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Irma Loredana Galgano

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“L’immigrazione in Italia da Jerry Masslo a oggi” a cura di Valerio De Cesaris e Marco Impagliazzo (Guerini e Associati, 2020)

04 martedì Ago 2020

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GuerinieAssociati, LimmigrazioneinItalia, MarcoImpagliazzo, recensione, saggio, ValerioDeCesaris

Valerio De Cesaris e Marco Impagliazzo si occupano da anni del tema, con tutto il carico emotivo che ne deriva, e hanno deciso di raccogliere dati, analisi e riflessioni nel libro edito da Guerini e Associati a giugno di quest’anno: L’immigrazione in Italia da Jerry Masslo a oggi.

La scelta del titolo naturalmente non è casuale. Vuole fin da subito portare o riportare la mente del lettore ai tragici fatti dell’agosto del 1989, allorquando gli italiani non poterono più nascondere di non essere né migliori né diversi dagli altri. Un episodio grave, gravissimo, aveva costretto tutti a fare i conti con la propria coscienza.

Non si poteva più fingere di non sapere chi in realtà fossero le persone che si occupavano della raccolta del cibo che quotidianamente confluiva sulle tavole dei cittadini italiani e, soprattutto, il triste grado di sfruttamento cui erano sottoposte.

Lo spirito di sdegno che si elevò subito dopo l’uccisione di Jerry Masslo poteva anche lasciare adito a sentimenti di speranza affinché le cose cambiassero e, quanto accaduto, non si ripetesse mai più.

Speranze. Vane.

Basta leggere i dati delle indagini, delle inchieste e dei reportage per realizzare quanto lunga sia invece la strada ancora da percorrere.

Marco Omizzolo, nella sua inchiesta diventata un libro1, ricorda che in Europa sono circa 880mila i lavoratori costretti a varie forme di subordinazione e ricatto e che negli 80 distretti agricoli italiani sono presenti, tranne rare eccezioni, condizioni di lavoro, di alloggio e sanitarie in costante violazione dei diritti umani.

Ma sono in tanti a pensare che, in fondo, se le condizioni non gli stanno bene questi lavoratori se ne possono anche ritornare da dove sono venuti.

Già da dove sono venuti.

Jerry Masslo era originario dello stesso bantustan di Nelson Mandela ed era fuggito da un Sudafrica in piena apartheid a soli 29 anni. Prima di intraprendere il lungo viaggio verso l’Europa, aveva portato sua moglie e due figli nello Zambia, perché ritenuto luogo più sicuro. Un altro suo figlio era stato ucciso da una pallottola vagante durante una manifestazione per i diritti dei neri. Il suo sogno era riuscire a raggiungere il Canada e ricongiungersi con il resto dei famigliari.

Il lavoro nei campi a Villa Literno, dove è stato poi ucciso, era una necessità. Non un piacere o una scelta.

Ma tutto questo, ovvero le esistenze che ci sono dietri i numeri di cui tanto si parla, ancora oggi, molto spesso, si preferisce ignorarle. Meglio disumanizzarle rendendole meramente cifre, numeri, statistiche, problemi o emergenze da affrontare. Solo che così facendo a disumanizzarsi non sono loro.

La verità è che ha ragione Marco Aime quando scrive che è triste, in un terzo millennio già avanzato, doversi ancora occupare di razzismo2.

Nonostante l’evidenza dei fatti, tutt’ora si continua ad affrontare il tema delle migrazioni come fosse un’emergenza, un problema la cui soluzione va ricercata in accordi e trattative più o meno lecite che poco o nulla tengono in considerazione le vite, le esistenze dei migranti stessi. Lo scopo molto spesso è accontentare l’elettorato o peggio guadagnarci qualcosa.

Secondo Iain Chambers, il razzismo non è una semplice patologia individuale o di gruppo, ma una struttura di potere che continua a generare la gerarchizzazione del mondo3.

Il testo curato da De Cesaris e Impagliazzo si compone di numerosi contributi, nei quali i rispettivi autori trattano il tema dell’immigrazione da varie angolazioni che vanno dall’aspetto umano e sociologico a quello politico e geopolitico e, pur essendo una pluralità di voci, ben sembrano armonizzarsi tra di loro regalando al lettore una interessante e riflessiva lettura.

1Marco Omizzolo, Sotto padrone. Uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana, Milano, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2019

2Marco Aime, Classificare, separare, escludere. Razzismi e identità, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2020

3Iain Chambers, Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’epoca postcoloniale, Milano, Meltemi Editore, 2018


Articolo disponibile anche qui


Disclosure: Per la prima foto credits www.pixabay.com


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La questione migranti non può risolversi in mare, lì bisogna solo salvare vite. “Immigrazione. Cambiare tutto” di Stefano Allievi (Editori Laterza, 2018) 

“Ancora dodici chilometri. Migranti in fuga sulla rotta alpina” di Maurizio Pagliassotti (Bollati Borignhieri, 2019) 


 

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“Jihadisti d’Italia” di Renzo Guolo (Guerini e Associati, 2018)

28 giovedì Giu 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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GuerinieAssociati, JihadistidItalia, paura, recensione, RenzoGuolo, saggio, terrore, Terrorismo

Dopo aver analizzato il fenomeno degli jihadisti in Europa ne L’ultima utopia, pubblicato sempre con Guerini e Associati, Renzo Guolo decide di indagare a fondo sulla radicalizzazione islamista nel nostro Paese e scrive Jihadisti d’Italia, uscito in prima edizione a maggio 2018.

