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Irma Loredana Galgano

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Melancholica deliria multiformia: “L’anatomia della malinconia” di Robert Burton

25 lunedì Gen 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Bompiani, Giunti, Lanatomiadellamalinconia, recensione, RobertBurton, saggio

Come si fa a sconfiggere la malinconia? Essere malinconici equivale a essere folli? Bisogna guarire il corpo o la mente? O entrambi?

Sono queste, o simili, le domande che deve essersi posto Robert Burton quattrocento anni or sono, allorquando iniziò la stesura del suo trattato sulla malinconia.

Burton iniziò la scrittura del testo nel 1620 e la portò avanti, praticamente, fino a che la sua vita non ebbe fine.

Come sottolinea Luca Manini, nella sua introduzione al libro, L’anatomia della malinconia doveva essere, nelle intenzioni dell’autore, una vera e propria cura, una sorta di trattato medico della guarigione.

Accostarsi al libro di Burton significa, per il lettore, avvicinarsi a un’opera che è anche un mondo, che racchiude in sé cielo terra e inferi. Lo trasporta dall’armonia delle sfere celesti sino agli abissi dell’inferno, facendogli osservare il caos che domina il mondo terreno. Ed è in questo caos che si insinua e s’impone, per Burton, la malinconia, questa afflizione dell’animo.

Robert Burton, con L’anatomia della malinconia, ha assunto il compito di studiare la malinconia allo scopo di indicare le possibili cure, e lo ha fatto seguendo uno schema preciso, che trova la sua origine nei principi medici enunciati nell’antichità da Ippocrate e da Galeno:

  1. Analisi sistematica delle cause e dei sintomi.
  2. Esposizione della diagnosi.
  3. Somministrazione della cura.

Il lettore però non deve aspettarsi, nel leggere l’opera di Burton, una trattazione che sia unica e uniforme, piuttosto egli troverà una scrittura ben rappresentativa della natura varia delle manifestazioni dello stato malinconico. Deve quindi il lettore, come scrive lo stesso autore nelle conclusioni dell’opera, attendersi di ridere e di piangere e deve essere, al contempo, sarcastico e comprensivo.

Robert Burton presenta se stesso come una persona malinconica e con questo attiva due distinti processi: da una parte, procede a una identificazione con il lettore malinconico e, dall’altra, assume la possibilità di parlare come auctoritas, ponendosi alla pari con le autorità passate e presenti con le quali puntella ogni pagina della sua opera.

Così come duplice è anche lo scopo ch’egli vuol raggiungere: curare gli altri e curare se stesso, usando la scrittura per sé a scopo terapeutico e destinando agli altri la lettura.

D’altronde duplice è, per Burton, anche la natura stessa della malinconia, poiché essa può essere un sentire di dolce struggimento, ma può anche essere il genio malvagio, che porta sofferenza e tormento spirituale.

La malinconia, che Burton assimila a una delle infinite forme della pazzia, è qualcosa di più di un semplice stato di alterazione mentale e/o fisica.

Secondo le teorie mediche dell’antichità, ancora seguite quando Burton scrisse L’anatomia della malinconia, la salute di corpo e mente era il risultato dell’equilibrio tra i quattro umori che costituiscono l’essere umano: sangue, flegma, bile gialla e bile nera.

Nel momento in cui questo precario equilibrio si spezza, ecco insorgere la malattia, la quale dunque può essere indicata come uno squilibrio tra gli umori, nel segno dell’eccesso o del difetto.

La salute poteva essere riacquistata solo ricomponendo questo equilibrio. Tuttavia Burton vede la malinconia talmente diffusa in tutti da farsi cifra del mondo, causa e motore primi dell’agire umano, degli umani comportamenti al punto che essi sono sorretti non dalla sapienza o dalla ragione bensì dall’irragionevolezza e dall’irrazionalità; dalla vanità che nega la visione di ciò che è vero e reale; dalla mancanza di una virtù che dia alle cose il loro giusto peso e valore; da uno squilibrio che è alterazione, cecità, deformazione, mutilazione.

Ed è proprio la consapevolezza di questo tormento universale che spinge Burton a scrivere L’anatomia della malinconia.

L’autore vuole condurre i suoi lettori nei gironi infernali della malinconia, per indicare loro una via d’uscita dal labirinto di male che la malinconia è, perché la malinconia assume mille forme diverse, tante quante sono le persone. E così li trascina, i lettori, in un flusso ininterrotto di parole citazioni immagini storie personaggi esempi… al punto che per Manini si potrebbe porre a epigrafe dell’opera una delle tante citazioni che lo stesso Burton riporta: melancholica deliria multiformia. Sono parole che hanno in sé il tema del libro, il disordine della mente che delira e la molteplicità.

Ciò che Burton mette in scena nella sua opera è l’uomo dinanzi al mistero delle cose; è l’anelito di conoscenza; l’ansia di investigare. E, nella commedia/tragedia che è la vita umana, egli raffigura, insieme, la possibilità di conoscere e l’impossibilità di farlo fino in fondo, la vastità e il limite, la chiarezza e l’opacità.

Nel momento in cui Burton avoca a sé una conoscenza precisa di ogni singolo aspetto del cosmo, si appella a una serie infinita di auctoritates le quali, a ben vedere, si contraddicono a vicenda. Così egli prima le mette in discussione, poi addirittura le nega.

Per Manini sembra quasi che Burton lanci delle vere e proprie sfide ai lettori, alla loro intelligenza, alla capacità di discernimento, spronandoli così al confronto, come lui stesso fa, e alla riflessione.

Il suo è il metodo di chi non smette mai di porsi domande, che lascia sempre degli spazi aperti alla ricerca nuova. Un invito forse che egli fa al lettore, a non lasciarsi mai pienamente soddisfare da una teoria o da un’altra, a essere sempre aperti a nuove interpretazioni, nuove proposte.

