Le trasformazioni indotte nei paesi della semi-periferia dai paesi capitalisticamente avanzati, in associazione con le élite locali, hanno plasmato il mondo extraeuropeo nel corso del lungo diciannovesimo secolo e stanno, di fatto, trasformando il mondo europeo in questo nuovo secolo.
Tali riforme dimostrano che il processo di liberalizzazione economica non è frutto di una spontanea evoluzione del mercato, bensì è il risultato di un’azione diretta operata dagli attori economici che più ci guadagnano da tali grandi trasformazioni.
Il problema non è il liberal-capitalismo in sé, che indubbi meriti in termini di prosperità è riuscito a ottenere in molti paesi, ma il principio secondo cui la sua replica istituzionale possa avere lo stesso successo in termini di benessere materiale in paesi che non hanno il medesimo background sociale, culturale ed economico.
Eppure lo schema che si è presentato sembra essere sempre lo stesso, egregiamente analizzato da Giampaolo Conte nel libro: prima gli inglesi, poi gli americani e infine gli europei capitanati dalla Germania hanno esportato, o tentato di farlo, attraverso l’azione pacifica di una proposta riformista, un modello, un contratto sociale, spesso sotto la retorica della modernizzazione, funzionale alla riproduzione del proprio sistema economico di ispirazione liberal-capitalista.
Siffatte riforme, concentrate specialmente nel settore finanziario, rimescolano gli stessi equilibri sociali perfino all’interno dei paesi avanzati, che devono a loro volta subire i costi di esternalizzazione che in passato non hanno mancato di scaricare su paesi della semi-periferia. Non essendo funzionali al processo di accumulazione finanziaria, anche le società nei paesi avanzati diventano vittime della trasformazione del capitalismo sostenuta dall’ideologia neoliberista.
Molti libri sul capitalismo e sulla sua crisi si sono rivelate essere interessanti letture per comprendere un fenomeno la cui portata va intesa come epocale, laddove incide sulla vita e sull’esistenza di intere popolazioni. Ma Riformare i vinti di Giampaolo Conte è un libro che non ti aspetti, per la profondità dell’analisi e la metodica applicata. Dati alla mano, l’autore compie un’indagine sincronica e diacronica sul capitalismo e le sue riforme, sul liberalismo e sull’ideologia neoliberista che ha ispirato gran parte di dette riforme, definite eterne proprio perché applicate in stati, imperi o entità territoriali non inglesi, non statunitensi o quantomeno non appartenenti al club esclusivo delle grandi potenze capitaliste.
All’interrogativo sulla necessità di leggere un libro come quello di Conte si deve necessariamente rispondere che il punto di rottura di un sistema economico-finanziario, qual è stato ad esempio la crisi del 2007, non è l’inizio di un nuovo periodo bensì il punto di arrivo di tutto ciò che prima è stato. Per evitare l’insorgere di nuove gravi crisi è quello che bisogna indagare e comprendere, ed è esattamente ciò che l’autore ha fatto. Egregiamente.
Il libro
Giampaolo Conte, Riformare i vinti. Storia e critica delle riforma liberal-capitaliste, Guerini Scientifica, Edizione Angelo Guerini e Associati, Milano, 2022.
L’autore
Giampaolo Conte: docente di Storia economica e Storia del capitalismo presso l’Università Roma Tre. In precedenza ha insegnato il Olanda presso l’International Institute of Social Studies ISS. Inoltre, ha avuto incarichi di ricerca ed è stato fellow all’Università di Cambridge e alla London School of Economics LSE.
Gli eventi traumatici degli ultimi mesi, unitamente ai cambiamenti radicali che questi hanno indotto nella vita delle imprese, nel lavoro delle persone, nel ruolo dei leader, evidenziano l’urgenza di individuare e adottare nuovi approcci per guidare un’azienda, sia essa pubblica o privata, verso obiettivi in costante evoluzione e sempre più sfidanti.
Nella prefazione all’edizione italiana del libro di Tim Wiegel, Mariacristina Galgano sottolinea come il testo offra uno strumento potente ai leader delle aziende italiane. Lo strumento si chiama Obeya, messo a punto dalla Toyota nello sviluppo di un progetto di grande complessità: il lancio della Prius, il primo modello ibrido nel mondo dell’automotive.