Nel saggio precedente Guolo si interrogava sulle cause politiche, culturali, religiose che avessero potuto in qualche modo incidere nella scelta di radicalizzazione di tanti giovani europei. Ora, questo genere di analisi, viene applicata al territorio italiano e ai suoi giovani abitanti.
Negli ultimi anni cittadini italiani, o residenti nel nostro Paese, hanno imboccato la via della radicalizzazione islamista. «Tra loro, circa un centinaio hanno combattuto in Siria e Iraq, nelle fila dell’Isis o di gruppi legati ad Al Qaeda».
Guolo ricerca a fondo le motivazioni alla base di queste estreme scelte di radicalizzazione.

Si tratta di immigrati di prima o seconda generazione ma anche di italiani autoctoni. Di uomini come di donne. Di residenti nelle periferie delle grandi città o in piccoli centri abitati. Lavoratori o inoccupati. Delinquenti o incensurati. A unirli sono poche caratteristiche, «in linea con altre esperienze europee»: l’età, in quanto si tratta quasi sempre di giovani o addirittura giovanissimi, e l’essere musulmani sunniti.

Attraverso l’esplorazione del fenomeno della radicalizzazione di matrice islamista, Guolo riesce anche a osservare il «profondo mutamento sociale indotto dai processi di globalizzazione nella nostra società». La comprensione del fenomeno della radicalizzazione consente quindi una più vasta conoscenza anche delle trasformazioni che investono e hanno investito la società italiana, al pari di quella europea, come dei conflitti che la attraversano e la caratterizzano: il ritorno all’ideologia, la ricerca d’identità, lo spazio pubblico delle religioni, le forme di disagio e le rivolte giovanili, l’impatto dei flussi globali sulle comunità locali, la risposta delle istituzioni e della politica, la xenofobia, le nuove forme di organizzazione socio-religiosa dell’islam.

Il fulcro del lavoro di ricerca e analisi di Renzo Guolo sembra centrato sulla dimensione soggettiva della scelta di radicalizzarsi da parte di soggetti giovani, oltre naturalmente il quadro politico e culturale all’interno del quale dette decisioni prendono forma. La violenza, il terrorismo, il terrore sono lontani, nella prospettiva di indagine di Guolo. È frutto certamente di una scelta, o di una necessità, la volontà di limitare il campo d’indagine.

Viene analizzato da Guolo anche il “ritardo” tutto italiano, rispetto agli altri Paesi europei, nella “produzione” di giovani jihadisti ma, soprattutto, le ragioni per le quali «questo gap potrebbe venire, drammaticamente, colmato nei prossimi anni».
Alla fine del 2017 i potenziali jihadisti interni o foreign fighters erano 129. L’immigrazione relativamente recente, limitato effetto banlieue, assenza quasi totale di poli di radicalizzazione, assenza di un gruppo etno-religioso predominante, associazionismo islamico non radicale, lavoro di investigazione e intelligence: sono questi i molteplici fattori che hanno consentito il ritardo italiano, «calcolabile sui tre/cinque anni», rispetto agli altri Paesi europei.

Un ritardo che però, avverte Guolo, non è destinato a protrarsi a lungo, sia per le tensioni sociali legate all’immigrazione, che sono destinate a crescere, sia per «la diffusa presenza, nel panorama politico nazionale, di forze palesemente xenofobe e islamofobe».

Se da una parte è difficile prevedere gli sviluppi «delle future dinamiche generazionali», largamente influenzate da fattori legati al proprio tempo, Guolo ipotizza che solo «attive politiche di integrazione, capaci di attenuare i richiami delle sirene islamiste radicali nei confronti di quanti si sentono per vari motivi esclusi o ostili, possano rafforzare efficacemente la sicurezza collettiva».

Un libro, Jihadisti d’Italia di Renzo Guolo, che si inserisce nel dibattito-focolaio mai sopito su Isis e terrorismo islamista analizzando un aspetto peculiare delle società del ventunesimo secolo in netta trasformazione e in evidente contrapposizione a quelle precedenti e, fors’anche, a quelle future dal punto di vista non soltanto economico e politico ma, soprattutto, sociale culturale ideologico e religioso. Società che come mai prima d’ora sono interdipendenti le une dalle altre, nelle quali soprattutto gli aspetti negativi e le degenerazioni ricadono scambievolmente e a notevole velocità. Ragioni per cui, come sottolinea lo stesso autore, non si può ipotizzare di studiare fenomeni e soluzioni senza allargare lo sguardo oltre i propri confini. Necessita sempre e comunque uno sguardo globale per problemi e fenomeni che sono innegabilmente globali.