Ma come si riesce a tornare all’armonia? Come si vince lo stato universale della malinconia?

Due sono i rimedi principe che Burton suggerisce a conclusione della propria opera:

  1. Evitare l’ozio. Tenersi sempre fisicamente e mentalmente impegnati.
  2. Pregare.

Somma cura è, per la malinconia, raggiungere il summum bonum che, secondo Epicuro e Seneca, è la tranquillità della mente e dell’animo. Per sconfiggere questo male, o malessere che sia, la disperazione deve essere volta in speranza di rigenerazione.

In diversi punti del testo ma, in particolare nelle conclusioni, Robert Burton si rivolge direttamente al lettore, lo coinvolge in qualità di agente attivo della propria guarigione dalla malinconia, gli ricorda il legame indissolubile tra mente e corpo.

Ma ciò che colpisce delle parole dell’autore è l’umiltà che egli prova dinanzi al lettore, il timore e, al contempo, la consapevolezza di essersi messo allo scoperto scrivendo il libro e, di conseguenza, esposto alla critica. Teme che alcuni passaggi del testo possano essere poco apprezzati, perché troppo satirici e pieni di amarezza, oppure perché troppo comici o scritti con troppa leggerezza.

Si mostra consapevole di eventuali errori e sviste e non esita a imputarle alla mancanza di revisione. Avrebbe dovuto leggere, rileggere, correggere ed emendare ma non lo ha fatto: non ne ho avuto l’agio o il tempo, non avevo né amanuenses né assistenti.

L’anatomia della malinconia è un’opera monumentale, e non solo per la sua grandezza fisica – essendo composta infatti da oltre tremila pagine. È un viaggio nella cultura seicentesca. È un’opera che potrebbe continuare all’infinito, è un trattato medico ma anche un manuale di anatomia e fisiologia, un trattato filosofico ma anche una sorta di antologia della poesia europea, un atlante geografico e un testo di storia antica e moderna, un trattato di astrologia e astronomia ma anche un libello satirico.

Un libro che si può leggere come un viaggio verso un rinnovato ordine, verso una luce nuova; come una lotta per riconquistare ciò che si è perduto, riformando e rifondando il mondo. E se diamo per certo l’assunto di Burton secondo cui il mondo intero è malinconico (se non addirittura pazzo), allora, sottolinea Manini, tutte le persone potranno trovare qualcosa che, ne L’anatomia della malinconia, possa parlare a loro, essere loro di aiuto e di conforto.

Burton stesso scrive che trova conforto nel pensare le critiche varie come i palati: tanti saranno quelli che lo criticheranno almeno quanti quelli che lo apprezzeranno. Nella sua opera sarà talmente vasta e varia la mole di informazioni che il lettore, anche contemporaneo, troverà che questo equilibrio sarà per certo mantenuto.


Bibliografia di riferimento

Robert Burton, L’anatonia della malinconia, Giunti Editore S.p.A./Bompiani, Firenze/Milano, prima edizione settembre 2020.

Titolo originale: The anatomy of melancholy – volumi I, II, III, originally published by Oxford University press, 1989, 1990, 1994.

Traduzione e note Luca Manini.

Introduzioni di Luca Manini, Amneris Roselli, Yves Hersant.

Traduzione delle citazioni latine e revisione generale di Amneris Roselli.

Testo in inglese a cura di Thomas C. Faulkner, Nicolas K. Kiessling, Rhonda L. Blair.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Giunti Editore per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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“Le dipendenze tecnologiche. Valutazione, diagnosi e cura” di Giuseppe Lavenia (Giunti, 2018)

22 martedì Mag 2018

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Giunti, GiuseppeLavenia, Ledipendenzetecnologiche, recensione, Rete, saggio

Quasi metà della popolazione mondiale utilizza internet. In Italia le connessioni da dispositivi mobili sono 80 milioni, pari al 134% della popolazione (stimata in quasi 60 milioni di persone), nella misura in cui in tanti dispongono di più dispositivi legati al medesimo account. È bene allora, e anche doveroso per certi punti di vista, rendersi conto di quanti accedono a esso, per quanto tempo e finalizzato a che cosa.

E questo è esattamente lo scopo della ricerca condotta da Giuseppe Lavenia e che ha portato alla scrittura di Le dipendenze tecnologiche. Valutazione, diagnosi e cura, edito da Giunti a gennaio 2018. Un saggio sulle potenzialità del cervello umano e delle tecnologiche, sull’uso di entrambi ma, soprattutto, sull’abuso nell’utilizzo della Rete e sulle sue patologiche e deleterie conseguenze.

L’immensa diffusione di internet può considerarsi a tutti gli effetti un fenomeno di massa che si estende a tutti i Paesi e «diviene realmente globale, coinvolgendo la popolazione mondiale al di là delle differenze di genere, razza, etnia, ceto, religione». Una vera e propria rivoluzione con tantissime sfaccettature positive, come sottolinea lo stesso Lavenia nel testo, ma che rischia di diventare un boomerang allorquando soprattutto, ma non in via esclusiva, per i “giovani adulti” l’uso del proprio smartphone è «diventato così essenziale da richiedere di controllarlo e utilizzarlo in qualsiasi momento». Una dipendenza. Ecco di cosa si tratta. Una patologia che colpisce sempre più persone e che ha sintomi, devianze e livelli di gravità molteplici.

Il linguaggio di internet è interattivo e ipertestuale, le comunicazioni sono veloci, velocissime, garantiscono facilmente l’anonimato e regalano ai produttori come anche agli stessi fruitori un tanto benefico quanto ambiguo «senso di infinitezza». La Rete ma soprattuto i social creano con una certa semplicità ciò di cui l’utente come persona ha sempre bisogno, ovvero un «supporto sociale», una rete fatta di esseri umani questa volta che gli danno il supporto cercato con like, commenti, emoticon, messaggi… Tutto ciò “fa stare bene” nell’immediato ma quanto è reale? E quanto invece è effimero e magari anche controproducente?

