animali di allora non sembrano aver fatto altro che crescere in maniera esponenziale.
Prima di approdare a Parigi, Bel-Ami aveva trascorso un periodo in Africa, come soldato nella campagna d’Algeria, mosso da non proprio nobili intenti, comportandosi più da predone che da gentiluomo. Filosofia di vita che addirittura inasprì una volta giunto in Francia.
Lo stile narrativo, i personaggi come anche le ambientazioni sono pregne dell’aria dell’epoca. Nulla sembra aver fatto Maupassant per edulcorare l’amara realtà, anche laddove si lascia andare a una finzione ricercata. Lungo tutto il libro si percepisce una sorta di pessimismo, che rimanda a tratti all’esistenzialismo dei vinti di Giovanni Verga.
Non c’è alcuna speranza nel mondo raccontato da Maupassant e neanche l’arte sembra riuscire a salvare questa umanità dalla barbarie sopraffina certo ma, al tempo stesso, brutale e insensata.
Una solitudine diffusa sembra accompagnare gli uomini e l’umanità intera. Anche quando le persone si riuniscono e si uniscono.
Una solitudine che ci conduce proprio al giorno d’oggi perché di certo non è un sentimento che nasce in questo secolo ma è in questo periodo storico che abbraccia e viene abbracciata da altri e differenti aspetti della società, originando una vera e propria “economia della solitudine”. Un male sottile che si è insinuato dentro di noi e ha permeato ogni aspetto della nostra società. É la solitudine strutturale del sistema capitalistico, che ci spinge a pensare solo a noi stessi e a vedere gli altri come concorrenti o nemici.1
Bel-Ami non è soltanto una tranche de vie sull’ambiente del giornalismo parigino, nella tradizione balzachiana e zoliana, è soprattutto una storia di spietato disincanto sulla chiusura di ogni speranza umana nella Francia degli affari, dei banchieri e degli speculatori. Il rapido successo del romanzo è la conferma di un sistema corrotto che consente tutto agli avventurieri spregiudicati, calpestando sentimenti e nobili aspirazioni, inclinazioni all’eroismo romantico.
E anche in questo, purtroppo, il tempo non ha fatto altro che dare modo al genere umano di aggravare le sue posizioni.
Le banche, soprattutto quelle grandi, investono molto tempo nel tentativo di apparire quanto più sicure e organizzate possibile ma in realtà molti bancari non hanno competenze richieste in altri settori economici. Grandi o piccole che siano, in genere sono organizzate in compartimenti stagni e sono fortemente scoraggiati i confronti tra vari settori che non siano quelli verticali e istituzionali. Tutti parlano di un sistema basato sulla meritocrazia, ma in realtà intendono la capacità di far fare soldi e di farli a loro volta.2
La parola d’ordine sembra essere, oggi come ieri, arricchitevi!
Nel libro di Maupassant puntuali sono i riferimenti ai traffici coloniali e alla situazione politica francese, all’affarismo dei politici, al giornalismo asservito agli interessi finanziari. Argomenti tutti che spingono il lettore a una corposa serie di riflessioni sulla contemporaneità degli scritti dell’autore, sui nodi e sui problemi ancora irrisolti, in alcuni casi peggiorati in altri, per fortuna, migliorati. Sulla società francese dell’epoca e su quella attuale. E la possibilità concreta di estendere tali riflessioni alla società italiana.
Il libro
Guy De Maupassant, Bel-Ami, Garzanti – Gruppo Editoriale Mauri Spagnol, Milano, 2017. Traduzione dal francese di Lanfranco Binni.
1Noreena Hertz, Il secolo della solitudine. L’importanza della comunità nell’economia e nella vita di tutti i giorni, Il Saggiatore, Milano, 2021.
2Joris Luyendijk, Nuotare con gli squali. Il mio viaggio nel mondo dei banchieri, Einaudi, Torino, 2016.
Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com
Nel momento esatto in cui Adam Hochschild scopre l’esistenza del movimento mondiale contro la schiavitù in Congo – di cui ha fatto parte, tra gli altri, lo scrittore Mark Twain – si chiede come sia stato possibile che ne fosse rimasto tanto a lungo all’oscuro. Una pratica che aveva mietuto da cinque a otto milioni di vittime. Le statistiche sugli stermini sono spesso difficili da confermare. Se la cifra esatta fosse anche solo la metà il Congo sarebbe comunque stato il teatro di una delle maggiori stragi dell’epoca moderna. Eppure non ha mai fatto “tanta notizia”.