Disclosure: Fonte biografia autore www.treccani.it


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La nascita dei “mostri” del terrorismo e il rifiuto delle responsabilità dell’Occidente in “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna” di Pierre-Jean Luizard (Rosenberg&Sellier, 2016) 


 

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La vita di un avvocato di strada. Intervista a Massimiliano Arena

20 mercoledì Giu 2018

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GuerinieAssociati, intervista, Ioavvocatodistrada, MassimilianoArena, romanzo, saggio

La vita di un avvocato di strada. Intervista a Massimiliano Arena

Massimiliano Arena si augura che «i giovani di oggi facciano un po’ meno master, meno corsi di perfezionamento e di aggiornamento, e si buttino un po’ di più sulle strade del mondo, a fare esperienze di vita. A sentire odori, anche nauseabondi. Sporcarsi mani e piedi», perché lui crede nella propria professione. Lui vede nell’avvocato “l’angelo custode” del cliente, un suo alleato. Eppure, nell’immaginario collettivo e anche nella gran parte della realtà in cui anch’egli vive e lavora, il legale è, troppo spesso, uno scaccia-guai avido di denaro che non disdegna di difendere anche corrotti, assassini e malavitosi pur di vedersi accreditata la lauta parcella.

Ma chi sono davvero gli avvocati e, soprattutto, chi è Massimiliano Arena e cosa fa con lo sportello Avvocati di strada? Ne abbiamo parlato in un’intervista in occasione dell’uscita del suo libro, Io, avvocato di strada edito da Baldini+Castoldi.

Prima di entrare nel vivo del suo libro, se mi permette, vorrei chiedere la sua opinione riguardo la dichiarazione di Giuseppe Conte: «Sarò l’avvocato di tutti gli italiani». E subito su social e web si sono scatenati adducendo come motivazione più diffusa la non necessità di avere un avvocato. Ciò è dovuto forse anche al fatto che un supporto legale viene associato quasi sempre a qualcosa di negativo. Lei come commenta la dichiarazione del Presidente del Consiglio e la reazione del “popolo della Rete”?

Credo che il premier Conte volesse fare leva sulla sua biografia personale, per dimostrare continuità tra l’impegno forense e l’impegno politico. La nostra cultura ci impone di pensare al paziente dello psicologo come a un matto e al cliente di uno studio legale come ad una persona nei guai o, peggio, malavitosa. Nella cultura anglosassone l’avvocato è una sorta di angelo custode. L’avvocato negli Usa è un alleato del quotidiano, piuttosto che una risorsa da attivare in caso di urgenza e necessità.

Al di là di tutto non mi cambia nulla la dichiarazione del Premier, tanto meno la reazione del web. Andiamo alla sostanza delle cose, al saper fare, al saper essere.

Poi, beato il popolo che non ha bisogno di eroi, di avvocati e di giudici.

Nello specifico della sua esperienza personale invece lei si è quasi subito scontrato con un mondo diverso da quello immaginato. Dilaga un atteggiamento arrivista e opportunista tra i suoi colleghi. Com’è stato l’impatto con la realtà?

Devo ammettere che la esperienza come avvocato di strada ha salvato l’amore per questo lavoro e l’attaccamento ai valori e agli ideali da cui trae origine. È ovvio che ogni mestiere, arte e professione può essere contaminata da luoghi comuni e anche quella forense è una professione non immune da questo vizio.

Io me la tengo stretta e credo che sia una professione, o forse un’arte, nobile al pari di quella medica, nella misura in cui ripristina dignità e diritto, e di conseguenza migliora la salute dell’individuo e della comunità.

So di essere stato oggetto di derisione, di scherno da parte di tanti colleghi, i più anziani, o quelli che non hanno altro impegno se non quello dell’esercizio dell’invidia. Poi mi chiedo invidia di cosa, se il nostro studio legale, quello di avvocato di strada, pur essendo il più grande in Italia, è quello che paradossalmente fattura meno, cioè nulla.

La bellezza e i paradossi ci salveranno!

La vita di un avvocato di strada. Intervista a Massimiliano Arena

Il tempo trascorso in Bolivia, in Guinea Bissau, negli orfanotrofi, nelle comunità rurali e agricole l’hanno avvicinata alla vita vera, quella dura, spietata. E ha rappresentato l’input per una svolta nella sua di vita e nella carriera professionale. Si sente una persona migliore oggi?

Mi sento migliore rispetto a me stesso, mai rispetto agli altri. Tenere a bada l’Ego non è facile, è la sfida più grande. Anzi il mio messaggio è che se uno coi miei limiti ha fatto tutto ciò, allora è la prova provata che chiunque possa farlo, ed anche meglio.

Allo stesso tempo mi auguro che i giovani di oggi facciano un po’ meno master, meno corsi di perfezionamento e di aggiornamento, e si buttino un po’ di più sulle strade del mondo, a fare esperienze di vita. A sentire odori, anche nauseabondi. Sporcarsi mani e piedi. Riequilibrare il totale squilibrio tra il saper fare e il saper essere.

Quali sono state le difficoltà maggiori riscontrate nell’apertura dello sportello Avvocati di strada?