Navigando in internet attraverso computer, tablet o smartphone si compiono azioni ed esperienze sensoriali limitate che danno una percezione alterata della realtà, quella vera non virtuale. Si possono addirittura creare dei personaggi, gli avatar, che sono versioni edulcorate e autocelebrative di se stessi, modellate sugli ideali cui si fa riferimento oppure sui modelli che si pensa gli altri vorrebbero vedere. Solamente che spesso si finisce con l’identificarsi in tutto e per tutto con l’avatar, staccandosi dalla vita vera. La dipendenza da MUD o giochi di ruoli online può portare a quel fenomeno definito hikikomori, in base al quale i giovani «di fronte a molteplici disagi della crescita, al fenomeno del bullismo e della competizione imposta dalla società impiegano la modalità della fuga nella tecnologia».

Fenomeno pericolosamente in crescita, anche in Italia, come il blue whale, il «modello manipolatorio di gruppo» che, seguendo un preciso «iter di manipolazioni e sottomissione», mette progressivamente a repentaglio la vita della vittima. Processo per certo agevolato dal «meccanismo di condivisione virtuale» che «potenzia l’effetto di distacco dal mondo reale».

La gran parte delle patologie comunque, sottolinea Lavenia, sono presenti anche nella vita offline, solo che con internet divengono di più facile accesso e perciò più diffuse:

Sovraccarico cognitivo
Gioco d’azzardo
Trading
Shopping convulsivo
Porno-dipendenza

Si assiste sempre più di frequente a manifestazioni più o meno gravi di nomofobia, ovvero di paura di rimanere fuori dalla connessione mobile e questi sono atteggiamenti che non possono e non devono essere minimizzati. Piuttosto è necessario provvedere a una corretta prevenzione e una tempestiva diagnosi. Ed è in questa fase che il libro di Lavenia diventa ancora più tecnico, con la descrizione analitica dei sintomi dei vari disturbi e patologie come anche degli strumenti di valutazione, in particolare i test, e dei protocolli di intervento, rimanendo al contempo utile e accessibile.

Nonostante i molteplici aspetti tecnici, Le dipendenze tecnologiche permane un saggio interessante e di facile comprensione anche per un lettore comune. Una lettura piena di informazioni teoriche ma soprattutto pratiche, con esempi concreti che agevolano l’immissione o meglio la re-immissione di problemi seri nel contesto della vera vera, reale. Perché è proprio questo il punto su cui invita a riflettere il saggio di Giuseppe Lavenia. Per quanto possano essere virtuali le realtà create e usate online ricadono inevitabilmente in quella che è la vita reale, offline. Sembra un’affermazione ovvia ma poi, guardando i numeri delle ricerche, non lo è, come il testo di Lavenia può sembrare il resoconto su un argomento di cui tanto, forse troppo, si parla ma ci si rende conto fin dalle prime pagine che non lo è, nell’impostazione come nel contenuto. Un libro necessario ecco cosa in realtà è. Assolutamente da leggere.


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Giunti Editore per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte biografie e trama libro www.giunti.it



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Il mondo non ha perso la forza di salvarsi. “Un luogo a cui tornare” di Fioly Bocca (Giunti, 2017)

03 giovedì Ago 2017

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FiolyBocca, Giunti, Lemozioneinognipasso, recensione, Unluogoacuitornare

Clochard per scelta, olio cartone telato di Rosario Capuana

Uscito in prima edizione a giugno 2017 con Giunti editore, Un luogo a cui tornare di Fioly Bocca è una bella metafora dello stesso mondo, in cui i ‘civilissimi’ occidentali quotidianamente compiono piccoli o grandi gesti mostruosi considerandoli ormai normali. Basti citare come esempio l’anteporre carriera benessere denaro al proprio essere-umano, al proprio ben-essere, ai sentimenti, agli affetti, ai figli… Un libro pieno di riflessioni mature sulla vita e sui sentimenti, sempre e perennemente acerbi, a volte un po’ troppo.

Un romanzo che, raccontando la storia di Argea e Zeligo, mostra, come il riflesso di uno specchio, quella di tutti. Di chi è prigioniero delle convenzioni e della ‘normalità’ e di chi, al contrario, vive fuori dagli schemi perché costretto, come Zeligo, oppure perché nel vuoto del benessere economico non si riconosce più, come Pietro.

Da sfondo alle vicende dei protagonisti ci sono i sentimenti, le emozioni, i desideri come quello della maternità ma si avverte la volontà di raccontare un diverso modo di guardare il mondo, anche questo un desiderio o, se si preferisce, una visione. Il bisogno di abbracciare una decrescita che, nel caso di Argea, non è solo economica ma esistenziale. A cosa serve lavorare tanto per produrre molto, guadagnare il massimo e dimenticare che tutto questo non ci rende in alcun modo più ricchi dal punto di vista umano? A nulla. E le scelte compiute dalla protagonista sono la dimostrazione che, a volte, le rinunce sono solo l’inizio.

 

Che senso ha trascorrere i giorni a produrre, ad accumulare denaro che si spenderà poi in rimedi antistress? Si chiede Argea a un certo punto della storia e della sua vita. E decide che non ne vale la pena. Decisamente no. Perché «non c’è niente di più triste di un’allegria simulata».

La scrittura di Fioly Bocca è lieve, lenta, intensa e profonda, altalenante come solo i pensieri veri sanno essere. Un registro narrativo perfetto per raccontare di come un ubriaco senzatetto straniero (bosgnacco), di nome Zeligo, sia presto diventato un “vecchio amico” di un’aspirante giornalista scrittrice compagna fissa e madre dei figli di un noto direttore editoriale, di nome Argea. Di come, in breve tempo, la donna guardandolo non vedrà più in lui l’ubriaco senzatetto straniero ma un amico senza il quale la sua vita sarebbe di certo più vuota.

