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Irma Loredana Galgano

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Alberto Mattiello e Paolo Taticchi, Disruption

17 martedì Set 2024

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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AlbertoMattiello, Disruptive, gueriniNext, PaoloTaticchi, recensione, saggio

Ci sono momenti storici in cui i cambiamenti accelerano e convergono, portando a quello che gli autori definiscono situazioni di disruption. 

Sin da Joseph Schumpeter, economista austriaco eterodosso che con le sue pubblicazioni focalizzò sull’importanza della crescita e dei cicli economici, la letteratura conosceva solo due tipi di innovazioni: quella radicale e quella incrementale. Le “radicali” proponevano una nuova idea di prodotto attraverso una nuova tecnologia. Le “incrementali” invece riguardano l’innovazione in misura evolutiva, ovvero la capacità di imitare, di differenziarsi dai concorrenti, dal sapere servire meglio il mercato senza mutare il concept di prodotto e la tecnologia per ottenere successo. Ma poi, nel 1997, Christensen con il termine disruption introdusse una terza categoria di innovazione.1

Nella teorizzazione di Christensen, la disruption è un processo mediante il quale un prodotto o un servizio vengono trasformati dall’innovazione tecnologica. Le innovazioni disruptive non sono il frutto di scoperte rivoluzionarie o dell’arrivo di nuovi protagonisti che ripensano radicalmente i modelli di business. Consistono invece spesso in prodotti e servizi semplici, facilmente accessibili e a basso costo. Soluzioni che all’inizio sono di qualità modesta ma che, nel tempo, hanno la capacità di trasformare un intero settore. 

Molte grandi aziende hanno spesso in pancia le innovazioni disruptive ma, quando le brevettano, non hanno la forza di lanciarle sul mercato perché ascoltano troppo i loro clienti serviti e non hanno il coraggio di cannibalizzare la quota di mercato dei loro stessi prodotti. Ecco quindi che qualche concorrente proveniente da altri settori o in forma di start up, in assenza di queste inerzie cognitive ed economiche, le lancia e nel tempo diventano un vero e proprio disruptor, costringendo l’azienda leader improvvisamente a seguire anziché a guidare il mercato.2

Secondo i dati di una ricerca Accenture, il 63% delle aziende sono attualmente alle prese con processi di disruption, e il 44% ne sono fortemente influenzate. Gli autori si chiedono quali siano le cause che rendono ancora così vulnerabili le aziende alle minacce dei processi di disruption. Il problema è che anche i leader ben intenzionati spesso si illudono e minimizzano le reali minacce della disruption. Oppure sopravvalutano la difficoltà delle contromisure da adottare. I leader aziendali devono imparare meglio a sviluppare le capacità di un’organizzazione e degli individui che ne fanno parte a superare le resistenze che si manifestano di fronte a processi di  disruption. È facile trovarsi nel mezzo di un vorticoso processo di disruption e cercare conforto in dati che continuano a suggerire che tutto stia andando per il meglio. Ma questo accade solo perché i dati sono sempre in ritardo rispetto alla rapidità delle trasformazioni.3

L’esempio che riportano gli autori è quanto accaduto alla Nokia la quale è caduta nonostante avesse ormai una posizione di mercato dominante, oltre alle risorse e le capacità per gestire la transizione verso gli smartphone, e sebbene avesse manager che avevano compreso e condividevano la teoria di Christensen sulla disruption.

Una reazione efficace ai processi di disruption richiede che i leader aziendali siano in grado di reinventare il business di oggi avendo già in mente come costruire quello di domani. Più nello specifico, devono essere adottati sistemi per risolvere i problemi dei clienti e al contempo individuare nuove opportunità di crescita. La difficoltà della sfida non sta solo nel fatto che spesso queste due missioni sono in contrapposizione e la loro attivazione produce fasi di confusione e incertezza, ma anche nel fatto che vengono richiesti una mentalità e un tipo di approccio nuovi. Da uno studio realizzato dal docente di Harvard Robert Kegan, emerge tuttavia come alla maggior parte dei leader manchi la flessibilità intellettuale necessaria per passare da un atteggiamento di disciplinata gestione dell’ordinario a una fase di maggiore intraprendenza. 

La leadership trasformazionale e la trasformazione digitale sono due concetti significativi che hanno acquisito importanza negli ultimi anni. La combinazione di questi due domini è diventata sempre più rilevante poiché le organizzazioni cercano di adattarsi ai rapidi progressi della tecnologia e al panorama aziendale in evoluzione. La leadership trasformazionale è particolarmente utile per migliorare le capacità intrinseche nel motivare i dipendenti e aumentare l’empowerment psicologico. Comprende quattro componenti distinte: influenza idealizzata, motivazione ispiratrice, stimolazione intellettuale, attenzione individualizzata. Nel panorama digitale in rapida evoluzione, i dipendenti devono essere motivati e coinvolti per abbracciare nuove tecnologie e processi. I leader trasformazionali eccellono nel comunicare una visione avvincente del futuro digitale dell’organizzazione, instillando un senso di scopo e direzione tra i loro team. Questa visione condivisa crea un senso di scopo unificato, che spinge i dipendenti a lavorare verso obiettivi comuni. I dipendenti diventano più ricettivi al cambiamento, si adattano volentieri al panorama digitale in evoluzione e partecipano attivamente al percorso di trasformazione. Con il panorama digitale in rapida evoluzione, la leadership trasformazionale è diventata un’idea cruciale che può avere un impatto significativo sul successo organizzativo con risultati chiave quali: motivazione e performance dei dipendenti, soddisfazione lavorativa, impegno organizzativo che promuove innovazione, adattabilità, resilienza, crescita e performance organizzativa. In virtù della sua capacità di ispirare e motivare i dipendenti, la leadership trasformazionale svolge un ruolo cruciale nel promuovere l’adozione di progressi tecnologici e metodi di lavoro innovativi. In realtà, diversi stili di leadership, come quella transazionale o di servizio, potrebbero svolgere ruoli cruciali nella promozione di iniziative di trasformazione digitale.4

L’attuale contesto mondiale è responsabile del lato oscuro dello scenario globale: crescente disuguaglianza, disoccupazione, sottoccupazione, maggiore mobilità globale dovuta alla migrazione forzata. In quest’epoca di sconvolgimenti, le strutture di potere dall’alto verso il basso e i sistemi soffocati dalle regole sono passività. Schiacciano la creatività e soffocano l’iniziativa. La creatività è un segno distintivo delle capacità relazionali. I leader dovrebbero ispirare la creatività in tutta l’organizzazione. È necessario passare dalla mente individuale all’idea più ampia di basi socioculturali distribuite dell’intelligenza che poi estendono la natura della creatività in aree funzionali alla risoluzione dei problemi. Hamel e Zanini definiscono questo processo umanocrazia. Si potrebbe esplorare la ricerca futura che potrebbe essere in grado di sviluppare una teoria e quindi identificare le competenze di leadership di un leader umanocratico. I leader del futuro devono abbracciare l’immaginazione e il pensiero innovativo come essenziali sia per l’identificazione dei problemi emergenti che per la creazione di soluzioni praticabili. Devono cogliere la realtà sapendo che c’è una rimodellazione della natura umana in una cittadinanza globale, così come la ri-genesi della società attraverso cambiamenti nella struttura sociale, nelle istituzioni e nei governi esistenti. 