In primis la diffidenza degli altri avvocati. È ovvio che uno sportello di assistenza legale gratuita possa celare dietro le quinte il pericolo di procacciamento illegale della clientela. Per questa ragione io ho imposto che al mio sportello nessuno dei colleghi e delle colleghe possa ricevere il conferimento di un mandato. Noi possiamo solo dare orientamento e assistenza. Per il resto non ho visto grandissime resistenze anzi è stato un crescendo di riconoscimenti, di attestati, alla lunga anche da parte dell’ordine forense.

Si è mai ritrovato a pensare che, alla fin fine, non ne valeva la pena?

I poveri puzzano, si lamentano, raccontano bugie e ti prendono in giro. Lo fanno continuamente. Per molti di loro è un modello di vita e di comportamento. Tutto ciò mette a dura prova la resistenza di chi vuole aiutarli. Eppure, è proprio in questa resistenza che si misura l’attaccamento ai valori ideali che muovono verso la solidarietà. Il chiedersi se valga la pena è naturale. Me lo sono chiesto in Bolivia quando vedevo la gente che prendeva i pacchi dono e li andava a vendere al mercato. Me lo sono chiesto quando ho scoperto che chi chiede aiuto in realtà sta meglio di tanti altri. La missione dell’avvocato è quella di difendere tutti, noi non giudichiamo nessuno.

LEGGI ANCHE – L’arte di non avere niente. “Less is more” di Salvatore La Porta

Lei vive e lavora in una realtà, la città di Foggia, che vede un tessuto sociale minato da una diffusa prostituzione e un radicato caporalato. Uno sfruttamento presente in tantissime zone d’Italia, tra l’altro. Qual è la risposta delle istituzioni e della cittadinanza alla vostra attività professionale?

Le istituzioni ricorrono alla nostra associazione molto spesso, siamo il surrogato di uno Stato sociale traballante. Mettiamo spesso pezze a colori grazie anche alla rete del volontariato e dell’associazionismo locale, che è sdoganato da limiti di spesa pubblica. Conta solo il cuore, buttarlo oltre la ragione e darsi da fare. Nella nostra città noi e le nostre associazioni gemelle siamo molto ben voluti, la gente ci cerca, ci segnala i casi di emergenza e noi ci muoviamo dallo sportello sia in città che nelle campagne limitrofe, soprattutto nei periodi di raccolta del pomodoro dove i picchi di caporalato, di prostituzione e di schiavitù umana raggiungono livelli da gironi infernali.

La vita di un avvocato di strada. Intervista a Massimiliano Arena

Quale ritiene essere il disagio maggiore nella società odierna?

Il disagio maggiore della società moderna è una educazione perversa all’egoismo e al conflitto. Anche la comunicazione politica oramai è viziata da egoismo, individualismo e naturale propensione al conflitto. Chiunque giunge al potere si sente in diritto di distruggere tutto il resto e si atteggia a salvatore del mondo. Questo paese, le comunità che lo popolano e che lo animano, hanno bisogno di una pace sociale. Il più grande investimento che si possa fare in questo momento in questo paese non è sulle infrastrutture, o sulla detassazione. Noi dobbiamo investire in riconciliazione, dobbiamo fare la pace e sanare i conflitti e le ferite. Così come fu fatto magnificamente dai padri costituenti nel secondo dopoguerra. Ed infatti dal secondo dopoguerra nacque una generazione di cittadini che hanno scritto la storia del nostro paese e lo hanno portato al boom economico.

Molti di noi pensano che Nelson Mandela abbia vinto il premio Nobel per la Pace perché è stato in carcere per più di 25 anni. Falso. Nelson Mandela ha legittimato il suo premio Nobel nella misura in cui una volta giunto al potere, anziché vendicarsi contro i suoi aguzzini, li ha perdonati e ha aperto in ogni provincia i così detti tribunali della riconciliazione, dove bianchi e neri si sono scambiati il perdono di anni di segregazione razziale, di uccisioni, di rapimenti e stupri. Il Sudafrica è ripartito, affondando le proprie fondamenta sul perdono e sulla riconciliazione e ciò ha fatto di quel paese un paese moderno e proiettato al futuro.

Dove non è presente il volontariato come lo sportello Avvocati di strada chi si occupa di difendere gli interessi e i diritti degli ultimi?

Io sono per propensione naturale ottimista. Trovo modo di riscontrare questo mio ottimismo girando l’Italia. Vi sono eroi anonimi, i quali, senza alcuna organizzazione, si battono per i diritti degli ultimi. Sono loro la speranza che quella grande opera di investimento sulla riconciliazione dei conflitti e sul perdono sociale possa finalmente partire e salvare le sorti delle nostre comunità.


Leggi tutte le nostre interviste a scrittori e scrittrici.

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Stampa di Palazzo e fake news. Fermare gli “Stregoni della notizia”. Intervista a Marcello Foa

01 domenica Apr 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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Glistregonidellanotizia, GuerinieAssociati, intervista, MarcelloFoa

Guerini e Associati propone al grande pubblico il secondo atto del saggio di Marcello Foa su Gli stregoni della notizia. Il libro di «un giornalista che, dopo oltre 30 anni di carriera, resta profondamente innamorato della propria professione», di un “amore” che rimane comunque critico, consentendogli di osservare il lavoro proprio e dei colleghi con pungente spirito critico, il medesimo vorrebbe fosse presente in tutti gli operatori dell’informazione. Ma così, purtroppo, non è. I motivi sono molteplici ma alcuni più peculiari e pericolosi.

