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Irma Loredana Galgano

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G8, scuola Diaz e Bolzaneto: Il tempo trasforma la colpa in merito?

13 sabato Gen 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Bolzaneto, Diaz, G8, Genova, Italia, italiani, paura, violenza

Nel novembre del 2015 nuove condanne furono inflitte agli agenti di polizia e funzionari che non impedirono le violenze alla scuola Diaz nel luglio 2001, allorquando si svolse il G8 a Genova. Il risarcimento richiesto ammontava a 350mila euro ma il giudice della Corte dei Conti lo ha ridimensionato accogliendo la tesi secondo cui non essendo stati identificati tutti i responsabili del pestaggio non si poteva accollare l’intero importo esclusivamente agli indagati. Il Tribunale di Genova ha così condannato i responsabili al pagamento di 110mila euro, a titolo di risarcimento morale e materiale per le violenze subite dal giornalista Mark William Covell.

«Arrivato al primo piano dell’istituto, ho trovato in atto delle colluttazioni. Quattro poliziotti, due con cintura bianca e gli altri in borghese, stavano infierendo su manifestanti inermi a terra. Sembrava una macelleria messicana. Sono rimasto terrorizzato e basito quando ho visto a terra una ragazza con la testa rotta in una pozza di sangue. Pensavo addirittura che stesse morendo. Fu a quel punto che gridai: “basta basta” e cacciai via i poliziotti che picchiavano.»

A raccontarlo ai pubblici ministeri Enrico Zucca e Francesco Albini Cardona è il vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma Michelangelo Fournier, uno dei 28 poliziotti imputati per la vicenda, nella nuova versione illustrata agli inquirenti nel 2007, molto diversa da quella fornita inizialmente.

«Durante le indagini non ebbi il coraggio di rivelare un comportamento così grave da parte dei poliziotti per spirito di appartenenza»

Uno spirito di appartenenza che in altri contesti non si fatica a indicare come omertà. Non si può a questo punto non porsi la domanda che in tanti urlano da quasi venti anni: cosa è successo veramente alla scuola Diaz, alla caserma di Bolzaneto e durante i giorni del G8 di Genova?

“Sembrava una macelleria messicana”, dice Fournier. Macelleria messicana è una situazione in cui si verificano atti di estrema violenza e crudeltà. Perché a Genova si sono verificati?

Il G8 è un annuale incontro tra i capi di stato e di governo delle maggiori democrazie mondiali. Il summit del 2001 si è tenuto nella città di Genova tra il 20 e il 22 luglio. I punti discussi all’ordine del giorno sono molteplici e spaziano dal commercio internazionale alla fame nel mondo, dai problemi legati all’ambiente alle innovazioni tecnologiche, dai cambiamenti climatici alle malattie, dalla finanza alla pace nel mondo. Gli incontri tra i grandi della Terra sono blindati, come i luoghi in cui si svolgono e ciò che viene fatto trapelare sono le dichiarazioni ufficiali dei diretti interessati, o chi per essi, in conferenza stampa e l’idea che il tutto possa quasi essere una costosissima reunion di pranzi ed eventi che forse potrebbe anche essere evitata visto che se i partecipanti sono concordi sul da farsi potrebbero comunicarselo in mille altri modi e se non lo sono non è detto che lo diventino proprio in quei giorni.

Le iniziative contro il G8 sembrano essere tutte motivate dalla convinzione che un altro mondo è possibile. Un mondo votato verso il commercio equo e solidale, la finanza etica, l’annullamento del debito dei paesi poveri, le produzioni biologiche, pregno di azioni concrete contro le guerre. Con limiti e restrizioni al commercio delle armi. Un mondo con uno sviluppato senso critico, sociale e solidale. Un mondo pulito. Le numerose sigle e associazioni che protestavano contro il G8 a Genova si erano riunite in un comitato chiamato Genova Social Forum, il cui portavoce fu nominato Vittorio Agnoletto, medico milanese fondatore della Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids (LILA).