La disruption presenta una serie unica di opportunità e sfide per i leader non solo per reinventarsi, ma anche per reimmaginare le proprie organizzazioni.5

La maggior parte dei manager è cresciuta professionalmente in un contesto di una gestione disciplinata oppure in uno imprenditoriale, ma raramente in entrambi e quasi mai in entrambi contemporaneamente. Per riuscire a trasformare se stessi i leader devono concentrarsi di più sulla propria mentalità, ed essere abbastanza introspettivi e riflessivi da riuscire a identificare i pregiudizi di fondo che compromettono un corretto processo decisionale. Non ci sono soluzioni immediate, ma le ricerche in questo campo suggeriscono sempre di più che il miglior punto di partenza sia quello di adottare pratiche note con il termine di mindfulness. Queste pratiche accrescono la consapevolezza e la capacità per chi le utilizza di capire e gestire meglio le proprie emozioni e i propri processi decisionali. 

La mindfulness è uno stato di coscienza in cui siamo testimoni vigili e presenti dei nostri pensieri, delle nostre emozioni e percezioni, momento per momento. È uno stato mentale. Una modalità dell’essere, non orientata a uno scopo. Focalizzata al permettere di stare nel presente così com’è, di essere semplicemente in questo presente. Ma la pienezza dell’esperienza comprende necessariamente anche un lato negativo, il risvolto del benessere, ovvero il disagio, la sofferenza e il dolore. Accettare il lato negativo viene considerato motivo di crescita e di creatività. Fare spazio al disagio paradossalmente sembra essere un ottimo modo per porsi nelle condizioni migliori per trovare, ove ci siano, soluzioni efficaci per gestire o risolvere problemi e sofferenza.6

L’impiego della mindfulness nella nostra vita quotidiana porta alla consapevolezza di non essere individui che agiscono in un sistema isolato agli altri individui ma di appartenere a un contesto sociale, in cui le nostre scelte possono avere delle ripercussioni sulle altre persone. Dalla consapevolezza del sé si passa quindi alla consapevolezza dell’Altro, ovvero alla social  mindfulness. Nello specifico, le scelte che facciamo e che tengono in considerazione la presenza delle altre persone, ossia che non limitano le loro possibilità di scelta, racchiudono in sé il concetto di consapevolezza proprio della mindfulness. Associare la mindfulness alle situazioni di interdipendenza potrebbe apparire una parziale forzatura poiché essa è solitamente considerata in relazione al benessere individuale. Tuttavia, è importante integrare l’attività individuale della mindfulness con l’esperienza della social mindfulness in quanto siamo costantemente portati a interagire in un contesto sociale popolato da altre persone.7

La mindfulness si colloca all’avanguardia della “micro” politica, o della politica “fai da te” o “del quotidiano”, poiché conferisce una dimensione politica alla presenza a sé stessi sul piano individuale: in questo senso si può forse considerare l’ultima frontiera della politica della soggettività umana. Nella fattispecie, il dilemma se leggere le pratiche individuali come parte integrante di un’azione sociale e politica trasformativa o piuttosto come modello di autogoverno neoliberista trova nella mindfulness un perfetto esempio. Alcune voci critiche indicano nella mindfulness l’esempio di una forma produttiva di potere, che costruisce e disciplina soggetti neoliberisti. Secondo la Scuola di Francoforte, il capitalismo della metà del XX secolo mirava a distrarre e pacificare i cittadini-consumatori. Secondo questa visione, ciò che oggi chiamiamo “deficit di attenzione” era in realtà una riproduzione dello status quo. Tuttavia, il deficit di attenzione contemporaneo rappresenta una minaccia strutturale per lo stesso regime neoliberista che lo produce: la saturazione dell’informazione, infatti, danneggia le nostre capacità di produttori (lavoratori) e consumatori. La mindfulness – che mira a ripristinare l’equilibrio e l’attenzione dell’individuo – agisce direttamente su questo piano. È una delle ragioni per cui Žižek ha profeticamente sostenuto che il “buddhismo occidentale” è il perfetto completamento ideologico del capitalismo contemporaneo.8

Anthony e Putz in Disruption affermano che la mindfulness è uno strumento potente e scientificamente riconosciuto per incrementare la propria consapevolezza. Un qualcosa di cruciale spesso sottovalutato per dirigenti di alto livello alle prese con le sfide della disruption. Sottolineano inoltre che trasformare solo la persona che sta al vertice di una struttura non basta. Troppo spesso si incontrano leader che si concentrano esclusivamente su questo. Ciò consente solo un’apparenza momentanea di trasformazione e, appena il leader se ne va, i cambiamenti se ne vanno con lui o lei. 

La sfida in corso è quella di riuscire a reclutare e formare una generazione di lavoratori che, nello svolgimento delle loro mansioni, dovranno utilizzare l’Intelligenza Artificiale, la Robotica, l’informatica quantistica, l’ingegneria genetica, la stampa 3D, la Realtà Virtuale e via discorrendo. L’evoluzione tecnologica ha drasticamente ridotto la longevità delle competenze come mai in passato. Le aziende devono anticipare e coltivare le competenze fondamentali di cui i loro team necessiteranno domani. 

Le aziende tendono a trascurare il fatto che la Quarta rivoluzione industriale si stia affermando proprio mentre altri due grandi cambiamenti stanno esacerbando la carenza di competenze. Innanzitutto i cambiamenti demografici. I millennial e la generazione Z sembrano avere aspirazioni professionali diverse rispetto ai padri e ai nonni. Molti di loro preferirebbero lavorare per una start up piuttosto che per un’impresa già affermata. Questi giovani lavoratori hanno aspettative molto alte nei confronti dei datori di lavoro, il che rende difficile per le aziende tradizionali attrarre i giovani talenti di cui hanno bisogno. In secondo luogo, poiché oggi la tecnologia sta trasformando il mondo in cui lavoriamo, sta generando una dinamica diversa da quella delle precedenti rivoluzioni industriali. In passato, l’innovazione ha potenziato la precisione e la produttività dei lavoratori con abilità manuali, consentendo loro di svolgere compiti precedentemente riservati ad artigiani specializzati e ben pagati. Intelligenza Artificiale e Robot avranno l’effetto opposto: aumenteranno precisione e produttività dei lavoratori altamente qualificati, ma finiranno per rimpiazzare gli addetti con basse qualifiche.9