Ne abbiamo discusso nell’intervista che gentilmente ha concesso.

Dieci anni fa lei scriveva di come coloro che conoscono le tecniche per manipolare l’informazione potessero minare le democrazie. Dieci anni dopo ripropone il testo aggiornato in uno scenario che non è poi così confortante. In questo lasso di tempo a fare più passi in avanti sono state le democrazie, gli operatori dell’informazione o i manipolatori?

Ottima domanda. Direi in prima battuta i manipolatori. L’informazione e la comunicazione sono strumenti indispensabili nella gestione del potere e come strumento delle guerre asimmetriche. Le tecniche che descrissi dieci anni fa vengono usate anche oggi, nel frattempo se ne sono aggiunte altre molto sofisticate. Purtroppo i giornalisti, anziché allertarsi e mostrarsi sempre più guardinghi, hanno continuato ad essere facili prede degli spin doctor e questo ha finito per diminuire la credibilità della grande stampa e, in seguito, anche la fiducia nelle istituzioni e nei partiti. Se la nostra democrazia non è morta lo dobbiamo in larga parte al successo della cosiddetta informazione alternativa online, a cui è corrisposto la nascita di nuovi movimenti politici.

Le notizie false non sono prerogativa dei nostri tempi, eppure oggi sembra che interi governi vogliano indire addirittura una crociata contro quelle che sono state definite “armi contro la democrazia”. Sono le fake news che girano in Internet e sui social media il vero pericolo per le democrazie occidentali o si attaccano queste per distrarre le persone da altro?

Le fake news sono chiaramente un pretesto per mettere a tacere o comunque limitare l’informazione alternativa online, che, contrariamente ai miei colleghi, saluto con molto favore. Nel saggio dimostro come lo scopo reale di queste polemiche sia l’instaurazione di una sorta di censura che, in nome di una causa apparentemente giusta (“le fake news vi ingannano!”), permetta ai governi di discriminare tra buona e cattiva informazione. Ma queste sono logiche da regime autoritario. Diversi studi hanno dimostrato come l’influenza delle “fake news” sull’elettorato sia marginale ed effimera. La mia tesi è che le vere indisidie siano rappresentate dalle manipolazioni che nascono dentro le istituzioni, con effetti davvero devastanti, ma contro cui non si levano mai voci e tanto meno richieste di sanzioni.

Le va di spiegarci la differenza tra comunicazione istituzionale e comunicazione politica?

Certo. La comunicazione istituzionale è per sua natura oggettiva, neutrale, spoliticizzata: viene usata dai governi non per fare propaganda ma per permettere ai cittadini di disporre di dati e notizie oggettive riguardanti l’attività dello Stato e dello stesso governo.

La comunicazione politica, invece, permette ai ministri di prendere parte al dibattito politico e di difendere le proprie opinioni. I problemi nascono quando i comunicatori più spregiudicati, ovvero gli spin doctor, le mischiano o addirittura, come capita sempre più frequentemente, aboliscono la distinzione. Quando questo accade si abusa del potere delle istituzioni e informazioni apparentemente oggettive sono in realtà falsate o manipolate alla fonte. È un fenomeno invisibile, di cui i cittadini (e quasi sempre anche gli stessi giornalisti) non sono consapevoli ma gravissimo per una democrazia.

Lei scrive che i giornalisti sanno sempre qualcosa in più del pubblico. Come utilizzano queste informazioni? Ciò li rende più ricattatori o più ricattabili?

Direi che li rende troppo vicini al potere. Mi spiego: la frequentazione dei politici e dei governi è inevitabile; come è inevitabile che si instauri una certa confidenzialità con le proprie fonti. Non puoi fare degli scoop se non hai degli informatori all’Eliseo, a Palazzo Chigi o al Pentagono. Il problema è che i giornalisti tendono a diventare troppo simpatetici con l’establishment e dunque ad assorbirne le logiche e gli interessi. Smettono di ringhiare e di abbaiare, diventano dei cani da guardia troppo docili, troppo “di casa”; si sentono gratificati dalla vicinanza con il potere e questo finisce per limitare la capacità critica e il coraggio di denunciare. Un giornalista conosce presidenti e primi ministri ma dovrebbe essere sempre temuto da costoro. Purtroppo non è sempre così e questa è una delle ragioni del conformismo della grande stampa che finisce per pensare troppo al Palazzo e con il Palazzo, distaccandosi dalla realtà e dai cittadini.

Perché è così difficile garantire un’informazione originale e corretta anche all’interno di stati democratici?