In un’intervista rilasciata a oltremedianews, Agnoletto ha dichiarato che, a parer suo, l’aspetto più scioccante sul piano politico è stato l’assalto alla scuola Diaz perché «quell’evento ha reso evidente che, da parte delle istituzioni dello Stato e dei suoi rappresentanti, non c’era assolutamente più nessun rispetto della legge, delle regole e della legalità e che i rappresentanti dello Stato stavano agendo unicamente in base alla logica del più forte e stavano manipolando completamente la realtà, costruendo, come si è potuto vedere successivamente, una versione del tutto falsa di quello che stava accadendo».

Ma perché la polizia irrompe nella scuola Diaz? Ufficialmente è alla ricerca dei black bloc, i manifestanti del blocco nero indicati come i responsabili dei disordini durante le manifestazioni e degli atti di vandalismo alla città. Ma questi black bloc alla Diaz non c’erano.

Agnoletto, nel corso dell’intervista, ci tiene a precisare però che il fatto più grave accaduto a Genova durante il G8 è stato l’uccisione di Carlo Giuliani: «Una vita umana che non potrà mai essere restituita è un valore incomparabile rispetto a qualunque altro evento».

Carlo Giuliani, giovane manifestante no-global muore in piazza Alimonda per il proiettile sparato dall’arma di ordinanza del carabiniere Mario Placanica, indagato per omicidio e prosciolto per legittima difesa e uso legittimo delle armi. Giuliani minacciava di colpire l’auto dentro cui stazionavano Placanica e colleghi con un estintore. Placanica gli ha sparato in testa. In tanti si saranno chiesti in tutti questi anni quale effetto avrebbe sortito un colpo sparato in aria contro un gruppo di manifestanti che, nella concitazione del momento, provavano ad assalire e assaltare i nemici di quel momento con armi di fortuna. Ma c’è anche un’altra domanda da porsi: perché la polizia, il cui compito sarebbe quello di proteggere i cittadini, aveva incarnato fin da subito le sembianze del ‘nemico‘, ovvero lo Stato e i suoi rappresentanti che se ne stavano blindati nella zona rossa? La domanda è ovviamente retorica e la risposta è già in essa contenuta.

Agli occhi dei manifestanti, come per i membri del blocco nero e degli ultras, i celerini, ovvero i poliziotti della squadra mobile, la cosiddetta celere, sono l’incarnazione dello Stato e dei suoi rappresentanti, o meglio ne sono i servi, diventando di fatto il nemico da ‘combattere’. Quello vero, diciamo così, è inarrivabile, barricato, e così l’interesse si concentra sul suo surrogato oppure, come nel caso degli ultras, sui ‘nemici’ della tifoseria avversaria. Ma questi poliziotti, i celerini, come vedono i loro ‘nemici’ sul campo e come i rappresentanti dello Stato?

I poliziotti del reparto mobile sono addestrati per garantire l’ordine e devono restare impassibili agli sputi, agli insulti, alle minacce, al lancio di oggetti… almeno fino a quando il loro comandante non dà il via alla carica, ovvero alla “occupazione del territorio” e allora partono i lacrimogeni e, quando non bastano, vengono sfoderati gli sfollagente, usati fino a quando il funzionario non dice “basta!”. Vengono offensivamente indicati come servi. Sono in realtà servitori dello Stato, il medesimo che, attraverso altri funzionari e altri servitori, manda, per fare un esempio, indirizzate direttamente a loro le lettere di sfratto, coatta esecuzione della volontà statale che tante volte hanno avuto il compito di supportare e coordinare. Sono servitori addestrati a mostrare il muso duro verso protestanti, manifestanti, sfrattati e tifosi ma che devono remissivamente sottostare agli ordini dei diretti superiori, chiunque essi siano e qualsiasi decisione prendano. Costretti a difendersi in aula quando perdono le staffe e a vedere, inermi, i funzionari giudiziariamente illesi per decisioni sbagliate che hanno portato, magari, conseguenze disastrose. La domanda da porsi non è relativa alla presenza o meno di rabbia e frustrazione, ma semplicemente quando e verso chi verrà incanalata.