È chiaro a tutti che le innovazioni tecnologiche abbiano assunto un ruolo centrale, che riguardano tutte le funzioni aziendali e che si susseguono sempre più velocemente. Meno evidente è come sia cambiata la loro stessa natura: le tecnologie più rilevanti per un’azienda sono sempre state quelle sviluppate internamente o sviluppate da partner industriali. Erano poche, rare, specifiche e tipicamente segrete. Questo tipo di innovazione continua a esistere e a essere importante, ma non è più l’unico. Bassi e Mattiello suggeriscono di pensare all’IA Generativa: si tratta di un’innovazione tecnologica sviluppata da altri, che arriva dall’esterno e, nonostante ciò, può trasformare tutti gli ambiti di un’organizzazione, da quelli creativi a quelli tecnici, dalla comunicazione alla logistica. Per cui è facilmente immaginabile che tutte le innovazioni tecnologiche potenzialmente più disruptive per un’azienda avranno due aspetti fondamentali in comune: si diffonderanno rapidamente e saranno facili da utilizzare, da tutti e per diverse applicazioni. 


Il libro

Alberto Mattiello e Paolo Taticchi (a cura di), DISRUPTION. Guida per navigare i cambiamenti estremi, The Future of Management – MIT Sloan Management Review, Guerini NEXT, Milano, 2023.

Traduzione di Mauro Del Corno.

I saggi presenti nel volume sono tratti da: The next age of disruption, The MIT Press, 2021. 


1G. Verona, Teoria e pratica della disruption, Bocconi, Milano, 2022, www.unibocconi.it 

2G. Verona, op.cit.

3S.D. Anthony e M. Putz, Le illusioni dei leader sulla disruption, in DISRUPTION. Guida per navigare i cambiamenti estremi.

4D.W. Mandagi, D.I. Rantung, D. Rasuh, R. Kowaas, Leading through disruption: The role of transformational leadership in the digital age, Jurnal Mantik – Published by Institute of Computer Science (IOCS), marzo 2023.

5L. Ellington, Leadership Disruption: Time to Reimagine Leadership Talent, UBMR – International Journal of Business and Management Research, Volume 9, Issue 2, april 2021. 

6E. Grechi, Mindfulness: definizione, meditazione, applicazioni, IPSICO – Istituto di Psicologia e Psicoterapia Comportamentale e Cognitiva – Psicologia Psichiatria e Psicoterapia, Firenze, 20 marzo 2021.

7M. Tumino, F. Fasoli, L. Carraro, La mangio o non la mangio l’ultima fetta? Il caso della social mindfulness come processo decisionale, IM – The Inquisitive Mind, n°17 anno 2019.

8W. Leggett, La mindfulness può davvero cambiare il mondo? La dimensione politica delle pratiche meditative, GATE – Il portale dell’Unione Buddhista Italiana, 2022.

9T.J. Marion, S.K. Fixson, G. Brown, Quattro competenze che saranno indispensabili nel lavoro del prossimo futuro, in DISRUPTION. Guida per navigare i cambiamenti estremi.



Articolo pubblicato su LuciaLibri.it


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di GueriniNext per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Neil Perkin, Agile transformation. Sopravvivere, svilupparsi e competere nell’era digitale

“Fabbrica Futuro” di Marco Bentivogli e Diodato Pirone (Egea-UniBocconi, 2019)


© 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Neil Perkin, Agile transformation. Sopravvivere, svilupparsi e competere nell’era digitale

15 venerdì Dic 2023

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AgileTransformation, gueriniNext, NeilPerkin, recensione, saggio

L’impatto delle tecnologie digitali ha creato in innumerevoli modi un clima di dinamiche competitive e di consumo in rapida evoluzione, di maggiore imprevedibilità e con sempre nuovi operatori che destabilizzano il mercato, ciò nonostante molte aziende rimangono bloccate. 

Bloccate da modi di lavorare obsoleti che impediscono di muoversi velocemente. Da strutture nate in un’altra epoca che ostacolano l’agilità e la collaborazione orizzontale. Da processi che rendono difficile, se non impossibile, un’innovazione coraggiosa. Da culture che premiano il conformismo e lo status invece dell’imprenditorialità e dell’originalità. Da impostazioni che esaltano l’efficienza più dell’apprendimento. 

Le strutture attuali e i modi di pensare dominanti sono l’eredità di un ambiente molto differente e non sono più idonei nel mondo attuale. Ogni tipo di azienda ha, secondo l’analisi condotta da Neil Perkin, l’urgente necessità di trasformarsi per diventare molto più flessibile e reattiva di fronte alla rapidità del cambiamento. 

Negli ultimi anni, l’esperienza del cliente è al centro dell’attenzione per le organizzazioni dei settori più disparati. Poiché sempre più prodotti diventano servizi e anche i beni fisici vengono arricchiti dall’interazione di servizi guidati da software, l’attenzione operativa di molte organizzazioni si sta spostando dal rendimento della catena del valore a ecosistemi di valore in cui l’esperienza del cliente diventa una componente cruciale. 

Sottolinea l’autore come l’attuale trasformazione digitale e aziendale sia ben lungi dall’essere un processo lineare con un inizio, una parte centrale e una fine. La traiettoria dovrebbe invece essere orientata verso la creazione di un nuovo tipo di organizzazione che è, di per sé, progettata intorno al cambiamento continuo e alla capacità di rispondere a contesti in rapida evoluzione. 

La trasformazione agile mette le persone al primo posto, la tecnologia al secondo. Ma questo non deve sminuire l’importanza di dati e tecnologia come fattori catalizzatori di agilità e cambiamento. Perkin consiglia alle aziende di riflettere sulle risorse a loro disposizione e sulle strategie tecnologiche non solo rispetto alle capacità di cui hanno bisogno al momento ma anche e rispetto a ciò di cui avranno bisogno in futuro. 

È molto importante che le persone riconoscano il senso del loro lavoro, così come è molto dannoso che non capiscano lo scopo di quello che fanno ogni giorno. Quando il personale è consapevole del risultato del suo lavoro, quando sa di creare un valore reale e tangibile, quando può constatare progressi visibili nell’apprendimento e nei risultati, i dipendenti si sentono più motivati, sono più produttivi e sono più soddisfatti. 

Il bullshit jobs è una forma di lavoro retribuito che è così completamente inutile, superflua e perniciosa che nemmeno i lavoratori possono giustificarne l’esistenza anche se, come parte delle condizioni di impiego, i lavoratori si sentono obbligati a fingere che non sia così.1

Graeber la considera una grande tragedia. Una situazione che genera risentimento e persino una rabbia silenziosa tra il grande numero di persone che lavorano duramente, più di quanto dovrebbero, svolgendo mansioni che segretamente credono non dovrebbero neanche esistere. 