Argea accoglie Zeligo nella sua casa e nella sua vita e viene a sua volta accolta dal mondo al quale appartiene il suo amico bosgnacco, fatto di persone rivestite da una brutta corazza di vestiti laceri e sporchi ma con una grande anima e un cuore pulsante di amore.

L’esatto opposto del mondo dal quale proviene lei, perfettamente incarnato dal suo compagno Gualtiero. Una bella e curata copertina che racchiude in sé il nulla, o peggio il Male.

Uno stile, quello di Bocca, che cura in ogni minimo dettaglio non le parole bensì i sentimenti e le emozioni che vuole far conoscere, trasmettere o semplicemente raccontare ai suoi lettori affinché comincino anche loro a vedere «il male che fa il male degli altri» in questo mondo che, nonostante tutto, «non ha perso la forza di salvarsi», perché «c’è molto bene che non fa notizia». Ed è da quello che bisogna partire o ripartire, come ha fatto Argea.

Un libro intenso, Un luogo a cui tornare di Fioly Bocca che, raccontando la storia di Argea, narra di quello che accade ma, soprattutto, di «quello che uno fa, delle cose che accadono». E il lettore non può non chiedersi: ma cosa siamo o siamo diventati? Ma cosa insegniamo ai nostri figli?

Source: Si ringrazia Fiammetta Biancatelli della Walkabout Literary Agency per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte trama e biografia dell’autrice www.giunti.it

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© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La Filosofia può aiutare ad affrontare il terrorismo? Intervista a Ermanno Bencivenga

15 lunedì Mag 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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ErmannoBencivenga, filosofia, Giunti, intervista, paura, Prendiamolaconfilosofia, saggio, terrore, Terrorismo

 

La filosofia può aiutare ad affrontare il terrorismo? Intervista a Ermanno Bencivenga

Un approccio filosofico può aiutare ciascuno di noi a capire quale sia l’atteggiamento giusto da tenere riguardo il fenomeno terroristico. Questa la base di partenza e il motivo ispiratore di Prendiamola con filosofia di Ermanno Bencivenga (edito da Giunti), un libro che tenta di dare risposta a tutte le domande che è necessario porsi per guadagnare una posizione responsabile in proposito a eventi di oggi o di ieri, questo poco importa, purché si comprenda quanto abbiano da insegnarci.

Paura, terrorismo e cambiamenti epocali inevitabili esaminati con la lente del ragionamento filosofico in un libro che è un’indagine su quanto le parole mettono in gioco nel tempo del terrore.

Ne abbiamo parlato con Ermanno Bencivenga nell’intervista che gentilmente ci ha concesso.

Che cosa può dire un approccio filosofico sul terrorismo rispetto agli altri approcci? In che cosa consiste l’originalità del discorso della filosofia e perché è utile affidarsi a quest’ultimo?

Un approccio storico può informarci sulle origini del fenomeno. Un approccio politico o economico può chiarire quali siano i fattori in gioco, in termini di potere o di finanza. Un approccio legale può illustrare i diritti e doveri che le leggi nazionali e internazionali riconoscono alle varie parti. Un approccio filosofico può aiutare ciascuno di noi a capire quale sia, per lui o per lei, l’atteggiamento giusto nei confronti del fenomeno, mostrandone tutti gli aspetti e tutte le domande cui bisogna dare risposta per raggiungere una posizione responsabile in proposito.

La filosofia può aiutare ad affrontare il terrorismo? Intervista a Ermanno Bencivenga

Libertà di espressione e rispetto per le fedi religiose. Mai come in questi anni tali principi, o meglio diritti, sono spesso al centro di dibattici pubblici e politici. Si sta veramente conducendo una “guerra” planetaria per tutelarli o rischiano di essere o diventare solo una copertura per interessi di altra natura?

Gli interessi di altra natura ci sono, naturalmente. Ma bisogna evitare ogni forma di riduzionismo, economicista per esempio. Ricordiamo il fallimento, intellettuale prima ancora che politico, del riduzionismo di stampo marxiano. Gli esseri umani sono animali razionali, quindi, oltre che da emozioni e interessi, sono mossi dalla ragione. E capire chi abbia ragione, in questi casi, è molto difficile. La difficoltà va affrontata, non evitata con il ricorso a facili slogan che mortificano e avviliscono la nostra natura di esseri pensanti. Una mortificazione che finiremo per pagare: con la frustrazione, con la depressione, con la rabbia.

Nel testo si legge: «che un evento si sia verificato ieri o duemila anni fa non conta», importa solo «quanto abbia da insegnarci». Che cosa abbiamo imparato o che cosa avremmo potuto e dovuto imparare dagli eventi storici passati?

Nel mio libro faccio riferimento, per esempio, al comportamento di Socrate durante il suo processo e la sua esecuzione, nel 399 a. C. Sono eventi sui quali continuiamo a interrogarci e dai quali continuiamo a imparare. È giusto scendere a compromessi per salvarsi la vita? È giusto fare un’eccezione per sé stessi quando si pensa che ci sia stato fatto un torto? È giusto rispondere al male con il male? Socrate ci fornisce le sue risposte e il suo esempio; sta a noi prenderli in esame e decidere da che parte stiamo.

Leggi anche – L’Isis versione ultravioletta e macabra dell’Occidente. Intervista a Francesco Borgonovo

Tornando ai fatti recenti invece, quanto incidono le emozioni “a pelle” provate per gli attentati alle Torri Gemelle e a «Charlie Hebdo», per citare qualche esempio, su quelle che dovrebbero essere analisi più ragionate e obiettive della situazione contemporanea globale?

Le emozioni sono parte integrante della nostra umanità e bisogna accettarle ed esprimerle. Indipendentemente da tutte le analisi che ne ho fatto, io il giorno dell’attentato alle Torri Gemelle ho pianto in pubblico, e credo fosse una reazione perfettamente umana a quel che era successo. Poi, però, è anche giusto porsi delle domande e cercare delle risposte, anche per evitare che tragedie del genere si ripetano.

