L’Italia ancora oggi resta il maggior produttore europeo di biciclette, con un fatturato complessivo di 1.3miliardi di euro, pur in calo di oltre il 50% rispetto a dieci anni fa.
I dati di Confindustria/Ancma, sull’andamento del mercato delle bici in Italia per il 2018, confermano l’inarrestabile crescita del settore e-bike che “vola a doppia cifra e si prevede farà la parte del leone entro quattro-cinque anni” rispetto alla bicicletta tradizionale: 173mila le e-bike vendute (+16.8%).
Un rapporto di Legambiente del 2019 stima in 7.6miliardi il valore economico generato in senso lato dal comparto cicloturistico. Un dato che farebbe lievitare a quasi 12miliardi il valore attuale del Pib, il Prodotto interno bici (indicatore che calcora il giro d’affari complessivo a due ruote).
Stime che Gianluca Santilli e Pierangelo Soldavini, autori di Bikeconomy. Viaggio nel mondo che pedala, ritengono credibili, anche se non hanno un fondamento scientifico, e possono dare un’indicazione concreta del valore attuale della ciclo-ricchezza. In considerazione, soprattutto, del margine di crescita enorme cui potrebbe ambire il settore in Italia.
Per fare un esempio, a margine delle 173mila e-bike vendute in Italia nel 2018 c’è il milione venduto in Germania nello stesso anno.
Per Santilli e Soldavini, il ritardo italiano è legato a una rete di vendita che è stata incapace di innovarsi e fatica a scrollarsi di dosso convinzioni senza fondamento e tradizionalismi pericolosi, uniti a un’oggettiva difficoltà a gestire un prodotto che è una via di mezzo tra una bici e un motorino, con ricadute anche sui temi della gestione e manutenzione.
L’Italia ha sempre avuto un ruolo di leadership, indiscussa fino a una decina di anni fa, grazie alla sua grande tradizione manifatturiera, ma che arretra ormai pericolosamente. Eccellenze, storie affascinanti, imprenditori straordinari. Ma, come ricordano gli autori di Bikeconomy, il mondo non è stato a guardare e se una colpa si può dare ai costruttori italiani è proprio da ascrivere alla loro incrollabile convinzione che nessuno avrebbe potuto togliere all’Italia e ai suoi produttori la leadership del ciclismo.
Ma così non è stato.
La produzione italiana nel 1994 era 5.8milioni di pezzi. Nel 2017 appena 2.4milioni.
Le ragioni del ritardo e dell’arretramento italiano sono molteplici e Santilli e Soldavini le descrivono tutte nel dettaglio.
Dimensioni aziendali troppo piccole, scarsa attenzione al marketing, allo sviluppo di reti commerciali globali, alle analisi dei mercati, alla finanza aziendale, alla comunicazione. Il tutto aggravato da un’evidente incapacità di gestire gli inevitabili e spesso deficitari passati generazionali, nonché la ritrosia all’ingresso di manager competenti e in grado di arricchire le potenzialità dell’azienda.
Molte imprese italiane hanno capi d’azienda che non sono stati in grado di innovare o di passare per tempo il testimone a soggetti adeguati, mentre i produttori stranieri, dietro i quali ci sono gruppi finanziari e industriali, sono cresciuti vertiginosamente.
Due gli esempi virtuosi italiani che gli autori riportano nel testo.
Il primo riguarda l’azienda Pinarello che, nel marzo 2017, ha ceduto la maggioranza a L Cattertan, il più grande fondo di private equity consumer-focused globale, legato al gruppo del lusso LVMH. La scelta ha avuto come obiettivo lo sviluppo internazionale dell’azienda trevigiana e ha premiato la coraggiosa strategia messa in atto da Fausto Pinarello.
Il secondo riguarda il marchio specializzato in abbigliamento ciclistico sportivo La Passione, il primo brand in Italia a essere venduto solo online. Al suo terzo anno di attività, punta a chiudere il 2019 con un fatturato superiore ai 5milioni di euro, in arrivo soprattutto da mercati come Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Giappone, Sud Corea e Nord Europa.
Si chiedono a questo gli autori quali siano le intenzioni degli altri imprenditori italiani, di certo presi in contropiede da queste operazioni e da esse allarmati.
Cosa si può fare allora per preservare le eccellenze italiane?
Santilli e Soldavini consigliano di aggregarle e farle convergere in un polo del ciclismo di qualità, ispirandosi al modello del lusso mondiale rappresentato da LVMH, gruppo presente nei cinque più importanti settori del mercato del lusso: vini e alcolici, moda e pelletteria, profumi e cosmetici, orologi e gioielleria, con 75 maison e un fatturato, nel 2017, di 46.8miliardi di euro.
Purtroppo la gran parte degli imprenditori interpellati dagli autori si dichiarano convinti che nel mondo ci sarà sempre chi acquisterà i loro prodotti. Si chiedono allora Santilli e Soldavini, e il lettore con loro, su quali basi si fondi questa certezza, in considerazione anche dei grandi gruppi in grado di penetrare il mercato a livello globale, di fare ricerca e sviluppo con fondi pari all’intero fatturato delle aziende italiane, pronti “a diversificare o peggio a entrare in comparti che ancora vedono una certa leadership italiana”.
Invece di arroccarsi su posizioni e vedute ormai obsolete, andrebbe esaltato il binomio tradizione-innovazione e rivolto lo sguardo al futuro, che è già presente considerando la rapidità con la quale evolvono mercato e consumatori. In sintesi si dovrebbe pedalare più velocemente per stare o rimanere un passo avanti agli altri e non accontentarsi di starne uno indietro nella convinzione che oltre non si può indietreggiare.
La scarsa e tardiva attenzione rivolta al “fenomeno e-bike”, il sostanziale disinteresse verso la mobilità cittadina e il connesso “fenomeno delle smart city”, la sottovalutazione del cicloturismo e delle potenzialità del cosiddetto “ciclismo per tutti”, hanno portato, secondo l’analisi di Santilli e Soldavini, a relegare gran parte dei produttori italiani in nicchie quasi esclusivamente dedicate al ciclismo agonistico e agli amatori agonisti, che però sono una percentuale minima del mercato.
Bisognerebbe invece guardare e magari copiare le sempre più frequenti partnership, dalle quali per il momento i produttori italiani sembrano essere tagliati fuori. Partenariati tipo quello stilato tra Bmw e Mercedes per le bici a pedalata assistita e i progetti delle “ciclabili del futuro”.
Senza ignorare o sottovalutare un fattore che è invece assai rilevante, ovvero quello dei new corner. Soggetti finora estranei a operare in questo comparto che ne hanno ben capito le potenzialità e che possiedono capacità imprenditoriali, manageriali e finanziare “sconosciute a chi opera nel settore da decenni”, come sembrano essere tanti imprenditori italiani.
Bikeconomy. Viaggio nel mondo che pedala di Gianluca Santilli e Pierangelo Soldavini, edito da Egea-UniBocconi in prima edizione a settembre 2019, è una lettura sorprendente. Il lettore non si aspetta di certo di trovarvi tutte le informazioni che invece gli autori sono riusciti a reperire e organizzare in maniera ordinata e interessante. Un’analisi dettagliata della cosiddetta “economia della bicicletta” che stupisce anche chi riteneva di conoscerne a fondo i dettagli, come ammette lo stesso Beppe Conti nella prefazione al libro.
Articolo originale qui
Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Egea-UniBocconi per la disponibilità e il materiale
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