Da un lato per la ragione che le ho esposto, a cui se na aggiungono altre: i condizionamenti dettati dagli interessi degli editori, la riduzione delle risorse economiche a disposizione delle redazioni, che comporta uno scadimento qualitativo di quest’ultime . Però c’è un punto fondamentale: per esercitare fino in fondo la propria missione di coscienza critica, i giornalisti dovrebbero conoscere le tecniche usate dagli spin doctor per orientare o manipolare l’informazione, ma sebbene, come dimostro nel saggio, gli esempi siano numerosi e ricorrenti, questa consapevolezza non matura. E i giornalisti continuano a essere prede fin troppo facili degli spin doctor. Risultato: un’informazione tendenzialmente conformista.

Proviamo a calcolare il senso della corretta informazione in base ai parametri della conoscenza e a quelli dell’era digitale. Lei da decenni ormai studia e compie ricerche per raccontare scomode verità. Si può anche non condividere il suo lavoro ma non si può negare che cerchi sempre di documentarlo con fonti certe. Lei ha 28 mila persone che seguono il suo profilo social. Il sito tematico dove si afferma di perseguire la mission di smascherare le bufale mediatiche, ovvero le fake news, BUTAC è seguito, sullo stesso social network, da 125 mila persone. Diciamo che il loro non è proprio un metodo scientifico piuttosto un rifarsi alla cultura dominante. Tant’è vero che, oltre a lei, un altro giornalista che finisce spesso nel loro mirino è Giulietto Chiesa. Il punto su cui vorrei discutere con lei è il motivo per cui tanta gente preferisce credere semplicemente e tranquillamente a loro? E, se mi permette, anche conoscere la sua opinione sul perché tante persone preferiscano sia un sito a dir loro cosa sia una bufala invece di documentarsi personalmente…

Tendenzialmente i debunker sono simpatetici con le istituzioni nella presunzione che rappresentino la fonte della Verità. Il mio approccio è opposto: io individuo nella manipolazione dentro le istituzioni una delle minacce più gravi alla nostra democrazia. È normale che in genere non sia amato dai debunker, che infatti sono restii ad attaccare i governi e l’establishment economico, men che meno gli spin doctor. Direi che mi sembrano funzionali all’establishment, che infatti li elogia (vedi la Boldrini nella passata legislatura). La loro visione privilegia e difende l’ortodossia istituzionale e i loro toni sono sovente inquisitori, polemici, ostentamente denigratori. Non c’è distacco critico. D’altronde molti di loro si sono autoproclamati in questo ruolo, senza credenziali professionali o accademiche ma naturalmente il pubblico questo non lo sa. Bisogna essere molto sicuri di sè per erigersi quotidianamente a giudici (e con toni implacabili) degli altri. Quanto contano davvero? Difficile dirlo. Alcuni studi hanno dimostrato che la loro influenza è limitata.

Uno dei punti su cui lei insiste molto nel libro è l’influenza degli esperti della comunicazione usati dai politici in campagna elettorale e non solo, gli spin doctor. In questi giorni primeggia tra i titoli dei giornali il datagate che ha coinvolto Facebook e Cambridge Analytica. Era davvero così inaspettato l’utilizzo di tutti i dati raccolti e immagazzinati dai social media?

Assolutamente no. Nel saggio scrivo che i giornalisti anziché infervorarsi sulle fake news, dovrebbero occuparsi di problemi ben più seri e gravi, come le insidie rappresentate dalla capacità di Facebook di orientare le nostre emozioni i nostri stati d’animo e anche le nostre idee politiche. Lo scandalo di Cambridge Analytica è esploso adesso e sebbene le circostanze siano state in parte strumentalizzate, non mi ha affatto sorpreso. Ma ad essere pericolosa non è tanto la società britannica, quanto Zuckerberg stesso.

Lei afferma che la concorrenza di siti e blog online sia salutare al giornalismo classico ma che comunque spetti a questo portare avanti il riscatto dell’informazione. Lo farà?

Me lo auguro di cuore. Io resto convinto che una stampa autorevole e coraggiosa sia indispensabile per la nostra democrazia. Solo i grandi media sono attrezzati per condurre battaglia davvero scomode e coraggiose, che richiedono ingenti mezzi economici e le necessarie tutele giuridiche. Ma bisogna volerlo e bisogna poter contare su editori all’altezza. Che ci riesca non lo so, che debba provarci lo credo con tutte le mie forze.


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Chi sono i foreign fighter? Il radicalismo islamico, l’ultima grande utopia del Novecento

03 giovedì Dic 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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Chi sono i foreign fighter? Il radicalismo islamico, l'ultima grande utopia del Novecento

Gli attentati di Parigi del 13 novembre hanno richiamato, con maggiore forza, l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica sulla questione dei foreign fighter. Cittadini europei o immigrati di seconda generazione che scelgono di abbracciare l’Islam più radicale e combattere per lo jihad, addestrati in campi allestiti in Medio Oriente, spesso ritornano in Europa e il motivo si teme possa essere la realizzazione di attentati kamikaze.

Lo stesso commando responsabile degli assalti di Parigi era composto da nove persone, di cui sei cittadini europei. Allora in molti si chiedono quale sia l’utilità della chiusura delle frontiere auspicata da alcune forze politiche come deterrente all’ingresso in Europa di stranieri considerati potenziali attentatori. Altri invece cercano di focalizzare l’interesse sui foreign fighter perché rappresenterebbero quest’ultimi il reale pericolo da cui difendersi.