La filosofia può aiutare ad affrontare il terrorismo? Intervista a Ermanno Bencivenga

La sensazione è di assistere a un cambiamento epocale che coinvolge e coinvolgerà gli abitanti dell’intero pianeta e che originerà un “mondo diverso”. I paletti che vari stati tentano di mettere per arginare detto cambiamento basteranno a tenerli separati dal resto del mondo oppure, dopo inutili quanto sanguinosi conflitti, cadranno inesorabilmente?

Non c’è alternativa a un mondo planetario. Rinchiudersi in un proprio spazio protetto è una scelta infantile e perdente. Bisogna accettare la sfida, che è culturale prima che politica o economica: inventare insieme una nuova forma di convivenza, trasformare l’attuale situazione di crisi in un’opportunità di crescita comune.

Leggi anche – Qual è la strada per sconfiggere il terrorismo? Intervista a Benedetta Berti

In questo tempo del terrore, qual è la vera posta in gioco?

Di poste in gioco ce ne sono tante. Come sarà chiaro da tutto quel che ho detto finora, per me la più importante è riuscire a mantenere la nostra umanità e il nostro senso di giustizia sociale, che in questo momento stanno correndo un gravissimo rischio di essere annientati dalla paura, dall’ansia e dall’odio.

http://www.sulromanzo.it/blog/la-filosofia-puo-aiutare-ad-affrontare-il-terrorismo-intervista-a-ermanno-bencivenga

© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Umanità e Giustizia salveranno i migranti… e anche tutti gli altri. “Padre Mosé” di Mussie Zerai e Giuseppe Carrisi (Giunti, 2017)

03 lunedì Apr 2017

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AbbaMussieZerai, Africa, DonMussieZerai, Europa, Giunti, GiuseppeCarrisi, immigrazione, Italia, migranti, PadreMose, paura, recensione, romanzo

È uscito a gennaio di quest’anno con Giunti il libro-denuncia di Abba Mussie Zerai, scritto con Giuseppe Carrisi, Padre Mosé. Nel viaggio della disperazione il suo numero di telefono è l’ultima speranza. Un pugno nello stomaco e un simbolico schiaffo in faccia a chi ancora vuol fingere di non vedere e non capire che la punizione in alcun modo deve essere progettata e inflitta a coloro che, in balia della disperazione più nera, si lanciano in un viaggio disperato alla ricerca di un luogo dove raccogliere ciò che resta della loro dignità e della loro esistenza e tentare almeno di ricominciare. Uomini e donne, bambini e bambine costretti a lasciare i loro luoghi natii a causa della sofferenza, della povertà, delle carestie, delle guerre, delle dittature, del terrorismo… La soluzione a questa immensa emergenza umanitaria non deve essere studiata contro di loro ma per loro. Se si riuscisse anche a punire i reali colpevoli sarebbe meglio ma intanto bisogna pensare a non aggredire ulteriormente queste persone perché così facendo non solo causiamo loro altro male e sofferenze ma perdiamo anche quel briciolo di umanità che si spera alberghi ancora in tutti e in ogni occidentale, emblema e simbolo condiviso del corretto “viver civile”.

I cristiani imparano fin dalle prime lezioni di catechismo il racconto del liberatore del popolo di Israele, riuscito a salvare la sua gente dall’esercito del faraone e dalle acque del mare. La storia di Padre Zerai invece ancora non è così nota. Ma anche lui, come l’altro Mosé, cerca di salvare la sua gente da un esercito di famelici assalitori e dalle acque di un mare. Un’impresa titanica, considerando i numeri e le distanze, che avrebbe scoraggiato e fatto desistere tanti ma non lui che ha scelto di andare sempre avanti nonostante la mancanza di risorse, le difficoltà oggettive, le intimidazioni, le minacce e le porte in faccia. Abba Zerai è molto cristiano, credente e praticante una spiritualità che nulla sembra avere in comune con i fasti dello Stato Pontificio, con il lusso di chiese palazzi e cattedrali rivestite di oro e preziosi… ma molto assomiglia alla fede predicata e praticata da Gesù Cristo, da san Francesco, dai padri francescani e benedettini… un amore senza tempo e senza limiti verso le creature che popolano la Terra, soprattutto i più bisognosi, i meno “fortunati”, gli ultimi che il Vangelo stesso indica come quelli che “saranno i primi”.

Mussie Zerai dà a questa affermazione un significato tanto probabile quanto preoccupante. Bisogna avere il «coraggio di cambiare nel rispetto reciproco», è necessario «mettere l’uomo al centro di ogni scelta» altrimenti «si rischia di imboccare una strada in rapida discesa, alla fine della quale c’è il buco nero della negazione dei diritti fondamentali dell’uomo». Dobbiamo riflettere su quanto afferma Zerai perché «oggi tocca ai profughi e ai migranti. E domani?».

Nonostante le testimonianze orribili riportate nel testo traspare dalle parole di Mussie Zerai una profonda fiducia nel genere umano e non si può fare a meno di chiedersi se ciò derivi dal fatto che egli sia nato e cresciuto in quella parte del pianeta dove vi è più sofferenza proprio perché c’è più umanità. Interi popoli sopraffatti dalla brama di pochi avidi e corrotti, soggiogati da dittature ed estremismi politici e religiosi, che non vogliono e non riescono a piegarsi alla violenza e scelgono di fuggire dai luoghi che hanno dato loro i natali, quegli stessi posti che continuano a essere i supermercati del benessere occidentale. Oggetto di contese che in apparenza hanno motivazioni politiche o religiose ma che in realtà nascondono quasi sempre valenze economiche e finanziarie. Petrolio, gas, diamanti, minerali… giacimenti che fanno gola a tanti, servono a tutti, arricchiscono pochi e condannano alla miseria troppi.