L‘Italia, per i fatti accaduti alla scuola Diaz di Genova e alla caserma di Bolzaneto è stata condannata prima perché si trattava di tortura e poi perché ritardava l’adeguamento delle leggi. E ciò è di una tale gravità da far rabbrividire. Non si sta parlando di raptus, di errore strategico, di impulsività… no, si parla di tortura. Qualsiasi forma di coercizione fisica o mentale non inferta allo scopo di ottenere una confessione o informazioni va intesa come violenza, sevizia, crudeltà fine a se stessa dettata solo dalla brutalità. Azioni che, per essere poste in essere, necessitano di un addestramento, di sangue freddo e anche di un certo macabro auto-controllo derivante da una formazione militare o paramilitare oppure da devianze psichiatriche.

Vincenzo Canterini, all’epoca dei fatti comandante del Primo reparto mobile romano, nel quale era inquadrato il VII Nucleo Sperimentale antisommossa guidato da Michelangelo Fournier che irruppe nella scuola Diaz, nel libro Diaz, scritto con Simone Di Meo e Marco Chiocci (Imprimatur, 2012), racconta la sua verità sulla sanguinosa notte di Genova.

«La Diaz fu una rappresaglia scientifica alla figuraccia mondiale per le prese in giro dei black bloc. Un tentativo, maldestro, di rifarsi un’immagine e una verginità giocando sporco, picchiando a freddo, sbattendo a Bolzaneto ospiti indesiderati assolutamente innocenti.»

In un’intervista rilasciata per altraeconomia.it, Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano nazionale e cofondatore del Comitato Verità e Giustizia per Genova, testimone e vittima dei fatti della Diaz, ribatte, punto per punto, le dichiarazioni di Franco Gabrielli, oggi capo della Polizia, all’epoca dirigente della Digos di Roma. Partendo proprio dalle scuse che non sono mai arrivate… «come le ragioni chiare per le quali si vorrebbe chiedere scusa: Per i pestaggi alla Diaz? Per i falsi realizzati dopo l’irruzione? Per la violazione di numerosi articoli del codice penale e della Costituzione? Per averne impunemente ostacolato i processi, come riconosciuto anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo? Per le mancate rimozioni e sanzioni disciplinari dei responsabili delle violenze?»

Nel luglio del 2015 sono diventate definitive le condanne ai 25 poliziotti per l’irruzione nella scuola Diaz al termine del G8 di Genova del luglio 2001. Tutti condannati in Cassazione per falso aggravato in relazione ai verbali di perquisizione e arresto a carico dei manifestanti. L’unica imputazione sopravvissuta alla prescrizione dopo i trascorsi 11 anni. Pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni anche per alcuni degli alti gradi inflitta nel 2012:

  • Giovanni Luperi (capo del Dipartimento analisi dell’Aisi).

  • Franco Gratteri (capo della Direzione centrale anticrimine).

  • Gilberto Caldarozzi (capo del Servizio centrale operativo).

Tutti condannati a risarcire le parti civili ma nessuno che abbia mai veramente rischiato di finire in carcere, complice anche lo sconto di tre anni all’indulto approvato nel 2006. Diverse le prescrizioni che sono cosa ben diversa da un’assoluzione.

A luglio 2017 per chi non era potuto andare in pensione si prospettava la concreta possibilità di rientrare in servizio.

L’11 settembre 2017 il ministro dell’Interno, Marco Minniti, nomina vice direttore tecnico operativo della Direzione investigativa antimafia Gilberto Caldarozzi. Pietro Troiani, il poliziotto accusato di aver introdotto nella scuola Diaz due bottiglie incendiarie tipo Molotov, già vicequestore avrebbe ricevuto anche l’incarico di dirigente del Centro operativo autostradale di Roma con competenza su tutto il Lazio.