Per Perkin, esisterebbe una regola generale nella nostra società per la quale quanto più è evidente che un determinato lavoro va a beneficio di altre persone, meno è probabile che venga pagato bene. 

Nonostante questo quadro tragico, le aziende si permettono di essere significativamente svantaggiate da dipendenti poco coinvolti e sotto-performanti, perché non riescono a dare un senso al lavoro del loro personale e a collegare il suo contributo a risultati visibili, al miglioramento delle prestazioni aziendali, al progresso e all’apprendimento. 

Le aziende che riescono a coinvolgere pienamente il personale e a creare questa connessione possono beneficiare di un entusiasmo e di una motivazione che creerà un vantaggio autentico, idee migliori e risultati più creativi e produttivi. 

Nella prefazione al libro, Marco Calzolari afferma che in breve si è passati dal considerare l’agile come strumento per identificare e risolvere un problema al ritenerlo un obiettivo per ottenere un successo a prescindere dalla quantità di esperimenti, tempo e sforzo necessari per ottenerlo. 

L’unico componente in grado di affrontare efficacemente la complessità attuale delle aziende non è l’agile, sono gli esseri umani. 

Toyota riuscì a sviluppare la vettura Prius rendendola disponibile sul mercato in metà del tempo solitamente considerato necessario nel settore automotive per il lancio di un nuovo modello. E ciò è stato possibile grazie al metodo obeya. I principi ispiratori dell’obeya, che derivano dalla filosofia lean, si possono ritrovare in agile.

Toyota ha avuto molto successo nel creare un modo sistematico di lavorare, coltivando la sua cultura del miglioramento continuo e incoraggiando il rispetto per le persone. I leader devono lavorare continuamente al proprio sviluppo, ma anche supportare e incoraggiare i membri del loro team a fare lo stesso.

Fujio Cho – presidente della Toyota – una volta disse: «prima costruiamo persone, poi costruiamo automobili».2

Ricorda Calzolari che, In Italia, la diffusione di agile ha attraversato essenzialmente tre fasi. Dalle aziende che realizzavano prodotti software si è passati all’estensione delle pratiche agili alle startup per giungere così alla terza ondata iniziata a partire dal 2015, all’incirca quando le grandi aziende di consulenza hanno pubblicato i primi casi studio sulle loro applicazioni di framework di agile scaling nelle multinazionali. Una fase ancora in divenire e che porterà alla successiva, più matura e consapevole delle reali potenzialità dell’universo agile.


Il libro

Neil Perkin, Agile transformation. Sopravvivere, svilupparsi e competere nell’era digitale, GueriniNext, Milano, 2023.

Edizione italiana a cura di Marco Calzolari.

Titolo originale: Agile Transformation. Structures, Processes and Mindsests for the Digital Age.


1David Graeber, Bullshit Jobs, Garzanti, Milano, 2018.

2Tim Wiegel, Un nuovo modello di leadership per guidare team e aziende verso il successo, GueriniNext, Milano 2021.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di GueriniNext per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Recensione a “La società non esiste. La fine della classe media occidentale” di Christophe Guilluy (Luiss University Press, 2019)

© 2023, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Il nuovo Illuminismo nelle City School de “L’impresa enciclopedia” di Gianfranco Dioguardi

11 giovedì Mag 2023

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GianfrancoDioguardi, GuerinieAssociati, gueriniNext, Limpresaenciclopedia, recensione, saggio

L’impresa per Dioguardi non è un sistema solo per generare profitti ma un’istituzione che produce ricchezza e benessere sociale per il Paese, che si prende carico degli interessi di tutti i propri stakeholder – azionisti, dirigenti, lavoratori, consumatori, territori -, che opera in termini di sostenibilità ambientale e sociale.

L’imprevedibile e turbolenta complessità del Terzo Millennio ha capovolto la tradizionale dinamica dell’impresa. Non è più possibile impostare, come prima, una strategia imprenditoriale definita e su quella costruire, poi, una struttura imprenditoriale in grado di portarla avanti. Per Dioguardi, si tratta di un cambiamento epocale, che rende necessario realizzare strutture organizzative just in time e, quindi, attuare conseguenti strategie operative che tengono sempre conto delle esigenze emergenti di sostenibilità e resilienza. 

Ragioni per cui è necessario puntare sulla ricerca, da rendere priorità per le organizzazioni complesse – istituzioni, imprese città – valorizzando soprattutto i giovani, vettori di cambiamento. 

I principali protagonisti di questo Terzo Millennio dovranno necessariamente riscoprire valori fondamentali – fra i quali un nuovo modo di acquisire cultura – oggi assopiti se non addirittura annullati, sottolinea l’autore con un velo di tristezza misto a incoraggiamento e determinazione. 

Ed ecco allora che entra in gioco il concetto di impresa enciclopedia, che importa ed esporta conoscenze, soluzioni, benessere, in una continua permeabilità con il territorio, anch’essa città-impresa. L’organizzazione va concepita non come un sistema di gerarchie e di divisione dettagliata del lavoro come nei modelli novecenteschi, ma come una “organizzazione reale”, un organismo vivente composto da reti multiple di soggetti collettivi che combinano e integrano insieme strutture formali, regole, tecnologie digitali, sistemi professionali, comunità di pratiche, prassi, culture, valori, sistemi sociali e, soprattutto, persone in vista di scopi e permeabile con l’ambiente esterno. 

L’impresa enciclopedia di Gianfranco Dioguardi, il cui riferimento alla più grande opera scientifica del Settecento prodotta da Diderot e D’Alambert e dall’esperienza illuminista è trasparente, connota l’impresa come un organismo, un soggetto vivente che importa ed esporta con il territorio e con il mondo esterno conoscenze, pratiche, soluzioni, artefatti di prodotti e servizi, valore economico e sociale, benessere. Quindi, come conclude Butera nella prefazione, non solo adattamento, agilità ma anche capacità di plasmare l’ambiente esterno. Organizzazione come strategia, appunto. 

I burrascosi tempi che stanno vivendo le imprese oggi sono iniziati, per l’autore, tra la fine del Novecento e gli inizi del Terzo Millennio. Una vera e propria bufera provocata da innovazioni tecnologiche divenute di giorno in giorno sempre più preponderanti e di troppo rapido utilizzo, tanto da venire definita come «distruptive innovation» – innovazione dirompente in grado di provocare un “cambiamento turbolento”, assolutamente difficile da programmare e causa di una generale complessità di difficile governabilità che ha finito per diventare endemica. 

Tutto questo ha cambiato ogni regola in ambito organizzativo imprenditoriale e, per questo, Dioguardi sottolinea la necessità di una nuova forma di impresa, l’impresa enciclopedia appunto, più impegnata culturalmente e più adatta alle attuali condizioni di operatività. 

Questa nuova forma di impresa si inserisce nell’evoluzione storica che dall’impresa castello tayloristica è approdata via via nelle varie forme di impresa flessibile, macroimpresa, impresa rete e via discorrendo. 