Gli spettri del Congo di Adam Hochschild è la storia di quel movimento, del selvaggio crimine che ne rappresenta il bersaglio, del lungo periodo di esplorazioni e conquiste che lo precedette e del modo in cui il mondo ha dimenticato, o ignorato, una delle grandi stragi del recente passato.
Dietro l’entusiasmo europeo si celava non di rado la speranza che l’Africa diventasse una fonte di materie prime per la Rivoluzione industriale. Ma agli europei piaceva pensare di avere motivazioni più nobili. In particolare, i britannici credevano fermamente di dover portare la “civiltà” e il cristianesimo agli indigeni.
L’autore sottolinea come una delle esperienze più inquietanti per chi si recava nell’allora Unione Sovietica era passeggiare lungo le ampie gallerie del Museo della rivoluzione in via Gorky, a Mosca. Vi erano esposte centinaia di fotografie e dipinti di rivoluzionari con il colbacco che facevano capolino da dietro barricate coperte di neve, innumerevoli fucili, mitragliatrici, bandiere e vessilli e una vasta collezione di altre reliquie e documenti, senza che vi fosse alcuna traccia dei venti milioni di cittadini sovietici morti nei sotterranei delle esecuzioni, durante carestie provocate dall’uomo e nei gulag.
Oggi quel museo moscovita ha subito cambiamenti che i suoi creatori non avrebbero mai immaginato. All’altro capo dell’Europa, invece, ce n’è uno che non è cambiato affatto: il Museo reale dell’Africa centrale e Bruxelles. In nessuna delle venti ampie gallerie del museo ci è traccia dei milioni di congolesi rimasti vittime di una morte crudele. E Bruxelles non è la sola.
A Berlino non vi sono musei o monumenti in ricordo degli herero massacrati, mentre a Parigi e Lisbona nulla rievoca il terrore della gomma che decimò metà delle popolazioni di alcune zone dell’Africa francese e portoghese.
Il Congo diventa nel libro di Hochschild un esempio di politica dell’oblio. Un simbolo, un faro che va a illuminare anche le altre innumerevoli “dimenticanze”.
Dopo aver letto Gli spettri del Congo viene naturale chiedersi quanto siamo diversi noi occidentali oggi, rispetto agli inglesi convinti di dover civilizzare il mondo.
Quella compiuta da Adam Hochschild è un’approfondita e dettagliata analisi di un sostanzioso periodo storico, che inizia sul finire del 1800, e riguarda molteplici popoli dislocati in varie parti del mondo, uniti da una linea rossa che li lega insieme e, al contempo, li divide. Un libro che racconta la Storia che molti non hanno mai voluto vedere e altri hanno preferito dimenticare. Un libro tanto cruento e brutale quanto veritiero e necessario.
Il libro
Adam Hochschild, Gli spettri del Congo. La storia di un genocidio dimenticato, Garzanti, Milano, 2022.
Titolo originale dell’opera: King Leopold’s Ghost.
Traduzione dall’inglese di Roberta Zuppet.
L’autore
Adam Hochschild: è uno scrittore, giornalista e storico statunitense. Con Gli spettri del Congo ha vinto il Duff Cooper Prize.
Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Garzanti Editore per la disponibilità e il materiale.
Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com
«Dalla pace all’inferno, nel volgere di un fulmine scagliato in piena notte.»
È questa l’immagine che Nello Scavo dà della guerra in Ucraina. E lo fa perché è la prima volta che si trova sul posto e vede la guerra scoppiare, improvvisa e ineluttabile.
Ovvio che l’esplosione del conflitto russo-ucraino non è stato così improvviso e repentino. E di questo l’autore parla abbondantemente nel testo. Ma il fatto di essersi recato a Kiev quando ancora il conflitto sembrava lontano ed essersi ritrovato a correre per trovare riparo nei rifugi è un qualcosa che non poteva non scuotere la mente, anche di un cronista che ha raccontato i maggiori conflitti degli ultimi decenni, perché avvezzi a questo genere di cose non lo si diventa mai.
Scavo sottolinea come il giornalismo non sia storiografia. È il racconto dell’istante, con la promessa di mettere insieme i fatti e trovare le connessioni. Ma non potrà mai essere un racconto arido e distaccato, per chi lo vive in prima persona. Perché la guerra non si dimentica. E le storie non ti abbandonano mai.