Chi sono i foreign fighter? Da dove provengono? A quali ceti sociali appartengono? Perché scelgono di convertirsi all’Islam radicale? Davvero questo rappresenta l’ultima grande utopia del Novecento?

Abbiamo rivolto queste domande a Renzo Guolo, docente di Sociologia della politica e Sociologia della religione presso l’Università degli Studi di Padova e di Sociologia dell’islam nel Master di Studi sull’Islam d’Europa, oltre che autore di L’ultima utopia. Gli jihadisti europei (Guerini e Associati, 2015).

Il dibattito attuale sull’Isis, anche a seguito degli attentati del 13 novembre a Parigi, si sofferma spesso sul fenomeno dei foreign fighter, a cui è dedicato il suo saggio L’ultima utopia. Cos’attrae dell’Islam radicale al punto da decidere di andare a combattere per la sua affermazione? È solo la mancanza di ideologie forti in Occidente?

La dimensione ideologica è un elemento rilevante, conferma il fatto che tra i cosiddetti foreign fighter abbiamo un profilo sociale e culturale molto diversificato. Troviamo giovani che provengono dalle banlieue parigine o da Molenbeek, come nel caso degli attentati di novembre, con situazioni di marginalità sociale alle spalle ma anche giovani che provengono da ceti medi. L’ideologia offre loro una sorta di senso che probabilmente dentro al mare fluttuante della modernità liquida non riescono a trovare. Per cui, in condizioni particolari quali il malcontento per la modernità o per la marginalità, questa ideologia che promette di sovvertire e combattere l’ordine mondiale può apparire un elemento che attrae, che dà una forte identità in situazioni in cui queste persone sembrano averne bisogno.

Nel delineare un identikit dei foreign fighter europei, lei nota una trasversalità di fondo che rende difficile stabilire delle caratteristiche fisse, ma ne individua due comuni: sono in prevalenza giovani e diventano musulmani sunniti. Perché l’integralismo islamico riesce a far presa in modo così forte sui giovani europei?

Parliamo di immigrati di seconda generazione per i quali il bagaglio religioso è considerato o un mero elemento culturale o comunque qualcosa di diverso dall’Islam tradizionale, per cui quando decidono di ritrovarlo come ideologia mobilitante imboccano la via del radicalismo proprio per la sua messa in discussione finanche della religione stessa. Per questo tipo di militanti lo jihad è quasi una sorta di sesto pilastro dell’Islam ma se si va a vedere la dottrina islamica non c’è alcun obbligo del credente rispetto a questa dimensione. È evidente che la religione viene vissuta non più come tradizione ma come sostegno alla mobilitazione politica. Il 90% del mondo islamico è sunnita e il radicalismo islamico si è sviluppato, così come noi lo conosciamo ovvero nella forma dello jihadismo, al suo interno, mentre nel mondo sciita di fatto è diventato Stato con la Rivoluzione iraniana del 1979. Anche nel campo dell’Islam politico-radicale in sostanza sono state riprodotte le fratture confessionali antiche.

Chi sono i foreign fighter? Il radicalismo islamico, l'ultima grande utopia del Novecento

Tra i foreign fighter in Siria e in Iraq spiccano anche immigrati di seconda generazione. A quale loro esigenza, che non trova riscontro in Occidente, potrebbe rispondere l’Isis? Si può parlare di un’integrazione mancata?

Sì, l’integrazione mancata è un elemento chiave. Lo vediamo attraverso i percorsi per gli immigrati di seconda generazione per esempio nei sobborghi metropolitani londinesi oppure nelle banlieue francesi. Un’integrazione mancata è evidente nel grande percorso che è stato fatto nel tempo dai giovani di banlieue se pensiamo al Movimento di rivolta della fine degli anni ’80. Rompevano le vetrine e si appropriavano dei beni e, paradossalmente, chiedevano l’integrazione attraverso il consumo. Oppure ancora nella rivolta nelle periferiedel 2005 contro l’idea francese dei valori universali veicolati del modello assimilazionista. Testimonianze tutte del fatto che il processo di integrazione si era fermato.

L’Isis è riuscito, facendosi Stato, a mostrare l’Islam radicale come ultima ideologia capace di sovvertire lo status quo appena descritto. E questi ragazzi hanno maturato una sorta di nichilismo religioso con l’idea di distruggere tutto, rovesciare un ordine in cui non ci si può più riconoscere per cercare di instaurarne un altro.

Per comprendere gli accadimenti e le scelte compiute dai foreign fighter lei suggerisce di ampliare il raggio di azione degli studi verso l’analisi del concetto di radicalizzazione e non fermarsi ai risultati delle osservazioni sul terrorismo. Quali sono i punti sostanziali su cui bisogna focalizzare l’attenzione per scandagliare al meglio il fenomeno?