Si impone quindi la necessità di realizzare strutture organizzative just in time sempre tenendo presente il territorio, reso sistema complesso, nel quale un ruolo fondamentale svolgono le città che si stanno nuovamente imponendo, per l’autore, come i luoghi più idonei alla convivenza in quest’epoca. Necessarie si rendono allora le City School, nuove istituzioni di formazione manageriale da immaginare, progettare e realizzare per fornire un’educazione urbana adeguata alle attuali esigenze. 

L’impresa è fuor di dubbio centrale nel sistema socioeconomico, deve allora imparare a diventare strumento fondamentale per la conquista della frontiera culturale, e deve farlo, per Dioguardi, diffondendo il sapere e stimolando creativamente la curiosità per la conoscenza sia nel proprio ambiente sia, sul territorio, nei confronti delle organizzazioni con le quali interagisce. 

Deve diventare un veicolo importante, addirittura il principale per l’autore, di diffusione della conoscenza rendendosi capace di stimolare, in parallelo all’istruzione relativa alle singole professionalità, anche un sapere di carattere più generale, tale da promuovere un neo Illuminismo culturale. Un nuovo Illuminismo che deve però generare anche un nuovo Rinascimento, per un ritorno dell’individuo come protagonista della città e dell’impresa. 

L’analisi di Dioguardi è assolutamente condivisibile laddove insiste sulla necessità di aprire le imprese a una cultura generale e profonda, non più meramente settoriale e professionale, in modo tale da agire da stimolo e da monito per l’intera società. Un’impresa al servizio dell’individuo e del territorio, che rispetti l’uomo e l’ambiente. Una necessità per la quale l’autore delinea interessanti linee guida applicabili per ogni forma di impresa. 

Il libro

Gianfranco Dioguardi, L’impresa enciclopedia. Organizzazione come strategia per il Terzo Millennio, GueriniNext, Milano, 2022.

Prefazione di Federico Butera.

L’autore

Gianfranco Dioguardi: ingegnere e professore di Economia e organizzazione aziendale presso il Politecnico di Bari. Svolge attività imprenditoriale e consulenziale nei settori dell’edilizia, dell’engineering, dell’innovazione tecnologica, della comunicazione e della formazione professionale. È inoltre presente in diversi consigli di amministrazione, riviste, organizzazioni culturali, istituzioni pubbliche e private. Cavaliere al merito del Lavoro dal 1989 e Cavaliere della Legion d’Onore dal 2004. Autore di numerose pubblicazioni. 


Articolo pubblicato su Articolo21.org


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Guerini&Associati per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Sostenibilità e Profitto sono davvero incompatibili? “Profitto” di Simon e Fiorese (GueriniNext, 2022)

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© 2023, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Sostenibilità e Profitto sono davvero incompatibili?

11 domenica Dic 2022

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economia, FrancescoFiorese, GuerinieAssociati, gueriniNext, HermannSimon, Profitto, recensione, saggio

È la massimizzazione dei profitti l’obiettivo cui dovrebbero tendere aziende e dirigenti per garantire la sopravvivenza della stessa azienda e servire il benessere non solo dei suoi azionisti ma anche, più in generale, degli stakeholders.

Quando un’impresa ottiene un profitto, di solito ne beneficiano i dipendenti, i partner dell’azienda lungo la catena del valore, le banche, il governo e in definitiva la società nel suo complesso. 

Questa è, in sintesi, la tesi sostenuta con passione da Simon e Fiorese. Una determinazione che neanche l’avvento della digitalizzazione sembra poter mettere a rischio. Gli autori si mostrano infatti convinti che, al pari di quanto accaduto per la New Economy, anche la digitalizzazione prima o poi dovrà fare i conti con il profitto.

Circa due decenni dopo lo scoppio della bolla della New Economy, si assiste a una nuova era di euforia in cui l’84 per cento delle aziende che si quotano in borsa non ottengono profitti, ma in alcuni casi godono di valutazioni di mercato ridicolmente alte. Questi sono i reali rischi di sostenibilità temuti ed evidenziati da Simon e Fiorese, non il profitto in sé, se lecito ovviamente, perché esso rappresenta e deve rappresentare il naturale obiettivo di un’azienda sana e prosperosa. 

Per le aziende private, non c’è alternativa all’orientamento al profitto. Dopo tutto, nessuna azienda è mai andata in bancarotta per aver guadagnato.

La massimizzazione del profitto – o forse peggio «la massimizzazione del valore per gli azionisti» – è considerata da molti osservatori come la radice di tutti i mali del nostro sistema economico. 

Eppure, secondo Simon e Fiorese, nella sua essenza la massimizzazione del profitto è semplicemente l’antitesi dello spreco. 

I critici sostengono che la massimizzazione del profitto e del valore per gli azionisti è responsabile dello sfruttamento delle risorse e dei lavoratori, delle disparità di reddito e di patrimonio, della delocalizzazione dei posti di lavoro in paesi a basso salario, del trasferimento delle sedi aziendali in paradisi fiscali e di molti altri abusi.

Ma queste critiche sono, per gli autori, in netto contrasto con le basi teoriche della microeconomia, fermo restando che l’etica è e dovrebbe rimanere la pietra angolare della leadership di lungo termine. Concetto sintetizzato dalle parole del secondo decano della Harvard Business School: «a decent profit decently» (un profitto soddisfacente in modo corretto).

Nella realtà però esistono le zone grigie e allora non ci si può non interrogare su cosa rientra effettivamente nella definizione di decently e cosa no.

Il profitto è la ricompensa che spetta a un’azienda per l’assunzione del rischio imprenditoriale. È ciò che rimane dopo che sono stati pagati gli stipendi, i dipendenti, i fornitori, le banche e altri creditori, oltre alle tasse dovute a governi statali e locali. Il profitto è quindi un residuo legittimo che appartiene solo ed esclusivamente ai proprietari dell’azienda. 

Viene da sé comunque che questi imperativi degli autori si riferiscono alle aziende che regolarmente pagano i dipendenti, onorano i propri debiti e versano le tasse e i contributi. Condizione estremamente differente dalle società fittizie che nascondono capitali all’estero, in aree off-shore appositamente per bypassare il fisco. 

Vero è anche che una delle leggi fondamentali dell’economia ci dice che profitto e rischio hanno una correlazione positiva. In altre parole, le opportunità di un profitto più elevato comportano un maggior rischio. Si può usare questa legge in una semplice regola pratica per il processo decisionale: per un dato livello di profitto, si dovrebbe scegliere l’alternativa con il rischio più basso. Al contrario, si dovrebbe scegliere l’opzione con il più alto profitto potenziale se i rischi sono uguali. I mercati di capitali però valutano le opportunità di investimento a più alto rischio.