«La guerra è per sempre. Non si guarisce dalla guerra.»
Inviato in Ucraina per raccontare quanto accade nel Donbass, Scavo arriva a Kiev il 22 febbraio 2022. Il giorno palindromo, dove inizio e fine coincidono. E l’inizio del suo viaggio coincide con la fine della pace per la capitale ucraina.
Una guerra assurda, come tutte le altre, strumentale e strumentalizzata per scopi economici, politici e geopolitici da ambole parti.
La guerra di secessione nel Donbass esplode nel 2014, allorquando le repubbliche di Donetsk e Lugansk rivendicano la loro autonomia da Kiev. Repubbliche nate dopo le manifestazioni di militanti filorussi in opposizione al governo filo-occidentale insediatosi in seguito alle rivolte popolari dell’Euromaidan a Kiev.
Le parti si scambiano accuse, ma i 70mila cittadini del Donbass che, secondo stime ufficiali russe, in un solo fine settimana sono stati aiutati dalle forze di Mosca a raggiungere l’area di Rostov, sono la prova di un’insanabile distanza da Kiev. La medesima che gli ucraini filo-occidentali vogliono prendere da Mosca. Per certo il governo di Kiev lo vuole.
Ricorda Scavo che non sono solo i russofoni ad essere insofferenti verso il governo di Kiev. Dalla caduta dell’Unione Sovietica le disparità fra centro e periferia non sono mai state appianate. Ancora oggi, se nella capitale il reddito medio mensile è di quasi 700 euro, nel Donbass non arriva a 300. Fare leva sul disagio economico delle periferie e sulla corruzione dilagante ha consentito al Cremlino di costruire, pian piano, il successo dei leader indipendentisti e la disaffezione al governo centrale. Il possibile allargamento della Nato poi ha rappresentato il pretesto perfetto per passare all’azione.
Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, al pari di altri Paesi, anche l’Ucraina ha conquistato l’indipendenza. Dal 1923 al 1991, è stata una delle Repubbliche dell’ex Unione Sovietica, ricoprendo il ruolo fondamentale di «granaio dell’URSS». Dopo l’indipendenza, la relazione tra Mosca e Kiev è stata travagliata e ondivaga, a causa dell’alternanza di governi filorussi e altri più vicini all’Occidente, in particolare quelli di Juščenko e quello attuale di Zelensky.
Negli ultimi anni, l’Ucraina ha ricevuto il supporto militare del fronte occidentale (2.7 miliardi di dollari gli aiuti ricevuti dagli USA dal 2014), riaccendendo le preoccupazioni russe di fronte a un suo ulteriore avvicinamento alla NATO.1
La situazione a Kiev precipita nel giro di poche ore. Bisogna evacuare anche gli hotel dove stazionano i giornalisti. Grazie all’aiuto dei funzionari dell’ambasciata italiana, Scavo e gli altri colleghi riescono a trovare un modo per spostarsi in un altro luogo sicuro eppure, proprio nel momento della partenza, accade qualcosa di apparentemente inspiegabile.
I due agenti della guardia nazionale ucraina, incaricati di proteggere l’ambasciata e di portarli al sicuro sono scappati e in più, prima di fuggire, hanno spezzato la chiave del veicolo all’interno del sistema di avviamento. Le motivazioni di questo gesto sono ovviamente sconosciute ma Scavo riferisce che i militari italiani hanno avanzato l’ipotesi che il gesto sia stato motivato dalla speranza che i cecchini russi li colpissero, in modo da sollevare fin dalle prime ore di guerra un caso internazionale contro Putin.
L’Ucraina accusa le forze russe di «crimini di guerra» affermando di raccogliere prove da sottoporre alla Corte penale internazionale.
Mosca risponde annunciando di aver preparato un fascicolo fotografico con le prove del «genocidio» nel Donbass.
Una guerra di piombo e propaganda.
Nel suo intervento al Consiglio di sicurezza dell’Onu del 5 aprile 2022, Zelensky ha chiesto, per quanto accaduto a Bucha, il «processo per crimini di guerra», evocando il «Tribunale di Norimberga», nonché «la rimozione» della Russia dal Consiglio di sicurezza.
L’ambasciatrice statunitense all’Onu ha subito dichiarato la piena solidarietà per «questo brutale attacco alla vostra sovranità, democrazia e libertà».2
Il procuratore della Corte penale internazionale, Karim Khan, già il 2 marzo 2022 ha annunciato di aver aperto un’indagine sulla situazione in Ucraina, per tutti gli atti commessi da chiunque in qualunque parte del territorio a partire dal 21 novembre 2013, assicurando che l’indagine sarà condotta in «modo obiettivo e indipendente».