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Perché l’Italia e l’Europa non riescono a stilare un efficace piano di prevenzione e sostegno dell’emergenza umanitaria in atto? Padre Zerai afferma di aver avuto la risposta a questo interrogativo «nel 2014, quando è scoppiato lo scandalo di Mafia Capitale». Se lui solo con pochi amici fidati è riuscito in questi anni ad aiutare migliaia e migliaia di profughi senza avere a sua disposizione né risorse né mezzi come si può davvero credere che gli stati occidentali con tutte le risorse a loro disposizione non riescano a studiare un concreto piano di prevenzione e intervento? La risposta va cercata lontano da quello che viene da politici e media indicato come il problema, ovvero il fiume di migranti che con ogni mezzo cerca la salvezza lungo le coste italiane e greche. Non sono loro il problema, queste persone rappresentano la conseguenza dei problemi generati anche dagli stessi stati occidentali.

Leggi anche – La nascita dei “mostri” del terrorismo e il rifiuto delle responsabilità dell’Occidente in “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna” di Pierre-Jean Luizard (Rosenberg&Sellier, 2016)

Un libro necessario Padre Zerai di Mussie Zerai e Giuseppe Carrisi, capace di raccontare senza filtri quanto realmente sta accadendo alle persone che abitano la Terra, quello che viene taciuto e perché. «Anche gli ultimi esistono e il loro diritto alla vita non è diverso da quello degli altri», sottolinea Abba Zerai che ha deciso di votare la sua vita al sacerdozio dopo aver scelto di impiegarla per aiutare i più bisognosi. Azioni e concetti che non sono banale retorica ma esempi di vita vera, reale umanità che ancora persiste in persone, come Zerai, cresciute in un clima di violenza e paura che al contatto con il benessere del mondo occidentale non hanno scelto di volere ogni bene per se stessi bensì di adoperarsi affinché ognuno possa avere almeno il minimo per mantenere o riguadagnare la dignità spettante a ogni essere umano. Perché «la Persona non deve essere il custode della legalità, anzi costantemente deve mettere in crisi la legalità confrontandola con la giustizia». E la giustizia non deve essere mero rispetto della legalità bensì pieno rispetto dell’equità.

Source: Si ringrazia Fiammetta Biancatelli della Walkabout per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Fonte Biografia autori www.walkaboutliteraryagency.com

Leggi anche:

Migrazioni… di organi

Cosa siamo diventati? Migrazioni, umanità e paura in “Lacrime di sale” di Bartolo-Tilotta (Mondadori, 2016)

© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“I mercanti dell’Apocalisse” di L.K. Brass

26 lunedì Set 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Giunti, IldealdellApocalisse, ImercantidellApocalisse, LkBrass, NWO, ordinemondiale, recensione, romanzo, thriller

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Romanzo d’esordio dell’autore che si firma L.K. Brass, I mercanti dell’Apocalisse (Giunti, 2016) è un thriller che vuole mostrare al lettore il volto oscuro del mondo finanziario che ormai governa a tutti gli effetti il mondo, quello vero.
Daniel Martin, esperto informatico con un passato da hacker prima e agente segreto poi, comprende tardi di essere in pericolo, non realizza che sarà la sua stessa indecisione la condanna che porrà la parola fine alla sua vita, quella vissuta fino a quel momento almeno.
I mercanti dell’Apocalisse è un libro che nasce dall’idea di Brass di farne una serie e, in effetti, la vicenda in esso narrata sembra proprio un prologo che aiuta e invoglia il lettore a entrare e percorrere i sentieri del labirintico mondo che l’autore vuol fargli conoscere. Un universo fatto di byte, programmi, sistemi, misteri e segreti opportunamente celati dietro un’apparente normalità, falsa come falso è il mondo finanziario che la controlla.
A tratti sembra di rivedere le scene dei film della trilogia Matrix, firmata dai fratelli Lana e Andy Wachowski, ma solo per il senso di inquietudine che avvolge l’intera vicenda.
In Matrix l’intero genere umano è soggiogato dalle macchine di cui un tempo si serviva, ne I mercanti dell’Apocalisse i cattivi si servono delle macchine per controllare interi Stati. Ma chi sono questi cattivi.

«Quando abbiamo scoperto gli insider con Michael abbiamo fatto una stima ancora più precisa. Negli ultimi due anni le loro operazioni hanno fruttato circa sei miliardi e le scommesse contro i Paesi dell’euro come minimo settanta.»

Insider interni vendono informazioni a operatori del mercato finanziario che lavorano in maniera occulta ma costante per vanificare gli effetti delle misure poste in essere dalla Bce (Banca Centrale Europea) a tutela delle economie degli Stati deboli.
All’inizio dell’estate del 2007 delle insolvenze su mutui ipotecari concessi negli Stati Uniti generarono uno shock per la finanza mondiale con conseguenze definite epocali. A partire dal 2008 la crisi si è spostata in quella che viene definita “economia reale”.
Ci si chiede perché mai per investimenti sbagliati fatti da banchieri e finanzieri debbano farne le spese migliaia di lavoratori e risparmiatori in tutto il mondo.