Tutti parlano di un sistema basato sulla meritocrazia ma in realtà vogliono intendere la capacità di fare soldi e di farli fare a loro volta. E chi è esterno a questo meccanismo perverso non può fare a meno di chiedersi se davvero conta solo questo e perché.

Non è solo una questione di soldi. È lo status che risucchia inesorabilmente molti nel «tunnel della dipendenza da lavoro», nel mondo dorato dei bonus milionari, dei viaggi in prima classe e delle vacanze in resort di lusso in località esotiche… un «sistema chiuso che ti allontana ancora di più dalla realtà» e per il quale «vendi l’anima al diavolo. Io l’ho venduta per le ricchezze terrene. In cambio il diavolo ha voluto il mio fallimento morale». Tanti banker nel momento in cui realizzano cosa stanno facendo hanno dei crolli emotivi che cercano di riempire con fiumi di alcol. Ragazzi per la gran parte sotto i trent’anni che non possono parlare tra di loro se non di lavoro, la concorrenza è troppa e la debolezza non è ben vista in quell’ambiente. Non possono parlare con famigliari amici affetti perché chi è estraneo a quel mondo stenta a comprendere e a condividerne le dinamiche. Si ritrovano a vivere le loro interminabili giornate di lavoro in un sistema chiuso dove «l’etica è questa: o sei con noi o contro di noi». Un ambiente “amorale” nel quale lo scopo diffuso è “ingannare” i clienti senza infrangere alcuna legge o norma. Uno dei motti più diffusi tra i banker è “it’s only Opm (Other People’s Money) – è solo denaro altrui”.1

I margini di profitto tendono a essere più bassi nei paesi grandi e viceversa ma, in generale, i margini di profitto netto nei paesi dell’Unione Europea tendono a essere più bassi. Le aliquote fiscali più alte aiutano a spiegare questo fenomeno. 

Oltre che da paese a paese, i margini di profitto variano in maniera significativa anche tra i diversi settori industriali. Nelle industrie pro-cicliche – ossia molto legate all’andamento dell’economia in generale – come quella petrolifera e del gas, le fluttuazioni dei prezzi possono avere un forte effetto sui margini di profitto annuali. Al contrario, altri settori come quello farmaceutico, ovvero anti-ciclici, conservano margini elevati sostenuti.

L’industria farmaceutica è seconda, dopo software/entertainment, per margine di profitto.2

I profitti elevati sono moralmente discutibili? Per certo non si può negare che esistono casi delicati e complessi – da un punto di vista etico – soprattutto in settori particolari, tra i quali rientra a pieno titolo l’industria farmaceutica. Farmaci innovativi e salvavita dai costi esorbitanti pongono dure sfide etiche alle aziende e alla società intera.

«Siamo fermamente convinti che le terapie debbano essere pagate in base al loro valore. Siamo determinati a fissare i nostri prezzi secondo questo principio.»3

Si tratta di aziende private. È un loro diritto orientare la politica aziendale al profitto. Ma tutto questo non può non rispolverare l’annosa questione sul concetto di salute pubblica e accessibilità alle cure mediche.

Kymriah, una terapia genetica sviluppata da Novartis, può curare una certa forma di leucemia con una sola iniezione. Negli Stati Uniti, un’applicazione di quel farmaco costa fino a 475mila dollari. Il servizio sanitario britannico ne copre una parte del costo, in determinati casi. In Germania il prezzo è di 320mila euro. Ed è solo uno dei numerosi esempi che si possono riportare e che riguardano tutte le case farmaceutiche, non solo Novartis. 

Ovvio che il costo di queste terapie non è dipendente solo dal profitto, in larga parte dal lavoro che ha portato alla sua creazione. Il punto è quanto sia etico che salute e guarigione siano affidate al settore pubblico lecitamente votato al profitto.

Singolare poi, per non dire paradossale, che le industrie farmaceutiche e quelle del tabacco siano così vicine nella classifica dei profitti. 

Gli autori sottolineano come la critica all’orientamento al profitto provenga, in gran parte, dagli intellettuali e non solo quelli riconducibili ad ambiti politici di sinistra. 

Questi generalmente pensano di essere più intelligenti degli uomini d’affari e, se si prende in considerazione il quoziente intellettivo, questa auto-percezione potrebbe effettivamente essere esatta. Ma guadagnano decisamente di meno e, siccome non imputeranno mai ciò a qualche loro carenza, additano il sistema come responsabile al pari e in correità al comportamento spregiudicato degli stessi uomini d’affari. E anche su questo versante esplorato dagli autori si apre un mondo di interminabili discussioni sul valore da attribuire alla cultura, alla formazione, alle competenze, alla meritocrazia. 

«I ricchi sono bravi a guadagnare soldi ma di solito non sono persone decenti (rispettabili).»4

A onor del vero, va ricordato che lo scetticismo verso la filosofia del profitto alberga anche all’interno della stessa comunità degli economisti. Tuttavia gli autori rammentano al lettore che, nel mondo reale, è raro che qualcuno sappia in anticipo quale comportamento consentirà di raggiungere i più alti profitti possibili, o quanto effettivamente alti potrebbero essere i loro utili. 

Bisogna infatti sempre tenere presente che un numero considerevole di aziende – presumibilmente più della metà – non genera alcun profitto economico e quindi non recupera i propri costi di capitale. 

Nella personale esperienza di Simon e Fiorese, solo pochi imprenditori e manager danno la massima priorità al profitto. A dominare sono invece gli obiettivi di reddito, volume o quota di mercato. Ancora una volta a primeggiare, per orientamento al profitto, sono le aziende farmaceutiche e dell’healthcare in generale. 

Sulla questione della discutibilità morale dei profitti gli autori sono perentori: dipende più da come vengono realizzati che dal loro ammontare. Il profitto è il prezzo della sopravvivenza. Se un’azienda non guadagna, prima o poi fallirà. 

Simon e Fiorese sono dei tecnici del settori per cui il loro orientamento, anche di scrittura, è economico, non politico né sociale. Tuttavia hanno cercato di mantenere sempre una certa obiettività nell’esporre perlopiù fatti e dati piuttosto che opinioni personali. Molto utile, per i lettori generici, anche la parte iniziale del testo, dove vengono analizzati i vari aspetti della formazione del profitto aziendale e ne vengono indicati anche i copiosi fraintendimenti di senso che si diffondono lungo tutti i canali della comunicazione e dell’informazione. 

Un libro la cui tesi si può anche tentare di confutare ma che rimane comunque molto interessante e veritiero. 


Il libro

Hermann Simon, Francesco Fiorese, Profitto. Come massimizzarlo per un’impresa e una società davvero sostenibili, Guerini Next, Milano, 2022.

Gli autori

Hermann Simon: fondatori e Honorary Chairman di Simon-Kucher&Partners. Tra i maggiori management thinkers contemporanei, ha insegnato come accademico al MIT, Insead, Harvard, Stanford e London Business School.