L’Ucraina non è un Paese membro, ma dal 2014 ha accettato la giurisdizione della corte. Mosca ha ritirato la sua firma dallo Statuto di Roma, il Trattato fondatore della Corte penale internazionale, che può raggiungere i russi solo se arrestati sul territorio di uno stato che rispetta la sua giurisdizione. Gli Stati Uniti non sono parte della Convenzione di Roma.3
L’Ucraina è ormai un Paese in guerra e dal quale tutti cercano di fuggire. Ma a farlo sono soprattutto donne, bambini e fragili perché agli uomini in età utile per combattere è proibito. Ma, sottolinea Scavo, la fuga dall’Ucraina non è per tutti anche e soprattutto per un altro triste motivo.
Se infatti i cittadini bianchi vengono fatti transitare alla frontiera con la Polonia senza troppe lungaggini, al contrario vengono rinchiusi in vere e proprie gabbie gli stranieri di colore. Una discriminazione denunciata anche dallo stesso governo di Kiev, che avrebbe chiesto una evacuazione inclusiva dei civili.
Ma la Storia purtroppo è sempre la stessa.
Quando nel 2020 lungo il confine terrestre tra Grecia e Turchia i profughi bloccati alla frontiera «sobillati da Erdogăn, inscenarono una guerriglia per entrare nel territorio dell’Unione Europea», si scontrarono con Bruxelles che mobilitò diplomazia e risorse per respingere afghani e siriani. Eppure essi scappavano dalle stesse bombe che oggi vengono sganciate sull’Ucraina. I siriani poi, ricorda Scavo, scappavano proprio dalle bombe a grappolo scaricate dai bombardieri russi. A Kiev «i superstiti suscitano empatia nell’opinione pubblica europea. Ad Aleppo no».
Il 3 marzo 2022, Nello Scavo lascia l’Ucraina, dopo aver impiegato ventisette ore per percorrere i trecento chilometri che separano Kiev dal confine con la Moldavia. Fino al giorno prima è stato nella residenza dell’ambasciatore italiano, il quale ha accolto tutti, compresi decine di italiani con i loro neonati, «tutti figli dell’utero in affitto».
Secondo i dati diffusi dall’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati (UNHCR-ACNUR), un milione di persone sono fuggite dall’Ucraina in una sola settimana, circa 150mila al giorno.
Al 6 maggio 2022 le stime parlavano di 5.4 milioni. Per la maggiore sono donne e bambini. Oltre 13mila minori non accompagnati oppure separati dalle famiglie. Lo spettro della tratta di esseri umani preoccupa non poco.
Dopo lo scoppio della guerra centinaia di pullman e volontari si sono precipitati in Polonia, al confine, per soccorrere i profughi. In mezzo a loro si sono infiltrati anche i malintenzionati. Giovan Battista Cicchetti Marchegiani – Presidente R.O.E. Protezione Civile – sottolinea come lì, soprattutto nei primi giorni, fosse “terra di nessuno”, «sono arrivate persone che avevano fedine penali non pulite. Italiani. Zona dell’Adriatico, avevano precedenti, lo sfruttamento della prostituzione. Proprio volevano scegliere donne. Addirittura, come se fossimo a un mercato».4
Alcune donne hanno raccontato che, durante il tragitto, si sono fatti avanti dei tizi, anche anziani, per offrire un passaggio o un tetto per la notte. Qualche volta è andata a finire come in ogni guerra: «Hanno allungato le mani promettendo denaro e un viatico facile per donne e bambini». La notizia viene confermata a Scavo da fonti diverse sui due lati, in Ucraina e in Moldavia.
Dal 12 maggio 2022 è attiva la piattaforma di Anti-Trafficking dell’Ue volta ad attuare il Piano comune di contrasto della tratta di esseri umani e sostenere le potenziali vittime tra coloro che fuggono dalla guerra in Ucraina.5
Numerose sono le segnalazioni di discriminazione e persino di violenza contro i cittadini provenienti da paesi terzi dell’Africa e dell’Asia meridionale e di altri gruppi etnici minoritari, compresa la popolazione rom.