Toyota riuscì a sviluppare questa nuova vettura rendendola disponibile sul mercato in metà del tempo solitamente considerato necessario nel settore automotive per il lancio di un nuovo modello. E ciò è stato possibile grazie a Obeya.
L’Obeya cambiò radicalmente il modo di approcciare un obiettivo sfidante, facendo leva su alcuni semplici principi di Visual Management, alcune pratiche virtuose per gestire le informazioni, condurre le riunioni, esercitare il ruolo di leader.
I principi ispiratori dell’Obeya, che derivano dalla filosofia Lean, si possono ritrovare in numerosi approcci oggi molto popolari, come l’Agile.
Ma, ricorda Mariacristina Galgano, l’aspetto innovativo del libro consiste nel traslocare i potentissimi principi dell’Obeya a uno scopo più largo, rispetto alla loro applicazione originaria, facendoli diventare uno strumento per guidare le persone e per creare nuovi leader.
Da metodo innovativo per la gestione di progetti complessi a metodo fondamentale per allineare l’azienda intera verso obiettivi sfidanti, per far crescere nuovi leader, generare miglioramento e apprendimento continuo nel processo stesso di realizzazione degli obiettivi.
Uno strumento per «Servant Leader» che credono nel valore del rispetto per le persone e del lavoro in squadra, ma che hanno anche compreso quanto sia importante applicare con costanza e disciplina alcuni principi semplici, ma indispensabili.
Tim Wiegel è convinto che si riuscirà a raggiungere gli obiettivi prefissati solo con una leadership coinvolta, coerente e strutturata che si impegni a far crescere i membri dei team e trasformare le persone in un esercito di Miglioramento Continuo.
In giapponese letteralmente Obeya significa «grande stanza». Funge da punto di incontro in cui i leader e la squadra operativa interagiscono, in modo aperto visibile e rispettoso, cosicché la realizzazione della strategia organizzativa entri a far parte dell’attività quotidiana. Se utilizzata correttamente, aiuta a rimuovere gli ostacoli tipici di un approccio manageriale “tradizionale”, quali ad esempio politiche egocentriche, priorità non chiare, pratiche manageriali inadeguate, disallineamento, mancanza di direzione per squadre autonome.
Toyota mise in pratica il concetto di Visual Management per il progetto Prius concentrandosi su come sfruttare il metodo migliore per sviluppare un prodotto. Lo strumento Obeya poi è diventato parte integrante del sistema Toyota per tutti i progetti di sviluppo di nuovi veicoli.
Toyota ha avuto molto successo nel creare un modo sistematico di lavorare, coltivando la sua cultura del Miglioramento Continuo e incoraggiando il rispetto per le persone. Con una crescita lenta ma costante, sono riusciti a conquistare l’industria automobilistica dopo la Seconda guerra mondiale, superando importanti attori globali come General Motors e Volkswagen.
Oggi il concetto di Obeya viene usato da organizzazioni in tutto il mondo, adottato nella sanità, nell’industria, nei servizi bancari e nei servizi pubblici. Un metodo utilizzato sia in grandi multinazionali che in start-up.
La chiave del successo di Obeya consiste in una rappresentazione visibile e tangibile del sistema di leadership, che risulterebbe altrimenti poco chiaro. L’unico modo per far funzionare tutto questo è assicurarsi che ogni aspetto del sistema dell’organizzazione sia rappresentato da persone disposte a osservare, imparare e agire insieme. Per l’autore, il vero valore di Obeya viene creato attraverso il comportamento e il processo decisionale utilizzato dal team.
La rappresentazione visiva di Obeya è semplicemente un supporto per le abilità cognitive. Quello che più conta è come si agisce sulla base di queste informazioni visive.
Quello che c’è sulle pareti di una Obeya è il risultato di ciò che il team è disposto ed è in grado di mostrare riguardo al proprio lavoro, sia ai membri del team che al resto dell’organizzazione.
Nell’Obeya, il sistema così com’è compreso dalla leadership è visivamente rappresentato da tutto ciò che è presente sulla parete.
In un certo senso, le immagini sulla parete sono gli elementi del sistema che il team ha saputo «scoprire».