Il concetto di radicalizzazione ci consente di capire cosa succede prima che queste persone scelgano di aderire all’Islam radicale e quindi, in qualche modo, di mettere in atto azioni di prevenzione da parte delle istituzioni, delle società. Proprio perché la radicalizzazione è un processo, si tratta di comprendere quali sono i fattori sociali che possono indurre queste persone ad aderire. Oggi ammontano a circa 5000 gli europei tra i foreign fighter in Siria e Iraq o che ci sono stati in questi anni. Il numero è altissimo. Capire i processi che portano alla radicalizzazione permette anche di comprendere quali scelte politiche e sociali compiere per cercare almeno di ridurre il fenomeno.

Lei indica tra i luoghi della radicalizzazione le moschee, il carcere e soprattutto la Rete. Non è la prima volta che a questa viene imputata una responsabilità in tal senso. Quanto ha inciso sullo jihadismo attuale e quanto lo ha condizionato l’essere nell’era della digitalizzazione?

Ha inciso moltissimo perché un tempo per leggere, ad esempio, il testo di un predicatore islamista radicale bisognava conoscere qualcuno che potesse renderlo disponibile, oppure procurarselo… ma diventava difficile. Oggi invece se voglio leggere i teorici radicali o certe interpretazioni specifiche, la Rete offre un’enorme possibilità di accesso. In più questa è interattiva e ciò consente anche di comunicare con ambienti islamisti radicali. La capacità di proliferazione è molto più accentuata. Basti pensare all’attenzione spasmodica che l’Isis assegna alla costruzione non solo del messaggio ma della produzione mediatica dei docu-film fino ai reportage di combattimento e ai videogiochi di guerra in versione islamista radicale.

Chi sono i foreign fighter? Il radicalismo islamico, l'ultima grande utopia del Novecento

Uno dei temi più sentiti dello jihadismo è quello di Shahīd, cioè l’essere testimone della fede attraverso concrete operazioni di testimonianza. Spesso ciò equivale a trasformarsi in veri e propri martiri. Come si inseriscono i foreign fighter in questo? E come interpretano il martirio?

Nell’ideologia radicale il cosiddetto martirio ha un ruolo centrale. Nel momento in cui si aderisce a questi gruppi si dà per scontato che ci sia la consapevolezza a considerare lo jihad come un obbligo personale. Per molti giovani che provengono dalle periferie disagiate questo elemento può diventare un gesto che va a riscattare una vita vissuta come sbagliata, segnata da condotte illecite o poco legate ai principi religiosi. Per altri l’idea di diventare martiri coincide col testimoniare, con la propria scelta, un percorso in cui si dimostra che si è stati coerenti fino in fondo. È evidente che la credenza del martirio deve essere fatta propria in pieno. Non è escluso il ripensamento. Pensiamo al caso, probabilmente, dell’ultimo membro del commando di Parigi che sembra essersi sottratto a questo compito. In fondo si tratta di togliere la vita ad altre persone e a se stessi.

Restando in tema, alcuni giornalisti sostengono che il martirio, ovvero l’immolarsi per la causa, spesso equivalente al diventare un kamikaze, in realtà abbia poche valenze religiose o spirituali ma sia dettato da un bisogno economico estremo. In altre parole i martiri acconsentono a diventare tali perché in cambio hanno ricevuto la promessa di un indennizzo/risarcimento per i familiari. Ritiene che questa si possa effettivamente spiegare solo ricorrendo a tale motivazione? Ed è possibile formulare una tale ipotesi anche per i foreign fighter? 

Ci sono casi molto diversi, può esserci anche l’elemento della compensazione materiale. Ma non è questo l’elemento determinante, che io penso sia legato all’idea di sacrificio di sé per una causa superiore. Lo abbiamo visto anche con i tanti casi di suicidio in Iraq e Siria: molti foreign fighter che si sono fatti saltare in aria lo hanno visto come la logica conclusione di un percorso di rifiuto dell’esistenza precedente ed è come se si cercasse, con questa scelta, di tagliare i ponti con tutto quello che era terreno per porsi in un piano extra-mondano. Il motto che ripetono spesso è: non c’è altra ricompensa più grande del martirio, visto come un qualcosa che regala una forte identità personale e consente di metterla al servizio della causa.

Chi sono i foreign fighter? Il radicalismo islamico, l'ultima grande utopia del Novecento

Il titolo del suo saggio è molto emblematico, ma “ultima” è da intendersi nel senso di “definitiva” o nel senso di “più recente”, l’ultima in ordine cronologico? Cioè, ritiene possibile pensare a un’utopia in grado di fronteggiare quella proposta dall’Isis?

Le utopie si presentano ciclicamente, quando ho scelto il titolo “ultima” l’ho legata sia al fatto che io leggo il radicalismo islamico come l’ultima grande utopia del Novecento, anche se i suoi effetti si vedono nel nuovo millennio, e al contempo è come se fosse l’ultima perché oltre questa sembra non esserci più niente. Questa può essere l’ultima utopia che si realizza anche attraverso la morte, per cui diventa una dimensione in cui la vicenda extra-terrena ha altrettanta e forse maggiore rilevanza di quanto accade nel regno del qui e ora.

http://www.sulromanzo.it/blog/chi-sono-i-foreign-fighter-il-radicalismo-islamico-l-ultima-grande-utopia-del-novecento

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