Oltre ai civili, anche il personale dell’UNHCR è stato coinvolto nei combattimenti. Per Nello Scavo il messaggio che vuol dare Mosca è chiaro: in Ucraina nessuno deve sentirsi al sicuro. Per certo neanche i giornalisti possono farlo. I reporter uccisi sono già sei agli inizi di marzo, decine quelli feriti. E poi ci sono i giornalisti rapiti e torturati.
La mente dell’autore ritorna a Sarajevo, dove i cecchini puntavano le proprie armi sui reporter facendo della loro uccisione un trofeo di guerra. Anche i giornalisti caduti in Ucraina erano perfettamente riconoscibili eppure i colpi di mortaio e quelli dei tiratori scelti non li hanno risparmiati. Bisogna comunque ricordare con Scavo che, anche prima degli scontri, non è che l’Ucraina fosse proprio il regno della stampa libera. Nel Rapporto annuale di Reporter senza frontiere, Kiev si colloca alla posizione 97 su 180 Paesi. La guerra poi, come sempre, inasprisce e peggiora ogni cosa.
«I caduti per la libertà d’informazione sono una terribile costante di tutti i recenti conflitti. Ma qui vengono eliminati da forze regolari, non da bande di miliziani».
Il libro di Nello Scavo Kiev è un resoconto giornaliero, dettagliato e sconvolgente, di quanto accade a un inviato in zone di guerra. Di ciò che osserva, che gli viene riferito, che ricorda e di come poi tutto ciò condiziona la sua mente e il suo cuore. Il distacco totale non può esistere in queste situazioni, se non nell’imparzialità, fondamentale, delle notizie riportate. Ma la persona, beh quella rimane innegabilmente condizionata, impressionata, impaurita, addolorata. Cambiata.
L’aver scelto di lasciare la forma degli appunti sul campo risulta fuor di dubbio ottimale per rendere il lettore in qualche modo partecipe di quanto l’autore scrive, di quanto ha scritto quando si trovava lì e in quel preciso momento entrava in un rifugio, si metteva al riparo da un bombardamento, cercava ristoro per aver trovato un nuovo luogo sicuro, almeno per quel momento.
Ci sono degli aspetti seri e gravi del lavoro da inviato che spesso tendono a sfuggire o a essere accantonati, dimenticati cedendo all’errore che la guerra sia quella raccontata dalle parole o dalle immagini e video. Scavo ricorda al lettore che la guerra invece è quella che si combatte sul campo, che distrugge e uccide, vite e innocenti, luoghi e Storia. Aiutandoci a ricordarne l’assurdità oltre che l’atrocità.
E in questi giorni Nello Scavo si è recato nuovamente in Ucraina per raccontarli.
Il libro
Nello Scavo, Kiev, Garzanti, Milano, 2022.
L’autore
Nello Scavo: È inviato speciale di «Avvenire». Negli anni ha indagato sulla criminalità organizzata e il terrorismo globale.
1 ISPI- Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, Speciale Russia-Ucraina: 10 mappe per capire il conflitto, 10 marzo 2022, consultabile online: https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/speciale-russia-ucraina-10-mappe-capire-il-conflitto-33483
4Claudia Di Pasquale, Umanità a due facce, servizio per Report, puntata del 30 maggio 2022, consultabile online: https://www.rai.it/programmi/report/inchieste/Umanita-a-due-facce-9a468191-7ee8-49ed-8b2a-87b39c962776.html
Per Elizabeth Warren, l’America ha costruito il più grande ceto medio che il mondo abbia mai conosciuto e lo hanno fatto gli stessi americani, con il duro lavoro e il supporto di politiche governative volte a creare maggiori opportunità per milioni di persone. Utilizzando tutti i mezzi possibili: politiche fiscali, investimenti nell’istruzione pubblica, nuove infrastrutture, sostegno alla ricerca, regole di protezione per i consumatori e gli investitori, leggi antitrust.
Ma ora tutta le gente è, giustamente, preoccupata. Preoccupata e arrabbiata. Giustamente.
Lo è perché, nonostante si ammazzi di lavoro, non vede praticamente crescere il proprio reddito. Perché le spese per la casa e l’assistenza sanitaria erodono quasi completamente il suo bilancio. Perché pagare l’asilo o l’università dei figli è diventato impossibile. Perché gli accordi commerciali sembrano creare posti di lavoro e opportunità per la manodopera in altre parti mondo, lasciando le fabbriche in territorio americano abbandonate. Perché i giovani sono strozzati dai prestiti studenteschi, la forza lavoro è fortemente indebitata e per gli anziani la sicurezza sociale non riesce a coprire le spese della vita di tutti i giorni.