Per Wiegel, per poter gestire il sistema della propria organizzazione ogni elemento dovrebbe essere rappresentato da una persona, la quale ricopre una specifica responsabilità. Quindi, allorquando si mettono insieme i pezzi del puzzle come un sistema, ognuno di questi pezzi deve essere rappresentato da una persona nella stanza. Si vede allora chiaramente come le responsabilità e le decisioni di una persona nella stanza influenzino le altre.
L’ambiguità sulla responsabilità delle performance nel sistema viene così cancellata identificando gli elementi del sistema e il leader rappresentativo e responsabile di ciascun elemento.
I leader devono lavorare continuamente al proprio sviluppo, ma anche supportare e incoraggiare i membri dei loro team a fare lo stesso.
Fujio Cho (presidente della Toyota) una volta disse: «Prima costruiamo persone, poi costruiamo automobili».
Una “costruzione” che deve essere continua e costante per essere davvero efficace. Collegando mentori e miglioratori a tutti i livelli dell’organizzazione, emerge una struttura coerente di apprendimento bottom-up e una governance strategica top-down, con un ciclo di feedback che non ha precedenti nei metodi tradizionali di management.
Ma imparare spesso non è parte di una cultura che è stata sviluppata e insegnata per raggiungere gli obiettivi.
Il Management By Objectives (Mbo) suggerisce di raggiungere il target, ma in questo l’apprendimento tende a rallentare, perché l’atto di apprendere non è immediatamente legato a un obiettivo di risultato aziendale misurabile sul breve termine.
Il Management Per Obiettivi è considerato la causa di molti persistenti problemi nel mondo di oggi. Problemi dovuti non solo all’inseguimento di obiettivi da parte delle persone, ma anche a come questi obiettivi vengono fissati e gestiti.
L’apprendimento è al contrario il tema centrale dell’Obeya, il che significa che il Management Per Obiettivi viene sostituito da Miglioramento Continuo delle persone e dei processi. La gestione non dovrà più concentrarsi solo sul risultato ma, piuttosto, guardare al processo che crea il risultato.
Tra gli importanti studiosi del XX secolo che hanno influenzato la filosofia del management, Wiegel ricorda in particolare Peter Drucker e W. Edwards Deming.
Drucker introdusse l’Mbo nel mondo del management. Questo sistema è molto adottato ed è responsabile del modo in cui svolgiamo la contabilità e il reporting nelle attuali società «occidentalizzate».
L’idea alla base dell’Mbo è che un manager venga valutato in base al risultato del suo lavoro, misurando il raggiungimento degli obiettivi che sono stati assegnati.
Deming ha svolto un ruolo importante nella promozione del ciclo di Miglioramento Continuo nelle case automobilistiche giapponesi negli anni Cinquanta.
Secondo Deming, ci si dovrebbe concentrare sul processo che porta al raggiungimento degli obiettivi, e qualsiasi obiettivo dovrebbe essere sempre verificato rispetto al valore per i clienti e gli stakeholder.
Mentre il messaggio di Deming non sembrava avere un impatto significativo nelle pratiche di gestione occidentali, ha avuto grande successo in Giappone.
Studiando il Toyota Production System – la base del Lean – si troveranno forti riferimenti e prove di applicazione pratica della visione di Deming del Miglioramento Continuo.
Se, quindi, il management per obiettivi viene indicato come la causa di molti persistenti problemi del mondo di oggi si evince chiaramente la necessità, espressa più volte dall’autore, di guardare al lavoro Agile, Lean, DevOps e al metodo Obeya.
Più volte Mariacristina Galgano insiste sulla necessità di apprendere le nozioni dell’Obeya e quanto il libro di Tim Wiegel sia utile a detto scopo. In effetti, dando anche solo uno sguardo sommario al panorama informativo divulgativo – presente in molte pubblicazioni e online nel web – si ha l’impressione ci sia un certo fraintendimento. Agile, per esempio, viene ricondotto alla forma del lavoro agile, inteso come modalità mista in presenza e da remoto oppure nelle forme precarie alternative (contratti a termine, temporanei, da esterni e via discorrendo). E Lean e Obeya spesso sono identificati come progetti di innovazione riconducibili all’impiego o all’incremento della digitalizzazione. Altre volte queste metodologie vengono indicate come strumenti utili per migliorare la soddisfazione del cliente. Il che, a ben pensarci, non è neanche del tutto errato ma sicuramente molto riduttivo e non concorde con il progetto di più ampio respiro creato da Takeshi Uchiyamada.