Michelangelo Fournier prontamente ha tenuto a replicare alle affermazioni di Marco Travaglio allorquando il direttore de Il Fatto quotidiano avrebbe affermato che Fournier «dopo la prima condanna a 4 anni e 2 mesi ascese al vertice della Direzione Centrale Antidroga». La condanna di Fournier era solo di 2 anni e non di 4 ma, per il resto, Travaglio resta sulle sue posizioni specificando che «fare carriera non significa necessariamente ottenere promozioni e premi: per chi partecipò all’assalto alla Diaz, anche se alla fine sembrò pentirsene, già il fatto di seguitare a ricoprire ruoli di responsabilità nella Polizia di Stato dopo quello che era accaduto, e addirittura dopo essere stato condannato per lesioni personali continuate, mi pare sufficiente per dire che ha fatto carriera».

Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, sempre in merito alle promozioni, in particolare quella di Caldarozzi, ipotizza uno sviluppo differente se in Italia ci fosse stata per tempo e da tempo un’adeguata legge sulla tortura. Mentre Enrica Bartesaghi, già presidente del Comitato Verità e Giustizia per Genova istituito a sostegno «delle vittime della repressione delle forze dell’ordine nell’esercizio della manifestazione del pensiero», ormai sciolto e madre di Sara, tra le vittime della Diaz, scrive parole che rappresentano invece esattamente lo scenario che è stato.

«In questi lunghissimi anni ho assistito a numerose promozioni indecenti di buona parte dei condannati per le violenze e le torture alla Diaz e a Bolzaneto, da parte di tutti i governi che si sono succeduti. Non c’è mai stata alcuna sospensione, nessun allontanamento dei colpevoli, nessuna legge o riforma volta a prevenire e condannare quello che è successo a Genova»

I manifestanti avevano il diritto di protestare? Di sfilare in corteo per dimostrare la loro opinione, contraria, alle decisioni dei grandi della Terra? Avevano il diritto di alloggiare in quella scuola trasformata per l’occasione in dormitorio? I celerini avevano il diritto di manganellare a destra e a manca fino all’alt del funzionario incaricato di dare il comando? I poliziotti hanno il diritto di fabbricare prove mancanti? Di dichiarare il falso? Di trascriverlo nei verbali? I funzionari hanno il diritto di impartire determinati ordini incuranti delle conseguenze? Se viene dimostrato l’errore nella catena di comando quanto è importante che corrisponda un’adeguata punizione in un paese che si dichiara democratico? Se il vertice non viene punito perché dovrebbe esserlo chi ha solamente eseguito degli ordini? Se il vertice non era a conoscenza perché questi ‘picchiatori’ selvaggi e ‘torturatori’ non sono stati fermati?

Al G8 i manifestanti riunitisi come Genova Social Forum volevano partecipare a cortei e manifestazioni lungo le strade della città che ospitava i grandi della Terra proprio in quei giorni, presumibilmente, perché volevano approfittare dell’interesse mediatico elevato per l’occasione. La Costituzione italiana è a favore della libera manifestazione delle proprie idee. Se i Capi di Stato e di Governo devono riunirsi in sontuose location per prendere decisioni che poi, inevitabilmente, ricadranno sui popoli, i cittadini che vanno a comporre quelle popolazioni hanno e devono avere a loro volta il diritto di di riunirsi e manifestare le proprie personali opinioni. Il dispiegamento di forze dell’ordine impiegato per proteggere le celebrities dovrebbe essere dispiegato anche per proteggere la popolazione, i cittadini, siano essi manifestanti oppure no.

I poliziotti vengono chiamati in causa per motivi diversi. Viene detto loro di entrare in azione per arginare la violenza. Devono essere pronti anche con il minimo preavviso e, quasi sempre, non hanno idea di cosa li aspetta davvero. Tra gli interventi più frequenti richiesti agli agenti della mobile è il servizio d’ordine allo stadio. Le violenze dentro e appena fuori gli stadi sono innumerevoli, spesso gravissime e si riallacciano a dinamiche psicologiche e sociali che poco o nulla hanno a che fare con lo sport e la sportività. Piuttosto legate alla rabbia repressa, alla frustrazione, all’appartenenza a un gruppo e la sottomissione alle sue regole. Violenza estremista e provocazione, come quella dei black bloc, che inevitabilmente finisce con il coinvolgere persone che nulla hanno a che fare con tutto ciò. Momenti in cui il tutto appare ancora più surreale, paradossale, incredibile al punto da lasciare increduli, basiti, scioccati tutti… in un primo momento, poi l’indifferenza ritorna a farla da padrona. Ma non per le vittime, non per i carnefici, non per coloro che nuovamente in quel delirio vengono chiamati a ‘combattere’.