L’attuale situazione sta impoverendo sempre più il ceto medio e distruggendo la democrazia. Una condizione che risulta essere molto simile a quanto sta accadendo in altri paesi occidentali, Italia compresa, ovvero in tutte o quasi le potenze del vecchio mondo.
Warren sottolinea come i meccanismi di questa democrazia così duramente conquistata e infinitamente preziosa sono stati in realtà fortemente alterati.
Il sistema oggi funziona ancora bene per chi si trova ai vertici. Per ogni azienda abbastanza grande da assumere un esercito di lobbisti e avvocati. Per ogni miliardario che in proporzione paga meno tasse rispetto a un semplice dipendente. Per tutti coloro che hanno abbastanza soldi per comprare favori a Washington.
Si tratta di un tipo di corruzione molto più insidioso e pericoloso di quella “tradizionale”, vecchio stile, con bustarelle piene di denaro contante, perché sta trasformando il governo in uno strumento nelle mani di quanti già possiedono ricchezze e influenze.
L’autrice elenca tutta una serie di dati su cui è bene riflettere:
Più del 70% degli americani crede che gli studenti dovrebbero avere accesso all’istruzione senza doversi indebitare.
Quasi tre quarti degli americani sono a favore di un ampliamento della previdenza sociale.
Due terzi degli americani sono a favore dell’avvento del salario minimo federale.
Tre quarti degli americani vogliono che il governo federale aumenti la spesa per le infrastrutture.
Un numero di americani pari al doppio degli elettori di Trump vorrebbe salvaguardare e rafforzare l’Ufficio per la tutela finanziaria dei consumatori.
E sembra avere ben chiaro in mente anche il modo con cui riuscire ad ottenere tutto ciò: aumentando le tasse di chi sta ai vertici.
Il punto però è che ciò è quello in cui crede la grande maggioranza degli americani: democratici, repubblicani, indipendenti, libertari, vegetariani… E ognuno di questi gruppi è convinto che saranno i rispettivi leader ed esponenti politici a perseguire gli obiettivi una volta raggiunti i palazzi del potere.
Nel 2016, è la stessa Warren ad ammetterlo nel testo, proprio mentre montavano tutte queste preoccupazioni e questa rabbia, arrivò un imbonitore che fece grandi promesse. Un uomo che giurava avrebbe bonificato la palude della politica.Un uomo a cui hanno creduto tanti americani. Un uomo che è diventato Presidente degli Stati Uniti d’America.
Quello che vogliono gli americani è chiaro. Su chi hanno puntato per ottenerlo nel 2016 anche. La domanda è su chi cadrà la scelta alle prossime imminenti elezioni presidenziali.
Nel saggio Elizabeth Warren racconta numerosi aneddoti e testimonianze che ha personalmente raccolto nel mondo del ceto medio americano. Storie anche molto tristi di persone che hanno perso il lavoro, la casa, la stabilità, la sicurezza, la possibilità di studiare, la speranza in un futuro migliore. Storie vere senza ombra di dubbio alcuno. Storie più diffuse di quanto normalmente si pensi, anche.
Ma la gente si compone, in America come altrove, in maniera molto variegata. Magari non le persone intervistate dall’autrice ma altre, con storie simili, potrebbero anche appoggiare quelle idee e quelle scelte che per Warren sono inconcepibili, e magari arrivare davvero a pensare che un muro lungo il confine messicano avrebbe risolto chissà quanti e quali problemi. E forse, nonostante tutto, lo pensano ancora.
È successo anche altrove. È successo anche in Italia.
Il 20 gennaio 2017 a Washington l’autrice narra di essere rimasta molto turbata da uno striscione tenuto da alcuni manifestanti. Un rettangolo di stoffa su cui figuravano grandi e poche lettere, un’unica parola scritta tutta in maiuscolo: FASCISTA.
Warren afferma di aver già sentito usare quella parola quando era solo una bambina, una parola che era un’offesa. Ma che quel giorno le risuonò nella mente in maniera differente, per certo più incisiva.
Ci sono posti che invece quella parola la conoscono bene, ne conoscono gli effetti, eppure sembra che, proprio in quei luoghi, l’accezione negativa non sia più tanto tale.