«Anna continuò il suo racconto lasciandosi andare a un lungo sfogo. Scommettere con le economie di interi Paesi era un crimine senza appello. Sapeva che dietro le statistiche e il Pil c’erano le vite delle persone che pagavano a caro prezzo l’avidità di finanzieri senza scrupoli. »

Dalla sua uscita sul mercato librario, lo scorso marzo, si è letto molto su quanto, ne I mercanti dell’Apocalisse, ci fosse di autobiografico nel protagonista. Non importa quanto di personale Brass abbia voluto raccontare, ciò che bisognerebbe chiedersi è invece quanto ci sia di ognuno di noi nella gente vittima dei “mercati finanziari”.
Leggendo alcuni passaggi del libro che narrano delle menzogne e delle mezze verità spacciate per ineluttabili necessità con il contributo di governi e media ritornano alla mente le narrazioni di Michael Ende in Momo (Longanesi, 1984) il quale già nel 1973, anno di uscita del testo, denunciava l’inganno messo in atto dal sistema per rubare il tempo, e quindi la vita, alle persone con la promessa, falsa, di restituire loro tutto con gli interessi dopo il sessantaduesimo anno.
Lucio Anneo Seneca, vissuto a ridosso dell’anno zero, sosteneva che «il tempo è l’unica cosa che nessuno, nemmeno una persona riconoscente ci può restituire.»
Il tempo è fondamentale. Il tempo è lo spazio della vita. Maurizio Pallante ne I monasteri del terzo millennio (Lindau, 2013) descrive perfettamente le degenerazioni dell’attuale sistema che tenta di convincere tutti a identificare la vita con il lavoro e la produzione di oggetti o denaro e la rimanente parte di “tempo libero” come un vuoto da riempire con attività passatempo. Uno spazio quasi inutile.
L.K. Brass, forse per evidenziare il paradosso dell’attuale sistema, afferma che «tutto è pura finzione. Solo quando succede sui mercati finanziari è reale».
Ecco allora che un nuovo quesito si fa spazio nel lettore: perché lasciare tutto in mano a persone che fanno un gioco simile a quello d’azzardo anche dove quest’ultimo è vietato per ovvi motivi?
Si sofferma a lungo l’autore nelle descrizioni fatte dal protagonista Daniel Martin sulle similitudini tra finanza e gioco d’azzardo. Le differenze sulle conseguenze invece sono ben note.
I mercanti dell’Apocalisse di L.K. Brass è fuor di dubbio un gran bel libro che dice, senza tanti giri di parole, ciò che dovrebbe essere ormai chiaro a tutti e che invece si occulta e si finge di non capire solo perché un eventuale cambiamento forse spaventa più della crisi del sistema che in qualche modo ci si illude di riuscire a superare rimanendo indenni.

«La situazione economica sta precipitando. Uno stato è in default e sta trattando un condono quasi totale del debito, mentre un altro sta preparando segretamente l’uscita dall’euro. Le economie mondiali crescono, ma il divario fra le classi continua ad aumentare.»

L.K. Brass: Nato a Lugano, ha vissuto a Parigi, Vaduz, Chicago, Ginevra, Zurigo. Si occupa di sistemi informativi finanziari. I mercanti dell’Apocalisse è il suo primo romanzo.

Articolo originale qui

© 2016 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La scrittura come autoanalisi e auto-rivelazione. Intervista a Fioly Bocca per ‘L’emozione in ogni passo’

27 mercoledì Lug 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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FiolyBocca, Giunti, intervista, Lemozioneinognipasso, romanzo

soloCopL’emozione in ogni passo (Giunti, 2016) è il secondo romanzo di Fioly Bocca, una scrittrice, una donna, una madre che, attraverso le parole, racconta la vita, le emozioni, i sentimenti, i dolori, le paure e soprattutto la speranza. “Una necessità che, io credo, ci accomuna tutti.”

Il libro racconta la storia di Alma e Frida, i loro tormenti, il loro essersi smarrite, il lungo Cammino che le porterà prima a incontrarsi poi a ritrovarsi. Un cammino spirituale, metaforico e reale, che diventerà anche un percorso fisico e psichico. Una autoanalisi e un’auto-rivelazione fondamentali per ognuno. Le medesime che l’autrice scopre “percorrendo” la sua scrittura.

Ne abbiamo parlato con Fioly Bocca in un’intervista.

Schermata 2016-07-27 a 09.37.00fonte: www.giunti.it

L’emozione in ogni passo è il racconto del cammino, metaforico e reale, condotto da Alma e Frida verso Santiago de Compostela e alla ricerca di se stesse. Il Cammino è un percorso da seguire o da costruire?

Il Cammino si costruisce, in un’interazione continua con esso. Ci prefiggiamo una partenza, alcune tappe, tempi di percorrenza, una meta. Ma, al momento del via, dobbiamo essere pronti a lasciarci sorprendere, e qualche volta accompagnare per mano. Vedremo così panorami che non avevamo previsto, scorci inattesi; magari cercando rifugio a un temporale.
Il Cammino si fa, con la complicità del Cammino.

Alma e Frida sono due donne apparentemente diverse tra loro che si incontrano in un momento delle loro vite nel quale entrambe si sono smarrite. Quanto incide e quanto determina il loro “essersi incontrate” sullo sviluppo della storia?

L’incontro delle due donne era necessario per la loro evoluzione, in un momento di grande fragilità per entrambe. Seppure così diverse da essere quasi complementari, Alma e Frida riconosco una nell’altra lo stesso profondo bisogno: quello di riconciliarsi con se stesse e la propria vita, dopo un avvenimento che le ha fatte deragliare dalle proprie esistenze. Nel caso di Alma è una ricerca di risposte, di una misura precisa ai propri sentimenti. Nel caso di Frida invece è la necessità di fare i conti con una perdita che renderà la sua vita per sempre “altro” da ciò che è stato fino a quel momento.
Incontrarsi sarà identificare nell’altra il proprio disagio e percorrere insieme un pezzo di strada verso la precisa volontà di superarlo.

Il suo romanzo d’esordio, Ovunque tu sarai (Giunti, 2015), è stato un grande successo di pubblico che si è appassionato alla sua scrittura che potremmo definire “dei sentimenti”. Secondo lei, cosa hanno trovato i lettori nel suo libro da spingerli al virale passaparola che ne è derivato?