«Tutti a dire della rabbia del fiume in piena e nessuno della violenza degli argini che lo costringono». (Bertolt Brecht)

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10 lunedì Apr 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Bolzaneto, Diaz, G8, Genova, Italia, italiani, paura, violenza

 

Sono trascorsi quasi 16 anni dall’irruzione nella scuola Diaz da parte della Polizia a Genova e dal trasferimento nella caserma di Bolzaneto, 2 dalla condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo ma la legge italiana sul reato di tortura non è stata ancora approvata in via definitiva.

La notte del 21 luglio 2001 in conseguenza degli scontri avvenuti durante tutto il giorno a Genova la Polizia fece irruzione nella scuola Diaz giustificando il gesto come una «perquisizione ad iniziativa autonoma» compiuta allo scopo di cercare armi e black bloc. I testimoni hanno raccontato tutt’altra versione, parlando di «cosa indegna in un sistema democratico». In tutti questi anni tanto è stato detto raccontato e denunciato ma ogni cosa sembra essersi arrestata dinanzi al muro di gomma dell’inadeguatezza delle leggi italiane che non hanno consentito equi processi in primis perché gli agenti, a viso coperto, erano sprovvisti di numero identificativo e secondo poi perché anche chi è stato processato non ha scontato alcuna pena per decorrenza dei termini. In un Paese democratico ciò non sarebbe mai dovuto accadere.

Il fatto poi che solo oggi, dopo quasi 16 anni, il governo riconosca pubblicamente che «durante il G8 di Genova sono stati commessi abusi e violenze contro i manifestanti» mentre ancora la legge sul reato di tortura rimbalza tra le due Camere sembra quasi una beffa, oltre al danno che innegabilmente c’è stato.

Il Guardasigilli Orlando ha dichiarato nei giorni scorsi, in merito ai tempi di approvazione del ddl, «siamo nella fase degli emendamenti, finalmente mi pare che ci sia la corsa libera in Senato per arrivare in fondo», sottolineando che «il ministro Finocchiaro è al lavoro su questo fronte e credo che potremmo adempiere a un impegno che a questo punto non è soltanto di carattere generale ma anche specifico su quella vicenda».

La relativizzazione alla vicenda della scuola Diaz è certamente doverosa ma un’adeguata legge sul reato di tortura è e sarebbe stata comunque necessaria, anche se quanto accaduto la notte del 21 luglio 2001 non fosse mai successo.

Nel nuovo testo di legge vengono introdotti anche i termini «reiterate violenze», l’agire «con crudeltà» e il «verificabile trauma psichico». Contestualizzazioni che possono far scattare la pena a dieci anni. Sulle violazioni commesse da esponenti delle forze dell’ordine invece si fa un passo indietro e i 15 anni proposti dalla Camera vengono di fatto annullati dall’emendamento approvato in Senato secondo cui «se tali fatti sono commessi da un pubblico ufficiale nell’esercizio delle funzioni o da un incaricato di un pubblico servizio nell’esercizio del servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni». Sfatando così ancora una volta il mito che funzionari amministratori e governanti pubblici devono rappresentare il corretto esempio ed esemplare deve o meglio dovrebbe essere la pena per coloro che violano la legge, trasgrediscono o commettono reato mentre svolgono e ricoprono il loro incarico ufficiale e pubblico. Se poi parliamo di ‘pubblica sicurezza’ ecco riaffacciarsi l’ombra della beffa che grava su questa come su troppe altre vicende.