In Europa, in molte parti di essa, sembra quasi che si guardi a quel periodo con nostalgia e a farlo non sono sette o gruppi segreti, è la gente, la stessa di cui racconta anche la Warren, quella arrabbiata e preoccupata, giustamente, per il proprio futuro. Molto arrabbiata e molto preoccupata e, forse, proprio per questo facilmente permeabile dalle idee di coloro che mostrano loro i “reali” colpevoli della triste situazione in cui versano.
Ma la soluzione non è mai così semplice, e più i problemi sono grandi più il percorso da compiere è lungo e difficile. Ed è esattamente questo che vuol fare Elizabeth Warren: perseverare, resistere, insistere, lottare, ogni giorno, e farlo per il dono sorprendente che abbiamo ereditato dalle generazioni di americani che ci hanno preceduto: la nostra democrazia.
Perseverare, resistere, insistere, lottare.
Un libro, Questa lotta è nostra lotta di Elizabeth Warren che è un manifesto per i diritti umani e civili dei lavoratori americani, che dovrebbe essere sottoscritto dai lavoratori di ogni parte del mondo.
Bibliografia di riferimento
Elizabeth Warren, Questa lotta è la nostra lotta, Garzanti, Milano, 2020.
Traduzione dall’inglese di Paolo Lucca.
Titolo originale dell’opera This fight is our fight. The battle to save America’s middle class
L’autore
Elizabeth Warren ha insegnato diritto commerciale presso l’Università di Harvard prima di essere eletta senatrice del Massachusetts e candidata alle primarie del partito democratico per le elezioni presidenziali degli Stati Uniti.
Negli ultimi venti anni sono stati eretti in tutto il mondo muri e recinti per migliaia di chilometri. Almeno sessantacinque paesi, ovvero più di un terzo degli stati nazionali del mondo, hanno costruito barriere lungo i propri confini.
Tim Marshall, per trent’anni corrispondente estero BBC e Sky News, inviato di guerra in Croazia, Bosnia, Macedonia, Kosovo, Afghanistan, nel saggio I muri che dividono il mondo, edito in Italia nel 2018 da Garzanti, non si limita a elencarli e a descriverne le caratteristiche. Va ben oltre. Indaga a fondo e racconta per esteso le motivazioni che hanno portato alla costruzione di quelli che egli chiama muri ma che sono, in realtà, barriere, recinti e divisioni di ogni tipo.
Impossibile analizzarli tutti così Marshall si è concentrato su quelle divisioni che illustrano meglio i problemi dell’identità in un mondo globalizzato, oppure gli effetti della migrazione di massa (gli Stati Uniti, l’Europa, il subcontinente indiano), il nazionalismo come forza di unità e al contempo di divisione (la Cina, il Regno Unito, l’Africa), i legami tra religione e politica (Israele e Medio Oriente). Le divisioni fisiche, ricorda Marshall, riflettono le divisioni culturali – le grandi idee che hanno guidato le nostre civiltà e ci hanno dato un’identità e un senso di appartenenza – come il grande scisma cristiano, la suddivisione dell’islam nelle due fazioni sciita e sunnita, fascismo e democrazia. Di fronte a minacce percepite, come la crisi finanziaria, il terrorismo, il conflitto armato, i profughi e l’immigrazione, il crescente divario tra ricchi e poveri, le persone si attaccano maggiormente ai rispettivi gruppi di riferimento. Si accentua la paura verso tutto ciò che è o rappresenta l’altro, il diverso e alla fine tutto si riduce al concetto di noi e loro e ai “muri che costruiamo nelle nostre menti”, prima ancora di farli diventare concreti, reali, fisici.
Dobbiamo prendere coscienza di ciò che ci ha diviso, e di ciò che continua a dividerci, per capire cosa sta accadendo oggi nel mondo. Ed è esattamente quello che ha fatto Tim Marshall nel testo. La nostra capacità di pensare e di costruire ci dà la possibilità di riempire gli spazi divisi dai muri con la speranza, in altre parole di costruire ponti.
«Per ogni muro che separa due paesi c’è un’autostrada dell’informazione; per ogni al-Qaeda c’è un gruppo di assistenza interreligiosa; per ogni sistema antimissile c’è una stazione spaziale internazionale.»