Francesco Fiorese: partner dell’ufficio di Milano della Simon-Kucher&Partners. Autore di numerosi articoli e studi dedicati alla strategia e al marketing. 


1Joris Luyendijk, Nuotare con gli squali. Il mio viaggio nel mondo dei banchieri, Einaudi, Torino, 2016

2New York University: http://pages.stern.nyu.edu/~adamodar/New_Home_Page/datafile/margin.html

3Jörg Renhardt, presidente del CdA di Novartis, Frankfuerten Allgemeine Zeitung, 17 ottobre 2018

4Rainer Zitelmann, The Rich in Public Opinion, Cato-Institute, Washington, 2020.



Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Guerini Next per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne l’immagine di copertina, credits www.pixabay.com


LEGGI ANCHE

“È solo denaro altrui”. L’incredibile viaggio nel mondo dei banchieri di Joris Luyendijk raccontato in “Nuotare con gli squali” (Einaudi, 2016)

“Obeya: conoscenza, innovazione, successo”

“Il capitalismo oggi e la sua incidenza su popoli ed economie”

Promuovere la crescita delle economie in via di sviluppo attraverso la conoscenza. L’analisi di Stiglitz e Greenwald in “Creare una società dell’apprendimento” (Einaudi, 2018)


© 2022, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Obeya: conoscenza, innovazione, successo”

10 giovedì Feb 2022

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Agile, DevOps, GuerinieAssociati, gueriniNext, GueriniScientifica, lean, Obeya, recensione, saggio, TimWiegel

Gli eventi traumatici degli ultimi mesi, unitamente ai cambiamenti radicali che questi hanno indotto nella vita delle imprese, nel lavoro delle persone, nel ruolo dei leader, evidenziano l’urgenza di individuare e adottare nuovi approcci per guidare un’azienda, sia essa pubblica o privata, verso obiettivi in costante evoluzione e sempre più sfidanti.

Nella prefazione all’edizione italiana del libro di Tim Wiegel, Mariacristina Galgano sottolinea come il testo offra uno strumento potente ai leader delle aziende italiane. Lo strumento si chiama Obeya, messo a punto dalla Toyota nello sviluppo di un progetto di grande complessità: il lancio della Prius, il primo modello ibrido nel mondo dell’automotive. 

Toyota riuscì a sviluppare questa nuova vettura rendendola disponibile sul mercato in metà del tempo solitamente considerato necessario nel settore automotive per il lancio di un nuovo modello. E ciò è stato possibile grazie a Obeya.

L’Obeya cambiò radicalmente il modo di approcciare un obiettivo sfidante, facendo leva su alcuni semplici principi di Visual Management, alcune pratiche virtuose per gestire le informazioni, condurre le riunioni, esercitare il ruolo di leader.

I principi ispiratori dell’Obeya, che derivano dalla filosofia Lean, si possono ritrovare in numerosi approcci oggi molto popolari, come l’Agile. 

Ma, ricorda Mariacristina Galgano, l’aspetto innovativo del libro consiste nel traslocare i potentissimi principi dell’Obeya a uno scopo più largo, rispetto alla loro applicazione originaria, facendoli diventare uno strumento per guidare le persone e per creare nuovi leader. 

Da metodo innovativo per la gestione di progetti complessi a metodo fondamentale per allineare l’azienda intera verso obiettivi sfidanti, per far crescere nuovi leader, generare miglioramento e apprendimento continuo nel processo stesso di realizzazione degli obiettivi. 

Uno strumento per «Servant Leader» che credono nel valore del rispetto per le persone e del lavoro in squadra, ma che hanno anche compreso quanto sia importante applicare con costanza e disciplina alcuni principi semplici, ma indispensabili. 

Tim Wiegel è convinto che si riuscirà a raggiungere gli obiettivi prefissati solo con una leadership coinvolta, coerente e strutturata che si impegni a far crescere i membri dei team e trasformare le persone in un esercito di Miglioramento Continuo. 

In giapponese letteralmente Obeya significa «grande stanza». Funge da punto di incontro in cui i leader e la squadra operativa interagiscono, in modo aperto visibile e rispettoso, cosicché la realizzazione della strategia organizzativa entri a far parte dell’attività quotidiana. Se utilizzata correttamente, aiuta a rimuovere gli ostacoli tipici di un approccio manageriale “tradizionale”, quali ad esempio politiche egocentriche, priorità non chiare, pratiche manageriali inadeguate, disallineamento, mancanza di direzione per squadre autonome. 

Toyota mise in pratica il concetto di Visual Management per il progetto Prius concentrandosi su come sfruttare il metodo migliore per sviluppare un prodotto. Lo strumento Obeya poi è diventato parte integrante del sistema Toyota per tutti i progetti di sviluppo di nuovi veicoli. 

Toyota ha avuto molto successo nel creare un modo sistematico di lavorare, coltivando la sua cultura del Miglioramento Continuo e incoraggiando il rispetto per le persone. Con una crescita lenta ma costante, sono riusciti a conquistare l’industria automobilistica dopo la Seconda guerra mondiale, superando importanti attori globali come General Motors e Volkswagen. 

Oggi il concetto di Obeya viene usato da organizzazioni in tutto il mondo, adottato nella sanità, nell’industria, nei servizi bancari e nei servizi pubblici. Un metodo utilizzato sia in grandi multinazionali che in start-up.

La chiave del successo di Obeya consiste in una rappresentazione visibile e tangibile del sistema di leadership, che risulterebbe altrimenti poco chiaro. L’unico modo per far funzionare tutto questo è assicurarsi che ogni aspetto del sistema dell’organizzazione sia rappresentato da persone disposte a osservare, imparare e agire insieme. Per l’autore, il vero valore di Obeya viene creato attraverso il comportamento e il processo decisionale utilizzato dal team.

La rappresentazione visiva di Obeya è semplicemente un supporto per le abilità cognitive. Quello che più conta è come si agisce sulla base di queste informazioni visive. 

Quello che c’è sulle pareti di una Obeya è il risultato di ciò che il team è disposto ed è in grado di mostrare riguardo al proprio lavoro, sia ai membri del team che al resto dell’organizzazione. 

Nell’Obeya, il sistema così com’è compreso dalla leadership è visivamente rappresentato da tutto ciò che è presente sulla parete. 

In un certo senso, le immagini sulla parete sono gli elementi del sistema che il team ha saputo «scoprire». 

Per Wiegel, per poter gestire il sistema della propria organizzazione ogni elemento dovrebbe essere rappresentato da una persona, la quale ricopre una specifica responsabilità. Quindi, allorquando si mettono insieme i pezzi del puzzle come un sistema, ognuno di questi pezzi deve essere rappresentato da una persona nella stanza. Si vede allora chiaramente come le responsabilità e le decisioni di una persona nella stanza influenzino le altre.