Gravissima l’accusa rivolta dai giudici di Strasburgo all’Italia, rea di «aver sottoposto ad atti di tortura e trattamenti inumani e degradanti» le persone condotte nella caserma di Bolzaneto sempre in quella tragica notte del luglio 2001 e di «non aver condotto un’inchiesta penale efficace» complice anche la mancanza di un’adeguata legge sul reato di tortura. Ragazzi e ragazze tra i 18 e i 28 anni subirono insulti e minacce sessuali, furono costretti a denudarsi davanti ai poliziotti, nelle loro celle furono spruzzati gas orticanti, un testimone-vittima affermò di essere stato costretto a inginocchiarsi e abbaiare. Viene da chiedersi cosa esattamente pensavano di ottenere gli agenti che  hanno messo in scena questo squallido teatrino dell’orrore e della perversione. Loro che sono i fautori dell’ordine pubblico quale assetto di civiltà e giustizia intendevano raggiungere?

Con 6 dei 65 cittadini, italiani e stranieri, ricorrenti è stata firmata, lo scorso 7 aprile, una «risoluzione amichevole» in base alla quale il governo italiano si impegna a colmare la lacuna legislativa e predisporre corsi di formazione specifici «sul rispetto dei diritti umani per gli appartenenti alle forze dell’ordine», e risarcire ciascuna vittima con «45mila euro per danni morali e materiali e per le spese processuali». L’Italia quindi 16 anni dopo ammette le proprie responsabilità ma non può riconoscere che è stata tortura perché ancora non esiste una legge per questo tipo di reato.

In un articolo scritto nel 2011, in occasione dei dieci anni dai fatti del G8 di Genova, Amnesty International evidenziava i ritardi e gli errori del governo italiano, iniziati ancor prima che il vertice dei ‘grandi’ avesse luogo. Due giorni prima che «oltre 200.000 persone si ritrovassero a Genova per protestare contro il vertice del G8» Amnesty International «chiedeva alle autorità italiane di proteggere i manifestanti, garantendo un uso legittimo della forza da parte degli agenti della polizia». Un appello rimasto evidentemente inascoltato visto che tra il 19 e il 22 luglio del 2001 «Genova divenne teatro di aggressioni indiscriminate da parte degli agenti di polizia verso manifestanti pacifici e giornalisti durante i cortei, violenze ingiustificate nel raid alla scuola Diaz, arresti arbitrari e maltrattamenti nel carcere provvisorio di Bolzaneto». Amnesty  cita minacce «di stupro e di morte, schiaffi, calci, pugni, privazione del cibo, dell’acqua, del sonno e posizioni forzate per tempi prolungati».

Ad aggravare ulteriormente un quadro drammatico e sconcertante è il fatto che nei 10 anni intercorsi dai fatti di Genova all’articolo di Amnesty International «altri episodi hanno chiamato in causa la responsabilità dei corpi di polizia per l’uso delle armi e della forza»:

  • La morte di Federico Aldrovandi durante un fermo (2005).
  • La morte di Gabriele Sandri, raggiunto da un colpo di pistola sparato da un agente della stradale (2007).
  • La morte in custodia di Aldo Bianzino (2007), Giuseppe Uva (2008) e Stefano Cucchi (2009).
  • L’aggressione e gli insulti razzisti denunciati da Emmanuel Bonsu, fermato da agenti della municipale (2008).

La speranza o forse l’ingenuità nel voler credere che siano gli unici.

«Le forze di polizia sono attori chiave nella protezione dei diritti umani. Perché questo ruolo sia riconosciuto nella sua importanza e svolto nella piena fiducia di tutti, sono essenziali il rispetto dei diritti umani, la prevenzione degli abusi, il riconoscimento delle responsabilità e una complessiva trasparenza».

Che sia sempre chiaro il ruolo degli agenti e dei funzionari delle forze dell’ordine, che l’esistenza e/o la presenza di frange estreme non diventi una giustificazione o la regola per la prevaricazione dei diritti umani di cittadini e manifestanti, compreso il diritto alla esternalizzazione del proprio dissenso. Affinché sia sempre chiaro e definito e mai si superi il confine che porta dalla Polizia di Stato allo Stato di Polizia.

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