Una lettura molto intensa, I muri che dividono il mondo di Tim Marshall. Un libro che pone il lettore di fronte una innegabile realtà dell’essere umano in quanto tale, che invita alla riflessione sui grandi temi e le tante ideologie che hanno diviso volendo unire e finito per unire laddove lo scopo era dividere. Una fotografia del mondo di oggi, triste per certi versi ma non senza speranze per l’autore, il quale pur consapevole della attuale continua ascesa di nazionalismi e politiche identitarie continua a ritenere possibile e probabile lo spostamento del “pendolo della Storia” che potrebbe tornare a oscillare in direzione dell’unità.
Assolutamente condivisibile la sua speranza purché venga nutrita e alimentata da certezze ed evidenze reali. Il rischio è quello di aggrapparsi a ogni seppur effimero barlume di cambiamento, anche laddove si riveli un fuoco di paglia.
Nel 1989 è caduta una importante barriera, il Muro di Berlino, dando inizio a quella che sembrava una nuova era di apertura e internazionalismo. Sull’onda dell’entusiasmo di quei momenti alcuni intellettuali arrivarono a prevedere la fine della Storia. Un errore, come sottolinea lo stesso Marshall, perché “la Storia non finisce”. Mai. E le migliaia di chilometri di muri e recinti costruiti o rimasti da allora ne sono la triste e palese dimostrazione. Purtroppo.
Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Garzanti per la disponibilità e il materiale
Carmela Scotti perde il padre e, per riuscire a gestire l’immenso dolore, inizia a pensare ai modi per affrontarlo. Nasce così un personaggio, Catena Dolce, e intorno a lei una storia che diventerà L’imperfetta edito da Garzanti e finalista al Premio Calvino.
Il romanzo della Scotti è di forte impatto emotivo. Fin dalle prime battute la sua scrittura letteralmente rapisce chi sta leggendo.
L’imperfetta non è un libro autobiografico e Catena non è Carmela Scotti, ma il racconto del dolore, quello vero che proviene dal profondo delle viscere, beh quello è autentico senza ombra di dubbio. E anche la Sicilia raccontata nel testo poteva essere solo frutto di chi a fondo la conosce e l’ha studiata.
La storia è ambientata sul finire dell’Ottocento, in un piccolo paese «conficcato come un chiodo arrugginito nel cuore della Sicilia». La Scotti riporta ne L’imperfetta tutto il bagaglio di tradizioni, superstizioni, usanze… che appartengono alla sua Sicilia ma che facilmente possono ritrovarsi in qualsiasi altro sito italiano, lungo la dorsale appenninica e non solo. Risulta molto interessante l’esposizione delle erbe mediche e delle loro proprietà ma ciò che realmente colpisce il lettore e lo trafigge come un colpo ben assestato di roncola è la realizzazione che in fondo il mondo, anche se oggi è molto differente da quello descritto dall’autrice, non cambierà mai veramente.
A risultare imperfetta è la società col suo trito di pregiudizi omologazione cattiveria e violenza. Il mondo appartiene agli uomini e le donne, purtroppo, imparano presto quanto per loro è più difficile vivere e sopravvivere. Allora come oggi.
Catena è una ragazzina «nata da una radice di dolore», a cui non sembra di diventare più grande nonostante il tempo che passa in quanto non è «mai davvero stata bambina». Una giovane donna che non si piega al dolore, alla sofferenza, alla violenza, alla punizione… la sua forza e le sue conoscenze fanno paura e allora non riuscendo ad ammansirla la additano come pazza e diventa una strega, una mavara. Al rogo venivano messe all’epoca quelle come lei, condannate dalla società e dalla Chiesa.
Il prete non si fa scrupoli però a rivolgersi a lei in cerca di un filtro d’amore da somministrare alla bambina che gli è stata data e che non lo vuole. Catena vendica la bambina e per tutti è lei la sola colpevole. Omologazione convenzioni e ipocrisia spesso si rivelano mali più deleteri dei crimini perché alla fine colpiscono sempre gli stessi, gli ultimi e gli indifesi.
L’imperfetta di Carmela Scotti è un libro straordinario che racconta una storia tanto inquietante quanto interessante utilizzando un registro narrativo che sembra provenire dalle viscere di chi scrive e raggiunge senza difficoltà quelle di chi legge.
Carmela Scotti: Scrittrice italiana. Nata in Sicilia. Diplomata in pittura e fotografia all’Accademia di Belle Arti di Palermo. Ha vissuto a Palermo Roma e Milano facendo i mestieri più diversi. Attualmente risiede in Brianza. L’imperfetta è il suo primo romanzo, finalista al Premio Calvino.