Si ritrova in questo tipo di approccio il problema evidenziato da Wiegel, ovvero la difficoltà di comprendere il sistema che è l’organizzazione aziendale o societaria. Ciò che Taleb ha definito «opacità causale»1
Egli spiega che non possiamo sapere esattamente come funzionino i sistemi complessi e come una cosa si mette in relazione con un’altra. Non possiamo prevedere esattamente cosa accadrà se influenziamo un aspetto specifico. A causa del pregiudizio verso la complessità, tendiamo a evitare di affrontarla direttamente.
Ogni volta che c’è un problema – che per Taleb in realtà è un sintomo – si scatena una vera e propria caccia all’errore e si cerca di attenuarlo con una «pezza» piuttosto che una soluzione effettiva.
Non vediamo e comprendiamo quello che realmente accade perché non riusciamo a vedere attraverso la complessità del sistema.
Seguendo il modo di lavorare Lean, la ricerca della causa principale aiuta a mostrare più parti del sistema e a cercare di comprendere il motivo per cui il sistema produce problemi di qualità. Una vola rimossa questa causa alla radice, la qualità aumenta e si previene uno spreco di materiale (prodotti difettosi) e di tempo prezioso.
L’obiettivo del Visual management è, essenzialmente, quello di soddisfare le nostre capacità visive e cognitive, aiutandoci a vedere l’intero sistema e come sta performando, cercando di evitare pregiudizi.
Wiegel crede davvero che dirigere con Obeya massimizzi il potenziale umano al fine di aiutare le organizzazioni nel loro cammino, augurandosi che dette organizzazioni si pongano come scopo quello di rendere il mondo almeno in parte migliore. Un augurio che non si può non condividere appieno.
Il libro
Tim Wiegel, Obeya. Un nuovo modello di leadership per guidare team e aziende verso il successo, Guerini Next, Milano, 2021.
Edizione italiana a cura di Mariacristina Galgano che ha curato anche la traduzione.
Titolo originale: Leading with Obeya.
L’autore
Tim Wiegel: coach specializzato nel metodo Obeya, si occupa di favorire cambiamenti organizzativi, lavorando sull’allineamento tra team e organizzazioni.
La curatrice
Mariacristina Galgano: AD Gruppo Galgano, responsabile Area Risorse Umane e Galgano Formazione, direttore responsabile di Galgano Informazione.
1Nassim Nicholas Taleb, Antifragile. Prosperare nel disordine, Il Saggiatore, Milano, 2013.
La ricerca negli ultimi anni ha guardato a quanto accade quando i conflitti vanno online, ma non sempre si è stati accorti nel valutare le conseguenze della popolarizzazione dei temi e delle forme degli stessi.
Le piattaforme online sono solo un altro spazio da colonizzare nella lotta per la definizione degli immaginari bellici, o sono un nuovo spazio nel quale gli ecosistemi di mediazione influenzano i conflitti stessi?
È a partire da quesiti come questo che gli autori, Giuseppe Anzera e Alessandra Massa, hanno condotto la loro ricerca sui media digitali e il loro rapporto o ingerenza nelle relazioni internazionali. Il cambiamento in atto è sotto gli occhi di tutti. Gli Stati, in breve tempo, sono passati dall’essere soggetti centrali e determinanti nelle questioni belliche e di politica internazionale a poli sparuti in un affollato sistema multicentrico, nel quale convivono e operano vari attori, liberi di operare rispetto alla sovranità nazionale (imprese multinazionali, minoranze etniche, partiti politici transnazionali, organizzazioni non governative internazionali, gruppi terroristici e via discorrendo). E anche laddove gli Stati cercano di intervenire direttamente e ufficialmente, con account e portali istituzionali, in realtà il loro ruolo è sempre mediato dalle regole predefinite e apparentemente universali dei grandi gestori le piattaforme online.
Queste piattaforme, lontano dall’essere super partes, in realtà esportano modelli economici e politici. Esse non nascono nell’astratto regno di internet, ma risentono del complesso legame con il territorio in cui insistono, «dal quale mutuano non solo l’organizzazione economica, ma anche peculiari valori, come la libertà di espressione, la censura, il peso del potenziale di emancipazione e di autoespressione consentiti ai singoli utenti» (cit. dalla Introduzione al libro).