È difficile per me rispondere a questa domanda. Non dirò quello che credo abbiamo trovato, ma quello che spero, abbiano incontrato nella mia scrittura: il bisogno di leggere, anche tra le righe di un dolore, lo spiraglio di una speranza. È una necessità che, io credo, accomuna tutti; la vita mette spesso a dura prova, ma se si riesce comunque a concederle ancora fiducia, può ricompensarci, almeno in parte, offrendoci nuovi punti di osservazione e la possibilità di evolvere, di avvicinarci a noi stessi nella nostra dimensione più autentica.
Raccontare una storia attraverso i sentimenti di chi la vive, offre certamente una prospettiva soggettiva; ma per me è anche quella più reale, più vicina al vero.

Anche lei, con la sua scrittura, sta portando avanti un suo percorso personale?

È quello che mi auguro. La scrittura è alle volte auto-rivelazione, il più potente strumento di autoanalisi che io abbia sperimentato. Le storie che si raccontano sono sempre anche un fare luce sulle nostre zone oscure. Già solo per questo, è una strada che merita di essere percorsa.

Se poi si riesce a offrire qualche cosa agli altri, allora è quasi un miracolo: la possibilità di condividere un processo creativo è un enorme sprone per chi si incammina in questa ricerca, che è bellezza, ma anche disciplina e fatica.

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Fioly Bocca: Vive nel Monferrato. Ha conseguito una laurea in Lettere all’Università degli Studi di Torino. Il suo romanzo d’esordio, Ovunque tu sarai, è stato un grande successo del passaparola. I diritti di traduzione sono stati venduti in Francia, Germania, Olanda, Norvegia, Turchia. L’emozione in ogni passo è il suo secondo romanzo.

155ef7_27bdf5024e224437ae14a0bc00aa3945Si ringrazia per la segnalazione e la mediazione Fiammetta Biancatelli della Walkabout Literary Agency

© 2016 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Nel mare del tempo” di Elisabetta Cametti (Giunti, 2014)

22 sabato Nov 2014

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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ElisabettaCametti, Giunti, Nelmaredeltempo, recensione, romanzo, stroncatura, thriller

Elisabetta Cametti, Nel mare del tempo

Dopo I guardiani della storia  Elisabetta Cametti ritorna in libreria con K –Nel mare del tempo, sempre con la casa editrice Giunti; ancora una volta un thriller contemporaneo che parla di etruschi. Nuove avventure per Katherine Sinclaire, il suo fidanzato Jethro e la cagnetta Tremilla. La storia riprende il filo del primo romanzo; mentre la protagonista cerca di riprendersi dalle vicissitudini precedenti, si ritrova a dover affrontare nuovi ostacoli e intrighi che causeranno la morte o il ferimento di praticamente tutti coloro che le stanno intorno.

La mole del testo, come di quello precedente, è imponente: 576 pagine per un giallo sono davvero tante; a tratti sembra di essere incappati in un mistero senza fine, aggravato da nuovi, tetri sviluppi e omicidi ripetuti. È impensabile una lettura continuativa per un libro di queste dimensioni, così va a finire che l’adrenalina ricercata dagli appassionati del genere scema di pagina in pagina e ci si ritrova sospinti verso la fine, solo per correttezza, dalla volontà di ultimare la lettura. Troppe interruzioni, troppi cambi di registro appesantiscono il testo. Ne sono un esempio lampante le ripetute dissertazioni sul popolo etrusco, sulla magia, sul passato collegato al presente, su delucidazioni tecniche e teoriche che non servono alla lettura né alla risoluzione del mistero.

In Nel mare del tempo i buoni e i cattivi si intuiscono facilmente, come l’epilogo. Troppo romanzato, per un thriller, un lieto fine che finisce per irritare il lettore. Una protagonista trattata alla stregua di una principessa da troppe persone, finanche da coloro che un attimo prima hanno dichiarato di odiarla e di volerla uccidere. Non si può dire che non sia una bella storia quella raccontata da Elisabetta Cametti, che non siano interessanti le narrazioni sugli etruschi; traspare certamente il lavoro di ricerca compiuto dalla stessa autrice, ma quello che non funziona è l’aver assemblato tanto materiale e averlo offerto al lettore per esteso.

Il testo ricorda molto, per struttura, le opere di Dan Brown, ma gli americani in generale hanno una maggiore propensione alla spettacolarizzazione, con la capacità di rendere interessanti anche cose scontate. Gli italiani non sono così e quando cercano di somigliare ai cugini d’oltreoceano, l’esito finale risulta un po’ artefatto. La stessa protagonista è forzatamente una persona normale, banale. Si notano tutti gli sforzi dell’autrice per renderla una persona comune, anche se poi gli atteggiamenti cozzano, a volte, con le parole, l’abbigliamento con il guardaroba, la professione con la quotidianità.

Fin dalle prime pagine si intuisce che Katherine non è solo la prescelta dai “guardiani del tempo” ma anche il birillo che deve assolutamente rimanere in piedi; tutti gli altri personaggi, come l’intera vicenda, sembrano costruiti per raggiungere questo scopo. Gli argomenti affrontati nel libro sono molteplici e spaziano dalla storia all’architettura, dalla religione alla spiritualità, dalla geo-morfologia dei terreni all’astronomia, dal racconto di drammi familiari a quello di gravi patologie psichiche; eppure nel lettore non resta nulla.L’autrice si limita a un’esposizione asettica dei contenuti e situazioni anche gravi scorrono in maniera neutra. A fine lettura restano le medesime sensazioni di quando si legge uno scrittore che potrebbe essere Dan Brown o un autore analogo per stile e tematiche: una grande quantità di immagini, anche cruente, di atmosfere, di luoghi, di persone e poche sensazioni, emozioni, riflessioni.

Abbandonando il tentativo di emulare altri e tralasciando i timori di svelare se stessa, unitamente alla forza delle conoscenze relative all’antico popolo degli etruschi e alla passione per il mistero, Elisabetta Cametti potrebbe orientarsi verso un tipo di scrittura più spontanea di quella impiegata per Nel mare del tempo.

http://www.sulromanzo.it/blog/k-nel-mare-del-tempo-di-elisabetta-cametti

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