L’ambiguità sulla responsabilità delle performance nel sistema viene così cancellata identificando gli elementi del sistema e il leader rappresentativo e responsabile di ciascun elemento. 

I leader devono lavorare continuamente al proprio sviluppo, ma anche supportare e incoraggiare i membri dei loro team a fare lo stesso. 

Fujio Cho (presidente della Toyota) una volta disse: «Prima costruiamo persone, poi costruiamo automobili».

Una “costruzione” che deve essere continua e costante per essere davvero efficace. Collegando mentori e miglioratori a tutti i livelli dell’organizzazione, emerge una struttura coerente di apprendimento bottom-up e una governance strategica top-down, con un ciclo di feedback che non ha precedenti nei metodi tradizionali di management.

Ma imparare spesso non è parte di una cultura che è stata sviluppata e insegnata per raggiungere gli obiettivi. 

Il Management By Objectives (Mbo) suggerisce di raggiungere il target, ma in questo l’apprendimento tende a rallentare, perché l’atto di apprendere non è immediatamente legato a un obiettivo di risultato aziendale misurabile sul breve termine. 

Il Management Per Obiettivi è considerato la causa di molti persistenti problemi nel mondo di oggi. Problemi dovuti non solo all’inseguimento di obiettivi da parte delle persone, ma anche a come questi obiettivi vengono fissati e gestiti. 

L’apprendimento è al contrario il tema centrale dell’Obeya, il che significa che il Management Per Obiettivi viene sostituito da Miglioramento Continuo delle persone e dei processi. La gestione non dovrà più concentrarsi solo sul risultato ma, piuttosto, guardare al processo che crea il risultato.

Tra gli importanti studiosi del XX secolo che hanno influenzato la filosofia del management, Wiegel ricorda in particolare Peter Drucker e W. Edwards Deming.

Drucker introdusse l’Mbo nel mondo del management. Questo sistema è molto adottato ed è responsabile del modo in cui svolgiamo la contabilità e il reporting nelle attuali società «occidentalizzate». 

L’idea alla base dell’Mbo è che un manager venga valutato in base al risultato del suo lavoro, misurando il raggiungimento degli obiettivi che sono stati assegnati. 

Deming ha svolto un ruolo importante nella promozione del ciclo di Miglioramento Continuo nelle case automobilistiche giapponesi negli anni Cinquanta.

Secondo Deming, ci si dovrebbe concentrare sul processo che porta al raggiungimento degli obiettivi, e qualsiasi obiettivo dovrebbe essere sempre verificato rispetto al valore per i clienti e gli stakeholder.

Mentre il messaggio di Deming non sembrava avere un impatto significativo nelle pratiche di gestione occidentali, ha avuto grande successo in Giappone. 

Studiando il Toyota Production System – la base del Lean – si troveranno forti riferimenti e prove di applicazione pratica della visione di Deming del Miglioramento Continuo. 

Se, quindi, il management per obiettivi viene indicato come la causa di molti persistenti problemi del mondo di oggi si evince chiaramente la necessità, espressa più volte dall’autore, di guardare al lavoro Agile, Lean, DevOps e al metodo Obeya. 

Più volte Mariacristina Galgano insiste sulla necessità di apprendere le nozioni dell’Obeya e quanto il libro di Tim Wiegel sia utile a detto scopo. In effetti, dando anche solo uno sguardo sommario al panorama informativo divulgativo – presente in molte pubblicazioni e online nel web – si ha l’impressione ci sia un certo fraintendimento. Agile, per esempio, viene ricondotto alla forma del lavoro agile, inteso come modalità mista in presenza e da remoto oppure nelle forme precarie alternative (contratti a termine, temporanei, da esterni e via discorrendo). E Lean e Obeya spesso sono identificati come progetti di innovazione riconducibili all’impiego o all’incremento della digitalizzazione. Altre volte queste metodologie vengono indicate come strumenti utili per migliorare la soddisfazione del cliente. Il che, a ben pensarci, non è neanche del tutto errato ma sicuramente molto riduttivo e non concorde con il progetto di più ampio respiro creato da Takeshi Uchiyamada.

Si ritrova in questo tipo di approccio il problema evidenziato da Wiegel, ovvero la difficoltà di comprendere il sistema che è l’organizzazione aziendale o societaria. Ciò che Taleb ha definito «opacità causale»1

Egli spiega che non possiamo sapere esattamente come funzionino i sistemi complessi e come una cosa si mette in relazione con un’altra. Non possiamo prevedere esattamente cosa accadrà se influenziamo un aspetto specifico. A causa del pregiudizio verso la complessità, tendiamo a evitare di affrontarla direttamente. 

Ogni volta che c’è un problema – che per Taleb in realtà è un sintomo – si scatena una vera e propria caccia all’errore e si cerca di attenuarlo con una «pezza» piuttosto che una soluzione effettiva. 

Non vediamo e comprendiamo quello che realmente accade perché non riusciamo a vedere attraverso la complessità del sistema. 

Seguendo il modo di lavorare Lean, la ricerca della causa principale aiuta a mostrare più parti del sistema e a cercare di comprendere il motivo per cui il sistema produce problemi di qualità. Una vola rimossa questa causa alla radice, la qualità aumenta e si previene uno spreco di materiale (prodotti difettosi) e di tempo prezioso. 

L’obiettivo del Visual management è, essenzialmente, quello di soddisfare le nostre capacità visive e cognitive, aiutandoci a vedere l’intero sistema e come sta performando, cercando di evitare pregiudizi. 

Wiegel crede davvero che dirigere con Obeya massimizzi il potenziale umano al fine di aiutare le organizzazioni nel loro cammino, augurandosi che dette organizzazioni si pongano come scopo quello di rendere il mondo almeno in parte migliore. Un augurio che non si può non condividere appieno. 

Il libro

Tim Wiegel, Obeya. Un nuovo modello di leadership per guidare team e aziende verso il successo, Guerini Next, Milano, 2021.

Edizione italiana a cura di Mariacristina Galgano che ha curato anche la traduzione.

Titolo originale: Leading with Obeya.

L’autore

Tim Wiegel: coach specializzato nel metodo Obeya, si occupa di favorire cambiamenti organizzativi, lavorando sull’allineamento tra team e organizzazioni. 

La curatrice

Mariacristina Galgano: AD Gruppo Galgano, responsabile Area Risorse Umane e Galgano Formazione, direttore responsabile di Galgano Informazione.

1Nassim Nicholas Taleb, Antifragile. Prosperare nel disordine, Il Saggiatore, Milano, 2013.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di GueriniNext per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


LEGGI ANCHE

“Fabbrica Futuro” di Marco Bentivogli e Diodato Pirone (Egea-UniBocconi, 2019)

“La classe avversa” di Alberto Albertini (Hacca, 2020)


© 2022, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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