Per citare solo uno dei numerosi e interessanti esempi del potere potenziale e reale delle piattaforme online, nel testo si analizza la rappresentazione cartografica del confine tra Russia e Crimea operata dai maggiori gestori di mappe, comeGoogle e Apple. «Questi grandi distributori di servizi online hanno accolto le richieste della Russia in merito all’attribuzione della penisola della Crimea. Così, mentre il mondo politico ancora discute sulla territorialità della Crimea, le piattaforme ragionano con la velocità degli affari, imponendo le loro soluzioni tecnologiche alle diatribe fisiche» (p. 74). Apple Maps mostra le località della Crimea come afferenti la Russia quando si consulta la mappa dal territorio russo mentre se si accede all’applicazione dagli Stati Uniti, gli stessi territori non sono attribuiti ad alcun paese.
Un problema, quello dei limiti e dei reali confini geopolitici, avanzato e trattato anche da Alfonso Giordano, il quale ha sottolineato come Google alla fine da deciso di mostrare “semplicemente” a ogni Paese l’idea del mondo che esso vuole. Una carta geografica non è una raffigurazione imparziale e scientificamente attendibile di un territorio, piuttosto la rappresentazione di un punto di vista. Per la gran parte è sempre stato così. Oggi, però, con il livello tecnologico raggiunto ci si aspetta una rappresentazione del globo terrestre differente rispetto al passato, allorquando si doveva sottostare all’opinione del cartografo o del suo committente.1
Se la politica internazionale, oggi, si attua anche tramite le piattaforme online, allora queste assumono, in maniera intrinseca, un ruolo politico, poiché è compito loro veicolare e diffondere le informazioni, relative anche a politica internazionale e conflitti. Innegabile che il fine ultimo di queste piattaforme sia il profitto. Ragionevole quindi pensare che la loro gestione non possa corrispondere pedissequamente alla presentabilità pubblica. Ed è in quest’ottica che l’attività di moderazione, operata dalle piattaforme, le individua come strumenti, istituzioni e fenomeni culturali. Il cui potere di influenza si palesa ancor più in caso di malfunzionamento del sistema o diffusione di notizie false, ovvero fake news.
Gli autori descrivono tutti i potenziali e reali problemi di questo sistema di diffusione delle informazioni, che in parte si affianca mentre in parte va a sostituire il tradizionale metodo di informazione broadcast, ovvero le trasmissioni unidirezionali, senza possibilità di interazione, e lo fanno in maniera molto strutturata, in modo da rimandare al lettore una visione ben ordinata dei vari strati di interesse e azione che vanno a comporre lo scenario entro cui si muove non solo la narrazione comune, ma anche quella politica, internazionale e militare.
In particolare, la “militarizzazione” degli spazi digitali è per certo un’occasione attraverso la quale eserciti e forze militari possono divulgare le loro narrazioni, coinvolgendo l’opinione pubblica nei racconti sui confronti internazionali, ma gli autori avvertono della necessità di non sottovalutare il potenziale di popolarizzazione e di normalizzazione che potrebbe scaturire dallo stabilire una presenza in spazi di divulgazione e di disintermediazione. Inserire le routine comunicative delle forze armate in contesti diversi potrebbe, infatti, ibridare la loro presenza e sganciarla dagli esclusivi contesti bellici. Le conseguenze di ciò non si conoscono e andrebbero quantomeno monitorate.
Ecco allora che si presenta uno degli aspetti più cocenti tra quelli trattati nel testo: la responsabilità. A chi spetta la responsabilità di quanto sta accadendo? Alle piattaforme? Agli Stati? Alle reti strutturate di cittadini? Nell’attuale panorama non è ancora ben chiaro anche se è evidente si tratta di una condizione non procrastinabile a lungo.
Giuseppe Anzera, Alessandra Massa, Media digitali e Relazioni internazionali. Tecnologie, potere e conflitti nell’era delle piattaforme online, Guerini Scientifica, Milano, 2021. In commercio dal 4 maggio 2021. Libro universitario. Brossura, 172 p., 18,00€.
Gli Autori
Giuseppe Anzera: professore associato di Sociologia dei Fenomeni Politici presso Sapienza Università di Roma, dove insegna Sociologia delle Relazioni Internazionali.
Alessandra Massa: dottore di ricerca in Comunicazione, Ricerca, Innovazione presso Sapienza Università di Roma.